Paolo Becchi Università di Genova e di Luzern LA DIGNITÀ UMANA NEL GRUNDGESETZ E NELLA COSTITUZIONE ITALIANA * . 1. Premessa. Anche se le sue radici filosofiche sono molto risalenti nel tempo, il principio della dignità umana ha trovato soltanto nel secondo dopoguerra la sua piena legittimità giuridica. Di fronte al flagello della guerra, lo Statuto (o Carta) delle Nazioni Unite, entrato in vigore il 24 ottobre 1945, riaffermava la “fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nella eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grandi e piccole”. E qualche anno dopo la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo proclamata il 10 dicembre 1948, si apriva con “il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali e inalienabili”. Il nuovo ordine internazionale sorto dalle macerie del totalitarismo trovava così nel riconoscimento della dignità umana il suo punto di partenza. È in questo contesto che si situano tanto la Legge Fondamentale (il Grundgesetz) della Repubblica Federale Tedesca (entrata in vigore il 24 maggio 1949) quanto la di poco precedente Costituzione italiana (entrata in vigore il 1 gennaio 1948). E tuttavia proprio in questi due documenti emergono due diversi usi della nozione di dignità umana. Evidenziarli sarà il compito di questo mio intervento. Prenderò le mosse dalla Legge Fondamentale di Bonn, per poi passare alla Costituzione italiana. Concluderò sottolineando le profonde differenze che sussistono tra le due Carte Costituzionali. 2. La dignità umana nella Legge Fondamentale di Bonn. Non è certo un caso che proprio la Legge Fondamentale di Bonn sia uno dei primi documenti in cui il riferimento alla dignità umana acquista un ruolo di assoluta preminenza. Essere trattati come persone e riconoscere a ciascun essere umano – indipendentemente dal sesso, dalla razza, dalla lingua, dalla religione o dalle opinioni politiche, dalle condizioni esistenziali, economiche e sociali – il diritto ad avere diritti significava recuperare quel * Giornata di studio “La dignità dell’uomo: testo e contesto”, Dipartimento di Scienze Giuridiche, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Modena, 14 ottobre 2010. 1 concetto di humanitas esplicitamente combattuto dall’ideologia del nazionalsocialismo con l’introduzione della categoria di Untermensch (sub-umano) e con la mitologia della razza ariana. In un Paese in cui la sistematica umiliazione e persecuzione degli uomini a causa del loro credo religioso, delle opinioni politiche, dell’appartenenza etnica o semplicemente perché affetti da inguaribili malattie mentali, era diventata legge dello Stato, il richiamo forte ad un principio intangibile come la dignità umana rappresentava una rottura con il passato ed al contempo un monito per il futuro. Il riconoscimento della dignità umana diventa così una sorta di Grundnorm di kelseniana memoria, posta al vertice dell’intero ordinamento giuridico dello Stato: una norma giuridica oggettiva, non essa stessa un diritto soggettivo fondamentale, e proprio per questo non sottoponibile – a differenza dei diritti fondamentali – a ponderazioni e limitazioni (ex art. 19 c. 1). Il comma 1 dell’art. 1 recita, infatti: “La dignità umana è intangibile. Rispettarla e proteggerla è obbligo di tutto il potere statale”. Si osservi anzitutto: un nuovo aggettivo viene introdotto per qualificare la dignità umana. Rispetto ai diritti fondamentali che sono “inviolabili” (unverletzlich) e “inalienabili” (unveräußerlich) la dignità umana è intangibile (unantastbar). È importante sottolineare come non ci sia limitati a proclamare l’intangibilità del principio normativo, ma altresì si sia subito richiamata l’attenzione sul fatto che il suo rispetto sia vincolante per ogni azione statale. È lo Stato che deve agire nel rispetto della dignità umana e che è chiamato a tutelarla dalle possibili aggressioni. Il comma 2 aggiunge: “Il popolo tedesco professa quindi i diritti umani inviolabili e inalienabili come fondamento di ogni comunità umana, della pace e della giustizia nel mondo”. Dai due commi citati risulta evidente il rapporto di derivazione dei diritti fondamentali dalla dignità umana. Fu questo il risultato a cui approdò il