La dignit umana nel Grundgesetz e nella Costituzione italiana

Paolo Becchi
Università di Genova e di Luzern
LA DIGNITÀ UMANA NEL GRUNDGESETZ E NELLA COSTITUZIONE
ITALIANA * .
1. Premessa.
Anche se le sue radici filosofiche sono molto risalenti nel tempo, il principio della dignità
umana ha trovato soltanto nel secondo dopoguerra la sua piena legittimità giuridica.
Di fronte al flagello della guerra, lo Statuto (o Carta) delle Nazioni Unite, entrato in vigore il
24 ottobre 1945, riaffermava la “fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel
valore della persona umana, nella eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle
nazioni grandi e piccole”. E qualche anno dopo la Dichiarazione Universale dei Diritti
dell’Uomo proclamata il 10 dicembre 1948, si apriva con “il riconoscimento della dignità
inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali e inalienabili”. Il
nuovo ordine internazionale sorto dalle macerie del totalitarismo trovava così nel
riconoscimento della dignità umana il suo punto di partenza. È in questo contesto che si
situano tanto la Legge Fondamentale (il Grundgesetz) della Repubblica Federale Tedesca
(entrata in vigore il 24 maggio 1949) quanto la di poco precedente Costituzione italiana
(entrata in vigore il 1 gennaio 1948). E tuttavia proprio in questi due documenti emergono
due diversi usi della nozione di dignità umana. Evidenziarli sarà il compito di questo mio
intervento. Prenderò le mosse dalla Legge Fondamentale di Bonn, per poi passare alla
Costituzione italiana. Concluderò sottolineando le profonde differenze che sussistono tra le
due Carte Costituzionali.
2. La dignità umana nella Legge Fondamentale di Bonn.
Non è certo un caso che proprio la Legge Fondamentale di Bonn sia uno dei primi documenti
in cui il riferimento alla dignità umana acquista un ruolo di assoluta preminenza. Essere
trattati come persone e riconoscere a ciascun essere umano – indipendentemente dal sesso,
dalla razza, dalla lingua, dalla religione o dalle opinioni politiche, dalle condizioni
esistenziali, economiche e sociali – il diritto ad avere diritti significava recuperare quel
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Giornata di studio “La dignità dell’uomo: testo e contesto”, Dipartimento di Scienze Giuridiche, Università
degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Modena, 14 ottobre 2010.
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concetto di humanitas esplicitamente combattuto dall’ideologia del nazionalsocialismo con
l’introduzione della categoria di Untermensch (sub-umano) e con la mitologia della razza
ariana. In un Paese in cui la sistematica umiliazione e persecuzione degli uomini a causa del
loro credo religioso, delle opinioni politiche, dell’appartenenza etnica o semplicemente perché
affetti da inguaribili malattie mentali, era diventata legge dello Stato, il richiamo forte ad un
principio intangibile come la dignità umana rappresentava una rottura con il passato ed al
contempo un monito per il futuro.
Il riconoscimento della dignità umana diventa così una sorta di Grundnorm di kelseniana
memoria, posta al vertice dell’intero ordinamento giuridico dello Stato: una norma giuridica
oggettiva, non essa stessa un diritto soggettivo fondamentale, e proprio per questo non
sottoponibile – a differenza dei diritti fondamentali – a ponderazioni e limitazioni (ex art. 19
c. 1). Il comma 1 dell’art. 1 recita, infatti: “La dignità umana è intangibile. Rispettarla e
proteggerla è obbligo di tutto il potere statale”. Si osservi anzitutto: un nuovo aggettivo viene
introdotto per qualificare la dignità umana. Rispetto ai diritti fondamentali che sono
“inviolabili” (unverletzlich) e “inalienabili” (unveräußerlich) la dignità umana è intangibile
(unantastbar).
È importante sottolineare come non ci sia limitati a proclamare l’intangibilità del principio
normativo, ma altresì si sia subito richiamata l’attenzione sul fatto che il suo rispetto sia
vincolante per ogni azione statale. È lo Stato che deve agire nel rispetto della dignità umana e
che è chiamato a tutelarla dalle possibili aggressioni.
