STRUMENTI FORMEZ I T I l Formez-Centro di Formazione Studi ha avuto, da sempre, una particolare attenzione per le iniziative editoriali. Fin dai primissimi anni di attività si è impegnato nella produzione e divulgazione di collane e riviste su cui intere generazioni di funzionari pubblici si sono formate. N In seguito al decreto legislativo 285/99, che ha individuato nel Formez l’Agenzia istituzionale che sostiene e promuove i processi di trasformazione del sistema amministrativo E italiano, l’attività editoriale del Centro è stata rilanciata e rinnovata nella veste grafica e nei contenuti. Sono state create tre nuove linee editoriali: M Quaderni, Strumenti e Azioni di Sistema per la Pubblica Amministrazione. In queste collane vengono pubblicati i risultati delle attività formative e di ricerca U svolte dall’Istituto. Con “Quaderni” si diffondono Rapporti e riflessioni teoriche su temi innovativi per la P.A., mentre con due collane più specialistiche, quali R “Strumenti” e “Azioni di Sistema per la Pubblica Amministrazione”, si mettono a disposizione strumenti di lavoro o di progettazione per quanti T lavorano o si occupano di P.A. Tutte le pubblicazioni con un breve abstract S vengono presentate sul web (www.formez.it). Carlo Flamment Presidente Formez 35 COSTRUZIONE E USO DI UN MODELLO DI COMPETENZE Il caso Agenzia delle Entrate F o r m e z • U f f i c i o S t a m p a e d E d i t o r i a A cura di Girolamo Pastorello, Direttore del personale Agenzia delle Entrate Con la collaborazione di Emanuela Valentini, responsabile Ufficio sviluppo del personale Agenzia delle Entrate Cinzia Castelli, Giuseppe Coppola, Rita Femia, Domenico Mastropierro, funzionari Agenzia delle Entrate Organizzazione editoriale Roberta Crudele, Vincenza D’Elia, Paola Pezzuto Premessa 7 La scelta di pubblicare questo volume nasce da un convincimento: l’obiettivo della crescita qualitativa delle pubbliche amministrazioni richiede, insieme certo ad altre iniziative, anche la messa a punto di strumenti – validi e affidabili – di rilevazione della qualità delle prestazioni di lavoro. Se è vero infatti che, a parità di qualità delle persone, è il modello organizzativo che può fare la differenza, è anche vero che, a parità di modello organizzativo, è la qualità delle persone, e la motivazione che esse ricavano dal riconoscimento del proprio valore, che può fare la differenza. Tale convincimento si salda poi con quest’altro: chiusure corporative e proclamazioni di bravura, tutte autoreferenziali, non serviranno a restituire dignità e orgoglio al lavoro pubblico – che poi è ciò che più sta a cuore a chi fa con passione questo lavoro – ma varranno solo ad alimentare le peggiori accuse da sempre rivolte ai lavoratori pubblici di questo Paese. Che dovrebbero perciò aver interesse a far propria questa massima molto semplice: dimostrare nei propri confronti, e nei confronti dei propri colleghi, lo stesso rigore di giudizio che tendono in genere a esprimere, come cittadini e utenti, nei confronti del personale di altre amministrazioni pubbliche. Da questi due convincimenti traggono ispirazione alcune ricerche ed esperienze sviluppatesi in questi anni nell’Agenzia delle Entrate sotto la denominazione di “progetto Antares”. Nel volume vengono organicamente presentati alcuni dei temi chiave del progetto: la costruzione di un modello di competenze e le linee essenziali di una teoria critica della valutazione professionale. Per citare un brano del volume, “un modello di competenze si può molto schematicamente definire un insieme strutturato di conoscenze, capacità e valori che un’organizzazione chiede e si attende da coloro che vi lavorano per raggiungere al meglio gli scopi per cui essa esiste. Sottrarsi a una chiara definizione di queste aspettative significa, per un’organizzazione, venir meno ad una delle sue principali responsabilità gestionali. Sicché, sotto questo aspetto, la differenza tra un’organizzazione e l’altra è, alla fine, solo questa: se le aspettative siano formulate in modo esplicito, chiaro e organico – e in questo senso prendono appunto la forma di un ‘modello’ – o se invece rimangano vaghe, mal definite e persino ambigue, consentendo così, se non addirittura favorendo, scelte gestionali opache o, comunque, poco trasparenti, dalle quali è il personale stesso che viene per primo ad esserne danneggiato”. “Modello di competenze” e “sistema di valutazione” non sono la stessa cosa: il primo indica una costellazione di aspettative di lavoro, il secondo riguarda le modalità di verifica della risposta a tali aspettative. Il contenuto delle aspettative è dato dalle competenze cui 8 un’organizzazione attribuisce valore in quanto generatrici di performance elevata. Le aspettative sono formulate dal modello in modo generale (cioè senza riguardo a questa o a quella singola persona) e astratto (cioè senza riguardo a questo o a quel caso concreto). La verifica delle aspettative riguarda invece persone particolari in situazioni determinate. Insomma, con la costruzione di un modello di competenze, un’organizzazione dichiara cosa si attende in termini di azioni produttive di performance superiore. Con un sistema di valutazione, l’organizzazione rileva invece con procedure formalizzate se e in quale grado le azioni dei singoli corrispondano a quelle attese. Una cosa è definire l’intreccio delle competenze richieste ai componenti di un’organizzazione (qui siamo nell’ambito del “modello di competenze”), un’altra è stabilire se e in quale misura, in che modo, nei riguardi di chi, ad opera di chi e, infine, con quali effetti, le competenze descritte nel modello debbano formare oggetto di procedure formali di verifica (qui siamo nell’ambito del “sistema di valutazione”). Una risposta a queste domande non appartiene a un modello di competenze ma a un sistema di valutazione. Lo snodo tra modello di competenze e sistema di valutazione segna il passaggio dall’ambito dei valori e della cultura dell’organizzazione a quello della normazione del rapporto di lavoro che non può non essere oggetto del sistema di relazioni sindacali. Che significa, infine, “teoria critica della valutazione professionale”? Significa un’analisi ragionata dei problemi cui si va incontro (e delle sue possibili soluzioni) quando si passa dalla tradizionale valutazione indiretta della professionalità (tramite titoli di servizio o prove teoriche o teorico-pratiche) alla valutazione diretta, sul campo, della prestazione di lavoro. I capisaldi di questa teoria critica – che è stata sviluppata attingendo, con approccio interdisciplinare, a una molteplicità di studi riguardanti in particolare il comportamento organizzativo, la motivazione al lavoro e la valutazione dei processi formativi – sono l’analisi dei concetti di oggettività, validità e attendibilità della misurazione, l’approfondimento della complessa tematica legata ai fattori distorsivi della valutazione e la disamina delle strategie gestionali che possono modificare i meccanismi di convenienza degli attori di un’organizzazione orientandoli virtuosamente verso la veridicità o, come si potrebbe anche dire, la serietà delle valutazioni. Insomma, una sorta di “minicritica della ragion valutativa” (se si è disposti a perdonare l’imperdonabile assonanza con il titolo di ben altre Critiche), concepita come propedeutica a una seria discussione sull’introduzione di sistemi di valutazione della prestazione di lavoro nelle amministrazioni pubbliche. Questi temi sono analizzati nel volume attingendo alla concreta esperienza organizzativa dell’Agenzia delle Entrate. Nelle nuove procedure di reclutamento dei funzionari dell’Agenzia, che hanno il loro perno nella valutazione sul campo delle competenze professionali, è da tempo in corso – con affinamenti progressivi suggeriti dall’esperienza e dalla riflessione sulle criticità incontrate – un’importante applicazione sperimentale di sistemi di rilevazione e apprezzamento delle prestazioni lavorative. L’elaborazione che ne è stata fatta può offrire utili spunti di riflessione a chiunque sia interessato nella propria amministrazione a sviluppare nuove, e più soddisfacenti, esperienze di autentica valorizzazione del lavoro pubblico. Carlo Flamment Presidente Formez INDICE PARTE PRIMA Costruzione di un modello di competenze 1. Introduzione 2. Il problema della costruzione di un modello di competenze 3. Le origini del concetto di “modello di competenze” 4. Il modello delle competenze dell’Agenzia delle Entrate 4.1 Definizione di competenza 4.2 Struttura del Dizionario delle competenze 4.3 Contenuti del Dizionario delle competenze 9 11 13 15 17 21 21 23 25 PARTE SECONDA Uso di un modello di competenze 1. Lo snodo tra modello di competenze e sistema di valutazione 2. Le criticità della valutazione: oggettività e veridicità 3. L’oggettività del sistema di valutazione 3.1 Perché non bastano le valutazioni “a fiuto” 3.2 L’oggettività dei criteri di valutazione 3.3 La capacità di giudizio degli attori della valutazione 4. La veridicità delle valutazioni 4.1 La situazione del valutatore 4.2 La situazione del valutato 4.3 La cultura della valutazione 5. La comunità dei valutanti 31 36 38 39 40 43 45 46 51 52 57 PARTE TERZA Dizionario delle competenze 61 Competenze intellettive e prestazione di lavoro 1. Dinamismo intellettivo (Intuito & Costruzione logica) 1.1 Il dinamismo intellettivo come capacità di individuare e inquadrare “problemi chiave” 1.2 Il dinamismo intellettivo come capacità di strutturare problemi e di risolverli. Il “Problem IS-Solving” 1.3 La rilevazione del dinamismo intellettivo Competenze extraintellettive e clima di lavoro Affidabilità 1. 1.1 Coerenza 1.2 Passione per il lavoro 29 63 63 64 68 73 99 99 99 102 2. 3. 10 4. Dinamismo realizzativo 2.1 Iniziativa 2.2 Tensione al risultato 2.3 Sviluppo e diffusione del sapere Dinamismo relazionale 3.1 Orientamento all’altro 3.2 Fare squadra 3.3 Flessibilità Leadership 4.1 Team building (Organizzazione e sviluppo di un gruppo) 4.2 Influenza 105 105 106 108 110 111 114 116 117 118 119 APPENDICE 1. Testare la competenza invece dell’“intelligenza” 2. I “superior performers” e il concetto di deviazione standard 3. La distinzione fra competenze e risultati 4. L’iceberg delle competenze 5. Il dibattito sulla nozione di “competenza” 6. Il metodo degli expert panels 7. Dall’analisi dei singoli comportamenti al disegno della mappa delle competenze 8. Linguaggio qualitativo e linguaggio quantitativo nella descrizione delle competenze 9. L’equità procedurale 10. I limiti delle casistiche 11. Il dilemma del prigioniero 12. Il valore della medietà e lo spazio della formazione 123 125 127 129 130 131 137 INDICE DEI NOMI 167 138 152 158 159 160 162 PARTE PRIMA COSTRUZIONE DI UN MODELLO DI COMPETENZE 11 COSTRUZIONE DI UN MODELLO DI COMPETENZE 13 Per quanto sia audace esplorare l’ignoto, lo è ancor di più indagare il noto Kaspar 1. Introduzione Cos’è un “modello di competenze”? Cominciare con una definizione rischia di annoiare immediatamente il lettore, ma eludere questa domanda, senza tentare di darvi subito una risposta, anche solo provvisoria e sommaria, comporta un rischio peggiore: quello di ingenerare confusione. Un modello di competenze si può molto schematicamente definire un insieme strutturato di conoscenze, capacità e valori o, come si può anche dire, un reticolo organico di sapere, saper fare e saper essere, che un’organizzazione chiede e si attende da coloro che vi lavorano per raggiungere al meglio gli scopi per cui essa esiste. Sottrarsi a una chiara definizione di queste aspettative, significa per un’organizzazione venir meno ad una delle sue principali responsabilità gestionali. Sicché, sotto questo aspetto, la differenza tra un’organizzazione e l’altra è, alla fine, solo questa: se le aspettative siano formulate in modo esplicito, chiaro e organico – e in questo senso prendono appunto la forma di un “modello” – o se invece rimangano vaghe, mal definite e persino ambigue, consentendo così, se non addirittura favorendo, scelte di gestione opache o, comunque, poco trasparenti, dalle quali è il personale stesso che viene per primo danneggiato. La domanda di partenza è stata in sostanza questa: “Quali comportamenti è giusto chiedere al nostro personale, affinché un’istituzione pubblica fondamentale come l’Agenzia delle Entrate dia alla collettività e ai singoli contribuenti il servizio migliore possibile?”. La risposta a tale domanda è generalmente questa: “preparazione, intelligenza, equilibrio, onestà, voglia di lavorare, spirito collaborativo, iniziativa, capacità di ascolto”. È una risposta che viene data subito da chi vive nella nostra organizzazione e ne condivide con orgoglio la missione, e non è molto dissimile dalla risposta che egli stesso darebbe se, ad esempio, da paziente, o da familiare di un paziente di un ospedale pubblico, gli venisse chiesto cosa esige dai medici e dagli infermieri che vi lavorano. Ebbene, la costruzione del modello di competenze è essenzialmente consistita in uno “scavo rifles- COSTRUZIONE DI UN MODELLO DI COMPETENZE 14 sivo” e in una elaborazione di queste tipiche espressioni del linguaggio ordinario e del senso comune. Invece di farne oggetto di avversione snobistica, quasi fossero di per sé inconsistenti, arbitrarie o grossolane, si è cercato, con il supporto di una metodologia ampiamente accreditata a livello internazionale, di definirne, svilupparne e strutturarne la “sapienza valutativa” in esse incapsulata, eliminandone il carattere vago e impressionistico e depurandole da preconcetti e stereotipi (quelli che albergano in ciascuno di noi e che purtroppo tendono spesso a rafforzarsi quando esercitiamo il ruolo di “capi”). L’intera operazione può rappresentarsi come una sorta di codificazione ragionata di saperi e vissuti quotidiani (tali sono i giudizi di esperienza semplici e immediati, e tuttavia densi di significato, che ricorrono quotidianamente nelle relazioni di lavoro all’interno delle organizzazioni), che ha, tra le sue finalità, anche quella di porre le basi per la costruzione di un sistema di valutazione quanto più possibile oggettivo, ove “oggettivo” significa “intersoggettivo”, cioè condiviso dalla comunità dei valutanti. Termine, quest’ultimo, con il quale ci si intende riferire a tutti i componenti di un’organizzazione, perché, all’interno di essa, tutti continuamente – ne siamo o no consapevoli – valutiamo e siamo valutati. Di qui il nome – Antares – che si è dato al modello. È la stella più luminosa della costellazione dello Scorpione. Tanto luminosa, da rivaleggiare – secondo gli antichi – con il pianeta Marte, intitolato, per la sua colorazione rossastra, al dio della guerra. E infatti Antares significa anti (contro) Ares, che era il nome greco del dio della guerra. Ecco allora perché si è scelto questo nome (Antares = antagonista di Marte) per il modello descritto in questo manuale. Tra i suoi intenti vi è quello di dare vita a un grande confronto all’interno dell’organizzazione e con le rappresentanze del personale per costruire un sistema di rilevamento e valorizzazione dei meriti e delle capacità professionali quanto più possibile obiettivo. E che riesca quindi a sottrarre la valutazione stessa al terreno dello scontro e del conflitto (cioè al terreno della “guerra”). L’Agenzia è pienamente cosciente della complessità di