dibattito costituente, che era partito in realtà dall’idea opposta – e cioè che la dignità si fondasse sui diritti umani – e solo nel corso della discussione si giunse a poco a poco fra il settembre del 1948 e il febbraio 1949 a rovesciare il rapporto tra i due concetti, sino alla redazione finale secondo la quale il riconoscimento dei diritti umani è una conseguenza dell’intangibilità della dignità umana. In questo rovesciamento sta la novità dell’art. 1 del Grundgesetz rispetto agli altri citati documenti internazionali coevi. Sia nello Statuto dell’Organizzazione delle Nazioni Unite – in cui la dignità compare come un elemento insieme agli altri – sia nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, dove è più chiaro lo stretto legame della dignità con i diritti fondamentali (“Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”), la dignità non aveva ancora un ruolo autonomo e 2 fondante, come accade invece nell’art. 1 del Grundgesetz. Nel secondo comma, laddove afferma che i diritti umani sono il “fondamento di ogni comunità umana, della pace della giustizia nel mondo” riecheggia la formulazione contenuta nel Preambolo della Dichiarazione Universale, ma è il comma 1 a costituire una novità rilevante per aver posto a fondamento dei diritti il presupposto della dignità. Proprio dal momento che l’essere umano possiede una dignità, che lo contraddistingue rispetto a qualsiasi altro essere vivente, egli è titolare di diritti fondamentali. Intendendo fissare nel tempo il riferimento alla dignità, la Legge Fondamentale prevede altresì, al comma 3 dell’art. 79, la sua immodificabilità, confermando in tal modo il carattere “pre-positivo” di un principio che a differenza del diritto positivo è immodificabile. L’art. 1 diventa così un limite alla revisione costituzionale. Non deve sorprendere se il tema della dignità umana nella Germania dell’immediato secondo dopoguerra sia connesso alla rinascita del diritto naturale e alla critica del giuspositivismo. Se per Kelsen “il diritto può avere qualsiasi contenuto”, ora è la critica di Radbruch a quel tipo di positivismo, per così dire, a dettare legge. Il diritto non può fare a meno di accettare, di “giuridificare”, quei principi, etici, pre-positivi, che erano ben presenti nella tradizione giusnaturalistica tedesca da Pufendorf a Kant, primo tra tutti il principio della dignità umana. Beninteso, questa rinascita aveva anche a che fare con il giusnaturalismo di ispirazione cristiana, ma proprio in difesa di una visione laica della politica fu contrastato il tentativo di invocare Dio per conferire un maggior peso alla tutela dei diritti fondamentali (il rinvio a Dio compare, ma solo nel Preambolo, laddove si afferma il compito enorme che incombe sul popolo tedesco di riscattare “davanti a Dio e agli uomini” gli anni della dittatura nazionalsocialista). A ben vedere quel ruolo del richiamo a qualcosa di assoluto viene assunto proprio dal concetto di dignità umana, con quello status del tutto peculiare di norma presupposta dall’ordinamento e posta a suo fondamento. Il consiglio dato da Theodor Heuss all’interno del dibattito costituzionale di non definire la dignità – la così detta nicht interpretierte These (“tesi non interpretata”) – nasceva, come di recente ha bene evidenziato Böckenforde, dalla volontà di trovare un punto d’accordo senza cadere in visioni integralistiche, ma prendendo altresì le distanze dal giuspositivismo. Nonostante la pluralità delle diverse posizioni presenti, proprio nel concetto di dignità umana poteva essere trovato (e venne trovato) un punto di generale consenso, e quel punto aveva – per i padri fondatori – un contenuto determinato, in cui risiedeva la sua essenza normativa: il divieto di strumentalizzazione dell’uomo. 3 In ambito costituzionalistico fu in particolare Günter Dürig a formulare questo indirizzo interpretativo in suo celebre commento. Il ricorso da parte del Costituente alla dignità significava per lui l’assunzione all’interno del diritto positivo di una valore etico “prepositivo”, che precede qualsiasi diritto e che ora viene posto al vertice dell’intero ordinamento. Con la conseguenza di diventare esso stesso un precetto giuridico positivo. E in