Il comma 2 aggiunge: “Il popolo tedesco professa quindi i diritti umani inviolabili e
inalienabili come fondamento di ogni comunità umana, della pace e della giustizia nel
mondo”. Dai due commi citati risulta evidente il rapporto di derivazione dei diritti
fondamentali dalla dignità umana. Fu questo il risultato a cui approdò il dibattito costituente,
che era partito in realtà dall’idea opposta – e cioè che la dignità si fondasse sui diritti umani –
e solo nel corso della discussione si giunse a poco a poco fra il settembre del 1948 e il
febbraio 1949 a rovesciare il rapporto tra i due concetti, sino alla redazione finale secondo la
quale il riconoscimento dei diritti umani è una conseguenza dell’intangibilità della dignità
umana. In questo rovesciamento sta la novità dell’art. 1 del Grundgesetz rispetto agli altri
citati documenti internazionali coevi.
Sia nello Statuto dell’Organizzazione delle Nazioni Unite – in cui la dignità compare come un
elemento insieme agli altri – sia nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, dove è
più chiaro lo stretto legame della dignità con i diritti fondamentali (“Tutti gli esseri umani
nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”), la dignità non aveva ancora un ruolo autonomo e
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fondante, come accade invece nell’art. 1 del Grundgesetz. Nel secondo comma, laddove
afferma che i diritti umani sono il “fondamento di ogni comunità umana, della pace della
giustizia nel mondo” riecheggia la formulazione contenuta nel Preambolo della Dichiarazione
Universale, ma è il comma 1 a costituire una novità rilevante per aver posto a fondamento dei
diritti il presupposto della dignità.
Proprio dal momento che l’essere umano possiede una dignità, che lo contraddistingue
rispetto a qualsiasi altro essere vivente, egli è titolare di diritti fondamentali. Intendendo
fissare nel tempo il riferimento alla dignità, la Legge Fondamentale prevede altresì, al comma
3 dell’art. 79, la sua immodificabilità, confermando in tal modo il carattere “pre-positivo” di
un principio che a differenza del diritto positivo è immodificabile. L’art. 1 diventa così un
limite alla revisione costituzionale.
Non deve sorprendere se il tema della dignità umana nella Germania dell’immediato secondo
dopoguerra sia connesso alla rinascita del diritto naturale e alla critica del giuspositivismo. Se
per Kelsen “il diritto può avere qualsiasi contenuto”, ora è la critica di Radbruch a quel tipo di
positivismo, per così dire, a dettare legge. Il diritto non può fare a meno di accettare, di
“giuridificare”, quei principi, etici, pre-positivi, che erano ben presenti nella tradizione
giusnaturalistica tedesca da Pufendorf a Kant, primo tra tutti il principio della dignità umana.
Beninteso, questa rinascita aveva anche a che fare con il giusnaturalismo di ispirazione
cristiana, ma proprio in difesa di una visione laica della politica fu contrastato il tentativo di
invocare Dio per conferire un maggior peso alla tutela dei diritti fondamentali (il rinvio a Dio
compare, ma solo nel Preambolo, laddove si afferma il compito enorme che incombe sul
popolo tedesco di riscattare “davanti a Dio e agli uomini” gli anni della dittatura
nazionalsocialista). A ben vedere quel ruolo del richiamo a qualcosa di assoluto viene assunto
proprio dal concetto di dignità umana, con quello status del tutto peculiare di norma
presupposta dall’ordinamento e posta a suo fondamento. Il consiglio dato da Theodor Heuss
all’interno del dibattito costituzionale di non definire la dignità –
la così detta nicht
interpretierte These (“tesi non interpretata”) – nasceva, come di recente ha bene evidenziato
Böckenforde, dalla volontà di trovare un punto d’accordo senza cadere in visioni
integralistiche, ma prendendo altresì le distanze dal giuspositivismo. Nonostante la pluralità
delle diverse posizioni presenti, proprio nel concetto di dignità umana poteva essere trovato (e
venne trovato) un punto di generale consenso, e quel punto aveva – per i padri fondatori – un
contenuto determinato, in cui risiedeva la sua essenza normativa: il divieto di
strumentalizzazione dell’uomo.
