Dispensa 65(Ravenna bizantina) - Corso di Archeologia

Ravenna romana e bizantina
Capitolo 8
Appunti a cura di Sandro Caranzano , riservati
ai fruitori del corso di archeologia presso
l'Università Popolare di Torino 2008-2009.
Lezioni tenute il 3 e il 10/02/2009 e di supporto al viaggio di studio a Ravenna
8.1. – Geografia del centro storico antico di Ravenna in chiave storica.
Il territorio ravennate è sempre stato interessato da due fenomeni diversi e concomitanti:
quello della subsidenza, cioè l’abbassamento naturale del terreno con il conseguente alzarsi
della quota della falda idrica, ed il progressivo allontanamento della linea di costa a causa
degli apporti dei fiumi che provocano contemporaneamente anche interramenti e innalzamenti di terreno. In conseguenza di ciò, gli strati antichi giacciono a profondità molto
rilevanti, ed il panorama attuale è completamente diverso da quello antico: la città che, in
epoca pre-romana e romana occupava parte di un dosso fra paludi, valli interne e il mar - e
che sappiamo era un tempo percorsa da numerosi corsi d’acqua così da poter essere definita
“la Venezia dell’antichità”- oggi è una città di bassa pianura, priva di significativi corsi
d’acqua e distante ben 8 km dal mare.
Le informazioni relative alla storia della città sono offerte, oltre che dalle testimonianze
archeologiche, dalle fonti storiche antiche, piuttosto rare per quanto riguarda l’epoca romana
ma molto più numerose per quella bizantina: per questo periodo più tardo la principale fonte
di informazioni è Andrea Agnello, lo storico del IX secolo che scrisse il Liber Pontificalis
Ecclesiae Ravennatis.
Venendo alle fonti più antiche, sappiamo che secondo Dionigi di Alicarnasso, Ravenna era
stata fondata ben sette generazioni prima della guerra di Troia; Strabone riferisce che i suoi
primi abitanti erano Greci provenienti dalla Tessaglia che sottoposti a continue vessazioni da
parte degli Etruschi abbandonarono la zona lasciandola in mano agli Umbri. Plinio il Vecchio
riconduce i primi abitanti della regione alla popolazione storica italica dei Sabini. Si tratta di
notizie che si sono formate, probabilmente su un substrato leggendario, poiché gli scavi
hanno dimostrato che, nel IV-III sec. a.C. la città presentava lo stesso panorama culturale del
resto della Romagna, con una popolazione presumibilmente di stirpe umbra che intratteneva
contatti commerciali con i vicini Etruschi e le genti celtiche: l’abitato sorgeva su un fitto vespaio di pali in legno lungo affacciati all’argine di un canale interno, secondo una tecnica di
consolidamento e di bonifica dei terreni paludosi che rimarrà inalterata fino al 1600.
Non si sa quando la città sia entrata nell’orbita di Roma; Cicerone riferisce che alla sua
epoca il popolo ravennate era “foederatus”. Probabilmente la città divenne municipio attorno
alla metà del I sec. a.C.
Sappiamo che Cesare vi si fermò prima di attraversare il Rubicone e procedere alla
conquista di Roma; in quest’epoca però la città doveva essere di scarsa importanza: presumibilmente era già dotata di un porto - forse fluviale – ed era collegata a Rimini – a sud – e ad
Aquiliea ed Altino – a nord - da una grande arteria, la via Popilia, costruita nel 132 a.C.. Era,
inoltre, attraversata dal fiume Padenna, una vena endolagunare con alcuni affluenti che
legava le valli interne, da nord a sud.
La situazione geografico-ambientale subì profonde modifiche con la creazione del porto
militare voluto dall’imperatore Augusto; nella zona in cui sorgerà poi Classe venne aperto un
collegamento artificiale fra le valli e il mare, con funzione di porto-canale. Il porto vero e
proprio era all’interno ed era ricavato da un invaso vallivo modificato - situato a sud-ovest
della città - e collegato a nord sia dal fiume Padenna, sia da un canale artificiale, la Fossa
Augusta, che per la maggior parte del suo tracciato doveva correre parallela alla via Popilia.
La città di Ravenna svolgeva le funzioni di centro politico e amministrativo; tutta la parte
della città collegata al porto venne praticamente ricostruita con un impianto stradale ortogonale su cui si affacciavano edifici con funzioni di rappresentanza. Particolarmente
significativa era la Porta Aurea, prospiciente il bacino portuale e fatta costruire dall’imperatore Claudio.
Le fonti parlano di altri monumenti esistenti in città, come alcuni templi e un circo. E’
anche presumibile l’esistenza di una grande ara dedicata alla gens Julia - di cui si conservano
due bellissimi rilievi figurati nel Museo Archeologico - mentre gli scavi hanno evidenziato
l’esistenza di un ponte in pietra, il pons Augusti, che collegava la parte nuova della città –
rigidamente ortogonale – con i vecchi quartieri dalla planimetria più irregolare situati
attorno all’attuale San Vitale.
Nella prima età imperiale, nella zona di Classe sorgevano edifici di abitazione isolati, forse
ville, ma attorno all’imboccatura del porto e lungo il canale si andava formando un
insediamento che sarà regolarizzato solo successivamente; non sappiamo ancora dove
fossero situati i “castra” - cioè l’accampamento militare permanente - anche se è presumibile
che fosse ubicato o nella zona di Classe o fra questa e Ravenna vera e propria.
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Si sa che le due zone, in epoca presumibilmente più tarda, erano collegate da una strada,
la via Caesaris, che diede nome al sobborgo di Cesarea.
Tutta l’antica linea di spiaggia, dalla zona immediatamente a nord della città fino
all’altezza della basilica di S. Apollinare in Classe, fu occupata da necropoli, nate in diversi
nuclei distinti nella prima epoca imperiale e successivamente congiuntesi. Le tombe erano
scavate nel dosso sabbioso. Le più antiche erano ad incinerazione e le più recenti ad
inumazione. Da questi cimiteri provengono le testimonianze archeologiche più consistenti
relative ai classiari, cioè ai marinai della flotta e alle loro famiglie, costituite soprattutto da
stele funerarie. Dall’onomastica riportata sulle stele è possibile ricostruire la composizione
dell’esercito e della popolazione classicana e ravennate, formata in massima parte da gente
proveniente dalle province orientali dell’impero romano - zona d’azione della flotta stessa -.
Il II e il III sec. d.C. fu sicuramente il momento di maggior sviluppo urbanistico di
Ravenna. Poiché la città era priva di acqua potabile, l’imperatore Traiano fece costruire un
acquedotto che la raggiunse seguendo il corso del fiume Ronco; è in questo stesso periodo
che probabilmente è da collocarsi la sistemazione della zona di Classe, con la creazione di un
efficiente sistema fognario che portò ad un notevole incremento urbanistico.
E’ presumibile che anche il porto di Ravenna e la città abbiano avuto un periodo di crisi in
epoca tardoromana, con l’interramento di parte degli invasi portuali, dovuto sia alla
subsidenza che alla mancanza di manutenzione. Nel corso del IV sec. siamo per esempio a
conoscenza dell’intorbamento del tratto urbano della Fossa Augusta. La situazione mutò
però radicalmente all’inizio del V sec. quando, a causa della minaccia costituita dai Visigoti,
comandati da Alarico, l’imperatore Onorio fu convinto da Stilicone a trasferire da Milano a
Ravenna la capitale dell’Impero d’Occidente e la sede della corte. La città era infatti circondata come era dall’acqua, facilmente difendibile da terra e capace di offrire collegamenti per
via marittima con Bisanzio, capitale dell’Impero d’Oriente; Ravenna venne così fortificata (è
possibile che le mura della città siano sorte in questo periodo o in quello appena precedente;
sembra infatti dimostrato che Porta Aurea - almeno originariamente - fosse un arco onorario
di accesso alla città); il porto venne risistemato e cominciarono a sorgere gli edifici destinati
alle necessità della corte e allo svolgimento delle nuove funzioni amministrative, oltre alle
grandi basiliche.
Il Cristianesimo dovette essere presente nel Ravennate fin dai tempi più antichi, portato
da quegli Orientali che costituivano la maggior parte dei componenti la flotta. Tuttavia,
poiché Ravenna e Classe non furono mai veramente distinte, è da considerarsi non provato e
soprattutto non credibile storicamente il fatto che la religione cristiana si sia sviluppata
originariamente solo a Classe e che solo successivamente sia passata nella città.
All’inizio del V sec. durante il regno di Onorio esistevano già certamente numerosi edifici
religiosi. Fu però dopo la sua morte e sotto il governo della sorella Galla Placidia – reggente
in nome del giovane figlio Valentiniano III - che Ravenna divenne uno dei più importanti
centri artistici e culturali dell’impero, funzione che mantenne e sviluppò soprattutto sotto il
successivo regno del goto Teodorico.
Nel 476 infatti, nella pineta di Classe, venne ucciso Paolo, zio dell’ultimo imperatore di
Occidente Romolo Augustolo. Il barbaro Odoacre si impadronì di Ravenna e la governò con il
titolo di re. Nell’ultimo decennio del V sec. Teodorico, re degli Ostrogoti, per incarico
dell’imperatore d’Oriente Zenone, prese la città dopo 3 anni di assedio reggendola fino alla
sua morte nel 526. il re goto pose mano alla costruzione alla ristrutturazione del palatium e
di altri edifici pubblici sulla Plateia Maior (la strada che aveva occupato all’interno della città
il posto della Fossa Augusta); restaurò l’acquedotto e pose mano alla costruzione di una
nuova cattedrale e di un battistero destinati ai Goti che appartenevano alla fede ariana. E’
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molto probabile che siano da assegnare a Teodorico la risistemazione del porto e i lavori di
restauro e di riurbanizzazione della zona di Classe documentati dalle fonti archeologiche.
Classe venne ad assumere l’aspetto riportato nel mosaico della “civitas Classis” all’interno
della chiesa di S. Apollinare Nuovo, con il circolo di mura, edifici monumentali ed il portocanale completamente in funzione.
Dopo la morte di Teodorico, le lotte scatenatesi all’interno della famiglia reale diedero
l’occasione all’imperatore d’Oriente Giustiniano per intervenire ed iniziare una campagna
per riconquistare l’Italia: nel 540 il generale Belisario conquistava Ravenna che diventava
così sede di un praefectus praetorius per l’Italia e perciò completamente dipendente da
Bisanzio. Contrariamente a quanto generalmente si crede, i due imperatori, Giustiniano e
Teodora, non vennero mai a Ravenna, il che non impedì però una nuova fioritura della città almeno nel primo periodo del dominio bizantino - con la costruzione di grandi basiliche sia a
Ravenna che a Classe. Tuttavia il porto, poco a poco, cominciò a perdere di efficienza con il
conseguente progressivo interramento e il continuo progressivo spostarsi verso est della
linea di costa.
La situazione di Ravenna divenne sempre più difficile con la conquista longobarda
dell’Italia settentrionale e centrale che ne provocò il completo isolamento. La città fu ridotta
esclusivamente a sede dell’esarca, cioè del governatore imperiale presso i possedimenti
bizantini. Fino al 751 però Ravenna rimase fuori dal dominio longobardo. Le fonti
tramandano di una distruzione di Classe imputabile agli stessi Longobardi, ma non ne sono
state ancora trovate le testimonianze archeologiche: sembra infatti che la zona portuale si sia
spenta a poco a poco, per abbandono progressivo e demolizione degli edifici per il riutilizzo
dei materiali.
Nel periodo ottoniani gli arcivescovi ravennati divennero grandi feudatari dell’Impero.
Successivamente, la città fu sede di un libero Comune e vi sorsero uno Studio e una scuola di
Ars Notoria. Il XII e il XIII secolo furono soprattutto interessati da continue lotte intestine
fra le famiglie, guelfe e ghibelline, finché nel XIII e XIV secolo si impose la famiglia dei
Polentani (fu un suo membro, Guido Novello da Polenta, che offrì ospitalità a Dante Alighieri
fino alla sua morte, avvenuta nel 1321).
Altre profonde modifiche nell’aspetto della topografia ravennate si ebbero con il dominio
della Repubblica di Venezia, durato dal 1441 al 1509;. I Veneziani, per difendere meglio la
città, ormai lontana dal mare e parzialmente circondata da terreno impaludato e non
praticabile, costruirono nell’angolo nord-est della cinta urbana la Rocca Brancaleone,
chiusero il corso del fiume Padenna e dei suoi affluenti, trasformandoli in fogne coperte.
Infine deviarono attorno alla città due fiumi - il Ronco e il Montone - che in precedenza si
immettevano liberamente nella valle (solo alla fine del ‘700 i due fiumi, che apportavano
rovinose alluvioni all’interno della città, furono deviati, uniti in un unico letto a sud di
Ravenna, formando così i Fiumi Uniti, e condotti a mare con una nuova bocca che venne
tagliata proprio quasi in corrispondenza dell’imboccatura del porto antico).
Nel 1509 Ravenna passò al Regno della Chiesa pur venendo assediata e messa a ferro e
fuoco nel 1512 dal re di Francia Luigi XII.