che cosa si sostanzia questo valore? Essenzialmente nel riconoscimento della specificità dell’umano: quello di essere “fine in sé”. La cosiddetta “Objektformel” (“formula dell’oggetto”) che già si ritrovava incidentalmente espressa da Joseph Wintrich, non poteva non rinviare direttamente al concetto kantiano di dignità umana come divieto di strumentalizzazione: “La dignità umana in quanto tale è colpita quando l’uomo concreto viene degradato a oggetto, a mero mezzo, a grandezza sostituibile”. La perversione dell’ordinamento giuridico avviene laddove l’uomo da soggetto giuridico quale è viene ridotto a oggetto, a cosa: “Ogni uomo è uomo in forza del suo spirito, che lo stacca dalla natura impersonale e a partire dalla propria decisione lo rende capace di diventare cosciente di sé, di autodeterminarsi e di plasmare se stesso e l’ambiente”. L’uomo è dunque libero e poiché ogni uomo è dotato di questa libertà, è uguale all’altro. È evidente che in questo senso tutela della dignità umana significhi proteggere l’uomo dalle strumentalizzazioni, dalle infamie, dalle persecuzioni, dalle punizioni degradanti, dalle umiliazioni etc., ed in questa linea interpretativa si mosse la giurisprudenza tedesca dell’immediato secondo dopoguerra. Di conseguenza il concetto di dignità acquista un significato prevalentemente “negativo”, come difesa da azioni che mirano a disconoscere l’essere persona di ciascun uomo. È, insomma, l’individuo singolo a dover essere tutelato dalle azioni di altri individui che possono lederlo nella sua dignità o dalle azioni degli organi dello Stato. La Legge Fondamentale rinuncia ad indicare un catalogo di diritti sociali, come invece era avvenuto nel modello di Weimar, e questo spiega anche l’interpretazione costituzionalistica in senso liberale della dignità umana come “difesa da attacchi” che trova in Dürig la sua più classica espressione. Il fatto che l’ autore parli di dignità con riferimento al singolo individuo che in virtù delle sue reali capacità è titolare di dignità, non significa affatto che per lui essa dipenda esclusivamente dalla concreta esistenza di ogni singolo uomo. La dignità va riconosciuta tanto al singolo individuo quanto all’ uomo per la sua appartenenza alla specie umana. Sotto questo profilo essa è indipendente dalla sua realizzazione nell’ uomo concretamente esistente: sussiste già nell’ astratta possibilità, nella capacità potenziale della sua realizzazione. Per questo essa può essere violata anche se quell’uomo concretamente non è ancora nato o è già morto. La dignità è, dunque, una dote che spetta all’uomo per la sua mera appartenenza alla 4 specie umana: Wer von Menschen gezeugt wurde und wer Mensch war, nimmt an der Würde “des Menschen” teil (Chi è stato procreato e chi è stato un uomo partecipa alla dignità “dell’ uomo”). Quanto abbia influenzato questo orientamento interpretativo la dottrina e la giurisprudenza tedesca può essere confermato dal dato di fatto che quella voce nel Commentario in cui apparve nel 1958 restò immutata sino a quando, nel 2003, Matthias Herdegen la sostituì con un’altra, dal tenore completamente differente. Il che ovviamente non significa che già in precedenza non fossero emersi orientamenti diversi. Già nel corso degli anni Sessanta si occupano a fondo del tema un filosofo dell’importanza di Ernst Bloch, un filosofo del diritto della levatura di Werner Maihofer (recentemente scomparso) e uno dei più importanti sociologi del secolo scorso: Niklas Luhmann. Se nei primi due l’idea di dignità resta ancora connessa al messaggio proveniente dalla tradizione giusnaturalistica, è con Luhmann che compare invece la prima critica radicale di quel modello interpretativo. Per Bloch e Maihofer la tutela della dignità umana non può prescindere dal soddisfacimento di concreti bisogni umani, di cui lo Stato sociale di diritto è chiamato a farsi carico. L’ottica negativa e difensiva, che aveva caratterizzato l’interpretazione dell’immediato dopoguerra veniva così messa in discussione. Ma in fondo questa critica non rivoluzionava l’impianto argomentativo precedente, ne estendeva semmai la portata, sottolineando, in un’ottica positiva e propositiva, come la realizzazione della dignità