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In ambito costituzionalistico fu in particolare Günter Dürig a formulare questo indirizzo
interpretativo in suo celebre commento. Il ricorso da parte del Costituente alla dignità
significava per lui l’assunzione all’interno del diritto positivo di una valore etico
“prepositivo”, che precede qualsiasi diritto e che ora viene posto al vertice dell’intero
ordinamento. Con la conseguenza di diventare esso stesso un precetto giuridico positivo. E in
che cosa si sostanzia questo valore? Essenzialmente nel riconoscimento della specificità
dell’umano: quello di essere “fine in sé”. La cosiddetta “Objektformel” (“formula
dell’oggetto”) che già si ritrovava incidentalmente espressa da Joseph Wintrich, non poteva
non rinviare direttamente al
concetto kantiano di dignità umana come divieto di
strumentalizzazione: “La dignità umana in quanto tale è colpita quando l’uomo concreto viene
degradato a oggetto, a mero mezzo, a grandezza sostituibile”. La perversione
dell’ordinamento giuridico avviene laddove l’uomo da soggetto giuridico quale è viene
ridotto a oggetto, a cosa: “Ogni uomo è uomo in forza del suo spirito, che lo stacca dalla
natura impersonale e a partire dalla propria decisione lo rende capace di diventare cosciente di
sé, di autodeterminarsi e di plasmare se stesso e l’ambiente”. L’uomo è dunque libero e
poiché ogni uomo è dotato di questa libertà, è uguale all’altro. È evidente che in questo senso
tutela della dignità umana significhi proteggere l’uomo dalle strumentalizzazioni, dalle
infamie, dalle persecuzioni, dalle punizioni degradanti, dalle umiliazioni etc., ed in questa
linea interpretativa si mosse la giurisprudenza tedesca dell’immediato secondo dopoguerra.
Di conseguenza il concetto di dignità acquista un significato prevalentemente “negativo”,
come difesa da azioni che mirano a disconoscere l’essere persona di ciascun uomo. È,
insomma, l’individuo singolo a dover essere tutelato dalle azioni di altri individui che possono
lederlo nella sua dignità o dalle azioni degli organi dello Stato. La Legge Fondamentale
rinuncia ad indicare un catalogo di diritti sociali, come invece era avvenuto nel modello di
Weimar, e questo spiega anche l’interpretazione costituzionalistica in senso liberale della
dignità umana come “difesa da attacchi” che trova in Dürig la sua più classica espressione. Il
fatto che l’ autore parli di dignità con riferimento al singolo individuo che in virtù delle sue
reali capacità è titolare di dignità, non significa affatto che per lui essa dipenda
esclusivamente dalla concreta esistenza di ogni singolo uomo. La dignità va riconosciuta tanto
al singolo individuo quanto all’ uomo per la sua appartenenza alla specie umana. Sotto questo
profilo essa è indipendente dalla sua realizzazione nell’ uomo concretamente esistente:
sussiste già nell’ astratta possibilità, nella capacità potenziale della sua realizzazione. Per
questo essa può essere violata anche se quell’uomo concretamente non è ancora nato o è già
morto. La dignità è, dunque, una dote che spetta all’uomo per la sua mera appartenenza alla
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specie umana: Wer von Menschen gezeugt wurde und wer Mensch war, nimmt an der Würde
“des Menschen” teil (Chi è stato procreato e chi è stato un uomo partecipa alla dignità “dell’
uomo”).
Quanto abbia influenzato questo orientamento interpretativo la dottrina e la giurisprudenza
tedesca può essere confermato dal dato di fatto che quella voce nel Commentario in cui
apparve nel 1958 restò immutata sino a quando, nel 2003, Matthias Herdegen la sostituì con
un’altra, dal tenore completamente differente. Il che ovviamente non significa che già in
precedenza non fossero emersi orientamenti diversi. Già nel corso degli anni Sessanta si
occupano a fondo del tema un filosofo dell’importanza di Ernst Bloch, un filosofo del diritto
della levatura di Werner Maihofer (recentemente scomparso) e uno dei più importanti
sociologi del secolo scorso: Niklas Luhmann. Se nei primi due l’idea di dignità resta ancora
connessa al messaggio proveniente dalla tradizione giusnaturalistica, è con Luhmann che
compare invece la prima critica radicale di quel modello interpretativo.