Nella risistemazione successiva alla Rivoluzione Francese Ravenna, persa la sua
importanza, non ottenne il grado di capitale della Romagna che venne dassegnato a Forlì.
Ritornata alla Chiesa nel 1815, continuò ad essere sede di legazione fino al 1860, anno in cui
si unì al Regno d’Italia.
La zona in cui erano sorti la città di Classe ed il porto rimase per lungo tempo di proprietà
dell’abbazia di Classe: era impaludata e di difficile coltivazione; dopo la deviazione dei Fiumi
Uniti, venne tenuta a risaia e progressivamente bonificata; vi erano però pochissime
costruzioni. La maggior parte degli edifici attuali è sorta negli anni ‘50, prima che i sondaggi
e gli scavi permettessero l’apposizione di vincoli archeologici.
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8.2. – Il mausoleo di Galla Placidia (V sec d.C.)
E’ molto dubbio se in questa piccola costruzione a croce latina sia stata sepolta l’Augusta
Galla Placida. E’ certa invece la sua originaria destinazione ad oratorio dedicato a S. Lorenzo
che a Ravenna godeva di particolare culto tanto da avere in città almeno tre chiese a lui
dedicate (San Lorenzo in Cesarea, S. Lorenzo in Posterula e San Lorenzo in Pannonia).
Il sacello detto di “Galla Placidia” era dunque collegato al nartece (anche detto ardica)
della Chiesa di Santa Croce (ancora visibile al di là della strada alle spalle del mausoleo stesso
ma in una versione “accorciata” per far spazio alla strada. Nel 1602, infatti, per creare
l’attuale via Galla Placidia, venne demolito il nartece ed accorciata la facciata di S. Croce,
rendendo così isolato il piccolo sacello di Galla Placidia.
All’interno un vano con volta a botte presenta un azzurro profondo, con decorazioni
circolari auree e corolle di bianche margherite che rischiarano la profonda quiete del cielo
color indaco. I mosaicisti che vi hanno lavorato non hanno certo dimenticato l’uso dei
romani di addobbare le pareti di edifici civili ed in particolare di quelli religiosi, con stoffe
preziose e variopinte. In fondo alla volta, l’intradosso centrale ornato con un festoni di fiori e
frutta, prorompente da un cesto di giunchi ad intreccio dorato, di incredibile freschezza:
mele, uva, melagrane. Alle spalle, sopra la porta d’ingresso, il Buon Pastore, dal volto sereno,
giovane e senza barba: con la tunica d’oro, il manto purpureo, la grande croce ed il grande
nimbo d’oro sta assiso sulle rocce fra sei pecorelle. Il paesaggio è soffuso di pace, ricco di
piante e fiori. La sua collocazione all’ingresso ha un chiaro significato allusivo: solo
attraverso il Cristo si raggiunge la pace eterna. La lunetta è un vero e proprio quadretto
chiuso in se stesso che potremmo paragonare a uno di quegli emblemata inserita nelle grandi
composizioni musive dell’età pagana.La rappresentazione molti dei caratteri tipici delle
rappresentazioni dell’età ellenistica. Le rocce poste sullo sfondo non sono appiattite alle
spalle del pastore perché quest’ultimo appare come immerso nel paesaggio. La figura del
Buon Pastore compie anzi una sorta di torsione del tronco che gli permette, assieme alle
pecore circostanti, di occupare uno spazio tridimensionale. L’orizzonte del mosaico, anche se
piuttosto basso e con alberi proiettati contro il cielo azzurro, evoca in modo convincente
l’idea dello spazio aperto. Le pecore sono invece sfalsate tra di loro a gruppi di tre ed
equilibrano la scena. Quello che si vuole qui esprimere è un idillio pastorale. Lo storico
dell’arte Kitzinger ha notato come l’ambiente sia molto più vicino al quadro da cavalletto
piuttosto che alle composizioni ariose che troviamo nella tradizione paleocristiana.
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Nella lunetta di fronte, S. Lorenzo con la croce del martirio sulle spalle si dirige
speditamente verso la graticola, come narra una parte dell’agiografia cristiana. La figura di
San Lorenzo, come quella del Buon Pastore, non è isolata sul fondo neutro perché il
mosaicista ha costruito un breve spazio tradizionale che sfonda la cornice della lunetta. La
tridimensionalità non è pero costruita su un orizzonte ma sfruttando brevi scorci come quello
dell’armadio contenente i Vangeli o le diagonali della graticola. Anche la volumetria del
Santo è caratterizzata da un panneggio di tradizione classica e scorci tridimensionali.
In corrispondenza della cupola, una croce d’oro con la base rivolta a levante, in un cielo
stellato d’oro. Ai lati, nei pennacchi, i simboli dei quattro evangelisti pure d’oro, depositari
della Nuova Rivelazione, emergenti fra cirri colorati: il Leone di San Marco, il Bue di S. Luca,
l’Aquila di S. Giovanni e l’Uomo di Matteo.
L’uso di raffigurazioni simboliche quali il leone, il toro, l’aquila e l’uomo ha radici
antichissime che il Cristianesimo ha ripreso dalla mitologia pagana orientale. San Marco
inizia a narrare parlando del leone, S. Luca esalta il sacrificio di cui il bue è il primo
rappresentante, San Giovanni che vede nell’aquila il dominio del cielo e della
contemplazione, San Matteo che ci ha parlato soprattutto di Cristo uomo. L’artistamosaicista ha poi reso il cielo più profondo digradando, in un gioco prospettico, le stelle che
da gigantesche - attorno ai quattro simboli degli Evangelisti - rimpiccioliscono attorno alla
Croce. In basso, nelle lunette del tamburo sono posti gli apostoli a coppie, su un fondo
indaco, con la toga bianca in atteggiamento di acclamazione alla Croce che li sovrasta.
Riconosciamo nella lunetta dl sinistra, San Paolo e San Pietro. Ai piedi hanno tutti un vaso
od una piccola fontana dove bianche colombe si dissetano. Le anime alla ricerca della pace
eterna cercano refrigerio e si dissetano alla fonte della salvezza.
Le colombe, il pesce (il più antico simbolo cristiano), le palme rappresentano nella
simbologia cristiana motivi ricorrenti. La colomba è annunciatrice della pace celeste (ed
allora reca anche il ramo d’ulivo), è l’immagine dell’anima cristiana, per la sua ingenuità e
dolcezza; è invece l’immagine dell’anima che ha conquistato il Regno dei Cieli quando porta
tra il becco il lauro.Sui bordi, tralci di vite a ricordare l’intima unione fra Cristiani e Cristo (io
sono la vite e voi i tralci...).
Nelle lunette dei bracci laterali due cervi dalle grandi corna, avvolti quasi da volute di
acanto si abbeverano. Sono i catecumeni che trovano refrigerio nell’acqua del Battesimo con
chiaro riferimento al Salmo 42. Ancora una volta la simbologia cristiana ci raffigura la
salvezza nell’acqua di una fonte la cui superficie è increspata da tenui onde. Le figure
mantengono una tradizionalità tipica della tradizione classica che non troveremo più nei
mosaici ravennati dell’età di Giustiniano.
All’interno della “cappella” sono riconoscibili tre grandi sarcofagi imperiali; è considerato
il sarcofago di Galla Placidia quello di fronte all’ingresso. E’ certamente il più importante
anche se apparentemente rozzo e non finito, perché sepolcro romano riutilizzato. Diversi
buchi profondi sul fronte ci fanno ritenere che servissero per trattenere grappe destinate a
bloccare marmi e metalli preziosi. Sul fronte e sul retro due impronte di «tabulae» ansate
mai scolpite.
Il sarcofago di sinistra, è considerato, forse a torto, luogo di sepoltura del generale
Costanzo III, marito dell’Augusta Galla Placidia; sul fronte scolpiti due agnelli con gli
apostoli Pietro e Paolo e sul monte, l’Agnello Mistico nimbato, con il monogramma di
Costantino. Dal Monte del Paradiso scendono i quattro fiumi.
Il sarcofago di destra, con coperchio a baule, viene legato al nome di Valentiniano III,
figlio di Galla Placidia e di Costanzo III, o, talora a quello di Onorio, fratello di Galla Placidia.
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Il fronte, diviso da tre edicole: di derivazione pagana, raffigura l’Agnello Mistico (come
nell’altro di Galla Placidia) sul monte Paradiso, con due colombe sulla croce. Tutte le
attribuzioni sono del tutto induttive perché i documenti antichi non ci informano di nulla e
mancano del tutto le iscrizioni.
8.3. – Basilica di S. Vitale (VI sec d.C.)
Iniziata sotto il dominio dei Goti nel 527 dal vescovo Ecclesio, fu portata a termine dal 548
vescovo ravennate Massimiano che la consacrò il 17 maggio 548 sotto il dominio bizantino.
La Basilica di San Vitale rappresenta uno straordinario esempio di architettura bizantina
filtrata dalle esperienze costruttive romano-ravennati in cui l’arditezza della costruzione e la
funzione decorativa dell’apparato musivo si completano in un risultato unico al mondo. Vi si
identificano elementi costruttivi della tradizione romana (tecnica della cupola, l’atrio a
forcipe le torri scalarie), ma vi si ritrovano anche elementi di chiara origine bizantina come i
capitelli, le transenne e l’abside poligonale.
Finanziò la costruzione dell’edificio un tale Giuliano l’argentario (un banchiere) che pagò
ben 26.000 solidi d’oro per la costruzione della Basilica. Molto si è parlato di questo
misterioso personaggio, e, data l’enorme somma spesa per l’edificazione sia di S. Vitale che di
S. Apollinare in Classe è possibile che egli rappresentasse la lunga mano dell’imperatore
Giustiniano in occidente.
La Basilica è a pianta centrale, sormontata da una cupola
ottagonale. A lato dell’abside (1) si trovano una serie di
piccoli ambienti (sia quadrangolari che a pianta circolare) in
cui dobbiamo riconoscere la prothesis (2) ed il diaconicon
(3). Le finestre erano in origine chiude da vetri colorati
discoidali di cui sono stati trovati campioni durante alcuni
scavi e che ora si conservano nel Museo Nazionale.
Tipici dell’epoca giustinianea sono i mattoni, sottili, di
circa cm. 4 di spessore, fissati con uno strato di calce dello
stesso spessore. Il campanile, sopraelevazione di una delle
due torri scalari, risale forse al sec. X. Semidistrutto dal
terremoto del 1688 fu ricostruito poco dopo e restaurato a
cavallo del XVIII sec.
I grandi contrafforti che hanno lo scopo di contenere la
spinta delle volte risalgono al X sec. L’ingresso alla Basilica
non è quello primitivo che avveniva attraverso il quadriportico ora coperto dal secondo chiostro cinquecentesco
del Museo Nazionale;. Qui è infatti visibile, dall’inizio del secolo, l’ardica (4) spoglia però, degli originali marmi e
curiosamente obliqua rispetto all’asse della Basilica. Tale
obliquità è stata spiegata anche dalla necessità di inglobare
precedenti sacelli. La cupola, di 16 metri di diametro, è stata
costruita, come diversi altri monumenti dell’epoca, con tubi
fittili posti orizzontalmente e inseriti l’uno dentro l’altro. La
tecnica, di chiara marca bizantina e mediterranea,
permetteva una costruzione veloce e dinamica della cupola
senza la necessità di dispendiose centine in legno.
All’interno, gli otto grandi pilastri creano altrettanti nicchioni su cui grava la cupola
affrescata nel XVI sec. e poi ridipinta integralmente nel 1780 dai bolognesi Ubaldo Gandolfi e
Serafino Barozzi. Gli affreschi furono terminati dal veneto Giacomo Guarana, creando un
notevole contrasto con i mosaici. Gli otto grandi nicchioni (7) sono occupati, in alto,
dall’ambulacro superiore o matroneo (vi si accede dalla torre scalaria - 24) che si interrompe
in corrispondenza del presbiterio.
I capitelli del loggiato inferiore, a forma di paniere scolpiti a foglie di loto, hanno sui
pulvini monogrammi variamente interpretati. Iniziando dall’intradosso vediamo, affrontati
in un ideale concetto di Offertorio, i medaglioni con i busti del Cristo, al centro dell’arco, dei
dodici apostoli, di S. Gervasio e di S. Protasio che la leggenda dice
figli del centurione S. Vitale e della S. Valeria; sono vestiti del
pallio e della tunica. Esempio della fertilissima fantasia del
«pictor imaginarius» sono i delfini verdi intrecciati sotto ogni
medaglione in una composizione di raro equilibrio e gusto. Il tutto
è incorniciato da motivi decorativi di eccellente qualità cromatica.
La rappresentazione del delfino, mite abitatore delle onde, ha il
significato di salvezza. Nella volta a vela spicca il medaglione
centrale fatto a guisa di ghirlanda di foglie, mele e pere e l’Agnello
Mistico nimbato su un fondo di stelle d’oro.