umana implicasse la fine di rapporti sociali basati sullo sfruttamento (Bloch) ed il recupero dell’idea di una “solidarietà” tra gli uomini (Maihofer). È Luhmann, invece, a sottoporre ad una prima disamina l’orientamento che con Dürig aveva fatto scuola. Contro questa concezione, definita “statica”, egli oppone una concezione dinamica della dignità, che è il risultato di “prestazioni” (per la precisione: “prestazioni di rappresentazioni”) con le quali l’uomo si guadagna nella società la propria dignità. Si potrebbero citare altri esempi – di notevole rilievo quello di Hasso Hoffman – che soprattutto a partire dagli anni Novanta erodono dalle fondamenta quella nozione di dignità che larga fortuna aveva incontrato negli anni Cinquanta. E il punto d’approdo sarà proprio il nuovo Commento di Matthias Herdegen il quale, come è stato messo bene in evidenza da Ernst-Wolfgang Böckenförde, rappresenta un vero e proprio “congedo dai padri costituenti”. Se fosse veramente opportuno congedarsi - ed in quel modo così netto (sostituendo una classica voce dottrinale con una esattamente contraria proprio nello stesso manuale) - dal vecchio modello interpretativo è un punto che qui non intendo affrontare. Certo, nuovi problemi esigono soluzioni nuove, ma siamo proprio certi che quell’immagine della dignità sia qualcosa da buttare nel ripostiglio di casa? O, invece, non è proprio ancorandosi ad essa 5 che, ad esempio, oggi è possibile contrastare quella deriva in senso eugenetico, conseguenza di alcune pratiche di fecondazione assistita? Sia come sia, è interessante un confronto con la Costituzione italiana, perché in essa compare un uso della dignità umana molto diverso da quello fatto nella Legge Fondamentale. 3. La dignità umana nella Costituzione italiana. La dignità, anzitutto, non ricopre nella Costituzione italiana quel ruolo fondante che ha nella Legge Fondamentale di Bonn. Se la Costituzione tedesca è ancorata ad un principio supremo come è la dignità, quella italiana è “fondata sul lavoro” (art. 1) e, conseguentemente, centrale, come vedremo, non è tanto la dignità umana quanto la dignità del lavoratore. La Costituzione repubblicana del 1948 contiene tre riferimenti espliciti alla dignità ed uno, per la verità piuttosto sorprendente (e nella letteratura ben poco trattato), al concetto di indegnità. Cominciamo dai tre riferimenti sopra richiamati. Il comma 1 dell’art. 3 riconosce la “pari dignità sociale” di tutti i “cittadini”; il comma 1 dell’art. 36 sostiene che il lavoratore ha diritto ad una retribuzione tale da “assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”; il comma 2 dell’art. 41 afferma che l’attività economica privata non può svolgersi “in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Quantunque i soggetti cui si rivolgono le tre disposizioni siano diversi (i cittadini, i lavoratori, gli imprenditori), l’accento batte sempre in realtà sulla dimensione sociale della dignità. Nel primo caso ciò comporta che il principio della parità formale dei cittadini di fronte alla legge vada anche inteso – in conformità alla XIV disposizione transitoria finale che al comma 1 non riconosce i titoli nobiliari – come superamento di qualsiasi privilegio legato al possesso di un titolo nobiliare o all’appartenenza di un determinato ceto sociale. “Pari dignità” significa, dunque, che non sono riconosciuti all’interno della società privilegi, dispense, immunità, prerogative, che garantiscano l’esenzione di singoli o gruppi dalle regole del diritto valide per la generalità dei soggetti. Inoltre, come sottolinea il comma seguente, “pari dignità” significa che a tutti i cittadini, indipendentemente dalla posizione che essi occupano nella società, dovrebbe essere assicurato “il pieno sviluppo” della loro personalità. All’eguaglianza formale “davanti alla legge” prevista dal comma 1, si aggiunge nel secondo l’eguaglianza sostanziale: la pari dignità sociale non è solo qualcosa di dato, ma un obiettivo da raggiungere, un “compito” della Repubblica. La Costituzione italiana, dunque, sottolinea le difficoltà materiali che si oppongono alla realizzazione della parti dignità sociale ed impone alle istituzioni di rimuoverle. La dignità viene riconosciuta ai cittadini in forza della loro appartenenza ad una comunità politica. 