Per Bloch e Maihofer la tutela della dignità umana non può prescindere dal soddisfacimento
di concreti bisogni umani, di cui lo Stato sociale di diritto è chiamato a farsi carico. L’ottica
negativa e difensiva, che aveva caratterizzato l’interpretazione dell’immediato dopoguerra
veniva così messa in discussione. Ma in fondo questa critica non rivoluzionava l’impianto
argomentativo precedente, ne estendeva semmai la portata, sottolineando, in un’ottica positiva
e propositiva, come la realizzazione della dignità umana implicasse la fine di rapporti sociali
basati sullo sfruttamento (Bloch) ed il recupero dell’idea di una “solidarietà” tra gli uomini
(Maihofer). È Luhmann, invece, a sottoporre ad una prima disamina l’orientamento che con
Dürig aveva fatto scuola. Contro questa concezione, definita “statica”, egli oppone una
concezione dinamica della dignità, che è il risultato di “prestazioni” (per la precisione:
“prestazioni di rappresentazioni”) con le quali l’uomo si guadagna nella società la propria
dignità. Si potrebbero citare altri esempi – di notevole rilievo quello di Hasso Hoffman – che
soprattutto a partire dagli anni Novanta erodono dalle fondamenta quella nozione di dignità
che larga fortuna aveva incontrato negli anni Cinquanta. E il punto d’approdo sarà proprio il
nuovo Commento di Matthias Herdegen il quale, come è stato messo bene in evidenza da
Ernst-Wolfgang Böckenförde, rappresenta un vero e proprio “congedo dai padri costituenti”.
Se fosse veramente opportuno congedarsi - ed in quel modo così netto (sostituendo una
classica voce dottrinale con una esattamente contraria proprio nello stesso manuale) - dal
vecchio modello interpretativo è un punto che qui non intendo affrontare. Certo, nuovi
problemi esigono soluzioni nuove, ma siamo proprio certi che quell’immagine della dignità
sia qualcosa da buttare nel ripostiglio di casa? O, invece, non è proprio ancorandosi ad essa
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che, ad esempio, oggi è possibile contrastare quella deriva in senso eugenetico, conseguenza
di alcune pratiche di fecondazione assistita? Sia come sia, è interessante un confronto con la
Costituzione italiana, perché in essa compare un uso della dignità umana molto diverso da
quello fatto nella Legge Fondamentale.
3. La dignità umana nella Costituzione italiana.
La dignità, anzitutto, non ricopre nella Costituzione italiana quel ruolo fondante che ha nella
Legge Fondamentale di Bonn. Se la Costituzione tedesca è ancorata ad un principio supremo
come è la dignità, quella italiana è “fondata sul lavoro” (art. 1) e, conseguentemente, centrale,
come vedremo, non è tanto la dignità umana quanto la dignità del lavoratore.
La Costituzione repubblicana del 1948 contiene tre riferimenti espliciti alla dignità ed uno,
per la verità piuttosto sorprendente (e nella letteratura ben poco trattato), al concetto di
indegnità. Cominciamo dai tre riferimenti sopra richiamati. Il comma 1 dell’art. 3 riconosce la
“pari dignità sociale” di tutti i “cittadini”; il comma 1 dell’art. 36 sostiene che il lavoratore ha
diritto ad una retribuzione tale da “assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e
dignitosa”; il comma 2 dell’art. 41 afferma che l’attività economica privata non può svolgersi
“in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.
Quantunque i soggetti cui si rivolgono le tre disposizioni siano diversi (i cittadini, i lavoratori,
gli imprenditori), l’accento batte sempre in realtà sulla dimensione sociale della dignità. Nel
primo caso ciò comporta che il principio della parità formale dei cittadini di fronte alla legge
vada anche inteso – in conformità alla XIV disposizione transitoria finale che al comma 1 non
riconosce i titoli nobiliari – come superamento di qualsiasi privilegio legato al possesso di un
titolo nobiliare o all’appartenenza di un determinato ceto sociale. “Pari dignità” significa,
dunque, che non sono riconosciuti all’interno della società privilegi, dispense, immunità,
prerogative, che garantiscano l’esenzione di singoli o gruppi dalle regole del diritto valide per
la generalità dei soggetti. Inoltre, come sottolinea il comma seguente, “pari dignità” significa
che a tutti i cittadini, indipendentemente dalla posizione che essi occupano nella società,
dovrebbe essere assicurato “il pieno sviluppo” della loro personalità. All’eguaglianza formale
“davanti alla legge” prevista dal comma 1, si aggiunge nel secondo l’eguaglianza sostanziale:
la pari dignità sociale non è solo qualcosa di dato, ma un obiettivo da raggiungere, un
“compito” della Repubblica. La Costituzione italiana, dunque, sottolinea le difficoltà materiali
che si oppongono alla realizzazione della parti dignità sociale ed impone alle istituzioni di
rimuoverle. La dignità viene riconosciuta ai cittadini in forza della loro appartenenza ad una
comunità politica.