Questo medaglione è sorretto da quattro angeli,
letteralmente sommersi da lussureggianti foglie d’acanto
vivacizzate da una moltitudine di animali, i più svariati, dall’anatra
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all’asino, dal gallo alla rondine. Agli angoli, quattro pavoni mostrano la splendida coda,
aperta a ventaglio. Il pavone, nella simbologia cristiana, rappresenta la Resurrezione poiché
ogni primavera rinnova lo splendore del manto, ed è anche il simbolo della immortalità
perché la sua carne era ritenuta imputrescibile. Dopo il terremoto del 17 luglio 1781 una parte
della volta cadde e lo stesso affrescatore della cupola fu incaricato di imitare il mosaico.
L’operazione fu rifatta nel 1922 dal maestro restauratore ravennate Zampiga e nel 1963 vi
lavorarono i restauratori del Gruppo Mosaicisti di Ravenna. Il risultato finale dell’operazione
restaurativa con il completamento a tempera, permette una visione completa ed esaustiva
dell’intera decorazione originale. Le due pareti laterali sono caratterizzate da una levità
straordinaria dovuta alle due trifore arricchite dal capitelli finemente traforati, che danno
respiro alle due grandi campiture musive.
Nella lunetta di sinistra due episodi della vita di Abramo: gli Angeli assisi a mensa (4),
sotto un frondoso albero di quercia (8) annunciano ad Abramo (3) la nascita del figlio Isacco,
mentre Sara, sulla porta della capanna (2), sorride col dito alla bocca in segno di stupore.
Nell’altra scena accanto, il Patriarca Abramo (6) si appresta, spada alla mano, ad effettuare il
sacrificio dello stesso figlio, mentre la mano di Dio scende a fermare il braccio armato (8).
E’ interessante notare la ricchezza dei particolari e la completezza delle immagini che non
lasciano alcun vuoto; ovunque alberi e fiori, anticipatori dei grandi prati fioriti della Basilica
di Sant’Apollinare in Classe.Nei rinfianchi il profeta Geremia da una parte (11), e dall’altra
Mosè che riceve le tavole sacre sul Monte Sinai (9). Sotto, Aronne, fratello di Mosè, con i capi
delle dodici tribù d’Israele in sommossa (10).
La decorazione sulla superficie attorno alla trifora superiore, formata da due splendide
colonne di onice, con capitelli e pulvino rappresenta gli Evangelisti, Luca a destra sovrastato
dal simbolo apocalittico del bue e a sinistra Giovanni con l’aquila. Il paesaggio è rupestre. A
differenza delle raffigurazioni analoghe del Mausoleo di Galla Placidia, qui il bue e l’aquila
sono rappresentati per intero superando quindi l’attributo zoomorfo. Nella lunetta di destra,
il sacrificio di Abele (1) che, uscendo da una capanna, coperto da una pelle di animale e da un
manto rosso, fa l’offerta dell’agnello. Dall’altra parte dell’altare, arricchito da una grande
tovaglia bianca, Melchisedech (2), vestito da sacerdote, offre pane e vino, nell’atto di uscire
da tempio. Nei rinfianchi, Mosè che conduce il gregge del sacerdote Jetro (4) e Mosè che si
appresta ad entrare nel roveto in fiamme, togliendosi i calzari (5). A destra il profeta Isaia.(6)
Attorno alla trifora superiore S. Matteo a sinistra e S. Marco a destra con penna e calamaio,
con i rispettivi simboli, l’uomo alato e il leone. Anche qui un tocco naturalistico: rocce, pozze
d’acqua e perfino una tartaruga che nuota tra i piedi di un airone.
Le colonne della
trifora superiore, sempre di onice, hanno il pulvino con un medaglione in rilievo con il
monogramma di Giuliano l’Argentario, il finanziatore della Basilica.
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La parte superiore dell’estradosso absidale con la bella trifora è rigogliosa di tralci di vite
che escono da due vasi e scendono in due panieri; più in basso due Angeli in volo che reggono
un grande cerchio variopinto con sette raggi che provengono dall’alfa centrale. A destra e a
sinistra, rispettivamente, le mura gemmate di Betlemme e Gerusalemme, precedute da due
verdi cipressi. Ritroviamo quindi la simbologia di S. Apollinare in Classe, in quella identificazione nelle due città che rappresentano l’arco della storia della salvezza dell’uomo.
La decorazione musiva della conca absidale, a differenza di quella del presbiterio che è di
chiara influenza romano-ellenistica, risente, nello stemperare del grande fondo oro,
dell’influsso di Bisanzio.
Il sottarco è ornato da cornucopie accoppiate ed incrociate, uccelli e fiori. Il catino
absidale ha al centro il Redentore, giovane ed imberbe, con in mano il rotolo dei sette sigilli,
seduto sul globo celeste (il Creato); ha ai fianchi due angeli ed offre la corona della gloria del
martirio a S. Vitale (alla sua destra) vestito di una splendida clamide (S. Vitale fu
martirizzato sotto Diocleziano e le sue reliquie furono riesumate alla presenza di S.
Ambrogio). A sinistra il vescovo Ecclesio, promotore della edificazione della Basilica, in atto
di offrire la chiesa a Cristo; nelle mani tiene, infatti, un modello della chiesa stessa. Il prato,
raffigurante il giardino celeste, ricco di fiori con i quattro fiumi stilizzati sotto forma di un
intreccio ed il cielo cosparso di cirri multicolori sono la rappresentazione del mondo
paradisiaco. Tutta la complessa composizione è perfettamente inserita nella grande
superficie dell’abside. In basso i due notissimi e celebrati pannelli musivi dell’Imperatore
Giustiniano a sinistra e dell’Imperatrice Teodora a destra.
L’imperatore, con una pàtera d’oro in mano, il manto purpureo ed il nimbo, simbolo del
potere imperiale d’origine divina, va verso il luogo del sacrificio preceduto dall’arcivescovo
Massimiano, rappresentante della politica religiosa imperiale, che reca in mano una grande
croce e veste un pallio a stola. Un diacono regge i Vangeli ed il suddiacono s’avanza con
l’incensiere. La scena, che è stata certamente fatta eseguire da Massimiano, ha un carattere
cerimoniale e simbolico atto a confermare la pietà e la devozione al culto dell’imperatore
Giustiniano e dell’Imperatrice Teodora.
In questa immagine, dunque, autorità imperiale di Bisanzio e Chiesa di Ravenna, sono
così unite in un unico omaggio. Massimiano (3) - identificabile per la scritta - dalla dalmatica
ampia e cadente, è stato ritratto in modo particolarmente caratterizzato (alto, semicalvo, viso
scavato, occhi azzurri). Il maestro mosaicista che lo immortalò ebbe senz’altro la possibilità
di guardare di persona e attentamente questa importante figura. Massimiano diacono di Pola
e successore del vescovo ravennate Vittore fu consacrato nel 546 da Papa Virgilio e nominato
dall’imperatore Giustiniano, responsabile delle diocesi di Milano e Aquileia. Si è pensato che
il personaggio tra Massimiano e Giustiniano, fosse Giuliano l’argentario e che il dignitario a
sinistra dell’Imperatore fosse il generale Belisario, vincitore dei Goti.
L’imperatrice apre il corteo. Anche lei ha il capo circondato dal nimbo, simbolo del potere
d’origine divino. In mano reca un calice ricoperto di gemme e pietre preziose, mentre un
cortigiano le solleva la tenda e mostra l’acqua zampillante della fontana.
La ricchissima veste purpurea di Teodora abbonda di ricami dorati. Quelli del bordo
inferiore rappresentano i tre Re Magi con l’offerta dei doni.
Un diadema costellato di madreperle completa l’immagine del fasto della corte di
Bisanzio. Dietro il capo di Teodora una nicchia conchigliata è simbolo cristiano di
immortalità. Accanto a Teodora si trovano altre figure di donna che la tradizione vuole siano
Antonina, moglie del generale Belisario e la figlia Giovannina.
Sempre nell’abside, nella parte inferiore, sotto le tre finestre, si trovano riquadri ad intarsi
marmorei, smalti vetrosi, ori e madreperle intervallati da pilastri in serpentino verde. La
prima e l’ultima lastra sono originali; le altre sono bei rifacimenti dell’inizio del secolo ad
opera dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze. Ai lati di ogni pannello, il monogramma di
Giuliano l’Argentario, il banchiere finanziatore della Basilica di cui si è parlato all’inizio.
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L’altare ha una mensa di alabastro di bella trasparenza, ricomposto nel 1898 e proveniente
dalla vicina Chiesa di S. Croce, edificio fatto costruire da Galla Placidia nel 425.
Le due composizioni marmoree alla base dell’intradosso di fianco all’altare sono del XVI
secolo; sono formate da due bassorilievi pagani romani rappresentanti il Trono di Nettuno e
da splendide colonne, di cui una di preziosa breccia verde d’Egitto, che sostenevano l’antico
ciborio o baldacchino dell’altare.
Fra il 2° e il 3° pilastro, a sinistra dell’entrata un incavo nel pavimento (il cosiddetto
pozzo) è costantemente invaso da acqua di falda. E considerato l’originale luogo di sepoltura
delle reliquie di S. Vitale. Nel 1912 vi sono state rinvenute infatti tracce del sacello originario
del V sec. con pavimento a mosaico, il basamento dell’altare e l’altare stesso con il pozzetto
delle reliquie del Santo. L’attuale basilica incorporò l’antico sacello del Santo Martire Vitale.
A sinistra dell’ingresso si trova un sarcofago con coperchio a baule del V secolo detto
dell’Esarca armeno Isacio; sul fronte una rappresentazione, ad alto rilievo, insolita per l’arte
funeraria ravennate: i Re Magi, col berretto frigio ed il mantello svolazzante, recano doni alla
Madonna e a Gesù, mentre una stella brilla in alto. Ai fianchi Daniele fra i leoni e il miracolo
della resurrezione di Lazzaro, sul retro due pavoni ed il monogramma di Cristo.
8.4. – Basilica di S. Francesco o degli Apostoli (VI sec d.C.)
La Basilica di S. Francesco risale al tempo del vescovo Neone a cavallo del V secolo e fu
dedicata agli Apostoli: sotto il pavimento nel presbiterio fu infatti trovata la tomba di Neone.
Della costruzione originale, in particolare dell’abside, furono trovati i tubi fittili di epoca
tardo-romana. Anche qui i mosaici che rappresentavano San Pietro e San Paolo sono scomparsi perché la chiesa fu rifatta e consacrata a S. Pier Maggiore circa verso l’anno 1000.
L’antica pavimentazione si trova ad oltre m 3,50 di profondità. A testimonianza
dell’importanza dell’edificio ricordiamo che nel 1879, durante lavori di scavo, fu rinvenuta
una tomba di prezioso marmo greco ed i resti di un ricco diadema d’oro e perle, trafugate poi
assieme alla cosiddetta “corazza di Teodorico” dal Museo Nazionale.
Nel XVII e sul finire del XVIII sec. fu ulteriormente manomessa; il più nefasto intervento
fu però quello settecentesco con cui perfino i capitelli originali furono scalpellati per essere
ricoperti con stucchi colorati; quelli attuali sono di scagliola. Il nome attuale risale al 1261
quando l’arcivescovo Fontana la concesse ai Frati Francescani. E scomparsa l’ardica che
abbelliva la facciata, ne è rimasta traccia a destra in quella parte denominata Quadrarco di
Braccioforte. Solamente in occasione del seicentesimo della morte di Dante Alighieri (1921)
la chiesa fu restaurata e riportata alle sue forme più pure. L’importanza di questa chiesa è
legata tuttavia al nome di Dante che qui veniva ad inginocchiarsi per la preghiera. Qui ebbero
luogo nel 1321 i suoi solenni funerali e qui vicino ha sede il suo sepolcro.
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Il campanile, rettangolare, è alto m. 32,90, attribuito al IX sec. è alleggerito con una bifora
una trifora e con una quadrifora più tarda. L’interno, quasi spoglio, è a tre navate con 24
colonne di marmo greco. Non è improbabile che dette colonne (due con iscrizioni pagane)
siano quanto resta del tempio di Nettuno; i pulvini sono antichi, mentre i capitelli, come
sopra detto, sono stati abilmente eseguiti dal ravennate Galassi in scagliola dal calchi tratti
da due originali capitelli rimasti quasi intatti (prima colonna a destra ed a sinistra dell’altare
maggiore). Il soffitto trecentesco in legno, a chiglia di nave rovesciata, a quadri colorati, è
stato ampiamente restaurato nel 1921. La mensa dell’altare maggiore appoggia su un
interessante sarcofago della fine del IV secolo, detto dell’arcivescovo Liberio con 14 figure di
Apostoli e Cristo. La suggestiva Cripta del X secolo, costantemente sommersa da una grossa
falda acquifera ha un mosaico pavimentale con due epigrafi musive in greco ed una in latino
di marmo policromo. E stato restaurato nel 1973 dal Gruppo Mosaicisti di Ravenna con
tecniche d’avanguardia. L’iscrizione in greco si ritiene abbia ricoperto la tomba originale del
Vescovo Neone.
La basilica conserva un sarcofago della fine del IV sec. con piedi leonini, lavorato in altorilievo. Sul fronte presenta 5 edicole con colonne a spirale; nella nicchia centrale il Cristo
nella posizione della Traditio Legis in cui è riconoscibile S. Paolo che la tradizione vuole
ampiamente stempiato. Su questo sarcofago s’innalza l’arco acuto della Cappella Polentana (i
Polentani furono signori di Ravenna dalla fine del XIII a metà del XV sec.).