6 Negli altri due casi il riferimento alla dignità comporta che al lavoratore ed alla sua famiglia dovrebbe essere garantito almeno un minimo materiale di sussistenza (art. 36) e che l’attività dell’imprenditore, pur essendo libera, non sia in contrasto con il rispetto della dignità umana dovuta al lavoratore (art. 41). Anche qualora non si voglia intendere il riferimento al lavoro in senso stretto come lavoro subordinato o dipendente, ma estendendo l’uso del vocabolo a qualsiasi attività personale autonoma, pur non imprenditoriale, è evidente che qui ad essere tutelata è la dignità del lavoratore. Anche ammesso inoltre che sia possibile estendere ulteriormente, sulla base dell’art. 2 che riconosce “i diritti inviolabili dell’uomo”, il principio della pari dignità sociale a tutti gli uomini, resta il dato di fatto che nella Costituzione italiana il soggetto con cui la dignità viene posta esplicitamente in relazione non è mai l’uomo in quanto tale, astrattamente considerato, bensì il cittadino, il lavoratore, l’imprenditore. Nei primi due casi per affermare un diritto – il riconoscimento della pari dignità sociale che spetta a ciascun cittadino indipendentemente dallo status sociale di appartenenza e che, in concreto, per il lavoratore comporta il diritto di poter condurre grazie alla sua prestazione d’opera un’esistenza dignitosa –, nell’ultimo per sottolineare un dovere, quello a cui è soggetto l’imprenditore, di assicurare condizioni lavorative dignitose. Persino in quest’ultimo caso, quando, cioè, nel comma 2 dell’art. 41 viene menzionata esplicitamente la “dignità umana” – è questo l’unico punto in cui compare esplicitamente la locuzione – questo uso di “dignità” non è comparabile con quello che abbiamo visto emergere dai documenti normativi citati all’inizio. Essa viene qui infatti intesa come limite allo svolgimento dell’attività imprenditoriale privata. La dignità, quindi, tutela non l’uomo in quanto tale, ma il lavoratore da mansioni che possono rivelarsi degradanti o umilianti per coloro che sono chiamati ad eseguirle. C’è uno stretto collegamento fra i tre articoli della Costituzione sui quali ci siamo soffermati. Tutti e tre, a ben vedere, hanno a che fare con la nozione di lavoro, a cui si riferiscono non solo (esplicitamente) gli artt. 36 c. 1 e 41 c. 2, ma anche (implicitamente) l’art. 3 c. 1. I primi due articoli vanno letti in relazione rispettivamente agli artt. 2099 e ss. c.c. e 2087 c.c. Quest’ultimo articolo del codice civile, in particolare, specifica che le condizioni di lavoro devono essere tali da “tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro” (art. 2087 c.c.). Anche il comma 1 dell’art. 3, quantunque riconosca la pari dignità di tutti i cittadini, può essere posto in connessione con il lavoro, se interpretato nell’accezione ampia di cui s’è detto; infatti tale articolo va posto in relazione al comma 2, che pone come finalità della Repubblica “l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori” all’organizzazione del Paese e all’articolo 7 seguente (art. 4), che riconosce “a tutti i cittadini il diritto al lavoro”. Il combinato disposto di questi articoli lascia chiaramente emergere il rilievo decisivo che ha il lavoro nel riconoscimento della pari dignità sociale. Il diritto al lavoro, sancito al comma 1 dell’art. 4, è altresì per ogni cittadino un “dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società” (art. 4, c. 2). Aboliti tutti i privilegi derivanti dall’appartenenza ad un determinato ceto, questo diritto-dovere di contribuire con il proprio lavoro (qui inteso in una così larga accezione che sembrerebbe comprendere tanto prestatori quanto datori di lavoro) al progresso della società è, a ben vedere, l’unico titolo di dignità ammesso dalla nostra Costituzione, che in tal modo diventa il suo principio fondante. Gli articoli che ho citato, difatti, non fanno altro che spiegare il significato dell’art. 1, e cioè che l’Italia è una Repubblica “fondata sul lavoro”. L’idea che la guida è che sia il lavoro a consentire ai cittadini la piena realizzazione della loro personalità e con ciò della loro dignità. La