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Negli altri due casi il riferimento alla dignità comporta che al lavoratore ed alla sua famiglia
dovrebbe essere garantito almeno un minimo materiale di sussistenza (art. 36) e che l’attività
dell’imprenditore, pur essendo libera, non sia in contrasto con il rispetto della dignità umana
dovuta al lavoratore (art. 41). Anche qualora non si voglia intendere il riferimento al lavoro in
senso stretto come lavoro subordinato o dipendente, ma estendendo l’uso del vocabolo a
qualsiasi attività personale autonoma, pur non imprenditoriale, è evidente che qui ad essere
tutelata è la dignità del lavoratore. Anche ammesso inoltre che sia possibile estendere
ulteriormente, sulla base dell’art. 2 che riconosce “i diritti inviolabili dell’uomo”, il principio
della pari dignità sociale a tutti gli uomini, resta il dato di fatto che nella Costituzione italiana
il soggetto con cui la dignità viene posta esplicitamente in relazione non è mai l’uomo in
quanto tale, astrattamente considerato, bensì il cittadino, il lavoratore, l’imprenditore. Nei
primi due casi per affermare un diritto – il riconoscimento della pari dignità sociale che spetta
a ciascun cittadino indipendentemente dallo status sociale di appartenenza e che, in concreto,
per il lavoratore comporta il diritto di poter condurre grazie alla sua prestazione d’opera
un’esistenza dignitosa –, nell’ultimo per sottolineare un dovere, quello a cui è soggetto
l’imprenditore, di assicurare condizioni lavorative dignitose. Persino in quest’ultimo caso,
quando, cioè, nel comma 2 dell’art. 41 viene menzionata esplicitamente la “dignità umana” –
è questo l’unico punto in cui compare esplicitamente la locuzione – questo uso di “dignità”
non è comparabile con quello che abbiamo visto emergere dai documenti normativi citati
all’inizio. Essa viene qui infatti intesa come limite allo svolgimento dell’attività
imprenditoriale privata. La dignità, quindi, tutela non l’uomo in quanto tale, ma il lavoratore
da mansioni che possono rivelarsi degradanti o umilianti per coloro che sono chiamati ad
eseguirle.
C’è uno stretto collegamento fra i tre articoli della Costituzione sui quali ci siamo soffermati.
Tutti e tre, a ben vedere, hanno a che fare con la nozione di lavoro, a cui si riferiscono non
solo (esplicitamente) gli artt. 36 c. 1 e 41 c. 2, ma anche (implicitamente) l’art. 3 c. 1. I primi
due articoli vanno letti in relazione rispettivamente agli artt. 2099 e ss. c.c. e 2087 c.c.
Quest’ultimo articolo del codice civile, in particolare, specifica che le condizioni di lavoro
devono essere tali da “tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”
(art. 2087 c.c.).
Anche il comma 1 dell’art. 3, quantunque riconosca la pari dignità di tutti i cittadini, può
essere posto in connessione con il lavoro, se interpretato nell’accezione ampia di cui s’è detto;
infatti tale articolo va posto in relazione al comma 2, che pone come finalità della Repubblica
“l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori” all’organizzazione del Paese e all’articolo
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seguente (art. 4), che riconosce “a tutti i cittadini il diritto al lavoro”. Il combinato disposto di
questi articoli lascia chiaramente emergere il rilievo decisivo che ha il lavoro nel
riconoscimento della pari dignità sociale.
Il diritto al lavoro, sancito al comma 1 dell’art. 4, è altresì per ogni cittadino un “dovere di
svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che
concorra al progresso materiale o spirituale della società” (art. 4, c. 2). Aboliti tutti i privilegi
derivanti dall’appartenenza ad un determinato ceto, questo diritto-dovere di contribuire con il
proprio lavoro (qui inteso in una così larga accezione che sembrerebbe comprendere tanto
prestatori quanto datori di lavoro) al progresso della società è, a ben vedere, l’unico titolo di
dignità ammesso dalla nostra Costituzione, che in tal modo diventa il suo principio fondante.
Gli articoli che ho citato, difatti, non fanno altro che spiegare il significato dell’art. 1, e cioè
che l’Italia è una Repubblica “fondata sul lavoro”.