8.5 - Museo arcivescovile e cattedra di Massimiano
Il Museo e la Cappella Arcivescovile si trovano al piano superiore l’archivio Arcivescovile
ove, tra l’altro, sono raccolti papiri e pergamene - alcune del VIII sec. – che rappresentano un
importante patrimonio per la storia della chiesa ravennate e della città.
Nella prima sala, di fronte all’ingresso, sono collocati i lacerti musivi (gli unici rimasti)
provenienti dalla decorazione fatta eseguire nel 1112 dal vescovo Geremia al posto della
precedente decorazione sempre a mosaico nella Basilica Ursiana; la Basilica Ursiana fu
edificata nel 384 e demolita nel 1734 dall’architetto Gianfrancesco Buonamici per far posto
all’attuale Duomo. I mosaici rappresentano - al centro - la Madonna Orante con a destra le
teste di S. Pietro, San Giovanni e di un soldato o di un discepolo; a sinistra si vedono San
Barbaziano e S. Ursicino.
Sulla parete di sinistra, in alto, si trova una lastra di marmo di forma quasi quadrata. Vi si
trovano incisi in un cerchio 19 settori: si tratta del calendario liturgico per il calcolo della
Pasqua per un periodo di 94 anni e precisamente dal 532 al 626. Era consuetudine in quel
tempo costruire il calendario liturgico della Pasqua richiamandosi al calendario ebraico.
Lo stesso ambiente conserva inoltre un ambone di marmo proveniente dalla Chiesa dei SS.
Giovanni e Paolo che ripete il modulo decorativo del pulpito del Duomo del vescovo Agnello .
In realtà presenta dimensioni più modeste e fu eseguito in epoca posteriore (597).
Di grande interesse è soprattutto la splendida Cattedra d’Avorio dell’Arcivescovo
Massimiano (sec. VI), come deducibile dal monogramma scolpito nel bancale che va letto:
«Maximianus Episcopus». Sotto la seduta, anteriormente, cinque formelle in avorio
intagliato raffigurano S. Giovanni Battista ed i quattro Evangelisti in posture di chiara
derivazione classica. Tutti i pannelli in avorio sono inseriti in una preziosa incastellatura
rivestita di avorio e decorata a racemi di vite, pavoni, cervi ed uccellini
Sullo schienale formelle in avorio raffigurano i dodici episodi della vita di Gesù; nei fianchi
dieci pannelli, cinque per parte, raccontano la storia di Giuseppe l’Ebreo. Il tutto è racchiuso
con fasce trasversali e verticali ricche di volute di piante, leoni, cervi e pavoni, anche questi di
gusto prettamente orientale.le formelle qui riprodotte rappresentano l’annunciazione, il
sogno di Giuseppe, il viaggio a Nazareth, la natività, l’Epifania e i re Magi. Tutte le scene pur
espresse sinteticamente sono ricche di calore e umanità. Maria, madre divinità, manifesta i
sentimenti di una donna e non di un essere sovrumano. Essa per esempio manifesta stupore
nell’Annunciazione, si appoggia a Giuseppe nella fuga in Egitto e appare spossata nella
Natività, dolce nell’adorazione dei Magi quando tiene l’infante con una mano e piega su di lui
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la testa. L’esecuzione è attribuibile a scuola alessandrina del VI sec. o più genericamente
all’arte egiziana dello stesso periodo. Alcune formelle sono state recuperate in varie città
d’Italia alla fine del secolo scorso e restaurate nel 1956 dall’Istituto Centrale del Restauro di
Roma. Le parti mancanti sono state ricoperte da pergamena leggermente pirografata.
8.6 – Battistero Neoniano (IV-V sec d.C.)
Ad alcuni metri dal Museo Arcivescovile e a lato del Duomo si trova il Battistero
Neoniano, chiamato poi degli Ortodossi, per distinguerlo da quello degli Ariani fatto erigere
circa cinquanta anni dopo, al tempo dell’ariano re ostrogoto, Teodorico.
L’edificio fu forse costruito riadeguando i muri di una sala a pianta centrale che faceva
parte delle antiche terme . L’opera fu curata dal vescovo Orso fra la fine del IV e l’inizio del V
secolo con lo scopo di dotare di un battistero la sua nuova Basilica (distrutta nel 1734 per
edificare l’attuale Duomo). Ad essa era certamente congiunto attraverso un ambulacro
anulare ed altri corpi di fabbrica quali il catecumenium, il consignatorium ed il vestiarium
ovvero quegli ambienti ove avveniva il complesso rito del battesimo. Qui i catecumeni si
spogliavano, si lavavano e venivano unti di olio; seguiva poi il battesimo con l’immersione
nella vasca battesimale ripetuta tre volte non prima di aver rinunciato a Satana ed essere
stati esorcizzati. Fu il vescovo Neone che verso la fine del V secolo terminò la costruzione,
aggiungendovi probabilmente la cupola al posto di un soffitto a lacunari. La cupola fu
eseguita, come molti edifici dell’epoca, nella parte inferiore con tubi fittili inseriti l’uno dentro l’altro con una gettata di calce e pomice vesuviana in corrispondenza della sommità della
volta. Lo stesso Neone provvide a far decorare la cupola con gli attuali mosaici. Il piano
primitivo è rintracciabile alla profondità di circa 3 metri; di conseguenza non sono più
visibili, perché interrate, le porte aperte nelle quattro absidiole che aggettano dalla costruzione. E evidente quindi che le proporzioni sono oggi alterate e falsate; in particolare all’interno,
il piano di calpestio rialzato toglie slancio a tutta la costruzione ed alla decorazione musiva.
A livello del piano stradale sono visibili gli archi di scarico, alternati
agli estradossi dei quattro nicchioni; più in alto le finestre con arco a
tutto sesto e due lesene per ogni lato dell’ottagono. E’ il caso di
sottolineare che l’edificazione del battistero in forma ottagonale (tipica
anche dei battisteri ambrosiani) non è casuale ma si lega
simbolicamente ai 7 giorni della creazione del mondo e all’ottavo
giorno, quello della resurrezione e quindi della Vita Eterna.
Il mosaico della parte centrale della cupola raffigura San Giovanni
Battista che battezza il Cristo, parzialmente immerso nell’acqua del
Giordano, (identificabile dalla scritta), personificato da un vecchio che
reca in mano un drappo e nell’altra una canna palustre. Interessante
l’efficace soluzione dell’acqua che copre come un velo la parte immersa
del corpo dei Cristo. Occorre notare che nella parte rifatta, a metà del
secolo scorso, dal romano Felice Kibel, il restauratore ha introdotto
motivi iconografici completamente errati. E completamente inventata
la pàtera con la quale Giovanni Battista versa l’acqua lustrale sul capo
di Cristo. Nel primitivo mosaico Giovanni Battista poneva
semplicemente la mano sul capo a Cristo, come prevede, d’altra parte, il battesimo per
immersione (la stessa scena si vede corretta nel battistero degli ariani). Anche la croce gemmata è un’aggiunta di epoca imprecisata.
Nella prima fascia sottostante, la Chiesa, personificata dal dodici apostoli. Ognuno è
individuabile dal nome scritto accanto al capo; la mano, coperta da un velo, secondo il rito
liturgico, reca una corona, simbolo del martirio. Il movimento della teoria degli apostoli ha
un effetto solenne, di cerimonia, in cui il corteo, partendo da due direzioni opposte, si
incontra con Pietro e Paolo. La
processione ci ricorda i cicli trionfali
di epoca imperiale anche ma i
personaggi di alta dignità palatina
sono stati sostituiti da santi che
glorificano il trionfo del Salvatore.
La successiva decorazione, con
ricche architetture illusorie che
ricordano gli affreschi pompeiani, è
ripartita fra otto cibori od altarini
con plutei e transenne che
presentano
alternativamente
i
quattro vangeli ed il trono. Al trono,
di per sé simbolo di sovranità, si
aggiunge il completamento cristiano
della Croce di Cristo con allusione
alla etimasia dell’Apocalisse.
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Le otto lunette in cui si aprono le finestre hanno la parte superiore decorata con stucchi del
V secolo abrasi alla fine del secolo scorso ma rifatti a tinta neutra. Il grossolano errore di
considerare questi stucchi aggiunte seicentesche è stato all’origine di questo intervento
distruttivo. A destra ed a sinistra delle finestre, invece, si osservano i resti degli stucchi
originali. Si tratta delle edicole dei Profeti del Vecchio Testamento con tunica laticlavata e
pallio. Sopra il timpano delle stesse edicole si vedono varie scene del Vecchio Testamento:
Daniele fra i leoni, Cristo e S. Paolo in una scena di Traditio Legis, Cristo che calpesta il
serpente ed il leone, Giona. Queste opere, trascurate spesso dalla critica, rappresentano un
prodotto di ottima qualità e coerenza con il resto dell’edificio, tenuto conto che anch’esse
erano colorate. Le arcate sottostanti, che poggiano su otto colonne con capitelli di stile corinzio e italo-bizantino, presentano un arabesco in mosaico di foglie di acanto, rifatto all’inizio
del secolo. Tre delle quattro nicchie, ora spoglie, portano dei monogrammi variamente
interpretati In particolare quello ad ovest sembrerebbe attribuibile a Massimiano.
Ritrovare il nome dell’arcivescovo Massimiano fa pensare che egli in qualche modo sia
intervenuto in qualche lavoro,forse nella decorazione musiva delle nicchie stesse: si spiega
così la parte didascalica delle iscrizioni (restaurate ed integrate ma non rifatte integralmente). Pregiate decorazioni in tarsie marmoree di porfido, pavonazzetto, serpentino e
marmi bianchi completano il cromatismo dell’interno.
Al centro del Battistero, è stata ricostruita la vasca ottagonale per i battesimi ad
immersione; è ricoperta di lastre di marmo greco e porfido. Il battesimo veniva impartito dal
pulpito di marmo greco (fine del V sec.).
8.7 – Duomo di Ravenna
Opera dell’architetto Gianfrancesco Buonamici, riminese, fu costruito nel 1734 al posto
dell’antica cattedrale a cinque navate dedicata alla Anastasis e fatta edificare dal vescovo
Neone nei primi anni del V secolo. Il trasferimento della Corte Imperiale da Milano a
Ravenna rese opportuno sia portare il vescovo da Classe a Ravenna sia edificare una
cattedrale degna dell’avvenimento..
Quando l’architetto Buonamici vi mise mano, diligentemente disegnò i mosaici dell’abside
datati 1112 e fatti eseguire dall’arcivescovo Geremia, d’accordo con l’arcivescovo committente
Farsetti mise mano alla nuova Cattedrale. Dell’originale cattedrale restano nel portico
centrale esterno, due colonne di granito rosa e le due colonne di marmo greco venato della
porta principale e la cripta, scoperta per caso nel 1864, risalente al X secolo. Il campanile
fatto in tre periodi distinti, risale al X sec. E’ a croce latina con tre navate con dodici colonne
per parte, ricca di marmi pregiati, sculture, affreschi e dipinti soprattutto del XVII e XVIII
sec. La cupola ovale, originariamente ottagonale, è dell’architetto faentino Giuseppe
Pistocchi (1780). Meritano particolare attenzione nel transetto a sinistra la Cappella del SS.
Sacramento decorata, fra l’altro con affreschi di Guido Reni (1620) e la cappella di destra,
detta della Madonna del sudore, con i dipinti di Andrea e Giambattista Barbiani (1656).
In quest’ultima cappella, nelle due nicchie, eccezionali esempi di sarcofagi cristiani” del V
sec. A destra si trova il sarcofago di S. Barbaziano proveniente dalla splendida ma distrutta
(1553) Basilica di S. Lorenzo in Cesarea. S. Barbaziano, siriano, fu medico, confessore ed
amico di Galla Placidia per quasi 20 anni. Il sarcofago presenta sulla fronte 5 nicchie
conchigliate con al centro Cristo tra S. Pietro e S. Paolo. Sul coperchio a baule si osserva una
corona che racchiude il monogramma di Cristo. A sinistra il sarcofago in cui furono collocati
nel 1321 i resti di S. Rinaldo dal Concoreggio. Si tratta di un antico sarcofago bizantino che
presenta sulla fronte una scena della Traditio Legis con Cristo seduto su di un monte, da cui
sgorgano i 4 fiumi simbolici, nell’atto di ricevere S. Pietro e S. Paolo.
Mentre i sarcofagi romani hanno i coperchi piani e sono scolpiti solo su tre lati poiché
destinati ad essere addossati contro il muro, quelli ravennati sono modellati sui quattro lati e
con il coperchio a due spioventi o a botte, per un’evidente influenza derivata dai contatti
regolari tra Ravenna e l’Oriente, in particolare l’Egitto e la Siria. Sotto il terzo arco della
navata centrale, il pulpito di marmo greco (VI sec.), ricomposto nell’attuale posizione nel
1913 dell’antica Basilica Ursiana fu fatto eseguire dal vescovo Agnello, forse usando due coperchi di sarcofagi monumentali. E a forma pseudo-cilindrica e decorato con pesci, pavoni,
anatre, agnelli, cervi e colombe. Proseguendo verso l’uscita, si trova il terzo altare della
navata destra con il paliotto formato da un sarcofago della prima metà del V sec. proveniente
dalla scomparsa chiesa di S. Agnese.