dignità è tanto connessa al ruolo che ciascun consociato è chiamato attivamente a svolgere all’interno della società, quanto al fatto che lo Stato deve assicurargli la possibilità di svolgerne dignitosamente uno. Insomma, come il lavoro oltre a essere un diritto è altresì un dovere, così la dignità oltre ad essere un onore, del tutto sui generis poiché non più legato al prestigio della carica sociale ricoperta (anche se la Costituzione fa esplicito riferimento all’onore soltanto in relazione alle funzioni pubbliche, art. 54 c. 2), ma ai meriti che si sono acquisiti nei diversi ruoli assunti, è un onere dal momento che ciascun consociato è chiamato a contribuire con la sua attività al progresso economico e civile del Paese. La dignità è, insomma, qualcosa che il cittadino si guadagna con le sue prestazioni nella società. In un caso essa viene considerata un presupposto per l’esercizio di un importante diritto. È quanto risulta dall’art. 48, il quale al comma 3 prevede che il diritto di voto possa essere limitato, fra gli altri, “nei casi di indegnità morale indicati dalla legge”. Ora, è pur vero che in altri ordinamenti è prevista la possibilità della perdita dell’elettorato attivo (un discorso diverso dovrebbe essere fatto sul versante passivo della rappresentanza politica) ma è probabilmente soltanto il nostro a prevedere che ciò sia possibile anche per indegnità morale. Insomma, per il nostro ordinamento la dignità è una qualità non riconosciuta a ciascun uomo, ma richiesta al cittadino, affinché possa usufruire della capacità elettorale attiva e passiva. Se essa viene meno, ciò comporta la perdita dell’elettorato. Quali situazioni potrebbero rientrare nella previsione di indegnità? In linea di principio sarebbe del tutto conforme al dettato costituzionale una legge che escludesse dal voto tutti 8 coloro che, ad esempio, non adempiano al dovere del voto senza giustificato motivo o persino, stando alla lettera della Costituzione, tutti coloro che si sottraggono al dovere del lavoro produttivo previsto dal comma 2 dell’art. 4. Leggi del genere non esistono, ma ripeto, sarebbero del tutto compatibili con la Costituzione. Di fatto (ma la cosa è per più versi problematica) in questa categoria sarebbero potuti rientrare, sulla base della XII disposizione transitoria, “i capi responsabili del regime fascista” e tradizionalmente vi rientravano i tenutari delle case chiuse o i concessionari delle case da gioco e accanto ad essi gli imprenditori falliti. Ma con la abolizione delle case chiuse (Legge Merlin) e con una legge del 16 gennaio 1992 n. 15, anche il riferimento ai concessionari delle case da gioco è venuto meno. Del resto, ormai, quest’ultima attività molto spesso è sponsorizzata dallo Stato stesso. Con un decreto legislativo piuttosto recente (9 gennaio 2006 n. 5, art. 52) è venuto meno anche il riferimento agli imprenditori falliti. Allo stato attuale non sembra dunque possibile individuare concrete categorie di persone che possano perdere la capacità elettorale attiva e passiva a causa di “indegnità morale”. Il che non significa che l’indegnità non giochi più alcun ruolo nelle nostre istituzioni. È recente il suo utilizzo da parte del Presidente della Repubblica, che con decreto ha revocato il titolo di Cavaliere al merito del Lavoro a Calisto Tanzi, titolo che gli era stato conferito nel 1984, quando Parmalat era motivo di orgoglio nazionale. Non intendo ora approfondire il punto: vi possono certo essere casi in cui sia legittimo limitare il diritto di voto, ma è forse una peculiarità della nostra Costituzione quella di indicare tra i possibili motivi per suddetta limitazione “l’indegnità morale”. Insomma, quello che mi preme sottolineare è che la dignità qui viene presa in considerazione non come qualcosa da salvaguardare, da tutelare, eventualmente da promuovere (come risulta dal riferimento alla “pari dignità sociale”), ma come un dovere, la cui mancata osservanza produce una sanzione. Sotto questo profilo va altresì sottolineata l’infelice formulazione dell’art. 22 della Costituzione, secondo il quale “nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome”. Certo, questa disposizione pone un limite invalicabile: i motivi