tale progetto. E tuttavia c’è un convincimento forte che sostiene e dà impulso a questa impresa, ed è la consapevolezza che è un falso problema chiedersi se si debbano o no valutare le competenze del personale. Un’organizzazione che abbia il senso della responsabilità gestionale valuterà sempre e comunque le competenze. Si tratta perciò solo di decidere se debba valutarle informalmente e in modo “clandestino”, con giudizi vaghi e impressionistici – e quindi, se non errati, incontrollabili – oppure formalmente e in modo trasparente, con giudizi strutturati e compiutamente definiti nel loro significato, e suscettibili così di verifica obiettiva. Non sembra esagerato affermare che la seconda opzione – che inizia a prendere forma nella costruzione del modello delineato in questo manuale – è anzitutto una scelta di civiltà organizzativa. COSTRUZIONE DI UN MODELLO DI COMPETENZE 2. Il problema della costruzione di un modello di competenze Un’organizzazione vive del lavoro di tutti, ma non tutti lavorano allo stesso modo. Diverse possono essere le ragioni per le quali alcuni lavorano di più e meglio ed altri meno e meno bene. Chris Argyris, uno dei maggiori studiosi dell’apprendimento organizzativo e della dinamica delle motivazioni umane all’interno delle organizzazioni, ha scritto che l’apatia e la mancanza d’impegno sul lavoro non sono sempre e semplicemente una questione di pigrizia individuale ma possono rappresentare una reazione di persone normali ad un ambiente anormale (una reazione “salutare”, come l’ha definita lo studioso americano)1. Per suggerire prognosi con cognizione di causa, bisogna però prima fare diagnosi ragionevolmente sicure. In che senso possiamo dire che “alcuni lavorano di più e meglio ed altri meno e meno bene”? Fa sicuramente parte del concetto di “civiltà organizzativa”, cui si è prima accennato, rendere anzitutto trasparenti i criteri di valutazione del lavoro in base ai quali compariamo le diverse prestazioni. Proprio qui sta la principale difficoltà metodologica intrinseca alla costruzione di un modello di competenze. Il problema è come enucleare definizioni valide e affidabili della “bravura professionale”, andando al di là di giudizi vaghi e generici, se non arbitrari, o comunque puramente impressionistici e intuitivi. Perché, se è vero che in un’organizzazione – come, in generale, nella vita – l’intuizione è preziosa, è anche vero però, stando a quanto diceva un grande leader francese riguardo ai capi, che nulla tradisce più dell’intuizione (come appunto i capi imparano spesso a proprie spese e purtroppo, non di rado, anche a spese delle organizzazioni che dirigono e delle persone che vi lavorano). È proprio in questo sforzo di oggettivazione che si traduce la messa a punto di un “modello di competenze”. Nel linguaggio della scienza, un modello è una rappresentazione “semplificata” della realtà. Essendo la realtà “inesauribile” (l’espressione è di Kant) e dovendo noi cogliere nell’immensa congerie dei fatti esclusivamente quelli significativi ai fini della spiegazione del problema che ci interessa risolvere, ogni teoria è necessariamente una “semplificazione”, cioè una astrazione dalla realtà, e se la nostra mente non sapesse compiere questo processo di astrazione noi non faremmo che scattare “fotografie” inutili del mondo reale, nel senso che esse non aggiungerebbero nulla alla nostra comprensione del mondo stesso. Sicché l’unica distinzione che va fatta è tutta qui: una buona teoria astrae in modo utile e significativo, una cattiva teoria semplicemente non ci riesce. E quando qualcuno ci dice (come spesso capita) “questo può essere vero in teoria ma non in pratica”, basta replicare: “va bene, dimmi com’è in pratica”. È pressoché certo che il nostro interlocutore non si limiterà ad esporre dei fatti, ma, senza esserne consapevole, enuncerà un’altra teoria, cioè una diversa spiegazione dei fatti. 1 C. Argyris, The individual and organizational structure, in K. Davis e W.G. Scott, Readings in Human Relations, New York, San Francisco, Toronto, London, McGraw-Hill, 1964, pp. 70-78. Argyris ha sviluppato più a fondo questi concetti in Personality and Organization. The Conflict Between System and the Individual, New York, Harper & Row, 1957. 15 COSTRUZIONE DI UN MODELLO DI COMPETENZE Come si fa però a costruire un “modello della realtà”? Con l’osservazione dei fatti, si risponde solitamente. La risposta è giusta, ma incompleta. L’osservazione “pura” – che pone come ideale una mente vergine, sulla quale vanno a incidersi, come su una tavoletta di cera, le percezioni dei fatti – non porta da nessuna parte, perché non fa che restituire la molteplicità irrelata della realtà, cioè il mondo lussureggiante e caotico descritto da William James in questo brano: 16 “Il contenuto del mondo viene dato ad ognuno di noi secondo un ordine così estraneo ai nostri interessi soggettivi che a mala pena con uno sforzo dell’immaginazione possiamo figurarci a cosa assomigli. Dobbiamo rompere quell’ordine e, dopo averne estratto i temi che c’interessano ed averli connessi ad altri molto diversi, che noi diciamo vi sono ‘legati’, riusciamo a percepire nessi ben definiti di sequenze e tendenze, a prevedere disposizioni particolari e a prepararci in loro funzione, a godere della semplicità e dell’armonia al posto di ciò che era caos... Mentre parlo e le mosche ronzano, un gabbiano cattura un pesce alla foce del Rio delle Amazzoni, un albero cade nella selvaggia regione di Adirondack, un uomo starnuta in Germania, un cavallo muore in Tartaria e dei gemelli nascono in Francia. Che significa tutto ciò? Il fatto che questi eventi siano contemporanei gli uni rispetto agli altri e rispetto a un altro milione di eventi altrettanto slegati forma un legame razionale fra loro, e li unisce in qualcosa che abbia per noi il significato di un mondo? Tuttavia, proprio una tale contemporaneità collaterale, e nient’altro, costituisce l’ordine reale del mondo. È un ordine rispetto al quale non abbiamo nulla da fare se non allontanarcene al più presto possibile. Come ho detto, lo rompiamo quell’ordine: lo rompiamo in storie, e in arti, e in scienze; e soltanto allora cominciamo a sentirci a nostro agio. Ne facciamo diecimila di ordini di serie distinti. Rispetto a ognuno di questi, possiamo reagire come se il resto non esistesse. Scopriamo fra le sue parti relazioni che non si erano mai presentate ai nostri sensi – relazioni matematiche, tangenti, quadrati, e radici e funzioni logaritmiche – e a partire dal loro numero infinito assegniamo ad alcune di esse un ruolo essenziale e normativo e trascuriamo tutte le altre. Essenziali queste relazioni lo sono, ma solo per i nostri scopi, poiché le altre relazioni sono altrettanto reali e presenti; e il nostro scopo è semplicemente costruire concetti e prevedere”2. Ciò che ci consente di andare avanti nell’esplorazione della realtà, senza arrestarci ad una stupefatta contemplazione di questo variopinto caos che è il mondo, non è quindi l’osservazione pura ma un’osservazione selettiva dei fatti, e la selezione è operata da ipotesi di un ordine possibile in relazione agli scopi che perseguiamo. Proviamo ora a calare in questa trama di concetti il problema che abbiamo prima enunciato: che significa “bravura professionale” nella nostra organizzazione? Come possiamo trovare un ordine fra i diversi, generici e talora contrastanti significati di bravura professionale che percepiamo nella quotidiana esperienza di lavoro? Quali sono i fattori 2 W. James, The Principles of Psychology, New York, Dover Publications, 1950, vol. 2, p. 635, citato da K. Weick, Organizzare. La psicologia sociale dei processi organizzativi, trad. it. Torino, ISEDI, 1993, pp. 208-209. COSTRUZIONE DI UN MODELLO DI COMPETENZE che determinano la bravura professionale nelle sue diverse sfaccettature? C’è un filo che ci ha guidati in questa ricerca e il filo si dipana dalla storia che ora raccontiamo. È una storia che ci porta un po’ addietro nel tempo, ma che merita di essere narrata per il suo carattere esemplare e per la ricchezza di riflessioni cui può dare spunto. Invece di affastellare parole, concetti e orientamenti desumibili dalla vasta letteratura riguardante le competenze organizzative (rischiando così solo di generare confusione nel lettore), conviene analizzare attentamente questa storia, perché se ne possono trarre – senza annoiarsi troppo – gran parte degli elementi necessari per comprendere i termini esatti della problematica affrontata in questo manuale. 3. Le origini del concetto di “modello di competenze” Agli inizi degli anni ’70, il Dipartimento di Stato americano (l’omologo del nostro Ministero degli Affari Esteri) era sempre più insoddisfatto delle prove selettive utilizzate per reclutare i funzionari dell’USIS (United States Information Service) da inviare all’estero. Gli uffici presso cui questi funzionari andavano a lavorare erano – per intenderci – l’equivalente dei centri di cultura italiana all’estero. Il loro compito era gestire biblioteche, organizzare eventi culturali, tenere conferenze sull’America, stringere legami e avviare relazioni con le comunità locali allo scopo di far conoscere la cultura e la politica americana e coagulare consenso attorno ad esse (negli anni della contestazione giovanile gli uffici dell’USIS erano sistematicamente presi d’assalto dai manifestanti, alcuni dei quali, peraltro, fra un assalto e l’altro, non disdegnavano di frequentare quegli uffici, che non di rado avevano biblioteche ben fornite e organizzavano interessanti iniziative culturali). L’insoddisfazione del Dipartimento di Stato nasceva in particolare dal fatto che i funzionari dimostratisi eccellenti nelle selezioni rivelavano poi, in diversi casi, di non esserlo affatto nella concreta attività di lavoro e, viceversa, non pochi di coloro per i quali si era predetto, sulla base dell’esito delle selezioni, che non sarebbero stati funzionari particolarmente brillanti, si rivelavano invece, alla prova dei fatti, molto bravi. Il Governo americano decise di chiedere una consulenza a David McClelland, uno psicologo di fama internazionale (McClelland era noto soprattutto per i suoi studi di psicologia organizzativa, dedicati in particolare al tema della motivazione). Si trattava anzitutto di capire dov’è che fallissero le prove di esame tradizionali e, in secondo luogo, di trovare tecniche migliori per individuare le capacità professionali e predire performance superiori3. Le prove fino allora utilizzate miravano esclusivamente a 3 La critica che lo studioso americano rivolgeva ai test di abilità intellettiva utilizzati per la selezione professionale era quella di “deficit di validità”, nel senso che non intercettavano, a suo giudizio, le capacità professionali realmente occorrenti per svolgere un lavoro al meglio. Il metodo delle competenze enfatizza invece, come egli diceva, il criterio della validità. La distinzione fra i concetti di “validità” e “affidabilità” della valutazione professionale è fondamentale. Se non se ne acquisisce padronanza, è impossibile comprendere pienamente le criticità della valutazione. Questa distinzione viene delineata più avanti (p. 36). McClelland espose le sue tesi in un famoso articolo del 1973, che, per generale ammissione, rappresenta l’atto di nascita del cosiddetto “movimento delle competenze” (vedi appendice p. 125). 17 COSTRUZIONE DI UN MODELLO DI COMPETENZE 18 verificare il possesso di conoscenze di cultura umanistica occidentale e di storia americana, la perfetta conoscenza dell’inglese ed una specializzazione in discipline economiche o politico-economiche. Per superarle occorreva in genere essere usciti a pieni voti da costose università di élite. Sta di fatto che nel 1970, quando fu dato l’incarico a McClelland, quasi tutti i funzionari dell’USIS all’estero erano maschi, bianchi e di elevata classe sociale. Ed era però anche un fatto – spiacevole per il Dipartimento americano, perché gettava un’ombra sulla correttezza della sua politica di selezione – che tra i funzionari più bravi vi erano spesso proprio le poche donne e i pochi neri in servizio presso gli uffici dell’USIS. Il compito di McClelland era di rispondere alla domanda: se le prove tradizionali non predicono il successo nel lavoro, che cosa si deve fare? Il problema era anzitutto metodologico e McClelland lo affrontò con un approccio scientifico, basato sul campionamento di gruppi contrapposti. Egli decise di usare un campione di funzionari di alto valore professionale e un campione di confronto di elementi mediocri. La scelta dei due gruppi campione di superior performers4 (o di best performers, per usare un sinonimo) e di average performers5 venne affidata al Dipartimento di Stato, nel convincimento che l’Amministrazione fosse comunque in grado di rilevare chi operava con successo e chi no (che Amministrazione sarebbe mai quella che non riuscisse neppure a fare questa distinzione?). L’assunto di base è che ci si accorda più facilmente – come diceva McClelland – su chi è outstanding (fuori dell’ordinario) piuttosto che su che cosa rende qualcuno outstanding6. E l’indagine dello studioso americano si concentrò appunto sull’individuazione di questo “che cosa”. Come secondo passo, McClelland sviluppò una tecnica chiamata BEI (Behavioral Event Interview = Intervista sugli eventi comportamentali) per identificare in modo scientificamente plausibile che cosa facessero i migliori di più o di diverso o con maggiore frequenza rispetto a quelli mediocri7. Ai funzionari venne chiesto di raccontare dettagliatamente che cosa avevano fatto nelle situazioni più critiche incontrate nel loro lavoro8, con domande del genere: come si arrivò a quella situazione? Chi vi era coinvolto? Che cosa 4 Chi sono i superior performers? Solitamente, nella letteratura che si è formata sulla scia del lavoro di McClelland si dà di questo termine una definizione di tipo statistico: sono coloro che eseguono performance pari a una deviazione standard al di sopra della performance media, ossia la fascia “top” del 15% dei componenti di un’organizzazione in una distribuzione normale a 4 fasce (inferiori, medio-inferiori, mediosuperiori, superiori). Il che vuol dire “grosso modo, il livello raggiunto da una persona su 10, in una situazione di lavoro data” (L.M. Spencer e S.M. Spencer, Competenza nel lavoro. Modelli per una performance superiore, trad. it. Milano, FrancoAngeli, 1995, p. 35. Per brevità, gli autori dell’opera appena menzionata verranno di seguito citati come “Spencer & Spencer”). La questione è approfondita in appendice a p. 127. 5 Average significa “medio”. Come scrisse McClelland, il gruppo degli average performers era costituito da coloro che “lavoravano quel tanto che bastava per non essere licenziati”. Si trattava quindi di just average performers e cioè di “mediocri” più che di “medi”. 6 “People agree more readily on who is outstanding that on what makes them outstanding” (tratto da Identifying competencies with behavioral-event interviews, in «Psychological Science», 1998, 9, p. 338). 7 Come dice il proverbio “una rondine non fa primavera”. Non è un solitario successo che basta a determinare il valore complessivo di una prestazione professionale, né, inversamente, è un singolo fallimento che può negare o attenuare quel valore. 