Esso contiene le spoglie del Vescovo Esusperanzio. Nel 1909 vi si aggiunsero anche i resti
del vescovo Massimiano. Sulla fronte Cristo con S. Pietro e S. Paolo tra due palme.
8.8 – Chiesa dello Spirito Santo (VI sec d.C.)
Antica cattedrale del culto ariano, fu fatta erigere ai primi del secolo VI da Teodorico. Era
originariamente dedicata alla Hagìa Anastasis ovvero alla Resurrezione del Signore. Come
per l’annesso Battistero degli Ariani, poco dopo la morte di Teodorico (526), fu riconsacrata
dal vescovo Agnello al culto cattolico e dedicata a S. Teodoro, soldato e martire di Amasea nel
Ponto. Il portico esterno rinascimentale fu eseguito nel 1543 in occasione del rifacimento
parziale della chiesa, utilizzando tre semicolonne di marmo greco a spirale che reggevano
l’antico baldacchino dell’altare della Chiesa. Dell’originale cattedrale rimane non molto: la
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navata maggiore, l’abside, l’arco trionfale e le 14 colonne (13 di marmo bigio e i di cipollino)
con i capitelli e pulvini originali teodoriciani con croce e disco. Nell’abside sono stati
rinvenute tracce di affreschi con la vita di S. Teodoro cosa che lascia immaginare che
eventuali decorazioni a mosaico abbiano avuto vita brevissima. Non è anzi improbabile che il
vescovo Agnello, al momento della consacrazione, abbia condotto una vera e propria
epurazione delle immagini ariane. L’ambone, della metà del VI sec., presenta sulla fronte 3
edicole conchigliate, con cantaro da cui sgorgano tralci di vite ricchi di frutti. Secondo la
tradizione la scelta del nome è legato al fatto che in questo luogo venivano eletti i vescovi
ravennati, su ispirazione proprio dello Spirito Santo.
8.9 – Battistero degli ariani (VI sec d.C.)
A pochi passi dalla Chiesa dello Spirito Santo si innalza il battistero degli Ariani fatto
eseguire dal re goto Teodorico tra la fine del V e l’inizio del VI sec. L’edificio è dunque quasi
contemporaneo alla basilica di S.Apollinare Nuovo. Con la condanna della chiesa ariana per
editto imperiale e la sua spoliazione, nel 556 d.C. fu adattato ad oratorio di culto cattolico,
con il nome di S. Maria. I monaci basiliani, provenienti dalla Grecia vi presero sede durante il
periodo esarcale, aggiungendovi il nome «Cosmedin».
Nel 1667 vi fu aggregata una costruzione ad uso oratorio. Nel 1700 passò in mano a privati
finché nel 1914 fu acquistato dallo Stato Italiano. Iniziò allora una lunga battaglia legale per
poter liberare l’edificio da tutte le strutture che vi si erano sovrapposte nei secoli. Solamente i
bombardamenti del 1943 e 1944 hanno dato un colpo decisivo, permettendo di mettere a
nudo quanto rimaneva di originale. Come il battistero della Cattedrale ed altri monumenti
ravennati risulta interrato; il piano originale si trova a 2,30 m. dal piano stradale. Sulla
sinistra si vede l’attacco del muro dell’ambulacro a volta che correva tutt’attorno al battistero.
Il fatto che il Battistero riprenda lo schema architettonico e decorativo
del Battistero degli Ortodossi sta ad indicare che almeno nel primo
periodo non vi era antagonismo ma pariteticità fra le due chiese; ciò
rispecchiava il pensiero iniziale di Teodorico.
Anche qui il Battesimo avveniva per immersione; il sacerdote
apponeva la mano destra sul capo del catecumeno per indurlo, con una
leggera pressione, ad immergersi tre volte.
Nel mosaico, il Cristo (1), dunque, riceve il Battesimo da S. Giovanni
(3) mentre la colomba dello Spirito spruzza dal becco acqua lustrale o
emana lo Spirito Santo (2). Cristo è immerso nell’acqua del Giordano,
simboleggiato da un uomo anziano dotato di un otre da cui sgorga
l’acqua del fiume (5). Sulla testa, due chele di granchio, è un attributo
tipico delle divinità marine e fluviali. Nella fascia sottostante, il corteo
degli Apostoli si incede in direzione del trono su cui è appoggiato uno
splendido cuscino di porpora sormontato da una croce gemmata.
Si tratta della rappresentazione simbolica della venuta di Dio alla fine
dei tempi per il Giudizio Universale. Fusti di palme da datteri, ricche di
frutti, sono attributi dei martiri. Dieci personaggi rappresentati nella
processione che si snoda sulla cupola recano la corona del martirio e
della gloria e hanno le mani velate nel mistico rito liturgico. S. Pietro, a destra del trono (9),
reca le chiavi del Paradiso e S.Paolo, (7) con la consueta calvizie porta due volumi. Gli abiti
ed i calzari sono tipicamente romani. Ad un occhio attento è visibile la differenza stilistica e
tecnica con cui è stata eseguita la decorazione musiva compresa fra la seconda palma a
sinistra e la prima a destra del trono (concernenti le figure di S. Pietro, S. Paolo, S. Tommaso,
il medaglione centrale) rispetto al restanti nove apostoli. La prima parte risente dell’influsso
classico romano, la parte sottostante dell’influsso bizantino con figure più piatte. Dei marmi,
stucchi e mosaici, in analogia con il Battistero del Duomo non vi è più alcuna traccia; negli
scavi effettuati furono trovati, sotto il pavimento, oltre 170 chili di tessere a dimostrazione
che la decorazione doveva essere ben più estesa di oggi.
8.10 – La basilica di sant’Apollinare Nuovo (VI sec d.C.)
Fatta edificare per il rito ariano e dedicata a Nostro Signore Gesù Cristo da Teodorico re
dei Goti nel primo quarto del VI sec., fu riconsacrata poi dal Vescovo Agnello al culto
cattolico nel 561 col nome di S. Martino in Cielo d’oro (S. Martino Vescovo di Tours fu un
implacabile nemico degli eretici). Probabilmente tale denominazione trae origine sia dall’abbondanza di oro utilizzato sia per le tessere musive che per il rivestimento dell’antico soffitto
a cassettoni. A questo proposito la leggenda narra che Papa Gregorio Magno fece affumicare i
mosaici poiché il loro splendore e le loro immagini scintillanti distraevano i fedeli durante le
funzioni. La Basilica, data la vicinanza del Palazzo Reale, fu probabilmente utilizzata come
Cappella Palatina. Solamente con la traslazione, a metà del IX sec. (forse nell’856), delle ossa
del primo vescovo ravennate S.Apollinare, dalla Basilica di Classe a Ravenna (per sfuggire
alle scorrerie dei pirati slavi) la chiesa prese il nome di S.Apollinare Nuovo.
La traslazione delle ossa del Santo da Classe a Ravenna dette luogo ad una diatriba tra i
monaci classensi camaldolesi ed i benedettini di Ravenna. I secondi sostenevano che
sostenevano che le ossa si trovavano in S.Apollinare in Classe, mentre i benedettini
ribattevano che le reliquie erano definitivamente state poste nella loro Basilica di S.
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Apollinare Nuovo. Papa Alessandro III inviò un suo legato che sentenziò, dopo accurate
indagini, che esse si trovavano in Classe.
Il protiro e la bifora soprastante sono di epoca rinascimentale, ricomposti dopo la
distruzione causata, il 12 febbraio 1916, da una bomba austriaca. Il campanile rotondo alto
m. 38,50, alleggerito da tre ordini di monofore, tre di bifore e due di trifore, risale ai primi
del XI sec. L’interno, armonico e semplice, si presenta a tre navate scandite da dodici colonne
per parte (12 come gli Apostoli), di marmo greco, con capitelli corinzi e pulvini con croce. Il
marmo del Proconneso e lo stile bizantino dei capitelli, fanno pensare ad un dono da parte di
un’imperatore bizantino al capo goto nel periodo di distensione tra Goti e Romani.
Anche qui, come nella vicina S. Giovanni Evangelista, il pavimento è stato rialzato rispetto
all’originale; le colonne sono quindi state sollevate e portate al piano che ora vediamo a
scapito, però, del respiro degli archi. Questo intervento degli anni 1514/1520 – a dire il vero
piuttosto ardito per l’epoca – contribuì però notevolmente a far strapiombare i muri della
navata centrale che nel 1955 hanno avuto bisogno di un consolidamento di notevole
impegno. Della decorazione musiva è rimasta quella della navata centrale; il mosaico,
dell’abside fatto eseguire dall’arcivescovo Agnello, fu distrutto dal terremoto dell’VIII sec.,
mentre della parete della porta principale, resta, un lacerto musivo rimaneggiato ed
attribuito all’imperatore Giustiniano. Le superfici murarie della navata centrale poste sopra il
colonnato sono ricoperte da una estensione di mosaico uniforme, priva di interruzioni e che
presenta da un lato un corteo di Vergini, e dell’altro quelle di Martiri. L’oro domina ovunque
senza che i riquadri siano divisi da modanature e sagomature. Queste scene furono poste in
opera dall’arcivescovo Agnello, nominato nel 556 (cioè 20 anni dopo la fine del regno goto)
per volere di Giustiniano, vincitore delle Guerre Gotiche. Questi mosaici dovettero esseri
aggiunti per eliminare le lunghe e solenni processioni della corte di Teodorico che dovevano
occupare il loro posto. Sono invece sopravvissute all’età di Teodorico le vedute del Palazzo
del re e la raffigurazione del porto di Classe. Sono anche sopravvissute la veduta di Cristo e
della Vergine (entrambi assisi in trono e fiancheggiati da angeli) meta delle due processioni.
Nella fascia superiore, vicino al soffitto, intercalati con motivi decorativi riproducenti la
croce, due colombe ed un imbracolo a forma di conchiglia, tredici quadretti raffigurano
miracoli e parabole di Cristo, Sono di epoca teodoriciana, ma esprimono la tipica iconografia
paleocristiana, con Cristo giovane e riccioluto, sbarbato, con la tunica imperiale di porpora e
pallio ed il nimbo crucigemmato. Iniziando dalla porta principale. Lungo la navata di
sinistra, è possibile riconoscere:
1) Il paralitico di Bethesda, guarito, porta il suo letto (distrutto dalla bomba
austriaca fu perfettamente ricostruito sulla base di accurati disegni); 2) La
guarigione dell’ossesso (gli spiriti maligni sono rappresentati da tre porci in atto
di fuggire); 3) Il paralitico di Cafarnao viene fatto entrare dal tetto nella casa
dove Gesù è ospite; 4) Gesù giudice, divide le pecore dai capretti ovvero il
Giudizio Universale (alla sua destra stanno gli agnelli, a sinistra i peccatori
rappresentati da capretti maculati); 5) L’obolo della vedova povera; 6) Il Fariseo
prega a braccia alzate ed il Pubblicano si batte il petto davanti al Tempio; 7) La
resurrezione di Lazzaro; 8) la Samaritana al Pozzo; 9) Cristo addita l’adultera
agli scribi; 10) La guarigione dei ciechi di Gerico; 11) La vocazione, ovvero Pietro
ed Andrea abbandonano le reti per seguire il Cristo; 12) La moltiplicazione dei
pani e dei pesci; 13) Le nozze di Cana (un falso del restauratore romano Kibel
che in luogo della trasformazione dell’acqua in vino ha riprodotto la
moltiplicazione dei pani); si noti che la parte rifatta è quella inferiore ed il
giovane in ginocchio è di profilo, in contrasto con la regola della frontalità delle
altre figure dell’intero ciclo.
Sulla parete di destra della navata centrale, dall’abside verso la porta
principale, si trovano altri tredici quadretti della Passione e della Resurrezione di Cristo:
1) L’ultima cena; 2) l’orazione dell’orto di Getsemani; 3) Il bacio di Giuda; 4) Gesù
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accompagnato dai discepoli è condotto in giudizio; 5) Gesù innanzi a Caifa; 6) Gesù predice a
Pietro il suo tradimento (le dita del Cristo indicano che tre volte lo rinnegherà; 7) Pietro
rinnega Gesù; 8) il pentimento di Giuda: la restituzione dei denari a Caifa; 9) Pilato si lava le
mani; 10) Gesù accompagnato al Calvario (Simone Cireneo gli porta la Croce); 11) Le Marie al
Sepolcro con l’angelo; 12) I discepoli stilla strada per Emmaus; 13) Gesù riappare agli Apostoli: l’incredulità di Tommaso (danneggiata dalla bomba del 1916 anche questa
magistralmente ricostruita dai Maestri del Gruppo Mosaicisti di Ravenna). Tutti i quadretti
sono un’esemplare dimostrazione dell’alta qualità artistica raggiunta dalle maestranze
ravennati (in particolare le scene della Passione e della Resurrezione eccellono sia per la
gamma cromatica del materiale musivo sia per la ricchezza di figure di apostoli, di donne, di
sacerdoti, di scribi. Gesù non è più il giovane della parete di fronte, imberbe e sereno: qui il
suo viso è triste e incorniciato da una folta barba. Anche questi sono di epoca teodoriciana).
