OSPITE E NEMICO, LO STRANIERO AMBIGUO L`immigrazione

OSPITE E NEMICO, LO STRANIERO AMBIGUO
L’immigrazione rende inadeguata la logica dell’«aut aut»: la sfida, piuttosto, è nell’«et et»
«Bisogna partire dal mescolarsi, dal conoscere l’altro perché credo si debba arrivare
a una nuova coesione sociale, a una convivenza che rafforzi la cittadinanza intera».
Così Cécile Kyenge, ministro dell’Integrazione sociale, ha commentato gli episodi
di razzismo che hanno coinvolto Mario Balotelli. L’approccio suggerito dal ministro
ha il merito di tagliar corto con le polemiche di basso profilo, riportando la
discussione sul piano di un’analisi non appiattita sulla contingenza. E offrendo, sia
pure indirettamente, la possibilità di una riflessione più approfondita sulla figura
dello straniero. A cominciare dai termini impiegati per descriverla.
L’uso dell’espressione «straniero» implica una caratterizzazione esclusivamente
negativa, poiché allude a ciò che gli individui così designati non sono (originari del
nostro Paese) o a ciò che non hanno (la nostra lingua, la nostra cultura, la nostra
religione). Il termine si limita a registrare la loro «esternità» priva di ogni altro
connotato, salvo la stranezza, che conferisce una particolare tonalità alla parola sia
in italiano sia in francese (étranger) e in inglese (stranger). All’esteriorità s’aggiunge
così la difformità da ciò che è consueto, e che perciò suscita perplessità e sconcerto.
In molti casi, dunque, è «estraneo » o «straniero» quello che è anche percepito come
«strano».
Il primo effetto è l’oscuramento di ogni differenza tra lemolteplici identità
linguistiche, culturali e religiose di cui è costituita l’umanità che viene «da fuori».
Ciò che dell’«altro» il termine «straniero» ritiene pertinente è semplicemente la sua
non-appartenenza, rispetto alla quale ogni ulteriore nota distintiva appare
irrilevante o del tutto secondaria. L’anonimato in cui l’appellativo di stranieri
rigetta la varietà dei gruppi umani si riflette sulla natura della relazione che diventa
possibile entro tale orizzonte di senso, rendendola massimamente indifferenziata e
impersonale. L’atteggiamento dominante tende a rimuovere il dato fra tutti più
importante, vale a dire che lo straniero è ambivalente, è l’ambivalenza. È inevitabile
vivere la sua presenza, il suo arrivo, come una minaccia. Ma è altrettanto inevitabile
avvertire, nel cuore stesso del páthos che è inseparabile dal contatto con lui, che
quella pur ineliminabile minaccia è per me feconda, mi conferisce qualcosa che, pur
inconsapevolmente, attendevo da tempo, e di cui non potrei fare a meno. Posso
respingerlo, certamente. Ma contestualmente, se mi accingo a questo, percepisco
anche un mio profondo e irrimediabile depauperamento. Alla sua duplicità dovrei
saper rispondere con altrettanta duplicità. Dovrei riuscire a temerlo e a desiderarne
l’arrivo, a spalancargli le porte della casa, e insieme a tenerlo fuori da essa, a
respingerlo con fermezza, e contemporaneamente ad accoglierlo come se fosse una
benedizione.
Ad inquietarmi nel profondo è la consapevolezza dell’insuperabilità
dell’ambivalenza, il fatto che essa non dipenda da un «equivoco » provvisorio e
comunque «rimediabile». Sempre, in quanto straniero, egli mi apparirà
irriducibilmente doppio. Sempre minaccia e dono, non l’una cosa o l’altra. Anzi:
l’una cosa proprio in quanto è l’altra.
Di qui la difficoltà estrema in cui questa «visita» mi pone. L’alternativa paralizzante
di fronte alla quale mi situa. Rinunciare al dono per allontanare la minaccia, o
affrontare il pericolo per acquisire il dono? Un punto resta comunque assodato: di
fronte allo straniero, cede ogni possibile linguaggio dell’unicità. Più ancora: di
fronte a lui, la rassicurante e familiare logica dell’aut aut deve essere soppiantata da
una modalità di ragionamento basata sul ben più impegnativo et et.
Ciò perché l’hostis — originariamente, insieme ospite e nemico — non è mai
espressione di una dissomiglianza talmente radicale da poter essere considerata del
tutto indipendente dalla nostra identità. Al contrario, egli è piuttosto l’altro termine
di un binomio dal quale non posso prescindere. Nessuna compiuta identità può
essere de-finita, nel senso preciso di ciò che possiede chiari confini, senza un nesso
vitale con ciò che, essendo altro e diverso, concorre in maniera decisiva a stabilirla.
Come ha rilevato Jacques Derrida, dell’hostis non possiamo fare a meno: non
possiamo «scegliere» se accoglierlo o respingerlo, non più di quanto possiamo
scegliere di essere quello che siamo. Egli è legato alla nostra identità non solo in
quanto la determina positivamente, ma anche in quanto la minaccia dall’interno.
La figura stessa dello straniero esige la riformulazione dell’apparato concettuale
che è alla base della nostra quotidianità. Egli è dunque «extra-ordinario»
(extraordinaire étranger, lo chiama Baudelaire), perché con la sua sola presenza mette
in discussione gli ingredienti fondamentali della mia vita «ordinaria». E tuttavia la
piena consapevolezza del carattere maxime periculosum dell’incontro con lui non
può cancellare l’inderogabilità del rapporto, in una certa misura lo rende anzi
ancora più necessario. Nella minaccia in lui incarnata è immanente una promessa
alla quale non posso sottrarmi.
Umberto Curi
FONTE: CORRIERE DELLA SERA