8 Il senso di questo metodo dovrebbe apparire subito chiaro. Esso prende le distanze dal tradizionale approccio della psicologia organizzativa (che è poi quello comunemente sotteso – con minore o maggiore raffinatezza a seconda dei casi – alla costruzione dei “profili professionali”) consistente nell’eseguire analisi COSTRUZIONE DI UN MODELLO DI COMPETENZE pensò, provò e decise di fare per risolvere quella situazione? Cosa fece effettivamente? Cosa accadde? Quale fu l’esito dell’episodio? Le interviste consentirono di raccogliere alcune centinaia di racconti delle situazioni più critiche incontrate da quei giovani funzionari nella loro missione all’estero. Si trattava a questo punto – e fu il terzo passo del percorso seguito da McClelland – di passare dalla miriade di singoli comportamenti descritti nelle interviste a un raggruppamento per categorie tematiche dei comportamenti stessi9. Ognuna di queste categorie identificava le caratteristiche individuali che distinguevano i due gruppi campione (caratteristiche che non erano invece intercettate dalle prove tradizionali di accesso). Nel caso dei funzionari dell’USIS tali caratteristiche – che d’ora in poi chiameremo “competenze” (dandone in seguito una definizione più precisa) – risultarono essere principalmente tre: • sensibilità personale alle altre culture10; separate della mansione e della persona, cercando poi di combinarle insieme in un secondo tempo. Come osserva McClelland, questo approccio può funzionare bene quando si tratta di predire il rendimento scolastico sulla base di test di attitudine allo studio (anche se pure qui la più moderna pedagogia – imperniata sul concetto di istruzione individualizzata diretta a superare le disuguaglianze di partenza – avrebbe qualcosa da dire), ma si dimostra del tutto inadeguato per predire la performance di valore nelle mansioni più qualificate. In sostanza, nel metodo delle competenze l’analisi comincia con la persona già nella mansione (e non presume, come fanno in genere gli esperti che costruiscono i test attitudinali, di sapere già quali caratteristiche siano necessarie per svolgere bene un certo lavoro) e determina poi, attraverso le interviste sui comportamenti esplicitati in situazioni non strutturate, quali caratteristiche personali siano associabili al successo nella mansione. Il ruolo centrale che gioca in questa impostazione il concetto di analisi della persona già nella mansione appare ancora più chiaro, quando si pensa che originariamente McClelland e i suoi collaboratori avevano ipotizzato di osservare direttamente sul posto di lavoro i funzionari dei due diversi campioni, per scoprire cosa facessero i migliori di più o di diverso dai medi. Questa soluzione fu però ben presto abbandonata perché si rivelò dispendiosa e inefficiente. “Eseguito correttamente, il metodo BEI raccoglie informazione di eventi critici equivalente ai dati dell’osservazione diretta, ma in modo molto più efficiente. 60-90 minuti di intervista possono in pratica produrre tanti dati utili quanti ne può fornire una settimana di osservazione intensa o un anno di regolare attività di lavoro” (L.M. Spencer e S.M. Spencer, Competence at Work. Models for Superior Performance, New York, Wiley, 1993, p. 104. La citazione è tratta dall’edizione originale, poiché la traduzione italiana già menzionata non riporta il capitolo 10 – Designing Competency Studies – in cui compare il passo citato). La tecnica dell’intervista BEI e le sue differenze dai tradizionali metodi di intervista sono descritte con chiarezza nel cap. 11 (Conducting the Behavioral Event Interview) dell’opera di Spencer & Spencer appena citata (neanche questo capitolo è incluso nella traduzione italiana del libro). 9 Come si fa a risalire da tanti singoli comportamenti all’individuazione di poche categorie di comportamenti idonee a spiegare il successo professionale delle persone nell’organizzazione in cui lavorano? In altre parole: come si arriva a disegnare una “mappa di competenze”? La questione viene esaminata in appendice a p. 138. 10 Eccone un esempio ripreso, come altri che riporteremo successivamente, dal libro di Spencer & Spencer: “Quando ero addetto culturale nell’Africa settentrionale, un giorno mi arrivò da Washington l’invito a proiettare un film su un politico americano che i locali, sapevo, consideravano ostile al loro paese. Ero sicuro che, se avessi proiettato quel film, il giorno dopo qualche centinaio di studenti di sinistra inferociti avrebbero appiccato il fuoco alla nostra sede. “Washington pensa che il film sia una gran cosa, ma i locali lo considereranno offensivo”. Dovevo trovare il modo di proiettare il film, per permettere all’Ambasciata di confermare a Washington che avevamo obbedito, ma nello stesso tempo non dovevamo offendere i sentimenti di nessuno dei locali… Decisi di far proiettare il film in un giorno festivo, quando nessuno sarebbe venuto a vederlo”. L’episodio viene così commentato da McClelland: “Questo giovane diplomatico ebbe la sensibilità sociale di capire come avrebbe reagito la popolazione locale, e seppe anche gestire la situazione senza contraccolpi per la propria ambasciata”. 19 COSTRUZIONE DI UN MODELLO DI COMPETENZE • atteggiamento positivo nei confronti degli altri11; • rapidità a capire le “relazioni politiche”12. 20 Si trattava di competenze che costituivano doti non scolastiche e che, sulla base di analisi statistiche, risultarono significativamente più frequenti nei funzionari che collezionavano brillanti successi sul lavoro. Gli average o non riferivano episodi che dimostravano il possesso di queste doti o raccontavano episodi che rivelavano la mancanza di tali capacità. Per esempio, descrivevano situazioni che avevano portato discredito al proprio ufficio, perché non avevano saputo prevedere le conseguenze “politiche” di una loro azione (mancanza di sensibilità sociale e senso politico). Era inoltre frequente che le interviste dei funzionari mediocri contenessero commenti negativi o addirittura razzistici sui “clienti” dei paesi ospitanti. A scanso di malintesi, va sottolineato che la tesi sostenuta da McClelland non era quella secondo cui i criteri di selezione dei funzionari dell’USIS sarebbero stati insensati. Quei criteri erano legati, in effetti, all’analisi delle caratteristiche del compito che i funzionari di cui parliamo erano chiamati a svolgere. Poiché quei giovani dovevano diffondere la cultura americana nel mondo, non era affatto illogico che la selezione mirasse a verificare il possesso di tale cultura. L’errore stava nel ritenere che le condizioni necessarie per eseguire un compito equivalessero a quelle necessarie per eseguire un compito in maniera eccellente. La ricerca di McClelland sottolineava che tale equazione era sbagliata. Per essere un ottimo funzionario dell’USIS all’estero occorrevano quelle altre competenze che abbiamo prima specificato e che i test tradizionali non intercettavano, essendo perciò chiaro che quelle prove, se pur predicevano una average performance, non avevano pero validità predittiva riguardo alla superior performance. Ricorrendo alla terminologia che studi successivi avrebbero poi introdotto, una cosa sono le “competenze soglia” (Threshold Competencies, quelle necessarie per eseguire un compito) e un’altra le “competenze distintive” (Differentiating Competencies, quelle necessarie per eseguire bene un compito)13. 11 Una giovane diplomatica raccontò di essere rimasta amica di alcuni leader studenteschi radicali che avevano minacciato di dar fuoco alla biblioteca dell’USIS in cui lavorava: “Nonostante i guai che ci avevano procurato, conservai sempre sentimenti di amicizia e di rispetto per i leader studenteschi. Stavano acquistando consapevolezza del loro “essere una nazione” e sapevano che sarebbero diventati la classe dirigente di un paese radicalmente cambiato. Mi rendevo conto che avevano il diritto di rifiutarci e addirittura di cacciarci, e rimasi di quell’idea anche se volevano incendiare la mia biblioteca! E glielo dissi; li invitai ad usare i nostri locali per le loro riunioni. Cercai di convincere gli americani là residenti a venire ad ascoltarli. Conservo buoni rapporti con alcuni di quegli studenti. E non mi hanno ancora bruciato la biblioteca!”. Per apprezzare la rilevanza di questo comportamento, è assai significativo il raffronto (e qui si vede subito l’utilità del metodo adottato da McClelland) con il racconto di un funzionario average in una situazione analoga: “Giunsi alla fine alla conclusione che la gente di quel paese era solo stupida, ottusa e priva di motivazioni. Avevo cercato di formare classi di inglese, in modo che quei ragazzi potessero impararlo abbastanza per andare a studiare negli Stati Uniti, che è poi quello che tutti loro dicevano di volere. Ma ben pochi si presentarono. E così alla fine soppressi le classi. Che puoi fare con gente così?” (Spencer & Spencer, Competence at Work, cit., p. 105). 12 Un funzionario, inviato in missione in un paese africano, raccontò di aver capito subito che “ad avere in mano la politica petrolifera di quel paese era il nipote dell’amante del vice primo ministro”. E così fece subito in modo da essere invitato a un party, nel quale poté incontrare questo nipote e cominciare a perorare la causa degli Stati Uniti. 13 “È proprio del citaredo suonare la cetra, mentre è proprio del citaredo di valore suonarla bene”. La citazione, tratta da un’opera di circa 2400 anni fa (Aristotele, Etica nicomachea, 1098a), può sembrare curiosa, se COSTRUZIONE DI UN MODELLO DI COMPETENZE Successive verifiche, basate su nuovi gruppi di controllo e sull’introduzione di appositi test di misura delle competenze, confermarono che il possesso di quelle competenze distintive da parte dei funzionari USIS consentiva realmente di prevedere esperienze professionali di successo (il banco di prova della scientificità di una teoria è se essa sia in grado di formulare previsioni che collimano con l’osservazione empirica). E questo stava appunto a significare che con l’individuazione di quelle tre competenze, con la loro puntuale descrizione e graduazione in termini di intensità, si riusciva a costruire un modello, cioè una rappresentazione semplificata della realtà che consentiva di individuare, nella intricata matassa dei comportamenti messi in atto dai funzionari intervistati, quelli che effettivamente spiegavano il loro successo professionale e potevano perciò considerarsene la causa. Di conseguenza, questi comportamenti potevano essere indicati come “modello” da seguire, ed ecco allora che la parola “modello” assume, nella discussione relativa alle competenze, non più solo una valenza esplicativa, ma anche prescrittiva, conformemente peraltro all’uso linguistico comune, in cui la parola ricorre in entrambe le accezioni. Ulteriori ricerche permisero nel corso del tempo di arrivare a una definizione generale di competenza e all’individuazione di un certo numero di competenze a carattere trasversale, in quanto richieste nella gran parte delle attività professionali. Già nel 1991 il metodo di mappatura delle competenze era stato utilizzato da oltre 100 ricercatori di 24 paesi e a distanza di trent’anni dalla sua introduzione l’approccio delle competenze offre un metodo ormai consolidato di gestione delle risorse umane largamente applicabile alla selezione, alla definizione delle prospettive di crescita professionale, alla valutazione della performance e allo sviluppo del personale. La metodologia messa a punto da McClelland e ulteriormente perfezionata dai suoi collaboratori viene oggi applicata dalla società internazionale di consulenza Hay Group, che ha fornito la propria qualificata esperienza per la conduzione degli expert panels che hanno consentito di definire il modello delle competenze del personale dell’Agenzia delle Entrate. 4. Il modello delle competenze dell’Agenzia delle Entrate 4.1 Definizione di competenza Muovendo dagli schemi concettuali nati dalla ricerca di McClelland, alla fine del 2002 sono stati costituiti nell’Agenzia delle Entrate alcuni expert panels14 cui ha partecipato personale impegnato con successo nei processi-chiave dell’Agenzia: controllo, servizi al contribuente, consulenza legale e riscossione (expert panels significa letteralmente “gruppi di esperti”). non addirittura stravagante, nel contesto di una moderna problematica organizzativa, ma sintetizza perfettamente la distinzione cui ci stiamo riferendo. 14 Se il metodo ideato da McClelland per l’individuazione delle competenze era quello della definizione di gruppi campione contrapposti e dell’intervista BEI ai partecipanti a tali gruppi, perché l’Agenzia delle Entrate ha utilizzato invece il metodo degli expert panels? La questione viene discussa in appendice a p. 137. 21 COSTRUZIONE DI UN MODELLO DI COMPETENZE Il lavoro di riflessione negli expert panels 22 Da giudizi vaghi e polisensi (“è bravo”,“è capace”, ecc.) che qualificano i performers di livello superiore (la luce bianca che va a rifrangersi sul prisma ottico rappresenta appunto l’intuizione valutativa indistinta) si passa attraverso la riflessione (il prisma ottico) sugli episodi di best performance e sui comportamenti che ne sono causa (letti gli uni e gli altri in contrapposizione alle esperienze di average performance) alla scomposizione analitica delle competenze (raffigurata dallo spettro dell’iride). Ascoltando e dibattendo con gli interessati le esperienze che essi raccontavano, si è arrivati, con un lavoro di analisi e codifica degli episodi narrati, all’individuazione di una serie di competenze, raggruppate, a loro volta, in macro categorie, la cui descrizione si è tradotta nella stesura del Dizionario delle competenze riportato in questo manuale. Cosa sono le “competenze”? Possiamo a questo punto darne la seguente definizione: le competenze sono categorie di comportamenti15 o, come si potrebbe anche dire, classi di comportamenti che hanno queste caratteristiche: • sono causa dei successi di un’organizzazione16; • sono reali e osservabili in un contesto lavorativo in base a criteri predeterminati (non si tratta quindi di mere “potenzialità” esposte ad apprezzamenti fortemente soggettivi, ma di comportamenti effettivi la cui rilevazione è suscettibile di controllo intersoggettivo all’interno di un’organizzazione). Proprio per la loro dimensione comportamentale e per gli effetti che determinano sul piano organizzativo, le competenze si definiscono anche “comportamenti organizzativi” o “competenze organizzative”. Secondo la definizione appena data, le competenze sono un “costrutto organizzativo” e non un “costrutto psicologico”. In sostanza, noi diciamo cos’è una competenza dal punto di vista organizzativo (è una classe di comportamenti che esprimono performance di livello superiore), senza però entrare nell’intricata spiegazione di cosa c’è dietro o cosa c’è 15 Per fare un esempio, essere riusciti a prevenire un conflitto sindacale è un comportamento singolo, così come è un comportamento singolo aver previsto l’insorgere di un problema e avervi dato soluzione tempestivamente. La “categoria” è invece un’entità generale e astratta che ricomprende – sotto una definizione – questi comportamenti e altri simili. È appunto questa classe di comportamenti che costituisce, nel caso di specie, la competenza che chiamiamo “iniziativa”. 