Nella fascia inferiore, tra le finestre, su entrambe le pareti della navata, si trovano sedici
immagini sempre di epoca teodoriciana. Sono figure statuarie di Santi e Profeti, alti e solenni
con in mano un volume, vestiti con una tunica bianca clavata e da un candido pallio.
Nella ampia fascia bassa è rappresentato il porto e la città di Classe dalle mura merlate.
All’ingresso del porto si osservano due torri e tre grandi navi: una di esse è a vele spiegate.
Questa rappresentazione è del tempo di Teodorico. Le due figure che stavano innanzi alla
prima parte di mura ed altre tre poste nel tratto seguente sono state scalpellate molto probabilmente al momento della consacrazione della basilica al culto cattolico. Furono poi
ricoperte ma l’ombra delle figure è ancora leggibile. Sulla stessa fascia, segue quindi il celebre
corteo delle ventidue Vergini di epoca bizantina: Eugenia, Sabina, Cristina, Anatolia, Vittoria,
Paolina, Emerenzia, Daria, Anastasia, Giustina, Felicita, Perpetua, Vincenza, Valeria,
Crispina, Lucia, Cecilia, Eulalia, Agnese, Agata, Pelagia ed Eufemia.
Riccamente vestite e adorne di perle e pietre preziose, esse si recano incontro ‘alla
Madonna in trono ed a Gesù, portando nelle mani velate la corona della gloria; il prato è
cosparso di fiori, mentre fusti di palma irradiano fra aureola ed aureola.
Sono precedute dai tre Magi che offrono doni alla Madonna. Quest’ultima parte, pure di
epoca teodoriciana, presenta la zona superiore dei Magi rifatta dal Kibel, il quale eliminò le
corone sul capo sostituendole con il berretto frigio. Tale sostituzione prese spunto da
un’immagine simile scolpita sul fronte del sarcofago (V sec.) del vescovo Isacio all’ingresso
della Basilica di S.Vitale, e sulla capsella dei S. Quirico e Giuditta nel Museo Arcivescovile.
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Ritornando dall’abside verso la porta principale, a sinistra vediamo il Cristo Redentore,
maestoso, assiso in trono, attorniato da quattro angeli (il terzo e quarto angelo sono stati
rifatti dal romano Kibel nel 1852 che aggiunsero arbitrariamente lo scettro al Cristo).
Ventisei Martiri si recano in direzione del Redentore: Martino (cui fu dedicata la Basilica),
Clemente, Sisto, Lorenzo, l’unico con la tunica aurata, Ippolito, Cornelio, Cipriano, Cassiano,
Giovanni, Paolo, Vitale, Gervasio, Protasio, Ursieino, Naborre, Felice, Apollinare, Sebastiano,
Demetrio, Policarpo, Vincenzo, Pancrazio, Crisogono, Proto, Giacinto e Sabino.
L’incedere cadenzato dei Martiri non ha la dovizia decorativa delle Vergini, poiché unico
ornamento è il candore delle vesti, ma nel gesto ieratico dell’offerta della corona con le mani
velate, ripropone la musicalità dell’altro corteo anche qui cadenzato dalle larghe foglie delle
palme ricche di frutti, attributi dei martiri.
Vicino alla porta principale è rappresentato il Palazzo che Teodorico si era fatto costruire a
pochi metri dalla basilica e di cui non è rimasta traccia, salvo alcune ricchissime
pavimentazioni a mosaico ed a tarsie marmoree; lo dimostra l’iscrizione latina (palatium)
posta sul frontone della decorazione musiva.
E’ interessante notare come la trasformazione della chiesa dal culto ariano a quello
cattolico ha dato luogo ad «epurazioni» chiaramente visibili ad occhi nudo.
Sul bianco della prima, terza, quinta ed undicesima colonna del palazzo restano mani o
dita ed un avambraccio di personaggi non graditi le cui figure sono state coperte dalle tende
per ordine del vescovo Agnello; sul frontone del palazzo è stato eliminata una figura a cavallo
che rappresentava Teodorico. Non dimentichiamo che l’imperatore d’Oriente considerava
Teodorico né più né meno che un governatore e non un imperatore d’occidente; le monete di
allora, infatti, portavano sul recto l’imperatore di Costantinopoli e sul verso Teodorico.
L’abside, molto semplice, fu completamente rifatta nell’ultimo dopoguerra (1950) sulle
fondamenta originali del VI sec. sostituendo quella barocca che era stata costruita dal Minori
Francescani nel 1612. Dietro l’altare del VI sec. si trova la cattedra di marmo, di epoca romana, ornata ai fianchi con decorazioni fitomorfe a girali simmetriche.
Di notevole pregio il pluteo del VI sec., posizionato sul lato sinistro della basilica. Esso
mostra su un lato una decorazione con pavoni ed un cantaro da cui esce una vite ricca di
foglie e grappoli e sul retro il profeta Daniele nella fossa dei leoni. Interessanti anche le tre
transenne (VI e VII sec.) finemente lavorate a traforo, che risentono notevolmente
dell’influenza dell’arte orientale. Anche l’ambone di marmo della navata destra,
presumibilmente del VI sec., esprime una commistione di gusto classico ed orientaleggiante.
Il soffitto a cassettoni dorato, è stato fatto eseguire nel 1611 dal Cardinale Caetani per
adeguarlo evidentemente alla abside barocca che, come abbiamo detto sopra, è stata
eliminata nel 1950.
8.11 – Mausoleo di Teodorico (VI sec d.C.)
Questo edificio fu fatto costruire dal re goto Teodorico (morto nel 526) nei pressi della
necropoli barbarica per farne il suo sepolcro. Secondo l’anonimo Salesiano fu costruito da re
Goto mentre era ancora in vita e coperto con un ingens saxum.
La costruzione di pietra calcarea d’Istria è di blocchi ben squadrati, messi in opera a secco.
Significativi i conci degli archi delle porte che sono realizzati con dentellature a sega. La
calotta, sempre di pietra d’Istria è formata di un solo blocco dallo spessore di 1 metro, 33
metri di circonferenza e del peso di circa 280/300 tonnellate. L’edificio si presenta
leggermente inclinato verso est, nonostante sia stato costruito su un massiccio basamento,
ora interrato. Se si pensa che il monolite fu tagliato in Istria e trasportato fin qui attraverso il
mare Adriatico con un enorme zatterone, è evidente l’impegno di mezzi e di uomini che fu
necessario. Una serie di incassi esterni sono visibili lungo tutta la circonferenza esterna del
piano superiore. Il Sangallo, partendo da queste tracce, riuscì già nel ‘500 a ricostruire
l’esistenza di un antico loggiato ora scomparso.Il loggiato era sostenuto da colonnette unite
in alto da archetti circolari lungo i lati del decagono e da curiosi archetti trapezoidali in
corrispondenza degli angoli. In origine la costruzione era isolata, ma, cessato il dominio dei
Goti, vi fu costruito accanto un faro (il mare era allora vicinissimo ed il porto di Classe stava
per essere definitivamente abbandonato). Verso il 1000, un monastero dedicato alla Santa
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Maria inglobò il Mausoleo, utilizzandolo quale oratorio. Per questo il convento dei
Benedettini si chiamò S. Maria ad farum. Del faro, a base quadrata, si persero le tracce fin dal
XII secolo, mentre il Monastero fu distrutto nel XVII secolo. Nel Medio Evo questa possente
costruzione divenne luogo ambito di sepoltura a somiglianza del Pantheon di Roma. Vi sorse
attorno, allora, un’altra necropoli (oltre quella originaria gota) rintracciata nei secoli scorsi.
Fino a metà del sec. XVIII la costruzione fu tanto trascurata che la parte inferiore era
interrata quasi per intero per le alluvioni del vicino fiume Badareno. L’opera di risanamento
risale al 1844 quando fu quasi raggiunto il piano dell’edificio ed in quella occasione furono
rinvenute molte tombe.
Come abbiamo detto il mausoleo ha due piani: quello inferiore è decagonale, con nicchie
rotonde, una delle quali funge da accesso all’interno; quella superiore, pure decagonale - cui
si accede attraverso una scala - ha una fascia sovrapposta con motivi decorativi «a tenaglia»,
tipica dell’arte nordica barbarica. La stessa decorazione si ritrova nelle incassature
rettangolari sottostanti le coppie di lunette del secondo ordine. Questa decorazione ha dato
adito ad affascinanti collegamenti allorché fu ritrovata, durante scavi nella darsena, nel 1854,
una corazza d’oro, arricchita da sfavillanti granati, che fu detta di Teodorico. Purtroppo
questa corazza, forse un ricco pettorale per cavallo, fu rubata nel 1924 nel Museo Nazionale e
mai più ritrovata. Le dodici anse che si vedono scolpite sulla calotta, oltre che a creare un
effetto plastico, servirono per farvi scorrere canapi durante il montaggio avvenuto, è
probabile, tramite un piano inclinato di terreno riportato. Sul fronte di dette anse sono
scolpiti i nomi dei 4 Evangelisti e di 8 apostoli a formare come un simbolico anello di
protezione. Il vano a piano terra è a croce greca. E’ praticamente spoglio se facciamo
eccezione per una modanatura che lo percorre per tutto il perimetro e per due grandi conchiglie sotto l’imposta del soffitto che però non furono completate. Il piano superiore, a
pianta circolare - utilizzato dai benedettini come oratorio -, presenta sul blocco monolitico
della cupola una croce policroma in stucco che si ritiene originale; è scomparso il cielo
stellato che molto probabilmente ricopriva la superficie restante. E’ ben visibile la lunga
spaccatura del monolite forse occorsa durante la messa in opera della calotta; forse per
questo incidente l’edificio presenta alcune asimmetrie, come le grandi anse che del lato ovest.
E’ stato osservato che il mausoleo di Teodorico presenta caratteristiche peculiari che fanno
pensare alla realizzazione di un progetto gotico. L’ispirazione potrebbe essere venuta dalle
tende a cupola utilizzate anticamente nell’area scitica (dai Goti e dagli Unni) . Si trattava di
tende realizzate con leggeri tralicci lignei su cui venivano poi tese delle pelli annodate e
coperte con feltro. Può essere che anche la tenda reale di Teodorico avesse questa sagoma e
che addirittura, date le dimensioni eccezionali, fosse circondata da una galleria.
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Si è molto disputato se la cella funeraria fosse al piano superiore o al piano inferiore; per
alcuni, la mancanza della scala d’accesso (l’attuale risale al XVII) fa propendere per la tesi
della cella funeraria al piano superiore (fra l’altro, difesa in questo modo, anche da eventi imponderabili, come alluvioni); per altri invece, il piano inferiore avrebbe funzionato da vero e
proprio “martirium” e la cappella sarebbe stata posta al piano superiore.
Il grande sarcofago a vasca (sul tipo di quelli romani del IV sec.) di porfido, già nel
cosiddetto Palazzo di Teodorico, poi nel Museo Nazionale, può avere contenuto le spoglie del
re goto, ma non per lungo tempo causa l’avversione dei ravennati per il capo ariano al tempo
della dominazione bizantina.
8. 12 - Basilica di Sant Apollinare in Classe (VI secolo)
A metà strada fra Ravenna e Classe sono visibili i resti di S. Severo (VI sec.) con i ruderi
del campanile a base quadrata. E’ scomparsa invece la Basilica Probi (metà VI sec.) situata a
200 metri dalla stessa Basilica di S. Apollinare al pari della chiesa di S. Eleucadio e della
Basilica Petriana (inizi V sec.) edificata da San Pietro I Crisologo di cui gli storici tramandano
la ricchezza e la grandezza. Questa concentrazione di grandi chiese non deve stupire. Il
Cristianesimo si diffuse prima nel territorio di Classe, all’interno della comunità cosmopolita
composta da elementi orientali (siriani, giudei, egiziani e molti greci). Non a caso il primo
vescovo di Classe fu S. Apollinare da Antiochia e i primi vescovi risiedettero a Classe e solo
successivamente si trasferirono a Ravenna. La Basilica di Sant’Apollinare in Classe - la più
grande basilica paleocristiana di Ravenna - fu fatta edificare dal vescovo Ursicino con il
denaro del banchiere Giuliano l’argentario (lo stesso misterioso quanto ricchissimo
personaggio greco che quasi contemporaneamente fece costruire la Basilica di S. Vitale). Fu
terminata e consacrata il 9 maggio 549, come risultava da un’epigrafe ora scomparsa, dal
Vescovo Massimiano e dedicata al primo vescovo di Classe.
E’ certo che la Basilica sorse accanto ad un cimitero cristiano. Nel 1756 i Camaldolesi
trovarono un grande numero di stele funerarie pagane riutilizzate in edifici cristiani come
pavimentazione. La grande facciata è ammorbidita da due semplici lesene e da una trifora;
l’ardica è rifatta come pure, a sinistra, il corpo di fabbrica a torre.