L’idea che la guida è che sia il lavoro a consentire ai cittadini la piena realizzazione della loro
personalità e con ciò della loro dignità. La dignità è tanto connessa al ruolo che ciascun
consociato è chiamato attivamente a svolgere all’interno della società, quanto al fatto che lo
Stato deve assicurargli la possibilità di svolgerne dignitosamente uno. Insomma, come il
lavoro oltre a essere un diritto è altresì un dovere, così la dignità oltre ad essere un onore, del
tutto sui generis poiché non più legato al prestigio della carica sociale ricoperta (anche se la
Costituzione fa esplicito riferimento all’onore soltanto in relazione alle funzioni pubbliche,
art. 54 c. 2), ma ai meriti che si sono acquisiti nei diversi ruoli assunti, è un onere dal
momento che ciascun consociato è chiamato a contribuire con la sua attività al progresso
economico e civile del Paese. La dignità è, insomma, qualcosa che il cittadino si guadagna
con le sue prestazioni nella società.
In un caso essa viene considerata un presupposto per l’esercizio di un importante diritto. È
quanto risulta dall’art. 48, il quale al comma 3 prevede che il diritto di voto possa essere
limitato, fra gli altri, “nei casi di indegnità morale indicati dalla legge”. Ora, è pur vero che in
altri ordinamenti è prevista la possibilità della perdita dell’elettorato attivo (un discorso
diverso dovrebbe essere fatto sul versante passivo della rappresentanza politica) ma è
probabilmente soltanto il nostro a prevedere che ciò sia possibile anche per indegnità morale.
Insomma, per il nostro ordinamento la dignità è una qualità non riconosciuta a ciascun uomo,
ma richiesta al cittadino, affinché possa usufruire della capacità elettorale attiva e passiva. Se
essa viene meno, ciò comporta la perdita dell’elettorato.
Quali situazioni potrebbero rientrare nella previsione di indegnità? In linea di principio
sarebbe del tutto conforme al dettato costituzionale una legge che escludesse dal voto tutti
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coloro che, ad esempio, non adempiano al dovere del voto senza giustificato motivo o
persino, stando alla lettera della Costituzione, tutti coloro che si sottraggono al dovere del
lavoro produttivo previsto dal comma 2 dell’art. 4. Leggi del genere non esistono, ma ripeto,
sarebbero del tutto compatibili con la Costituzione. Di fatto (ma la cosa è per più versi
problematica) in questa categoria sarebbero potuti rientrare, sulla base della XII disposizione
transitoria, “i capi responsabili del regime fascista” e tradizionalmente vi rientravano i tenutari
delle case chiuse o i concessionari delle case da gioco e accanto ad essi gli imprenditori falliti.
Ma con la abolizione delle case chiuse (Legge Merlin) e con una legge del 16 gennaio 1992 n.
15, anche il riferimento ai concessionari delle case da gioco è venuto meno. Del resto, ormai,
quest’ultima attività molto spesso è sponsorizzata dallo Stato stesso. Con un decreto
legislativo piuttosto recente (9 gennaio 2006 n. 5, art. 52) è venuto meno anche il riferimento
agli imprenditori falliti.
Allo stato attuale non sembra dunque possibile individuare concrete categorie di persone che
possano perdere la capacità elettorale attiva e passiva a causa di “indegnità morale”. Il che
non significa che l’indegnità non giochi più alcun ruolo nelle nostre istituzioni. È recente il
suo utilizzo da parte del Presidente della Repubblica, che con decreto ha revocato il titolo di
Cavaliere al merito del Lavoro a Calisto Tanzi, titolo che gli era stato conferito nel 1984,
quando Parmalat era motivo di orgoglio nazionale.
Non intendo ora approfondire il punto: vi possono certo essere casi in cui sia legittimo
limitare il diritto di voto, ma è forse una peculiarità della nostra Costituzione quella di
indicare tra i possibili motivi per suddetta limitazione “l’indegnità morale”. Insomma, quello
che mi preme sottolineare è che la dignità qui viene presa in considerazione non come
qualcosa da salvaguardare, da tutelare, eventualmente da promuovere (come risulta dal
riferimento alla “pari dignità sociale”), ma come un dovere, la cui mancata osservanza
produce una sanzione.