16 Fra competenze e risultati viene fatta spesso una distinzione analoga a quella fra mezzi e fini. Se i risultati rappresentano cosa bisogna fare, le competenze indicano come (cioè con quali comportamenti) si riesca a raggiungerli. Questa distinzione si può prestare a qualche malinteso, come evidenziato in appendice a p. 129. COSTRUZIONE DI UN MODELLO DI COMPETENZE sotto dal punto di vista psicologico17. Per riprendere l’esempio già citato, quello che noi facciamo è dare una chiara definizione di cosa sia “l’iniziativa”, in modo da poter distinguere con sufficiente precisione quali comportamenti vi rientrino e quali no, ma prescindiamo da cosa vi sia “dietro” o “sotto” il senso di iniziativa, psicologicamente parlando. In questo modo la nostra definizione è neutrale. Vi si può cioè aderire senza dover necessariamente prendere partito in un dibattito complesso e controverso, che esula dagli scopi di questo manuale (per chi comunque vi abbia interesse, una sintesi succinta del dibattito è presentata in appendice a p. 131). Il nostro fine è solo quello di approntare una intelaiatura di concetti essenziali che permettano di assumere, con sufficiente consapevolezza critica, importanti scelte organizzative, come la rilevazione, la valutazione e lo sviluppo delle competenze. Insomma, ai fini della costruzione di un modello di competenze – che è il nostro obiettivo – ciò che veramente importa è enunciare con chiarezza quali comportamenti siano classificabili come “tensione al risultato”, “flessibilità”, “fare squadra”, ecc. e quali no, affinché le persone sappiano cosa l’organizModel → Self-modelling zazione si attende da loro e cosa quindi sarà rilevato e Un modello comportamentale ha, a valutato, e cosa andrà eventualmente sviluppato laddeterminate condizioni, la capacità di dove emergano gap rispetto alle aspettative. In sintesi, attivare un processo di self-modelling. quando c’è un modello valido (p. 32), chiaramente riconoscibile e riconosciuto, si possono consapevolmente avviare i processi di apprendimento e di sviluppo legati appunto alla possibilità di seguire quel modello (self-modelling). 4.2 Struttura del Dizionario delle competenze Dopo questi chiarimenti sulla nozione di “competenza”, si può passare a descrivere l’articolazione del Dizionario delle competenze dell’Agenzia. Il dizionario presenta, per ciascuna competenza, una descrizione generale e una serie di indicatori comportamentali raggruppati in quattro classi secondo una scala crescente di intensità18. La descrizione delle competenze assume, laddove queste abbiano in qualche modo carattere autoesplicativo o siano comunque di più immediata comprensione, la forma di 17 Una spiegazione potrebbe essere questa: dietro o sotto i comportamenti di high performance c’è un insieme eterogeneo di caratteristiche individuali, come conoscenze, capacità, immagine di sé, motivazioni, valori, atteggiamenti e tratti, che appartengono ai diversi strati della personalità, formando una sorta di iceberg. Questa spiegazione viene approfondita in appendice a p. 130. Nel nostro caso “dietro” e “sotto” sono evidentemente espressioni metaforiche. Lasciando il piano della metafora, si tratta di distinguere due aspetti diversi: da un lato, le competenze intese come “categorie di comportamenti” e, dall’altro, le condizioni (psicologiche, culturali, ecc.) che si assume debbano esistere (ossia quello che, metaforicamente, designiamo appunto come ciò che sta “dietro” o “sotto” le competenze), affinché una persona adotti comportamenti riconducibili a questa o quella competenza. 18 È evidente qui la differenza rispetto ai sistemi tradizionali di analisi valutativa che abbiamo tutti conosciuto a scuola. In quei sistemi l’insegnante ha a disposizione una scala di voti (ad es. quella in decimi) i cui punti non hanno un significato preciso, sicché ogni docente li interpreta a modo suo (per citare solo un esempio: un insegnante utilizza solo una parte dei punti a disposizione, in genere non più di tre o quattro punti, e a questa gamma limitata corrispondono diverse interpretazioni del valore dei punteggi, sicché il sette di un insegnante può corrispondere al sei o all’otto di un altro, e questi riferimenti così fluttuanti determinano notevoli discordanze di giudizio). 23 COSTRUZIONE DI UN MODELLO DI COMPETENZE 24 una definizione sintetica (così è, ad esempio, nel caso della “Tensione al risultato” o della “Flessibilità”). Per altre competenze (ad esempio, quelle riguardanti la passione per il lavoro e la coerenza) è sembrato invece troppo ingenuo pensare di poterne racchiudere la complessità dei contenuti in formule esaustive solo in apparenza, e destinate in realtà a rivelarsi subito vuote o ambigue non appena poste a raffronto con la concretezza delle situazioni. In questi casi, perciò, non viene data solo una definizione sintetica, ma sono anche delineati l’orizzonte di senso o, come si potrebbe anche dire, le chiavi di lettura e di interpretazione che, nella mutevolezza delle vicende, aiutano, assai più di una semplice definizione, a risolvere le ambiguità e a distinguere quali comportamenti rivelino effettivamente il possesso di una determinata competenza. Per quanto riguarda la graduazione delle competenze, gli indicatori comportamentali sono classificati secondo quattro livelli19: • il primo livello (non ancora adeguato) riguarda comportamenti che non apportano valore aggiunto all’organizzazione, influenzandone anzi negativamente l’efficacia e l’efficienza dell’azione20; • il secondo livello (adeguato) indica i comportamenti che rispondono all’esigenza di corretto funzionamento dell’attività amministrativa; • il terzo livello (più che adeguato) indica comportamenti che contribuiscono in modo ragguardevole al raggiungimento degli obiettivi; • il quarto livello (eccellente) indica comportamenti non comuni per l’apporto particolarmente qualificato e assai differenziato che danno alla performance collettiva. Per ciascuna competenza sono inoltre riportati nel manuale alcuni esempi significativi di concreti comportamenti organizzativi, tratti dall’agire quotidiano, che corrispondono ai diversi livelli di intensità. Gli esempi sono frutto di una cernita delle testimonianze raccolte nel corso degli expert panels (non era ovviamente possibile riportarle tutte). Negli episodi comportamentaIl Dizionario delle competenze costituisce li descritti dalle persone intervistate lo “strumento di misurazione” delle competenze confluiscono non di rado più compeCaratteristiche di oggettività tenze, e la selezione degli episodi stesdi uno strumento di misurazione si è avvenuta quindi in base alla comé Validità = idoneità dello strumento a intercettare petenza che nel singolo caso appariva le caratteristiche che i suoi utilizzatori (valutati e valutatori) essere quella più determinante. hanno interesse a misurare Dal punto di vista metodologico è é Affidabilità = idoneità dello oggettività = strumento a fornire ai suoi centrale il fatto che la graduazione delutilizzatori misurazioni coerenti intersoggettività e costanti l’intensità delle competenze non venga 19 Ad ogni livello di intensità di ciascuna competenza corrisponde uno specifico set di indicatori comportamentali, che non costituiscono però un tutt’uno. Non è necessario quindi che siano tutti compresenti per classificare una determinata prestazione lavorativa sotto questo o quel livello di intensità di competenza. 20 Come osservano Spencer & Spencer (op. cit., trad. it., p. 46), “I livelli negativi sono utili ai fini dello sviluppo (come esempi di cosa si deve evitare) e qualche volta anche della selezione (sono “segnali d’allarme” che mettono in discussione l’idoneità del candidato ad una posizione in cui quella competenza è critica)”. COSTRUZIONE DI UN MODELLO DI COMPETENZE operata – come in genere avviene – ricorrendo, un po’ comodamente, al solito ventaglio di avverbi di modo (ad es. “straordinariamente capace”, “molto capace”, “abbastanza capace”, ecc.). La graduazione è invece stabilita, individuando, con quanta più accuratezza possibile, comportamenti tipologicamente diversi in corrispondenza di ciascun grado di intensità. È evidente quale sia il vantaggio che tale approccio offre in termini di oggettività della mappatura delle competenze21. In sintesi, le caratteristiche strutturali del Dizionario delle competenze sono tre: definizione della competenza, indicatori comportamentali e citazione di episodi significativi. Su queste tre caratteristiche si basa l’oggettività del modello, e cioè la sua validità e affidabilità (i concetti di validità e affidabilità sono analizzati più avanti a p. 36). 4.3 Contenuti del Dizionario delle competenze Il modello proposto evidenzia le competenze di livello superiore che il personale dell’Agenzia utilizza per realizzare con efficacia ed efficienza i propri compiti e far fronte alle proprie responsabilità. In particolare, dall’analisi effettuata è emerso chiaramente che i comportamenti del performer superiore (il “bravo funzionario”) esprimono: • integrità professionale; • passione per il proprio lavoro; • propensione a migliorare i propri standard; • orientamento a fornire servizi di qualità al contribuente; • capacità di lavorare con gli altri; • flessibilità e volontà di aggiornarsi costantemente. Nell’esprimere tali caratteristiche, il bravo funzionario manifesta competenze che si possono suddividere in due grandi categorie: competenze intellettive e competenze extraintellettive. Le prime comprendono l’intuito e la capacità di costruzione logica. Operando sinergicamente, esse danno vita al dinamismo intellettivo, inteso come abilità nell’applicare l’intelligenza alla soluzione concreta dei problemi di lavoro. La seconda categoria comprende le competenze che investono la sfera della volontà e dei sentimenti. Sono concettualmente distinte dall’intelligenza, ma non vi si contrappongono: volontà e sentimenti assumono la configurazione di competente organizzative se e in quanto ne venga fatto un uso intelligente. Ma vale anche la relazione inversa: l’intelligenza prende forma e si sviluppa solo se trova un ambiente extraintellettivo ad essa favorevole (per fare un esempio, imparare è un’abilità tipicamente intellettuale, che non si sviluppa però se non si ha una spinta – una motivazione, come si suole dire – a praticarla: si impara a fondo solo ciò cui ci si appassiona). 21 La possibilità di utilizzare, per la rilevazione delle competenze, metodi di tipo quantitativo anziché qualitativo (metodi “qualitativi” sono quelli basati sull’uso del linguaggio ordinario) è discussa in appendice a p. 152. 25 COSTRUZIONE DI UN MODELLO DI COMPETENZE 26 Sotto l’aspetto della valutazione, la differenza fra competenze intellettive ed extraintellettive è particolarmente importante. Le prime hanno riflessi diretti e immediati sulla prestazione di lavoro (è superfluo sottolineare quale rilievo abbiano l’uso dell’intelligenza e la risorsa del sapere in attività tecnicamente così complesse quali sono quelle legate all’applicazione dei tributi in società socialmente ed economicamente avanzate, tant’è che il termine knowledge worker, lavoratore della conoscenza, è quanto mai appropriato ai lavoratori dell’Agenzia), mentre le seconde hanno riflessi indiretti e mediati. In questo caso, “indiretti” e “mediati” non significa affatto “marginali” o “poco rilevanti”. Competenze come “Tensione al risultato”, “Iniziativa”, “Flessibilità”, capacità di “Fare squadra”, ecc. (sono queste, come vedremo meglio più avanti, alcune delle competenze extraintellettive) sorreggono e indirizzano la motivazione individuale al lavoro e contribuiscono ad alimentare nell’ufficio e a tenervi vivo un clima organizzativo favorevole alla performance collettiva. Come tali esse hanno un’importanza determinante: riconoscendone e valutandone l’apporto, si promuove l’interesse e l’impegno dei singoli a farle proprie e a praticarle. Le competenze sono raggruppate in cinque aggregati omogenei, comprendenti complessivamente undici competenze. Il termine tecnico inglese che designa tali raggruppamenti è cluster (che nell’uso comune significa appunto un gruppo di cose dello stesso tipo, come cluster of flowers o cluster of stars). Per comodità espressiva parleremo allora nel seguito di “cluster di competenze” invece che di “raggruppamento omogeneo di competenze”. Cluster delle competenze intellettive Dinamismo intellettivo. Comprende le competenze Intuito & Costruzione logica, che riguardano la capacità di combinare intuizione, analisi critica e conoscenze teoriche nella risoluzione dei problemi di lavoro. In ragione del suo legame diretto e immediato con la prestazione di lavoro, il dinamismo intellettivo è valutato, anche per motivi di semplicità, in base alle caratteristiche della prestazione eseguita. In altre parole, il comportamento intelligente viene valutato attraverso la verifica del prodotto intelligente. Cluster delle competenze extraintellettive – Affidabilità. Comprende la competenza Coerenza, che riguarda l’integrità e la correttezza professionale, e la competenza Passione per il lavoro, che esprime l’attaccamento al proprio mestiere; – Dinamismo realizzativo. Comprende le seguenti competenze: Iniziativa, intesa come capacità proattiva di attivarsi autonomamente senza sollecitazioni esterne, Tensione al risultato, riguardante la capacità di prefiggersi obiettivi non facilmente realizzabili e di impegnarsi a fondo per raggiungerli, e Sviluppo e diffusione del sapere, che denota l’attitudine a sviluppare il proprio patrimonio di conoscenze ed esperienze a beneficio della propria performance lavorativa e di quella dei colleghi; – Dinamismo relazionale. Comprende le competenze Orientamento all’altro, Fare squadra e Flessibilità, che riguardano la capacità di interagire, cooperare e lavorare in gruppo; COSTRUZIONE DI UN MODELLO DI COMPETENZE – Leadership. Comprende due competenze: Team building (organizzazione e sviluppo del gruppo) e Influenza, che riguardano la capacità di guidare gruppi e di esercitare nel proprio ambiente di lavoro un ruolo trainante con la forza della persuasione. L’immagine seguente dà una visione d’insieme del modello delle competenze del personale dell’Agenzia delle Entrate, e dell’integrazione, al suo interno, delle competenze intellettive con quelle extraintellettive. Modello delle competenze del personale dell’Agenzia delle Entrate Affidabilità Dinamismo intellettivo • Coerenza • Passione per il lavoro • Intuito & costruzione logica Dinamismo realizzativo • Iniziativa • Tensione al risultato • Sviluppo e diffusione del sapere Dinamismo relazionale • Orientamento all’altro • Fare squadra • Flessibilità Leadership • Team building • Influenza All’interno del modello vanno poi selezionate le competenze proprie dei diversi ruoli professionali (ossia le competenze richieste dalle funzioni della specifica posizione rivestita, ad es. capo area, capo team, ecc.) e va assegnato un peso ai singoli cluster. Mentre per alcuni ruoli possono quindi essere previste tutte le competenze del modello generale, per altri le competenze possono essere solo alcune. Analogamente, il peso dei cluster potrà variare a seconda dei ruoli considerati. Questa operazione di scelta delle competenze nell’ambito del modello generale e di assegnazione ad esse di un peso dà luogo al profilo delle competenze di ciascun ruolo (una sorta di identikit comportamentale per le diverse posizioni funzionali). In questa sede si omette la descrizione dei profili di competenze dei ruoli professionali dell’Agenzia, poiché avrebbe scarso interesse per il lettore che non faccia parte dell’Agenzia stessa. 