Il campanile rotondo (alto m. 37,50) della fine del X sec. è stato fortunatamente salvato
nell’ultima guerra mondiale sia dai bombardamenti aerei anglo-americani, sia dalla
distruzione decisa dal Comando Alleato, perché divenuto un posto di osservazione per le
armate tedesche. E’ il più bel campanile delle chiese ravennati e presenta un alternarsi di
mattoni rossi e gialli fino all’altezza di circa 3 metri, una fascia di rombi sempre di cotto rosso
e giallo ed una progressione di strettissime feritoie che si distendono in due ordini di
monofore, uno di bifore e tre di trifore.
All’interno il ritmo creato dalle 24 colonne di magnifico marmo greco venato trasversalmente, si conclude nel mosaico del catino absidale, caratterizzato dal verde delicato del prato
musivo, dal candore delle pecore, dallo sfavillio della pineta di S. Apollinare, in una unità, tra
architettura e decorazione, di eccezionale importanza per la storia dell’arte cristiana.
Le colonne poggiano su un vistoso zoccolo a forma quasi cubica ed i capitelli sono a foglie
d’acanto alleggerite da un fine lavoro di traforo.
Gli sbiaditi affreschi della parete della navata centrale, raffiguranti alcuni arcivescovi di
Ravenna, sono del XVIII sec. Le pareti laterali, che ora vediamo spoglie, non erano certo in
questo stato, quando la Basilica fu aperta al culto: nel 1449 Pandolfo Sigismondo Malatesta,
alleato dei Veneziani, con la violenza e con la corruzione fece trasportare ben «cento carrate»
di marmi preziosi da S. Apollinare in Classe a Rimini, dove Leon Battista Alberti li userà per
abbellire la facciata del Tempio Malatestiano.
I mosaici dell’abside sono testimonianza dell’ultimo ciclo dell’arte musiva ravennate,
anche se alcune parti sono di epoche successive. Dal punto di vista del soggetto il tema è
quello della Trasfigurazione che è però qui rappresentata in modo allegorico e simbolico e va
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dunque percepita come un evento escatologico. In alto, al centro dell’arco trionfale, si osserva
il busto di Cristo nimbato, con la mano destra benedicente. Ai lati fra una moltitudine di
nuvole multicolori, i simboli alati zoomorfi dei quattro evangelisti con il toro dalle narici
frontali (sec. IX), dodici pecore (gli Apostoli) tendono al Cristo simmetricamente, salendo il
monte. Esse escono da Gerusalemme e Betlemme, città che esemplificano l’arco della storia
della salvezza dell’uomo.
Sotto, ai lati, due grandi palme, simbolo della vita o del martirio. Più in basso, a destra,
l’arcangelo Gabriele ed a sinistra l’arcangelo Michele che reggono uno stendardo con l’acclamazione in greco: «Santo! Santo! Santo!». Ancora più sotto ai due lati due figure con
l’indicazione «S.Matteo» sono di esecuzione tarda (presumibilmente tra l’XI ed il XII secolo).
Il sottarco e decorato con uccelli e piante in una grande dovizia d’oro. Nella conca absidale
è visibile la mano di Dio che esce dalle nuvole ed indica la croce, alludendo alla
Trasfigurazione di Cristo sul Monte Tabor. La grande croce, gemmata e dorata, con al centro
il volto di Cristo, è immersa in un cielo cosparso di 99 stelle d’oro e d’argento, con allusione
alla parabola delle 99 pecorelle. Sembrerebbe trattarsi di un cosiddetto opieion, cioè di uno
scorcio sulla notte stellata. Il disco crocifero è perfettamente in asse con figura sottostante di
Sant’Apollinare e manifesta caratteri di bidimensionalità che non stupiscono in questo
periodo della storia dell’arte. All’estremità dei bracci della Croce le lettere Alfa e Omega,
indicanti che Cristo è il principio e la fine; sotto il piede della croce la frase «salus mundi» e
sopra la parola greca «ictus» (Iesos Christos Theou Uios Soter) e cioè «Gesù Figlio di Dio
Salvatore». L’acclamazione in greco ci ricorda quanto la popolazione di Classe fosse
profondamente impregnata di cultura greca. Immersi a metà, in un mare di cirri, si
osservano dunque il profeta Elia - a destra - ed il profeta Mosé - a sinistra- . essi sono
affiancati da tre pecore che simboleggiano gli Apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni, testimoni
della Trasfigurazione. Su un luminoso prato verde ricco di gigli, margherite, olivi, cipressi,
pini, uccelli e rocce, si staglia la figura orante del Pastore Protovescovo S. Apollinare con la
casula ed il pallio vescovile; ai suoi piedi un gregge di fedeli. E’ interessante notare la
straordinaria sproporzione delle cose e degli animali rappresentati: fiori grandi come alberi,
pecore enormi in un’astrazione anticipatrice dell’arte medievale. Una linea rossa delinea con
chiarezza l’ottimo rifacimento del restauratore mosaicista ravennate Zampiga dell’inizio del
secolo. Dal punto di vista stilistico, il mosaico che si estende nel catino absidale è esteso su
un’ampia superficie che appare quasi come uno sfondo verticale – il terreno non è dunque
semplicemente tratteggiato da una fascia orizzontale come in altri mosaici bizantini –.
L’artista vuole probabilmente rimandare l’osservatore all’immagine del giardino paradisiaco,
un contesto molto adatto alla figura di Sant’Apollinare che viene glorificato al centro e poi
nella Trasfigurazione rappresentata poco più in alto.
Nel prato osserviamo come, coerentemente, gli alberi e le piante sembrano cresciuti
spontaneamente mentre le rocce, com’è logico, affiorano dal prato per poi confondersi con le
nuvole del cielo. Eppure tutti questi elementi sono staccati l’uno dall’altro e anzi disposti
come su file, dando così l’impressione all’osservatore di trovarsi davanti ad una sorta di
“tappezzeria”. Si tratta di un criterio comunicativo innovativo e del tutto bizantino, in cui
viene abbandonata ogni pretesa di tridimensionalità nel tentativo di dislocare tutte le parti
del discorso in equilibrio sulla superficie musiva, alternando dorature e tessere verdi con
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equilibrio e correttezza. Fra le finestre, si trova la decorazione più antica: le figure, realisticamente rappresentate dei vescovi ravennati Ursicino, Orso, Severo ed Ecclesio, vestiti
pontificalmente con un libro in mano ad indicare la presenza del verbo di Cristo; a destra ed
a sinistra accanto al piede dell’arco trionfale due scene ampiamente manomesse (VII sec.): a
destra, i tre sacrifici del Vecchio Testamento e cioè Abele, Melchisedech ed Abramo ovvero
l’Eucarestia. A sinistra, (con evidente richiamo ai due pannelli di S.Vitale con le offerte imperiali di Giustiniano e Teodora), l’imperatore d’Oriente Flavio Costantino IV Pagonato, coi
fratelli Eraclio e Tiberio III e Giustiniano II, che offre all’arcivescovo Mauro col vicedomino
Reparato, il rescritto dei privilegi, per la Chiesa Ravennate. Questa immagine, in parte
dipinta a tempera ad imitazione del mosaico, è datata al XII sec.
La Cripta, accessibile perché recentemente restaurata e perfettamente risanata dall’acqua
che continuamente vi penetrava, risale al IX sec. La volta di pietra di recupero è ad
andamento semicircolare con una cella perpendicolare. Nella cella un’arca di marmo ha
contenuto per ben due volte i resti del Santo Protovescovo Apollinare. In fondo alle due
navate laterali, accanto all’abside, sorgono due antiche cappelle (prothesis e diaconicon)
restaurate nel 1906.
Nella navata di sinistra vi è uno dei più noti ed ammirati esempi di cibori cristiani;
proviene dalla scomparsa chiesa di S .Eleucadio di Classe. La sua collocazione che risale al XI
sec. non è certo ideale perché non permette la visione completa. Si tratta di un esempio ben
conservato della scultura italica ad intreccio con motivi a pavoni, colombe e tralci di vite. Il
baldacchino ha le colonne a spirale. Sull’archetto frontale si legge che fu fatto eseguire sotto il
vescovo Valerio (806). Il pavimento antistante, in mosaico policromo, proviene dalla
pavimentazione originale ed è stato recentemente restaurato dal Gruppo Mosaicisti che ha
pure restaurato parte dell’abside. Il piccolo altare al centro della chiesa fu dedicato dall’abate
Orso alla Madonna e sotto di esso nel 1173 furono rinvenute le reliquie del Santo.
8.13 – La domus dei Tappeti di Pietra
Il complesso archeologico della domus dei Tappeti di Pietra, di notevole interesse, è stato
portato alla luce nel maggio del 1993, durante gli scavi per la costruzione di un garage
sotterraneo, in un cantiere edile di proprietà della C.M.C.A. di Cotignola situato in via Massimo
D'Azeglio 47. I lavori si sono svolti in un cortile interno fra la chiesa di S. Eufemia e la stessa via
D'Azeglio e hanno interessato un'area di circa metri 32 x 25, raggiungendo la profondità massima
di metri 6,50 nella zona centrale dello scavo. Quest'ultimo è continuato fino alla primavera del
1994 e ha esplorato una complessa situazione stratigrafica che
registra la vita della città di Ravenna tra il V e il III sec. a.C. e fino al
XVI sec. d.C.
L'area di scavo indagata, situata entro la cinta delle mura tardoimperiali, era localizzata all'interno di un quartiere caratterizzato da
una serie di strade ad assi ortogonali, delimitato a nord dal corso del
Flumisello vicino alla sua confluenza col fiume Padenna. A Ravenna,
l'abbassamento naturale del terreno con il conseguente innalzamento
della falda acquifera, ha provocato, nel corso del tempo, la necessità
di demolizioni e ricostruzioni continue; in particolare, la stratigrafia
del complesso archeologico di via d'Azeglio ha portato in evidenza
strutture di epoche diverse.
Scendendo dall'alto verso il basso sono stati identificati i seguenti
periodi:
- edificio del XVII o XVIII sec. d.C.;
- canale o fosso di scarico di epoca bassomedievale e rinascimentale,
riempito con ceramiche e scarti di pasto;
- casa medievale, databile al X-XI sec. d.C., situata nel settore nord
dell'area di scavo, occupa in parte gli spazi dell'edificio bizantino e
della strada;
necropoli altomedievale, di cui sono state rinvenute tombe di varia
tipologia.
Al di sotto della fase bizantina, nel settore nord del complesso,
sono stati identificati: edificio tardo imperiale con mosaici del
IV-V sec. d.C. di incerta destinazione, dove compare l'emblema
del Buon Pastore;
- altri ambienti tardoimperiali, presumibilmente abitativi;
- un impianto termale romano, risalente al III sec. d.C., dotato di vasche in marmo e
mosaico;
- domus del II sec. d.C. con pavimenti in mosaico bianconero;
- un edificio del II - I sec. a.C. che presenta varie fasi d'uso.
Al di sotto della fase bizantina, nel settore sud dello scavo, sono state identificate:
- una fase di IV - III sec. con ambienti a mosaico;
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- una domus di età augustea con fauces (corridoio che separa atrio e ingresso), probabili
botteghe, vestibolo, atrio e impluvium con importanti pavimenti musivi; strutture di età
repubblicana confluite nella domus augustea.
Prima dei lavori di scavo, finalizzati alla costruzione di garages, la scarsa consistenza del
terreno e la presenza dell'acqua di falda hanno reso necessaria la creazione di una
palificata formata da pali di cemento armato, lungo i bordi del futuro scasso.
Inoltre, poiché i pali a sostegno delle pareti laterali raggiungevano una profondità
limitata, per ragioni di sicurezza gli strati inferiori sono stati indagati per campioni,
mettendo in luce solo planimetrie parziali.
Il palazzotto bizantino, di cui sono stati individuati 14 ambienti coperti e 2 cortili, presenta
almeno 3 differenti fasi edificatorie: la prima risale alla fine del V - inizio VI sec. d.C.; la
seconda è databile alla metà del VI sec. d.C., la terza ed ultima fase è relativa alla fine del VIinizio VII sec. d.C.
Durante la prima fase costruttiva, l'atrio di questo edificio (stanza 2) - che presenta un
tappeto musivo a quadrati e rettangoli, decorati con elementi vegetali e geometrici stilizzati - ha
interrotto la strada di origine romana che in precedenza divideva due isolati distinti. Tale
strada, larga metri 5, è dotata di un basolato centrale e su entrambi i lati presenta marciapiedi
rialzati con bordi in grandi blocchi di trachite, una pietra di origine vulcanica. Nel corso degli
scavi sono state identificate quattro fasi di reinnalzamento dell'asse viario, necessarie per
adattarlo all'abbassamento del terreno dovuto al fenomeno della subsidenza. L'interruzione di
un suolo pubblico può essere giustificato dall'influenza politica ed economica del proprietario
dell'edificio; il settore del palazzetto situato a nord della strada aveva funzioni pubbliche,
mentre quello a sud probabilmente era destinato all'utilizzo privato.