politici. D’altronde un’interpretazione letterale della disposizione potrebbe portare a ritenere che, per motivi diversi da quelli politici – e “l’indegnità morale” potrebbe essere uno dei questi – la persona possa essere privata degli status fondamentali sopra richiamati, senza che ciò peraltro possa costituire una lesione della sua dignità, almeno per come essa è connotata nel nostro ordinamento. Un’ulteriore riprova del fatto che la dignità non viene intesa come una qualità attribuita a ciascun uomo, tale per cui nessuno, per quanto 9 grave possa essere il delitto di cui si è macchiato, possa comunque essere privato della propria capacità giuridica. Diversi, dunque, gli usi della “dignità” nella nostra Costituzione, ma tutti confluenti nel mostrare che essa sia qualcosa che si può acquistare, ma anche perdere, a seconda dei diversi comportamenti tenuti all’interno della società. Non voglio con ciò concludere che non vi sia alcuno spazio per un altro uso della dignità anche nel nostro ordinamento. Però è un dato incontestabile che proprio laddove questo altro uso sembrerebbe presente, il vocabolo non venga introdotto. È il caso dell’art. 13 sulla inviolabilità della libertà personale, che al comma 4 sanziona “ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”. È il caso dell’art. 27 comma 3, in cui si afferma che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”, ma subito dopo continua sottolineando che esse “devono tendere alla rieducazione [sociale] del consociato”. Così, pur riconoscendo attraverso l’umanitarismo penale il principio che nessun condannato deve essere trattato in modo disumano, è ancora una volta sulla dimensione sociale che si insiste, sottolineando che lo scopo della pena deve mirare al recupero sociale del detenuto. È il caso, infine, dell’art. 32 comma 2 (un comma spesso chiamato in causa nei recenti dibattiti bioetici) secondo il quale: “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti al rispetto della persona umana”. È vero che nel Progetto elaborato dalla Commissione dei 75 per l’Assemblea Costituente figurava un articolo 26, il quale, al comma 2, affermava che “sono vietate le pratiche sanitarie lesive della dignità umana”, ma questa formulazione non è stata alla fine accolta. Segno ulteriore del fatto che l’accento batteva comunque sulla dignità sociale e non sulla dignità umana. Non deve dunque sorprendere se negli anni immediatamente successivi alla sua promulgazione, la Corte Costituzionale abbia fatto un uso “oltremodo prudente e accorto” del concetto di dignità umana e se invece nella giurisprudenza ordinaria sono molteplici le pronunce in cui compare il riferimento alla dignità. La stragrande maggioranza di esse significativamente si preoccupa di salvaguardare la dignità del lavoratore. Certo oggi le cose stanno cambiando: sia la legislazione ordinaria che la giurisprudenza relativa, soprattutto con riferimento ad alcune questioni scottanti di bioetica, fanno sempre più riferimento alla dignità, ad un concetto tuttavia diverso da quello, spiccatamente sociale, emergente dalla Costituzione. 10 4. Elementi per una comparazione. Proviamo ora ad evidenziare quanto peraltro dovrebbe essere già emerso dalla mia esposizione, e cioè i diversi usi della dignità nelle due carte costituzionali. Per la Legge Fondamentale di Bonn la dignità ha un significato prevalentemente universalistico, è l’uomo in quanto appartenente al genere umano a possederla come una dote naturale che lo salvaguardia da ogni possibile strumentalizzazione; per la Costituzione italiana ha invece un significato prevalentemente particolaristico, nel senso che scaturisce dal riconoscimento per le prestazioni che il cittadino effettua nella società. Nel primo caso è la dignità dell’uomo la fonte da cui scaturiscono i diritti e l’organizzazione dello Stato, nel secondo è la sovranità di un determinato popolo. Mentre nel primo caso “dignità” è un valore assoluto che riguarda astrattamente l’uomo come fine in sé, nel secondo è un valore relativo che riguarda la sua concreta collocazione nel tessuto sociale. Tanto il primo significato di dignità è culturalmente in debito verso il giusnaturalismo moderno (da Pufendorf a Kant), quanto