27 PARTE SECONDA USO DI UN MODELLO DI COMPETENZE 29 USO DI UN MODELLO DI COMPETENZE 31 1. Lo snodo tra modello di competenze e sistema di valutazione A che serve un modello di competenze? Individuare le competenze necessarie a lavorare bene in un determinato contesto organizzativo, può avere più finalità. Si è già visto come il “movimento delle competenze” abbia storicamente origine sul terreno della selezione, ma si sia poi esteso all’intero ambito del processo di gestione delle risorse umane (formazione, sviluppo, remunerazione, piani di carriera). C’è però un filo che lega tutti questi momenti applicativi di un modello di competenze, ed è il tema della valutazione e – connesso a questo – il tema della costruzione di un sistema di valutazione. Su questa problematica intendiamo ora concentrare l’attenzione. Per evitare equivoci, occorre subito osservare che “modello di competenze” e “sistema di valutazione” non sono la stessa cosa. Il primo indica una costellazione di aspettative di lavoro, il secondo riguarda le modalità di verifica della risposta a tali aspettative. Il contenuto delle aspettative è dato dalle competenze cui un’organizzazione attribuisce valore in quanto generatrici di performance elevata. Le aspettative sono formulate dal modello in modo generale (cioè senza riguardo a questa o a quella singola persona) e astratto (cioè senza riguardo a questo o a quel caso concreto). La verifica delle aspettative riguarda invece persone particolari in situazioni determinate. Insomma, con la costruzione del proprio modello di competenze, un’organizzazione dichiara cosa si attende in termini di comportamenti produttivi di performance superiore. Con un sistema di valutazione, rileva invece con procedure formalizzate se e in quale grado i comportamenti dei singoli corrispondano a quelle attese. Una cosa è definire l’intreccio delle competenze richieste ai componenti di un’organizzazione (qui siamo nell’ambito del “modello di competenze”), un’altra è stabilire se, e in quale misura, e in che modo, nei riguardi di chi e ad opera di chi e con quali effetti, le competenze descritte nel modello debbano formare oggetto di procedure formali di verifica (qui siamo nell’ambito del “sistema di valutazione”). Ad esempio, in un’organizzazione come quella dell’Agenzia delle Entrate, che svolge funzioni strettamente legate al rispetto di valori fondamentali dell’etica pubblica (l’adempimento del dovere fiscale), pretendere dagli appartenenti a questa organizzazione comportamenti che denotino “integrità e coerenza” fa necessariamente parte del modello professionale di un funzionario dell’Agenzia. Cosa diversa però è decidere di USO DI UN MODELLO DI COMPETENZE 32 fare oggetto di una valutazione formalizzata tali comportamenti, così come manifestati da questa o quella persona. Ragioni quale, ad esempio, la difficoltà pratica di osservazione di comportamenti come quelli appena indicati, nei loro diversi livelli di intensità, e le discussioni, non facilmente componibili, che potrebbero di conseguenza accendersi ove tali comportamenti fossero oggetto di valutazione formale, possono condurre alla decisione di escludere la rilevazione di tali comportamenti dall’ambito di un sistema di valutazione. Potrebbe però a questo punto ritenersi che se un modello di competenze non si abbina a un sistema di valutazione, il primo è destinato a risultare inefficace. Non è così. Se una categoria di comportamenti, prevista dal modello di competenze, non trova inserimento nel sistema di valutazione, ciò non significa affatto che quella categoria rimane priva di rilevanza pratica. Un modello di competenze esplicita la cultura e i valori di un’organizzazione e questo passaggio dalla dimensione tacita alla dimensione espressa della vita organizzativa può avere influenza decisiva sulle dinamiche cruciali dell’identità e del senso di appartenenza, che consentono ad un’organizzazione di rimanere vitale nel tempo e di svilupparsi22. Condizione essenziale affinché un modello di competenze possa esercitare tale influenza è quella della validità del modello stesso. Un modello è valido se risponde alle specifiche esigenze della realtà organizzativa per la quale è stato costruito, ovvero se riesce a dare forma chiara, coerente e compiuta (e magari, se non proprio avvincente, almeno non soporifera) alle idee più o meno implicite che le persone stesse, lavorando giorno per giorno, sviluppano riguardo ai tipi di comportamento più funzionali rispetto agli obiettivi della propria organizzazione. Questo processo di crescita comune di consapevolezza legato all’introduzione di un modello di competenze può servire a dissipare ambiguità e incoerenze e a superare visioni parziali, riduttive o addirittura sbagliate nelle concezioni di lavoro maturate dagli appartenenti ad una organizzazione23. In breve: a parità di ogni altra condizione, lavora meglio chi ha una idea migliore di ciò che è bene fare. Se il modello di competenze proposto riesce a far progredire la qualità dell’autoconsapevolezza, l’atteggiamento cui esso dà impulso non è di difesa o di elusione (come avviene per adempimenti giudicati pesanti, inutili e burocratici), né di adeguamento passivo ad obblighi sentiti come estrinseci rispetto alle reali esigenze di lavoro, bensì di adesione attiva a un codice di comportamento cui gli interessati attribuiscono spontaneamente autentico valore e nel quale quindi possono riconoscersi e trovare ragioni e motivazione nella propria vita lavorativa. Acquisendo piena conoscenza delle aspettative della propria organizzazione, il personale può sapere, senza incertezze, dove 22 Per una sintesi delle questioni riguardanti la tematica della cultura organizzativa, si può leggere H.L. Tosi, M. Pilati, N.P. Mero e J. Rizzo, Comportamento organizzativo, trad. it. Milano, EGEA, 2002, pp. 365-409. 23 In uno studio relativo a un campione di ingegneri impegnati nel lavoro di ottimizzazione dei motori della Volvo, un ricercatore svedese, Jörgen Sandberg (Interpretare le competenze, in «Sviluppo & Organizzazione», n. 182, novembre/dicembre 2000, pp. 95-107 e 111-114), ha sviluppato l’idea che in una organizzazione possano convivere, più o meno implicitamente, concezioni diverse su cosa debba intendersi per best performance e best performer (per un approfondimento si può vedere l’appendice a p. 136). USO DI UN MODELLO DI COMPETENZE e come dirigere la propria azione, traendo così, dal modello di comportamenti che gli viene indicato, una duplice motivazione: da un lato, con la gratificazione legata al riconoscimento dei propri punti di forza, la spinta a perseverare nel percorso intrapreso, e dall’altro, la sollecitazione ad analizzare lucidamente – in un processo di progressivo miglioramento e sviluppo – quali siano invece i propri punti deboli. Ma se questo è vero, si pone allora una domanda speculare a quella che è stata prima formulata e che suonava così: senza un sistema di valutazione un modello di competenze non è destinato a rimanere inefficace? La risposta è stata: no, un modello di competenze ha una sua intrinseca efficacia. La questione adesso si ribalta: se un modello di competenze è in sé efficace, che motivo c’è di accoppiarvi un sistema di valutazione? La risposta è questa: quando si decide di agganciare una serie di effetti (ad esempio, incrementi retributivi, percorsi formativi o progressioni di carriera) ad una verifica di come le persone corrispondano al modello loro proposto è necessario che questa verifica sia condotta non “ad occhio”, “a naso” o “a pelle” ma in modo formale con una procedura controllabile da tutti gli interessati. Ciò anzitutto per ragioni di equità organizzativa. Se si assume che le prestazioni lavorative dei singoli rispetto al modello indicato non siano tutte uguali, decidere di collegare effetti a questa diversità di prestazioni, comporterà – per ragioni appunto di equità – una distribuzione diversa di vantaggi, che è necessario però non solo che sia di fatto equa, ma che venga anche percepita come equa. È infatti generalmente riconosciuto che un eventuale deficit di equità percepita ha conseguenze negative sulla motivazione al lavoro (disaffezione e calo dell’impegno lavorativo). Lo scopo di un sistema di valutazione è fondamentalmente quello di contribuire a mantenere quanto più elevato possibile in una organizzazione il senso dell’equità percepita nella distribuzione dei vantaggi legati alla rilevazione e alla verifica del grado di corrispondenza della prestazione lavorativa alle aspettative enunciate dal modello. Quello che occorre tutelare ai fini del sostegno alla motivazione al lavoro non è solo l’equità sostantiva – ossia la percezione che i propri sforzi e i propri successi vengano giudicati in maniera equa rispetto a quelli degli altri – ma anche l’equità procedurale. Una distribuzione di vantaggi, pur se in sé giusta, fatica ad essere percepita come giusta, se non sono percepite come giuste le regole procedurali seguite per la distribuzione dei vantaggi. Il che significa, nell’ambito di una procedura di valutazione, assicurare agli interessati queste tre cose: una compiuta “autopresentazione” (possibilità di esporre il proprio punto di vista, prima che la decisione valutativa venga adottata), un genuino “scambio comunicativo” (avere una chiara spiegazione del senso della decisione valutativa ed essere trattati con rispetto e dignità) e una effettiva “influenza decisionale” (ad esempio, la possibilità di attivare un’istanza di appello avverso la decisione valutativa). In sintesi, nell’apprezzamento della prestazione lavorativa le questioni critiche sono fondamentalmente due: decidere la valutazione giusta e deciderla nel modo giusto. La prima questione riguarda l’ambito dell’equità sostantiva, la seconda l’ambito dell’equità procedurale. Ci si può aspettare che quanto più difficile sia misurare la quantità e la qualità della prestazione lavorativa, tanto maggiori diventino i margini di incertezza 33 USO DI UN MODELLO DI COMPETENZE 34 dell’equità sostantiva, e tanto maggiore diventi allora per gli interessati l’importanza dell’equità procedurale24. Oltre all’equità organizzativa, c’è un’altra ragione importante che giustifica l’introduzione di un sistema di valutazione ed è quella dell’efficienza organizzativa. Valutazioni informali, quali quelle che circolano quotidianamente negli uffici, sono strettamente legate alle fugaci vicende individuali, e non diventano quindi patrimonio conoscitivo comune, utile ad attivare e sostenere processi di apprendimento organizzativo. Un sistema di valutazione contribuisce invece ad arricchire progressivamente la base di conoscenza da cui l’organizzazione può attingere gli elementi valutativi necessari per le scelte gestionali, fra le quali, in particolare, quella riguardante il conferimento degli incarichi (in questo caso si tratta degli elementi valutativi necessari per “mettere la persona giusta al posto giusto” o, per usare un’espressione inglese ancora più sintetica, “to match people and job”, cioè “mettere in corrispondenza le persone e il lavoro”). Costruire un sistema di valutazione, significa rispondere a queste cinque domande: • cosa si debba valutare (quali competenze e – oltre alle competenze – quali output dell’attività svolta); • chi debba essere valutato (tutte le categorie di personale o solo alcune ovvero solo alcune e soltanto per alcuni mestieri); • chi debba valutare (il ruolo del dirigente dell’ufficio, lo spazio da attribuire all’autovalutazione, il ruolo degli altri attori, le istanze di garanzia); • come si debba valutare (procedura, flusso e cadenza della valutazione, ponderazione prodotti/competenze, livelli valutativi, determinazione dei punteggi, tipo di differenziazione valutativa, vale a dire se ci si debba solo preoccupare di “bloccare i peggiori” o anche di “promuovere i migliori”, soluzione, quest’ultima, tipica dei sistemi volti a sostenere strategie efficaci di sviluppo organizzativo); • perché si debba valutare (effetti della valutazione: selezione, recupero di carenze formative, sviluppo professionale e progressione di carriera, incrementi del salario accessorio, attribuzione di incarichi). Una risposta puntuale a tutte queste domande richiede un’appropriata normazione nel quadro del sistema di relazioni sindacali previsto per ciascuna amministrazione pubblica. Lo snodo tra il modello di competenze e il sistema di valutazione segna perciò il passaggio dall’ambito della cultura e dei valori dell’organizzazione a quello della normazione del rapporto di lavoro. Più e meglio di tante parole, può servire forse la figura seguente a far comprendere la relazione tra modello di competenze e sistema di valutazione. 24 Sulla questione dell’equità organizzativa, analizzata come parte della questione più generale riguardante la motivazione al lavoro, si possono consultare A. Grandori, Organizzazione e comportamento economico, Bologna, il Mulino, 2001, pp. 115-121, H.L. Tosi, M. Pilati, N.P. Mero e J. Rizzo, Comportamento organizzativo, cit., pp. 94-97 e F. Isotta (a cura di), Organizzazione aziendale, Padova, Cedam, 2003, pp. 62-65. L’equità procedurale è destinata ad assumere sempre più rilevanza nei processi di valutazione che hanno luogo nella “economia della conoscenza” (la questione viene approfondita a p. 158 dell’appendice). USO DI UN MODELLO DI COMPETENZE Relazione tra modello di competenze e sistema di valutazione Soggetti valutabili Sistema di valutazione • Tutte le categorie di personale • oppure determinate categorie • oppure alcune categorie per determinati mestieri Modello di competenze Valutatori • Ruolo dell’autovalutazione Prodotti Chi valutare • Ruolo del dirigente dell’ufficio • Ruolo degli altri attori Insieme strutturato delle competenze richieste dall’organizzazione Competenze che l’organizzazione e le OO.SS. concordano di valutare Cosa si valuta Perché si valuta • Istanze di garanzia Chi valuta Procedura Come si valuta Ambito della cultura e dei valori dell’organizzazione • Determinazione punteggi • Ponderazione prodotti/competenze • Peso singole competenze • Livelli valutativi • Tipo di differenziazione valutata • Flusso e cadenza della valutazione Effetti Ambito della normazione dei rapporti di lavoro • Selezione • Formazione • Sviluppo • Retribuzione accessoria • Progressione di carriera • Affidamento incarichi Una trattazione analitica dei cinque punti del “pentagono di valutazione” rappresentato nella figura esula dagli scopi di questo manuale. Ciò che di seguito si farà, è descrivere – sulla scorta anche dell’esperienza maturata dall’Agenzia delle Entrate – i problemi di fondo dei sistemi di valutazione e presentare un ventaglio di possibili soluzioni. Ma prima di affrontare tale questione, poiché si è detto che la questione del sistema di valutazione si colloca nella cornice della normazione del rapporto di lavoro, può essere utile, come spunto per riflessioni di carattere comparativo tra le diverse amministrazioni, accennare a come il tema della valutazione professionale si inquadri normativamente nello specifico contesto dell’Agenzia delle Entrate. Sistema di valutazione. Quadro normativo dell’Agenzia delle Entrate L’art. 18 del regolamento di amministrazione dell’Agenzia delle Entrate è intitolato “Valutazione del personale” e stabilisce quanto segue: 1. L’Agenzia adotta adeguate metodologie per la valutazione periodica delle prestazioni, delle conoscenze professionali e delle capacità dei dipendenti, al fine di governare, in coerenza con i contratti collettivi, lo sviluppo delle competenze, gli incentivi economici, le progressioni di carriera e gli interventi formativi. 