Sotto questo profilo va altresì sottolineata l’infelice formulazione dell’art. 22 della
Costituzione, secondo il quale “nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità
giuridica, della cittadinanza, del nome”. Certo, questa disposizione pone un limite
invalicabile: i motivi politici. D’altronde un’interpretazione letterale della disposizione
potrebbe portare a ritenere che, per motivi diversi da quelli politici – e “l’indegnità morale”
potrebbe essere uno dei questi – la persona possa essere privata degli status fondamentali
sopra richiamati, senza che ciò peraltro possa costituire una lesione della sua dignità, almeno
per come essa è connotata nel nostro ordinamento. Un’ulteriore riprova del fatto che la dignità
non viene intesa come una qualità attribuita a ciascun uomo, tale per cui nessuno, per quanto
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grave possa essere il delitto di cui si è macchiato, possa comunque essere privato della propria
capacità giuridica.
Diversi, dunque, gli usi della “dignità” nella nostra Costituzione, ma tutti confluenti nel
mostrare che essa sia qualcosa che si può acquistare, ma anche perdere, a seconda dei diversi
comportamenti tenuti all’interno della società.
Non voglio con ciò concludere che non vi sia alcuno spazio per un altro uso della dignità
anche nel nostro ordinamento. Però è un dato incontestabile che proprio laddove questo altro
uso sembrerebbe presente, il vocabolo non venga introdotto. È il caso dell’art. 13 sulla
inviolabilità della libertà personale, che al comma 4 sanziona “ogni violenza fisica e morale
sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”. È il caso dell’art. 27 comma 3, in
cui si afferma che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di
umanità”, ma subito dopo continua sottolineando che esse “devono tendere alla rieducazione
[sociale] del consociato”. Così, pur riconoscendo attraverso l’umanitarismo penale il principio
che nessun condannato deve essere trattato in modo disumano, è ancora una volta sulla
dimensione sociale che si insiste, sottolineando che lo scopo della pena deve mirare al
recupero sociale del detenuto. È il caso, infine, dell’art. 32 comma 2 (un comma spesso
chiamato in causa nei recenti dibattiti bioetici) secondo il quale: “Nessuno può essere
obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge
non può in nessun caso violare i limiti imposti al rispetto della persona umana”.
È vero che nel Progetto elaborato dalla Commissione dei 75 per l’Assemblea Costituente
figurava un articolo 26, il quale, al comma 2, affermava che “sono vietate le pratiche sanitarie
lesive della dignità umana”, ma questa formulazione non è stata alla fine accolta. Segno
ulteriore del fatto che l’accento batteva comunque sulla dignità sociale e non sulla dignità
umana.
Non deve dunque sorprendere se negli anni immediatamente successivi alla sua
promulgazione, la Corte Costituzionale abbia fatto un uso “oltremodo prudente e accorto” del
concetto di dignità umana e se invece nella giurisprudenza ordinaria sono molteplici le
pronunce in cui compare il riferimento alla dignità. La stragrande maggioranza di esse
significativamente si preoccupa di salvaguardare la dignità del lavoratore.
Certo oggi le cose stanno cambiando: sia la legislazione ordinaria che la giurisprudenza
relativa, soprattutto con riferimento ad alcune questioni scottanti di bioetica, fanno sempre più
riferimento alla dignità, ad un concetto tuttavia diverso da quello, spiccatamente sociale,
emergente dalla Costituzione.
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4. Elementi per una comparazione.
Proviamo ora ad evidenziare quanto peraltro dovrebbe essere già emerso dalla mia
esposizione, e cioè i diversi usi della dignità nelle due carte costituzionali.