il secondo ci riporta, in fondo, all’antica nozione di dignità che emerge già nel mondo romano con Cicerone. È ben vero che già in Cicerone troviamo per la prima volta delineati entrambi i significati, ma poi nel pensiero filosofico, soprattutto per l’influsso decisivo del cristianesimo, l’accento si spostò sulla dignità come valore assoluto, mentre l’idea che la dignità scaturisse dalle azioni compiute da ogni singolo per il bene comune, pur non scomparendo, finì in secondo piano. Ebbene, è proprio questo secondo significato a diventare rilevante nella Costituzione italiana. Se per quella tedesca la dignità non si può né perdere né acquisire poiché l’uomo la possiede per il solo fatto di essere uomo, per quella italiana ciò è invece possibile, poiché essa non dipende dall’uomo in quanto tale, ma dal ruolo che egli assume nella società. Se la dignità è una qualità inerente all’uomo ciò comporta che essa dovrà essere tutelata e difesa da tutte le possibili aggressioni a cui può andare soggetta. La dignità presenta qui un carattere negativo (difesa da aggressioni) e individualistico (ogni singola persona dovrà essere protetta da persecuzioni, umiliazioni, infamie etc.). Se la dignità è connessa al ruolo che il cittadino ricopre nella società, ciò diventa un parametro per valutare eventuali diseguaglianze e discriminazioni sociali: ogni consociato ha infatti il diritto di svolgere un ruolo attivo all’interno della società e questo ruolo è pari per dignità a quello ricoperto da ciascun altro. Dignità, insomma, non è qualcosa di dato dalla natura umana che si tratta anzitutto di difendere, ma qualcosa da promuovere e da costruire rimuovendo, come appunto dice la Costituzione italiana, tutti quegli ostacoli che impediscono la piena realizzazione del cittadino. Ma la dignità non è soltanto un diritto, implica altresì l’adempimento di doveri di 11 solidarietà: primo fra tutti, quello di contribuire con il proprio lavoro al progresso della società. A quali differenti risultati si può giungere applicando concretamente i due approcci può essere messo in evidenza se ci soffermiamo su una delle questioni di bioetica più rilevanti. Attraverso il divieto di strumentalizzazione in Germania qualsiasi espianto di organi che avvenisse senza il consenso esplicito dell’interessato (o quantomeno dei suoi parenti) rappresenterebbe una violazione della dignità umana. Nel nostro Paese, invece, ci si era spinti sino al punto di ammettere per legge il principio del cosiddetto “silenzio-assenso informato”, anche se di fatto esso non è mai entrato in vigore. Beninteso, ho voluto qui intenzionalmente radicalizzare le differenze per meglio evidenziare i diversi usi della dignità nelle due Carte costituzionali. Il che non significa – come peraltro ho osservato – che non vi siano tracce anche nella nostra Costituzione di quel significato universalistico e assoluto della dignità che è l’aspetto qualificante della Costituzione tedesca. Né d’altro canto si può negare che pure la Menschenwürde venga messa in discussione quando l’uomo è costretto a vivere in condizioni economiche di povertà. Allo stesso modo, se è vero che l’accento nella nostra Costituzione batte sulla solidarietà, i diritti inviolabili dell’uomo vi vengono riconosciuti non solo in quanto parte delle formazioni sociali, ma anche “come singolo” (art. 2). E tuttavia le differenze restano: la Costituzione di Bonn può essere assunta a paradigma del modello di dignità come dote, la Costituzione italiana di quello fondato sulle prestazioni. Entrambi i modelli hanno punti di forza e di debolezza. Negli attuali dibattiti bioetici, per fare un esempio, la dignità come dote può certo garantire quella protezione assoluta della vita umana sin dal suo inizio embrionale e persino dopo la sua morte che la dignità come prestazione non è in grado di offrire. E nondimeno questo modello se per un verso, statuendo un divieto di strumentalizzazione, consente di tutelare integralmente la vita umana, per l’altro rischia di sfuggire ai difficili problemi cui concretamente sempre più spesso oggi ci pone la vita umana tanto al suo inizio, quanto alla fine. © Paolo Becchi, riproduzione permessa a soli scopi di studio e ricerca 12