35 USO DI UN MODELLO DI COMPETENZE 36 2. A tale scopo sono individuati, nel rispetto del sistema di relazioni sindacali, metodi e tecniche di valutazione che garantiscano il massimo di efficienza, trasparenza ed oggettività. Il regolamento di amministrazione dell’Agenzia ha formato oggetto di concertazione sindacale, ma le norme dell’art. 18 vanno raccordate con il successivo CCNL delle Agenzie fiscali (2001-2005), sottoscritto a maggio del 2004, che prevede espressamente l’utilizzo di metodologie di valutazione dell’attività di lavoro per l’erogazione del trattamento accessorio incentivante e per l’affidamento di incarichi di elevata professionalità (posizioni organizzative e professionali). Il nuovo CCNL non prevede invece tale valutazione per i passaggi all’interno delle aree, anche se stabilisce che i tre criteri espressamente enunciati nel CCNL per tali passaggi (esperienza professionale, titoli e formazione) siano “integrabili” in sede di contrattazione integrativa. Nei fatti, è chiaro che l’estensione dell’ambito applicativo di un sistema di valutazione è legata – ancor prima che a prescrizioni formali – alla capacità del sistema stesso di corrispondere concretamente ai principi cui si ispira. Nei tirocini per l’assunzione di nuovo personale e nei contratti di formazione e lavoro, l’Agenzia sta sperimentando, con revisioni e affinamenti progressivi suggeriti dall’esperienza, metodologie di valutazione della prestazione di lavoro, in modo da testarne la validità e l’affidabilità prima di passare – nel quadro del sistema di relazioni sindacali – alla loro applicazione al personale già in servizio. 2. Le criticità della valutazione: oggettività e veridicità Quando qualcuno ci dice: “quell’impiegato è bravo”, le domande da porre sono due, ben distinte fra loro. La prima è se quel tale impiegato sia veramente bravo. La seconda – preliminare, dal punto di vista logico, alla prima – è cosa voglia intendere il nostro interlocutore quando dice: “bravo”. La prima questione riguarda la veridicità o, come si potrebbe anche dire, la giustezza delle valutazioni, mentre la seconda riguarda l’oggettività del sistema di valutazione, cioè dei criteri in base ai quali esprimiamo le nostre valutazioni. Quindi, almeno in questo contesto, i sostantivi “veridicità” e “oggettività” e gli aggettivi “vero” ed “oggettivo” non sono interscambiabili. L’affermazione “Quell’impiegato è bravo” può essere sicuramente vera, ma è altrettanto indubbio che è soggettiva, poiché, a seconda del soggetto che valuta, la parola “bravo” può significare cose assai diverse. In qualche modo, sarebbe come se, per misurare gli oggetti, ci servissimo di un metro che – invece di essere stabile come il campione di barra metallica conservato a Parigi25 – variasse di lunghezza a 25 A scuola abbiamo tutti appreso che il metro standard fu all’inizio definito pari alla distanza fra due intaccature su una barra di platino e iridio resistente alla ruggine tenuta in una camera blindata con aria condi- USO DI UN MODELLO DI COMPETENZE seconda della temperatura della mano che lo utilizza. Chi direbbe che un metro del genere è “oggettivo”? Se lo fosse, dovremmo allora concludere che possono costituire una misura oggettiva dello scorrere del tempo anche i famosi “orologi molli” di Salvator Dalí, raffigurati nel quadro “La persistenza della memoria”. In altri termini, quando parliamo di “oggettività” di giudizio ci riferiamo ai criteri di valutazione (i criteri che definiscono le caratteristiche che intendiamo valutare ossia che stabiliscono in cosa consista precisamente la “bravura” professionale). Quando invece parliamo di “veridicità” ci riferiamo alla valutazione concreta (se una persona abbia o no effettivamente, e in che grado, le caratteristiche specificate dai criteri concordati). Ma quand’è che i criteri di valutazione possono dirsi “oggettivi”? Quando hanno due requisiti: validità (o “pertinenza” o anche “appropriatezza”, per usare altre due parole che in questo contesto sono sinonime della prima) e affidabilità (in questo caso, i sinonimi generalmente usati sono “attendibilità” o “univocità”). Un criterio di valutazione professionale è valido se consente di verificare (si potrebbe anche dire “intercettare”) le conoscenze e le capacità ritenute pertinenti per la migliore funzionalità e lo sviluppo di un’organizzazione (“oggettivo” qui significa “pertinente all’oggetto” da valutare). Il modello delle competenze individuate e descritte in questo manuale si può quindi dire valido se “mappa” realmente le qualità professionali che servono per far funzionare bene gli uffici. Per citare un altro esempio riferito, questa volta al mondo della scuola, se si intendesse saggiare le conoscenze di geografia di uno studente, non sarebbe un criterio di valutazione valido quello di somministrargli un questionario contenente domande di storia. Un criterio di valutazione è invece affidabile se definisce in maniera sufficientemente univoca come va valutato l’oggetto (la “bravura” professionale), sicché nessuno dei soggetti che deve utilizzare quel criterio può interpretarlo “a modo suo”. In questo caso criterio “oggettivo” significa non-soggettivo (cioè criterio non dipendente dalla particolarità individuale dei singoli) o – per dirla in termini positivi anziché negativi – inter-soggettivo (cioè criterio sulla cui comprensione e applicazione tutti gli interessati concordano 26). Per riprendere l’esempio riferito al mondo della scuola, un criterio valido di valutazione delle conoscenze di geografia di uno studente potrebbe essere quello di presentargli una cartina muta dell’Italia e di chiedergli di segnare dove si trovi questa o quella città27. Il criterio, però, sarebbe affidabile solo se in quella cartina le zionata nel laboratorio di Pesi e Misure a Sèvres, presso Parigi. Per ragioni di precisione, dal 1960 la convenzione è mutata e il metro è stato fissato in misura pari a una determinata lunghezza dello spazio percorso dalla luce in un certo intervallo di tempo. 26 L’aspetto dell’intersoggettività è reso molto bene dal termine inglese solitamente usato nella letteratura per designare l’oggettività di una ricerca: “interrater reliability”, “affidabilità connessa alla concordanza fra i valutatori” (i rater sono coloro che fanno il rating, cioè i valutatori, e reliability significa “affidabilità”). 27 L’esempio è ripreso da B. Vertecchi, M. La Torre, E. Nardi, Valutazione analogica e istruzione individualizzata, Firenze, La Nuova Italia, 1994, p. 76. 37 USO DI UN MODELLO DI COMPETENZE 38 città cui si riferiscono le domande fossero contrassegnate da cerchietti vuoti, poiché altrimenti, senza questi punti di riferimento univoci, un valutatore di “manica larga” potrebbe ritenere esatta la risposta che invece un valutatore di “manica stretta” giudicherebbe non corretta. In estrema sintesi, l’oggettività riguarda il come si valuta, cioè il passaggio da vaghi apprezzamenti intuitivi d’insieme, di natura prettamente soggettiva (ad es. “Tizio è bravo”), ad articolati criteri di giudizio condivisi nel loro significato (“bravo” significa eccetera, eccetera) e pertinenti alla realtà da valutare. La veridicità riguarda invece il che cosa si valuta (una volta che ci accordiamo sul fatto che “bravo” vuol dire esattamente questo e quello, si tratta di stabilire se Tizio sia effettivamente bravo nel senso che abbiamo convenuto). La differenza fra queste due dimensioni risalta con chiarezza nella diversità delle controversie cui, rispettivamente, possono dare luogo. Per intenderci, una cosa sono le questioni relative al criterio di misurazione (questo è l’ambito dell’oggettività) e un’altra le questioni relative alla misurazione ottenuta applicando quel criterio (questo è l’ambito della veridicità). Possiamo essere tutti d’accordo sull’adozione di un determinato criterio di misurazione di un certo fenomeno (ad esempio lo scorrere del tempo, che conveniamo di misurare con uno orologio) e controvertere tuttavia sull’esattezza della singola misurazione. È possibile, ad esempio, che qualcuno dica che il treno Roma-Milano è partito alle 10,20, mentre un altro dica che è partito alle 10,35. In questo caso, si controverte sulla veridicità della misurazione e non certo sull’oggettività del criterio di misurazione (nessuno mette in dubbio che l’orologio sia un criterio univoco di misurazione del tempo). Allo stesso modo, possiamo essere d’accordo sul criterio di classificazione (cosa intendiamo esattamente con la parola “bravo”) e poi trovarci invece in disaccordo sulla classificazione concreta (se quell’impiegato sia bravo o no nel senso convenuto28). Ecco uno specchietto che riassume i concetti appena esposti: Validità Affidabilità } Oggettività ➥ criteri di valutazione ↔ Veridicità ➥ valutazione Per evidenti ragioni logiche, affronteremo prima la questione della oggettività del sistema di valutazione per passare poi a quella della veridicità delle valutazioni. 3. L’oggettività del sistema di valutazione Quali sono le obiezioni più ricorrenti alla costruzione di un sistema di valutazione oggettivo? La prima è che cercare l’oggettività sarebbe quasi come inseguire una chimera. 28 Come può sorgere una divergenza di questo tipo? Generalmente il contrasto scaturisce dalla diversità di informazioni sul comportamento del valutato. USO DI UN MODELLO DI COMPETENZE La seconda è che l’oggettività sarebbe tutto sommato inutile (puntarvi significherebbe solo sprecare tempo e denaro nella messa a punto di sofisticate quanto superflue “macchine valutative”). Iniziamo dall’esame di quest’ultima obiezione. 3.1 Perché non bastano le valutazioni “a fiuto” “Descrivi l’aroma del caffè”. Con questo curioso esercizio, proposto con l’ingannevole semplicità di cui era maestro, Ludwig Wittgenstein29, uno dei più celebri pensatori del ’900, offre lo spunto per affrontare l’ambivalenza di fondo tipica dell’esperienza valutativa: da un lato, la sua apparente evidenza (cosa c’è di più facilmente riscontrabile, in qualunque ambiente di lavoro, della condivisione di giudizi come “è bravo”, “è in gamba”, “è un tipo affidabile”, “ci sa fare” oppure “è un gran rompiscatole”, “meglio perderlo che trovarlo”, “è un peso morto”, e così via?) e, dall’altro, la difficoltà di dare una compiuta e univoca definizione di tali giudizi, passando da asserzioni ellittiche più o meno vaghe e impressionistiche a enunciati ben strutturati. Allo stesso modo, tutti noi siamo in grado di riconoscere immediatamente l’aroma del caffè, e tuttavia non siamo capaci di darne una descrizione anche solo appena adeguata alla natura dell’oggetto (una descrizione, per intenderci, tale da consentire a chi non sa cosa sia quell’aroma, di riconoscerlo). Ma è proprio necessario poi questo passaggio dalla conoscenza intuitiva a quella discorsiva, se la prima funziona così bene? Secondo l’opinione comune tutti sanno, in una organizzazione, chi è bravo e chi non lo è, e perché quindi introdurre un sistema formale di valutazione, che costa tempo e denaro? In effetti, così come in una comunità di persone dove si è abituati fin da piccoli a gustare il caffè, non c’è reale possibilità di disaccordo sull’identificazione del profumo di quella bevanda, analogamente nelle organizzazioni si registra in genere un largo consenso (espresso non di rado in forma “colorita”) sui giudizi intorno alle caratteristiche positive o negative di questa o quella persona (tanto più se è un “capo”). Si potrebbe allora concludere che così come non ha senso costruire una macchina per il riconoscimento dell’aroma del caffè (sappiamo riconoscerlo perfettamente da soli e sull’identificazione c’è sempre pieno accordo fra tutti) allo stesso modo potrebbe sembrare solo un’inutile perdita di tempo e di denaro porre mano alla costruzione di un sistema valutativo. Tale conclusione è sbagliata, poiché, se fra la situazione valutativa e quella del riconoscimento dell’aroma del caffè vi sono le analogie appena evidenziate, vi sono anche differenze essenziali: tutti ci intendiamo – praticamente senza possibilità di errore – quando si tratta di riconoscere l’aroma del caffè, mentre questa intesa completa e immediata non c’è (o almeno non c’è sempre) nelle valutazioni relative alle qualità umane e professionali di una persona. Oppure, quando l’intesa sembra esservi, essa può rivelarsi, scavando più a fondo, solo apparente, perché nasconde diversità, anche notevoli, di punti di vista e di prospettive di giudizio. 29 Ricerche filosofiche, trad. it. Torino, Einaudi, 1974, § 610. 39 USO DI UN MODELLO DI COMPETENZE 40 Più in dettaglio, le differenze sono queste: 1) nella valutazione esistono, almeno potenzialmente, controinteressati e questo richiede che la valutazione non solo sia appropriata, ma anche che appaia tale, cioè sorretta da criteri trasparenti. E se questo non accade – in altri termini, se la valutazione non appare “obiettiva” – si rischia di dare adito a conflitti che possono, alla fine, minare la tenuta di un’organizzazione avvelenandone il clima interno; 2) la valutazione anche quando (e talora proprio quando) riscuota consenso nell’ambiente di lavoro può essere condizionata da stereotipi e pregiudizi comuni e risultare quindi sbagliata. Come a dire che la vox populi non è sempre vox Dei; 3) le valutazioni che circolano a livello informale nell’ambito di una organizzazione mostrano in genere larga coincidenza di giudizi quando si tratta di riconoscere le punte di eccellenza o le cadute di mediocrità, ma possono fallire o sono comunque non di rado controverse quando riguardano la fascia intermedia in cui si colloca buona parte della platea dei valutati. Dunque, nella valutazione occorre passare dal sapere diffuso (e però anche vago nella sua fluidità) al sistema (inteso come architettura rigorosa di conoscenze). Con questo passaggio, la conoscenza intuitiva (vale a dire il riconoscimento “a naso” della bravura professionale, analogo alla percezione olfattiva dell’“aroma del caffè”) non viene certo annullata, bensì viene formalizzata e oggettivata, cioè tradotta in asserzioni strutturate dal significato chiaro per tutti coloro che appartengono all’organizzazione (l’intuizione rimane insomma fondamentale, ma va sottoposta a verifica, perché – per ripetere la citazione di p. 15 – se è vero che la grandezza di un capo sta nella sua capacità di intuizione, è però anche vero che nulla rischia di tradire più dell’intuizione). Il segreto sta nel far entrare in un circolo virtuoso l’intuizione e l’elaborazione analitica: la prima offre alla seconda i contenuti – cioè il materiale di esperienza – su cui riflettere, mentre la seconda verifica criticamente la plausibilità della prima. L’attivazione di questo circolo virtuoso è l’essenza stessa di un sistema di valutazione. Che potremo definire buono quando confermerà ciò che tutti intuitivamente sanno, e ottimo quando smentirà ciò che tutti intuitivamente credevano di sapere. 