Per la Legge Fondamentale di Bonn la dignità ha un significato prevalentemente
universalistico, è l’uomo in quanto appartenente al genere umano a possederla come una dote
naturale che lo salvaguardia da ogni possibile strumentalizzazione; per la Costituzione italiana
ha invece un significato prevalentemente particolaristico, nel senso che scaturisce dal
riconoscimento per le prestazioni che il cittadino effettua nella società. Nel primo caso è la
dignità dell’uomo la fonte da cui scaturiscono i diritti e l’organizzazione dello Stato, nel
secondo è la sovranità di un determinato popolo. Mentre nel primo caso “dignità” è un valore
assoluto che riguarda astrattamente l’uomo come fine in sé, nel secondo è un valore relativo
che riguarda la sua concreta collocazione nel tessuto sociale. Tanto il primo significato di
dignità è culturalmente in debito verso il giusnaturalismo moderno (da Pufendorf a Kant),
quanto il secondo ci riporta, in fondo, all’antica nozione di dignità che emerge già nel mondo
romano con Cicerone. È ben vero che già in Cicerone troviamo per la prima volta delineati
entrambi i significati, ma poi nel pensiero filosofico, soprattutto per l’influsso decisivo del
cristianesimo, l’accento si spostò sulla dignità come valore assoluto, mentre l’idea che la
dignità scaturisse dalle azioni compiute da ogni singolo per il bene comune, pur non
scomparendo, finì in secondo piano. Ebbene, è proprio questo secondo significato a diventare
rilevante nella Costituzione italiana. Se per quella tedesca la dignità non si può né perdere né
acquisire poiché l’uomo la possiede per il solo fatto di essere uomo, per quella italiana ciò è
invece possibile, poiché essa non dipende dall’uomo in quanto tale, ma dal ruolo che egli
assume nella società.
Se la dignità è una qualità inerente all’uomo ciò comporta che essa dovrà essere tutelata e
difesa da tutte le possibili aggressioni a cui può andare soggetta. La dignità presenta qui un
carattere negativo (difesa da aggressioni) e individualistico (ogni singola persona dovrà essere
protetta da persecuzioni, umiliazioni, infamie etc.). Se la dignità è connessa al ruolo che il
cittadino ricopre nella società, ciò diventa un parametro per valutare eventuali diseguaglianze
e discriminazioni sociali: ogni consociato ha infatti il diritto di svolgere un ruolo attivo
all’interno della società e questo ruolo è pari per dignità a quello ricoperto da ciascun altro.
Dignità, insomma, non è qualcosa di dato dalla natura umana che si tratta anzitutto di
difendere, ma qualcosa da promuovere e da costruire rimuovendo, come appunto dice la
Costituzione italiana, tutti quegli ostacoli che impediscono la piena realizzazione del
cittadino. Ma la dignità non è soltanto un diritto, implica altresì l’adempimento di doveri di
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solidarietà: primo fra tutti, quello di contribuire con il proprio lavoro al progresso della
società.
A quali differenti risultati si può giungere applicando concretamente i due approcci può essere
messo in evidenza se ci soffermiamo su una delle questioni di bioetica più rilevanti.
Attraverso il divieto di strumentalizzazione in Germania qualsiasi espianto di organi che
avvenisse senza il consenso esplicito dell’interessato (o quantomeno dei suoi parenti)
rappresenterebbe una violazione della dignità umana. Nel nostro Paese, invece, ci si era spinti
sino al punto di ammettere per legge il principio del cosiddetto “silenzio-assenso informato”,
anche se di fatto esso non è mai entrato in vigore.
Beninteso, ho voluto qui intenzionalmente radicalizzare le differenze per meglio evidenziare i
diversi usi della dignità nelle due Carte costituzionali. Il che non significa – come peraltro ho
osservato – che non vi siano tracce anche nella nostra Costituzione di quel significato
universalistico e assoluto della dignità che è l’aspetto qualificante della Costituzione tedesca.
Né d’altro canto si può negare che pure la Menschenwürde venga messa in discussione
quando l’uomo è costretto a vivere in condizioni economiche di povertà. Allo stesso modo, se
è vero che l’accento nella nostra Costituzione batte sulla solidarietà, i diritti inviolabili
dell’uomo vi vengono riconosciuti non solo in quanto parte delle formazioni sociali, ma anche
“come singolo” (art. 2). E tuttavia le differenze restano: la Costituzione di Bonn può essere
assunta a paradigma del modello di dignità come dote, la Costituzione italiana di quello
fondato sulle prestazioni. Entrambi i modelli hanno punti di forza e di debolezza. Negli
attuali dibattiti bioetici, per fare un esempio, la dignità come dote può certo garantire quella
protezione assoluta della vita umana sin dal suo inizio embrionale e persino dopo la sua morte
che la dignità come prestazione non è in grado di offrire. E nondimeno questo modello se per
un verso, statuendo un divieto di strumentalizzazione, consente di tutelare integralmente la
vita umana, per l’altro rischia di sfuggire ai difficili problemi cui concretamente sempre più
spesso oggi ci pone la vita umana tanto al suo inizio, quanto alla fine.
© Paolo Becchi, riproduzione permessa a soli scopi di studio e ricerca
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