I due riquadri in mosaico (emblemata) recuperati negli scavi appartengono ad epoche
diverse. Il cosiddetto Buon Pastore, che proviene da un edificio di grandi dimensioni
sottostante il settore nord del palazzetto bizantino, è stato datato alla fine del IV sec. d.C.; la
raffigurazione con la Danza dei Geni delle Stagioni è contemporanea al palazzo stesso, del VI
sec. d.C. Entrambi hanno posto problemi, non ancora del tutto risolti, in merito
all'interpretazione tipologico-stilistica da un lato e simbolica dall'altro. Per il più antico dei due,
il dubbio si palesa già nella definizione, cosiddetto Buon Pastore, poiché gli scopritori gli
attribuirono questo nome nell'immediato del ritrovamento, ma l'elaborazione successiva lo ha
reso motivo di discussione in quanto sono assenti quegli attributi che solitamente identificano
questo tema religioso, nimbo, ovvero l'aureola, e pecora sulle spalle, che ci permetterebbero un'
identificazione certa di questo personaggio con il Buon Pastore dell' iconografia religiosa
cristiana, quando essa diviene standardizzata.
Si è comunque voluta interpretare in senso religioso ed esaltativo la presenza,
effettivamente non usuale, dei due uccelli azzurri ai lati del capo del pastore, che
fungerebbero essi stessi da "ideale aureola" o da cornice onorifica difficilmente attribuibile
a un pastore qualsiasi: il fatto inoltre che essi siano realizzati in pasta vitrea e non in
marmo, come di norma per i mosaici pavimentali, è stato letto come conferma ulteriore del
carattere agiografico della raffigurazione. Il fascino di questa interpretazione, per altro ad
oggi non ancora smentita, deve comunque tener conto del fatto che altre volte nei
pavimenti è stato impiegato il vetro, ma solo per supplire alla mancanza in natura dei colori verde e azzurro senza che questo dunque implicasse alcunché di simbolico.
Dal punto di vista stilistico, la scarna essenzialità della raffigurazione, la frontalità,
l'appiattimento, la semplificazione esasperata di qualsiasi elemento naturalistico e
l'espressionismo accentuato in certi particolari, come ad esempio gli occhi del pastore,
presentano analogie con immagini contemporanee di ambiente aquileiese, ma si
inseriscono in maniera anomala nel contesto artistico ravennate della fine del IV sec.: se,
infatti, pensiamo ad esso come all'antenato più prossimo del Buon Pastore nel mausoleo di
Galla Placidia, che è posteriore di alcuni decenni, saranno sicuramente evidenti le
differenze stilistiche. Problemi di tipo diverso presenta l'altro emblema “delle stagioni”.
In primo piano, di spalle, è rappresentato l'Autunno con una corta tunica decorata e una
semplice corona sul capo nella quale i toni violacei di alcune tessere fanno pensare anche a
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presenze di grappoli d'uva; a sinistra è la Primavera con una corona di rose e foglie verdi, a
destra era invece raffigurata l'Estate, purtroppo quasi del tutto perduta. In secondo piano,
visto frontalmente, compare l'Inverno, l'unico coperto da un mantello con cappuccio
adorno di canne e calzato con babbucce, a differenza degli altri tre personaggi che
indossano tutti i sandali: il musico sullo sfondo è una probabile personificazione del tempo
al cui suono danzano, alternandosi, le stagioni.
Una singolarità è il fatto che qui siano maschili, mentre le raffigurazioni delle stagioni
sono solitamente femminili.
Inoltre, nella sequenza dei personaggi vi è qualcosa che rimane ambiguo. Le stagioni,
infatti, non si susseguono nell'ordine usuale ma ne seguono probabilmente uno simbolico:
all'Inverno è contrapposto l'Autunno anziché l'Estate.
Lo stesso "girotondo" è una particolarità: in altri contesti, precedenti e coevi, le
personificazioni delle stagioni si trovano isolate, o si tengono per mano danzanti o in volo e
comunque si muovono non in cerchio bensì in fila, seguendo un andamento rettilineo così
come rettilineo è inteso il tempo dal cristianesimo, estraneo dunque al concetto invece
pagano di una circolarità ininterrotta che non prevede fine. Questo tipo di raffigurazione,
piuttosto anomala, potrebbe dunque essere la risposta a una richiesta particolare del
proprietario dell'edificio che la volle in linea con le sue personali credenze o inclinazioni
culturali. Stilisticamente, infatti, i quattro personaggi non sembrano affatto risentire di quel
tipico processo di semplificazione, appiattimento e "astrazione", caratteristico del periodo
bizantino, evidente ad esempio nei contemporanei mosaici di San Vitale, ma anzi si
esibiscono in una danza animata da un inedito senso della spazialità, della tridimensionalità
e proporzione dei corpi.
I Geni delle Stagioni sono naturalisticamente inseriti in uno spazio reale all'interno del
quale si muovono liberamente denunciando la loro palese matrice orientale, probabilmente
costantinopolitana, dove gli echi dell'arte classica ed ellenistica erano evidentemente meno
sopiti.In questa epoca, specialmente in Occidente per gli edifici religiosi, è rara anche la
collocazione di un soggetto di tal genere all'interno di un mosaico pavimentale, poiché
solitamente vi troviamo decorazioni con motivi geometrici o vegetali, ma quasi mai con figure
umane. Di conseguenza tale emblema può essere giustificato dal fatto che la scena fosse
probabilmente la trasposizione musiva di un quadro da cavalletto e non è irrilevante tener
anche presente come questa immagine fosse destinata ad un edificio privato, nel quale vi era
più libertà di espressione rispetto agli ambienti ufficiali pubblici.
Dal punto di vista tecnico, l'esecuzione è di buon livello e realizzata quasi sicuramente da
mano d'opera locale: i materiali utilizzati comprendono, oltre al marmo, paste vitree verdeturchese nel mantello dell'Inverno e, cosa ancor più straordinaria per un pavimento, l'uso di
tessere d'oro nella syrinx, lo strumento musicale del Tempo, personaggio in secondo piano,
costituita da una serie di canne di lunghezza diversa sulle quali sono praticati dei fori per le
varie tonalità. Si è inoltre ipotizzata la collaborazione di diversi mosaicisti nell'esecuzione
dell'emblema date le differenze stilistiche evidenti nelle ombre, nei volti dei personaggi e nelle
dimensioni delle mani del musicista che si muovono sullo strumento.
Per quanto riguarda i mosaici a motivi geometrici scoperti durante lo scavo del complesso,
forse più "prevedibili" rispetto agli emblemata, ma certamente non meno spettacolari per
l'ampia gamma cromatica dei materiali utilizzati e per la tecnica esecutiva, essi presentano una
vastissima varietà tipologica mutuata, nella maggioranza dei casi, da esempi più antichi. Le
decorazioni con motivo ad annodamenti, a cassettoni, ad astragali, a croci polilobate derivano
da prototipi greci, africani e orientali in genere, rispecchiando così una delle caratteristiche più
importanti del complesso e affascinante periodo bizantino: la compenetrazione tra due culture,
quella occidentale e quella orientale che, lungi dal generare qualcosa di stanco e ripetitivo, darà
invece vita, soprattutto a Ravenna, ad uno stile del tutto nuovo, particolare ed eclettico.
Nota: queste dispense sono degli appunti messi insieme dal docente.
Sono gradite segnalazioni di refusi tipografici o sviste eventualmente occorse nella stesura del testo.
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Piccolo glossario di architettura e arte bizantina:
Abside - Parete posteriore della chiesa a pianta semicircolare o poligonale. Al suo interno corrisponde il
coro, che è il fondo terminale della navata centrale
Acanto - Pianta d'oriente a foglie larghe, che suggerì, dice la leggenda, all’ateniense Callimaco, il motivo
del capitello corinzio, usatissima nella decorazione greca e romana
Acroterio - Elemento decorativo o figurato che corona il vertice e gli angoli del frontone
Altorilievo - Scultura eseguita su una superficie piatta ma con forte rilievo in modo cioè che le figure
sporgano dal piano
Ambone - Pulpito appoggiato a terra e con il pavimento sopraelevato. Serve per la lettura del vangelo che
viene appoggiato al leggio
Ambulacro - Ambiente secondario per lo più a portico sviluppato nel senso della lunghezza
Ardica (Nartece) - Porticato che nelle chiese cristiane precedeva l'ingresso addossato per tutta la fronte,
alla facciata (riduzione del quadriportico)
Bassorilievo - Scultura su fondo piano dal quale le figure sporgono con poco aggetto e nessuna parte si
distacca completamente dal piano
Bifora - Finestra divisa longitudinalmente in due parti da colonnina o da pilastrino e così trifora per la
finestra in tre spazi
Cantaro - Grosso recipiente per bere a due anse
Capitello - Parte terminale alta della colonna
Capriata - Struttura triangolare in legno o ferro avente lo scopo di reggere il tetto
Cassettone - Scomparto ad incavo, quadrangolare o poligonale, usato nei soffitti, nelle volte, nelle cupole
Casula – Veste liturgica caratterizzata da mantello gettato sulle spalle e pighetatto
Catecumeni - Chi, convertito al cristianesimo, si prepara a ricevere il battesimo
Cattedra - Generalmente il seggio episcopale, posto nel centro dell'abside delle basiliche cristiane
Cattedrale - Chiesa in cui vi è la cattedra del Vescovo Ciborio - Baldacchino generalmente su colonne, che
copre l'altare a simbolica protezione
Clamide - Manto (simbolo d'autorità)
Clipeo - Ha origine dallo scudo usato dalle milizie romane
Cripta - Sotterraneo o grotta, generalmente sotto la chiesa, in cui vi sono sepolture e reliquie
Cuspide - Coronamento a forma triangolare di un edificio o di parte di esso
Diaconicon - Piccolo altare o ambiente sulla destra dell’abside che serve ai celebranti per indossare i
paramenti.
Edicola - Tempietto costruito a protezione di una statua
Estradosso - La superficie esterna (convessa) di un arco o di una volta
Etimasia - Adorazione dei magi
Fornice - Lo spazio determinato dall'arco su colonnine o piedritti
Fregio - Spazio interposto fra l'architrave e la cornice. E di frequente ornato
Intradosso - Superficie interna (concava) di un arco 0 di una volta
Lesena - Parte di pilastro addossata al muro, con funzione puramente decorativa
Lunetta - Spazio a forma di mezzo cerchio o di triangolo mistilineo posto fra un peduccio e l'altro delle volte
o lo spazio fra l'architrave e l’arco di una parte
Mensa - Tavola dell'altare
Modanatura - Elemento decorativo che sporge dal vi vo del muro. Ha andamento continuo. La sua sporgenza dal muro si chiama aggetto
Nartece - Portico dinanzi le antiche basiliche cristiane diffuso nel VI sec. corrispondente al pronao. Vi si
raccoglievano i catecumeni non ancora ammessi all'interno della chiesa (vedi ardica)
Navata - Spazio longitudinale di una chiesa, diviso da file di colonne o di pilastri
Nimbo - Aureola
Paliotto - Rivestimento liturgico dell'altare che nasconde la parte anteriore della mensa
Pallio - Antico mantello indossato dagli antichi greci e dai romani; in liturgia portato sopra la pianeta
Pastophoria - Locali accessori fiancheggianti l'area dell'altare, destinati rispettivamente a protesi e
diakonikon quando questi sono in locali separati
Patena - Piatto di metallo a largo orlo usato per coprire il calice e per contenere l'ostia
Pàtera - Vaso piatto rotondo, che nell'antichità servi va per le libagioni che si facevano nei funerali
Peduccio - Pietra di sostegno per gli spigoli delle volte
Pianeta - Sopravveste liturgica indossata dal sacerdote per celebrare la messa, E’ stata proibita dal Concilio
vaticano Ii in quanto eccessivamente lussuosa e fuorviante.
Pilastro - Sostegno a sezione quadrata o rettangolare
Pluteo - Parapetto istoriato di legno, metallo odi pietra che delimita l'altare, la cantoria o i presbiterio
Presbiterio - Parte della chiesa dove è posto l'altare maggiore, spesso chiuso con balaustra
Protesi - Piccolo ambiente a fianco dell'abside; sacrestia dei presbiteri ove veniva preparato quanto
necessario per la comunione eucaristica
Protiro - Piccolo atrio addossato all'ingresso delle chiese romaniche ed ogivali, il cui arco frontale è sostenuto da due colonne
Pulvino - Elemento architettonico che sovrasta il capitello bizantino sul quale poggia l'arco Quadriportico
- Porticato quadrangolare dinanzi le basiliche cristiane; il lato annesso alla facciata si chiama nartece
Sacello - Piccola cappella, oratorio
Sguancio - Spessore di un muro attorno ad una finestra o porta
Timpano - Spazio triangolare tra le cornici del frontespizio
Transenna - Parapetto decorato con motivi traforati, divisorio, balaustra
Transetto - Navata trasversale della chiesa. Forma con la navata principale la croce latina o la greca Trifora
- Finestra divisa in tre spazi da colonnina Turibolo - Incensiere (vedere S. Giovanni Evangelista dove si parla
dei mosaici a soggetto popolare - funerale della volpe)
Volta - Copertura curva nell'interno di una chiesa, salone, ecc.
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