3.2 L’oggettività dei criteri di valutazione “Quella porta è alta 3 metri”, “quel vaso pesa 2 chili”. Sono affermazioni cui ognuno di noi è disposto ad attribuire subito il carattere della oggettività, ma questo non significa necessariamente che si tratti di affermazioni vere, perché sono sempre possibili, e persino non infrequenti, errori di misurazione. Sebbene “oggettività” e “verità” siano nozioni correlate, esse concettualmente non coincidono, come abbiamo detto nel paragrafo precedente. Un’affermazione si definisce oggettiva non necessariamente quando è vera, ma quando si può controllare se sia vera. Se dico che una certa persona era ieri in ufficio, l’affermazione può rivelarsi falsa, ma è nondimeno sicuramente oggettiva, perché è possibile controllarne la veridicità da parte di tutti coloro che dispongono delle informazioni e delle conoscenze necessarie per effettuare tale controllo. La nozione di oggetti- USO DI UN MODELLO DI COMPETENZE vità è apparentata quindi a quella di possibilità di controllo intersoggettivo e per questo motivo si può anche affermare che essa si risolve, tout court, nella nozione di intersoggettività30. Detto in altri termini: un criterio di giudizio è oggettivo se qualunque altra persona, messa al mio posto, finirebbe, applicando quel criterio, con l’esprimere la mia stessa valutazione. Sicché, non dipendendo quella mia valutazione dalla mia particolare soggettività (chiunque altro, al mio posto, si esprimerebbe allo stesso modo), si può a giusto titolo sostenere che essa è oggettiva (questo principio di oggettività equivale a quello che nella scienza galileiana, che è poi la scienza moderna, si chiama il principio di riproducibilità dell’esperimento)31. Chiarito questo, la domanda da fare è se sia possibile attingere, nel campo delle valutazioni riguardanti le capacità professionali, lo stesso grado di oggettività che è possibile attingere quando si ha a che fare con lunghezze, pesi e altezze di oggetti. La risposta è in genere: “no”. Perché no? Perché nel campo delle valutazioni relative alle capacità delle persone non esiste un metro utilizzabile in modo semplice, univoco e incontrovertibile come quello che si utilizza per misurare o pesare oggetti fisico-naturali (lo attestano, ad esempio, in modo eloquente le divergenze degli storici nelle loro ricostruzioni delle vicende umane). Quali conseguenze se ne possono ricavare? La più immediata sarebbe quella di abbandonarsi allo sconforto e alla delusione: visto che non è possibile raggiungere nel campo che qui ci interessa la stessa oggettività delle scienze fisico-naturali, perché non rassegnarsi alla soggettività sfrenata dei valutatori? Oppure, per evitare che dilaghi l’arbitrio, perché non espungere dalla realtà delle organizzazioni – o restringervi comunque al massimo – lo spazio della valutazione? La prima opzione è disastrosa, perché porta ad annientare il senso di ragionevolezza e di equità indispensabili per la sopravvivenza e lo sviluppo di qualsiasi organizzazione. La seconda è puramente illusoria: la valutazione non può non esservi, perché – come ognuno sa – la vita organizzativa è in gran parte scambio di valutazioni. Chiunque di noi valuta in continuazione – più o meno generosamente ricambiato – il collega, il collaboratore o il superiore. Ed è logico che sia così: come potrebbe mai funzionare una qualsiasi 30 Se si ha ben chiara quindi la distinzione fra oggettività e veridicità, dovrebbe risultare altrettanto chiaro che l’equivalenza tra oggettività e intersoggettività non comporta in alcun modo l’adesione ad una sorta di “teoria sociale della verità”, secondo la quale sarebbe vero ciò che tutti concordano sia vero. Circa 500 anni fa tutti o quasi tutti credevano che fosse il sole a girare attorno alla terra, ma questo consenso pressoché unanime non bastava a qualificare come “vera” quella teoria (come diceva Benedetto Croce, “La folla o il deserto non aggiungono o tolgono nulla al carattere di verità di un pensiero”). E tuttavia la teoria tolemaica era sicuramente “oggettiva”, nel senso che esibiva tutta una serie di dati ed argomenti in base ai quali chiunque poteva controllare se essa fosse o no vera. Se qualcuno avesse allora detto: “Ho la sensazione che sia la terra a girare attorno al sole”, avrebbe fatto un’affermazione vera, ma soggettiva, priva cioè di elementi utili a controllarne la fondatezza. 31 È proprio in questo senso che una batteria di quesiti a risposta chiusa riguardanti, ad esempio, nozioni di aritmetica, si definisce prova oggettiva. Qui il termine oggettiva non sta a significare che chi supera quella prova dimostra con ciò di conoscere veramente l’aritmetica, ma significa invece che chiunque sarà il correttore della prova (purché adeguatamente addestrato) l’esito valutativo sarà sempre lo stesso. L’oggettività, insomma, consiste nella “eliminazione dell’equazione personale del correttore” (A. Visalberghi, Misurazione e valutazione nel processo educativo, Milano, Edizioni di Comunità, 1955). 41 USO DI UN MODELLO DI COMPETENZE 42 organizzazione se le scelte gestionali (a cominciare da quelle più importanti come l’affidamento degli incarichi) non si basassero su una valutazione, seppure informale, delle capacità professionali degli interessati? Insomma, ci si può illudere di “abrogare” le valutazioni per eliminare il rischio dell’arbitrio, ma si finisce così solo per renderle “clandestine” e quindi meno controllabili e potenzialmente ancora più insidiose nella loro eventuale arbitrarietà. Come uscire da questa impasse? Aristotele diceva che è proprio della persona esperta richiedere in ciascun genere di ricerca tanta precisione quanta ne permette la natura dell’argomento32. Non comprendere questo significa cadere – nel nostro ambito di ricerca – in quella forma di superstizione chiamata “quantofrenia”, che è in definitiva la peggiore forma possibile di soggettività, perché spaccia e mistifica (se ne abbia o no coscienza) come scientificamente oggettivo ciò che appartiene esclusivamente alla soggettività dell’osservatore valutante (il termine “quantofrenia” è di Pitirim A. Sorokin, sociologo russo, naturalizzato americano, che fu tra i primi, negli anni ’20 del secolo scorso, a introdurre nella sociologia metodi di analisi quantitativa, avendo però chiara consapevolezza delle cautele con cui tali metodi vanno applicati ai fenomeni psicosociali, pena l’insensatezza delle conclusioni cui si perviene33). Il senso di queste osservazioni (che andrebbero certo articolate assai più di quanto non sia possibile in questa sede) è mostrare quanto sia sbagliato e fuorviante, nel campo di cui ci stiamo occupando, cedere all’alternativa dogmatica del “tutto o niente”. Nel nostro caso – ripetiamolo ancora una volta perché serve a fissare un punto chiave – chi rimane prigioniero di quell’alternativa ragiona (o sragiona) così: poiché non possiamo raggiungere nel campo della valutazione delle capacità professionali la stessa oggettività conseguibile nel mondo fisico-naturale, allora tanto vale arrendersi alla soggettività incontrastata del “capo” (opzione questa destinata a distruggere equità e condivisione nei giudizi valutativi) oppure eliminare in radice la valutazione dell’attività delle persone e delle loro competenze (opzione, questa, che – se non fosse impossibile – sarebbe ugualmente distruttiva poiché azzererebbe il fondamento della razionalità organizzativa). Questo “nichilismo della perfezione” – come lo si potrebbe anche chiamare – sbarra l’accesso a possibili vie mediane, che invece esistono e sono fruttuosamente percorribili. Quali sono queste vie intermedie? In primo luogo, varrebbe forse la pena di riflettere se, dopo tutto, sia proprio un gran male il fatto che gli uomini non si possano valutare così come si misurano o si pesano tavoli, vasi e porte. Infatti, se, per un verso, potrebbe sembrare un bel sogno quello di valutare le persone con la stessa semplicità ed univocità 32 Etica nicomachea, 1094b, 25 e poi anche 1094b, 12 e 1098a, 27. 33 Mode ed utopie nella sociologia moderna e scienze collegate, trad. it. Firenze, Editrice Universitaria G. Barbera, 1965, pp. 109-174. L’epigrafe del capitolo dedicato alla “quantofrenia” è una frase del grande fisico austriaco Erwin Schrödinger, premio Nobel, che suona così: “La vita è troppo complicata per essere pienamente accessibile alla matematica”. Naturalmente, bisogna mettere in conto che in un paese di cultura umanistico-letteraria come l’Italia queste affermazioni, o altre consimili, possano essere strumentalmente utilizzate per giustificare la retorica irrazionalista. Un approfondimento sull’uso del linguaggio quantitativo nelle scienze si trova in appendice a p. 152. USO DI UN MODELLO DI COMPETENZE con cui si misurano gli oggetti, dall’altro, quel sogno potrebbe anche celare l’incubo di un mondo in cui gli uomini stessi sono stati ormai ridotti a oggetti. Ma non è su questa critica radicale (per qualcuno, forse, di sapore un po’ letterario) che si vuole qui insistere. La pratica valutativa impone l’abbandono di ogni radicalismo e l’adesione a un sano spirito pragmatico. Qual è dunque il punto? Il nodo della questione può essere spiegato con un semplice esempio. Supponiamo che si debbano valutare le doti di leadership di un comandante di unità da combattimento. Se il criterio di giudizio fosse espresso così: “la leadership si esprime nella capacità di guidare gli uomini”, il criterio sarebbe sicuramente soggettivo, poiché costituirebbe un metro privo di sufficiente univocità. Le misurazioni rischierebbero di essere significativamente diverse a seconda delle convinzioni dei valutatori riguardo a quella condotta chiamata “guidare uomini”. Quali connotati dovrebbe avere tale condotta? È un autentico comandante chi sa piegare con la forza e le minacce i soldati alla propria volontà o piuttosto colui che sa esercitare una sapiente opera di convincimento riguardo alla giustezza delle proprie scelte? O è l’una e l’altra cosa (e altre ancora) a seconda delle circostanze? In relazione al significato e al valore che attribuiamo alla nozione di “guida di uomini”, muterà il nostro giudizio. Ma se cominciamo a specificare meglio quel concetto, dicendo, ad esempio, che il comportamento del vero leader militare è di essere in prima fila davanti ai suoi uomini sul campo di battaglia, ecco che si dà avvio alla costruzione di una “metrica” grazie alla quale i margini di interpretazione soggettiva del valutatore si vanno restringendo e il giudizio diviene sempre più oggettivo, nel senso che si rende indipendente dal fatto che sia questo o quel soggetto, con la sua particolare individualità, a pronunciarlo. Così come noi diciamo che l’affermazione: “quel tavolo è lungo 1,5 metri” è oggettiva, perché si basa su un metro di giudizio univoco (il che non esclude, come più volte detto, che si possa poi essere in disaccordo sulla concreta misurazione). È appunto in questa direzione che si è proceduto nella costruzione del modello delle competenze del personale dell’Agenzia delle Entrate (vedi al riguardo il paragrafo 4 della parte prima). 3.3 La capacità di giudizio degli attori della valutazione Nell’attività di misurazione ciò che conta non è solo il metro che si utilizza, ma anche il modo in cui lo si utilizza. In altre parole, non basta solo preoccuparsi dell’oggettività del metro di valutazione, ma occorre anche preoccuparsi – se così si può dire – dell’oggettività del soggetto utilizzatore del metro. Questo secondo aspetto viene spesso trascurato perché l’uso delle unità di misura più ricorrenti è radicato da sempre nella nostra “forma di vita”, e non ci viene più in mente che quell’uso presuppone il possesso di adeguate conoscenze ed abilità pratiche per maneggiare come si deve quelle unità di misura. Ad esempio, per misurare correttamente la lunghezza di un tavolo, non basta solo disporre di un metro, ma occorre, ad esempio, avere anche imparato che la fettuccia che si adopera come metro va utilizzata stendendola bene sul piano, esattamente lungo il bordo del lato che intendiamo misurare. 43 USO DI UN MODELLO DI COMPETENZE 44 Bisogna quindi distinguere tra maggiore o minore complessità delle conoscenze e delle abilità necessarie per maneggiare un metro. Sotto tale profilo vi è grande differenza fra la semplice misurazione della lunghezza di un tavolo e il discernimento delle capacità di una persona. Nel sentiero stretto che ha come meta quella di arrivare a valutazioni sui comportamenti organizzativi condivise e aderenti alla realtà si può sicuramente fare molta strada enucleando indicatori comportamentali sempre più idonei a “disambiguare” le situazioni valutative (la parola “disambiguare”, ormai entrata nell’uso, significa eliminare o ridurre i margini di ambiguità di una situazione; il termine è sicuramente brutto, ma efficace dal punto di vista espressivo)34. E tuttavia non basta solo questo. Tra l’enunciazione di una regola astratta (qual è pur sempre un indicatore comportamentale) e la sua applicazione alla realtà vi è inevitabilmente uno scarto per via dell’impossibilità di racchiudere in formule esaustive la varietà dei casi reali, e dato che questo scarto non è eliminabile cercando di rendere sempre più minuziosa la regola di giudizio35, la soluzione non può stare soltanto nell’affinare la regola di giudizio, ma occorre anche affinare la mente di coloro che applicano la regola (sia valutati che valutatori), cioè affinare quella che solitamente si chiama la “capacità di giudizio”. Questa capacità si coltiva sia con la riflessione autonoma che con la riflessione guidata su casi esemplari di applicazione di regole valutative. In altre parole, occorre educarsi a riflettere insieme – specie con riferimento a situazioni emblematiche – sui giudizi positivi o negativi che formuliamo di continuo su situazioni e persone, abituandosi ad esplicitarne meglio il senso e a ponderarne la plausibilità. Un po’ come nella comunità dei sommelier, dove la grande concordia di giudizi che si riscontra nella valutazione della qualità dei vini degustati dipende dal fatto che l’analisi delle caratteristiche organolettiche si ispira a canoni cui dà forma concreta e omogeneità applicativa il lungo e paziente apprendistato collettivo cui i sommelier si sottopongono per affinare il proprio gusto. 34 Questo percorso di progressivo scioglimento dell’ambiguità dei criteri di misurazione si ritrova, del resto, anche nel campo delle scienze naturali, dove non è vero che le misurazioni sono tutte assolutamente univoche, come mostrano le controversie non infrequenti nella comunità scientifica. La scala Mercalli non ha, per le sue caratteristiche empiriche, la stessa oggettività del sistema metrico decimale, ma non di meno è generalmente accettata nel mondo scientifico, perché quel che conta alla fine è se il criterio di misurazione impiegato sia o no utile per gli scopi che si perseguono. In altri termini, l’oggettività assoluta è un non senso come l’esattezza assoluta. Per citare ancora Wittgenstein: “Ciò che è inesatto non raggiunge il suo scopo così perfettamente come ciò che è più esatto. Dunque tutto dipende da che cosa chiamiamo ‘lo scopo’. È inesatto non dare la distanza dal sole fino al metro? E non dare al falegname la larghezza del tavolo fino al millesimo di millimetro?” (Ricerche filosofiche, cit., § 88). Ritornando all’esempio della graduazione dell’intensità sismica, fu a suo tempo proposta, in alternativa alla scala Mercalli e alle sue connotazioni empiriche, una scala che si presentava come più “oggettiva” poggiando sul valore dell’accelerazione massima che l’urto sismico imprime allo strato terrestre. Venne però osservato che il valore dell’accelerazione massima è, nella pratica, di difficile ricerca, sicché le descrizioni empirico-qualitative di Mercalli (che differiscono quindi da quelle “quantitative”, tipiche delle scienze naturali, espresse in valori numerici) rimangono ancor oggi, specie ai gradi più elevati della sua scala, quelle più pratiche e funzionali ai fini della misurazione dei fenomeni sismici. 35 Le ragioni di questa affermazione sono spiegate in appendice a p. 159. USO DI UN MODELLO DI COMPETENZE Quali ostacoli si incontrano nel corso di questo processo di apprendimento? In altri termini: cos’è che solitamente può fare velo alla capacità di giudizio? La psicologia del lavoro dedica ampio spazio a questa tematica. Particolare attenzione va prestata agli errori di giudizio (nella letteratura si ritrovano, ad esempio, il filtro della “prima impressione”, l’effetto alone, le proiezioni, le associazioni da “personalità implicita”, gli stereotipi) e ai cosiddetti “errori di attribuzione causale”, quali le distorsioni determinate dalla chiusura nel self-serving (tendenza a percepirsi comunque in maniera favorevole, attribuendo generalmente a se stessi il merito del successo e a fattori esterni, invece, la causa dell’insuccesso) cui corrisponde una resistenza, più o meno forte, all’apertura verso un genuino feedback da parte degli altri (siano essi capi, colleghi, collaboratori o utenti dell’ufficio)36. Il colloquio di valutazione, se da un lato può servire a correggere tali errori, dall’altro è la sede tipica in cui questi errori si manifestano. Appropriati interventi formativi riguardo alla dinamica e alla conduzione dei colloqui in contesti organizzativi possono perciò rivelarsi molto utili per migliorare la capacità di giudizio degli attori della valutazione. 4. La veridicità delle valutazioni Abbiamo finora parlato dei punti critici relativi all’oggettività del sistema di valutazione. Dobbiamo ora affrontare l’altra criticità, ossia quella della “giustezza” o “veridicità” delle valutazioni. La domanda che bisogna a questo punto porsi è la seguente: quali sono le cause che possono compromettere o, comunque, limitare la veridicità di una valutazione? La prima è la carenza o la non accuratezza delle informazioni che supportano la valutazione. In questo caso si sbaglia a valutare per errore dovuto a informazioni difettose o inadeguate. La seconda causa è la presenza di interessi che, seppure comprensibili sotto il profilo psicologico e gestionale, spingono sia il valutatore che i valutati ad esprimere valutazioni non rispondenti alla realtà (il caso tipico è quello di valutazioni “gonfiate”37). In questo caso, si sbaglia a valutare per interesse (cioè perché non conviene essere sinceri). La prima causa è assai importante, ma, dal punto di vista concettuale, non richiede una analisi molto diffusa. Le cose da fare sono fondamentalmente due: 36 Molto utile può essere in proposito la lettura della sintetica panoramica delineata nel capitolo “Atteggiamenti, percezioni e giudizio” contenuto in H.L. Tosi, M. Pilati, N.P. Mero e J. Rizzo, Comportamento organizzativo, cit., pp. 26-49. 37 L’esperienza dimostra che il rischio di valutazioni discriminatorie (cioè di valutazioni che selezionino iniquamente) è in gran parte un falso problema. Il rischio vero è quello di valutazioni appiattite tutte verso l’alto, poiché il dirigente, da un lato, ha un interesse forte a non “inimicarsi” i suoi collaboratori ed anzi a svolgere nei loro confronti una sorta di azione di patronage, e, dall’altro – per sottrarsi alla fatica di gestire conflitti e di motivare bene le proprie decisioni – tende a non assumersi la responsabilità di distinguere fra chi lavora bene e chi no. 45 USO DI UN MODELLO DI COMPETENZE a) poiché per valutare occorre anzitutto conoscere, bisogna costruire la procedura di valutazione dando un ruolo adeguato a chi può avere conoscenza diretta delle competenze degli interessati; b) occorre sviluppare un sistema informativo di raccolta e selezione delle informazioni utili per il processo valutativo. 46 Un esame assai più ampio richiede invece la trattazione dell’altra causa. Preliminarmente, si può affermare che l’efficacia di un sistema di valutazione non dipende dalla formulazione di generici appelli alle “buone intenzioni” degli attori del sistema, ma dalla coerenza dei suoi congegni rispetto agli scopi da raggiungere e dalla loro praticabilità. In parole povere, il segreto è cercare di far lavorare, per così dire, l’egoismo dei singoli per fini sociali, suscitando, negli stessi attori, interessi contrari a quelli da cui essi, per altro verso, sono mossi e che contrastano con i fini voluti dall’organizzazione. Si tratta ora di analizzare quali siano gli interessi che tendono a pregiudicare la veridicità dei risultati del sistema di valutazione. Questi interessi si ritrovano proprio nei protagonisti del sistema di valutazione, e cioè sia nei valutatori che nei valutati. Cercheremo anzitutto di individuarne la natura e la dinamica e di prospettare possibili soluzioni che valgano a controbilanciare gli interessi in gioco e a modificare i “meccanismi di convenienza” degli attori del sistema. 4.1 La situazione del valutatore La valutazione “organizzativa” (quella cioè cui si assiste all’interno delle organizzazioni) presenta una sua tipica peculiarità: nella figura del valutatore viene a sommarsi, al ruolo del capo, un altro ruolo che gli è potenzialmente antagonista, quello del giudice. L’antagonismo sta nel fatto che mentre in un processo colui che è soggetto a valutazione (l’imputato) non ricopre il ruolo di assistente del giudice, in un’organizzazione i valutati sono coloro senza la cui collaborazione il capo nulla, o quasi nulla, può fare. E se il raffronto con la valutazione giudiziaria può apparire improprio, perché il giudice non valuta competenze professionali, la questione appena prospettata non cambia, nei suoi termini essenziali, se si fa il confronto con un’altra situazione valutativa che ci è assai familiare e che presenta evidenti analogie con quella che ha come teatro il posto di lavoro. Ci riferiamo alla valutazione scolastica, nella quale si tratta anche lì, come nella valutazione on the job, di apprezzare capacità e attitudini. Ebbene, se si può affermare, seppure con qualche forzatura, che un insegnante, per fare il suo mestiere, non ha bisogno dei suoi allievi, godendo così, sotto questo aspetto, di ampia libertà per quanto riguarda la valutazione dei suoi studenti, molto diversa è invece la situazione del capo, che riesce a fare ben poco se non può contare sul sostegno delle persone che gli sono affidate (c’è perfino chi dice, probabilmente non a torto, che il capo in qualche misura viene formato dai suoi collaboratori). Cosa comporta questa differenza? La valutazione, soprattutto quando è negativa, ma non solo in quel caso (anche chi è stato valutato positivamente tende a dolersi di USO DI UN MODELLO DI COMPETENZE essere stato eventualmente valutato meno bene del collega) rischia di peggiorare le relazioni di lavoro fra il capo e i propri collaboratori. Questo spiega perché i dirigenti, se da un lato si lamentano spesso di avere scarso potere di valutazione, quando poi ne viene loro concesso un po’, si guardano bene dall’utilizzarlo (come capitava nei vecchi rapporti informativi, ove il 105 – che era il punteggio più alto – non si negava pressoché a nessuno), e ripiegano sulle valutazioni indifferenziate (potremmo dire “a pioggia”), per evitare appunto di creare conflitti difficili da gestire. Si può deprecare quanto si vuole questo stato di cose e trarne magari motivo di rimprovero per i dirigenti che danno così scarsa prova di coraggio e di fermezza, ma è un fatto che anche nel mondo delle aziende i capi, per le ragioni relazionali appena evidenziate, tendono in genere a dare valutazioni generose, ed essendo quindi quasi tutti i dipendenti giudicati ottimi, prima o poi tutti ottengono la promozione con la conseguenza che la vera discriminante diviene alla fine l’anzianità. Il problema è allora questo: come esercitare in modo rigoroso il proprio ruolo di valutatore con il minimo possibile di “danni collaterali”, cioè di conflitti. In termini di principio, la soluzione è chiara: il traguardo della valutazione – traguardo non sempre facile a raggiungersi, ma neppure inattingibile se c’è un impegno autentico, senza riserve mentali, ad un serio esercizio di reciproco ascolto – è la condivisione dei giudizi, cioè la convergenza progressiva fra autovalutazione ed eterovalutazione, vale a dire la sintonia fra come io – lavoratore – valuto me stesso e come l’altro – il capo – valuta me. In una organizzazione ideale, l’autovalutazione di tutti i valutati coincide con l’eterovalutazione dei rispettivi valutatori e questa coincidenza non è collusiva o opportunistica (cioè non risponde a una logica di scambio di favori) ma è fondata sulla verità delle cose. In altri termini, il conflitto non sorge necessariamente quando la valutazione è negativa (può insorgere anche, come tutti sanno, quando essa è positiva ma non nella misura che l’interessato ritiene giusta), ma sorge quando la valutazione viene percepita come ingiusta in quanto non suffragata dai fatti. A scuola un brutto voto non suscitava sentimenti di rivolta quando si capiva che era giusto (e anzi il fatto di percepire che era meritato finiva per rafforzare l’immagine di serietà e competenza dell’insegnante). Non esiste però solo la criticità rappresentata dal divario o peggio dal conflitto fra auto ed eterovalutazione, tra il “valutarsi” e il “farsi valutare”. Oltre a questa c’è pure la criticità del potenziale conflitto fra più eterovalutazioni. In altre parole, anche laddove auto ed eterovalutazione coincidano o tendano a coincidere, il valutatore può venirsi a trovare nel dilemma se la propria valutazione, pur condivisa dal valutato, non possa ingiustamente penalizzare quest’ultimo, nel caso in cui comportamenti analoghi a quelli messi in atto dal valutato vengano apprezzati diversamente da un altro valutatore (l’ipotesi classica è che vengano apprezzati più benignamente). È anche questa una vicenda che l’esperienza scolastica ci ha reso subito familiare. Chiunque di noi ricorderà forse di aver fatto almeno una volta al proprio insegnante un discorso del genere: “Riconosco che il brutto voto che lei mi dato al compito in classe è giusto, perché rispecchia sicuramente la qualità modesta della mia prova. Ma tenga presente che un mio amico nella classe accanto ha preso dal suo insegnante, per un elaborato di qualità analoga, un voto assai 47 USO DI UN MODELLO DI COMPETENZE 48 superiore al mio”. Ciò che rimproveravamo al nostro insegnante era un tipico caso di valutazione “giusta”, ma non “equa”. Dov’è la differenza fra questi due termini, che sembrano essere semplicemente sinonimi? Così come “risposta giusta” significa “risposta esatta” (in questa accezione, la parola “giusto” ha scarsa o nessuna parentela con “giustizia” o “equità” ed è apparentata invece a “giustezza”), allo stesso modo una “valutazione giusta” è una valutazione “esatta”, “veritiera”, cioè che “corrisponde alla realtà” (ed è lo stesso interessato a riconoscerlo, dopo aver visto la correzione della sua prestazione). Nel caso appena citato, la valutazione, seppure “giusta”, non è però “equa”, perché non corrisponde a quella attribuita ad altri per analoga prestazione. In una situazione del genere – che assomiglia a quella descritta nel famoso “dilemma del prigioniero” (illustrato in appendice a p. 160) – l’effetto finale è che i valutatori, non potendo fare affidamento – o non essendo sicuri di poter fare affidamento – sulla “capacità di tenuta” dei colleghi rispetto alle spinte che portano a “far lievitare” le valutazioni, vanno tutti ad attestarsi su giudizi ampiamente favorevoli. E si riproduce così – nel conflitto reale o atteso fra eterovalutazioni (le valutazioni dei diversi capi) – quello stesso appiattimento generale sui livelli massimi della valutazione, che – come abbiamo visto – è anche l’esito ricorrente del conflitto fra auto ed eterovalutazione. Un rimedio cui solitamente si fa ricorso, ma che si rivela per lo più poco produttivo, è quello dell’appello generico alla responsabilità dei valutatori, sollecitandoli, magari anche con reprimende, ad esprimere giudizi più aderenti alla realtà. È una soluzione moralistica (l’appello alle “buone intenzioni”) che ben difficilmente sortisce effetto. Esistono accorgimenti più efficaci per modificare la “dinamica di interessi” dei valutatori, in modo da attenuarne, se non proprio eliminarne, l’incidenza negativa sulla veracità delle valutazioni? Ne possiamo immaginare almeno cinque, diretti a funzionare come contrappesi rispetto alla dinamica appena descritta. In sostanza, si tratta di attivare nel valutatore interessi di forza tale da neutralizzare (o almeno bilanciare) la sua tendenza a formulare giudizi prevalentemente appiattiti sui livelli massimi. Collegare il sistema di valutazione del personale a quello di assegnazione degli obiettivi al dirigente Che significa collegare il sistema di valutazione delle prestazioni con quello di pianificazione del lavoro e di controllo di gestione? In pratica, l’idea è che la programmazione degli obiettivi non deve tener conto solo della ripartizione delle risorse umane per qualifica giuridica di inquadramento (come avviene oggi), ma anche della qualità professionale delle risorse quale emerge dal sistema di valutazione. In questo modo, l’eventuale propensione del dirigente a formulare valutazioni troppo sbilanciate verso l’alto troverebbe un limite nella consapevolezza che così facendo egli rischierebbe di vedersi assegnati obiettivi troppo superiori alle forze reali del proprio ufficio, e di trovarsi inoltre escluso dall’assegnazione di nuovo personale, avendo egli attestato, con i suoi stessi giudizi, la condizione fortunata di essere circondato da collaboratori tutti ottimi. USO DI UN MODELLO DI COMPETENZE Collegare il sistema di valutazione del personale al sistema di valutazione dei dirigenti Contrariamente a quanto talora si crede, e come invece si legge spesso in letteratuvalutare le prestazioni dei collaboratori è fra le cose che i manager meno amano. E non contribuirebbe probabilmente ad accrescere questo amore, l’introduzione del principio secondo cui il dirigente che valuta i suoi collaboratori deve, a sua volta, essere valutato per come dimostra di saperli valutare. Nondimeno il principio è giusto e sarebbe sbagliato vedervi una forma di condizionamento psicologico del dirigente, tale da poterlo indurre a valutazioni volte comunque ad accontentare tutti (perché se tutti sono contenti, nessuno ricorre e manca allora l’occasione per sindacare le scelte valutative del dirigente). Ciò che si chiede a un dirigente – e che fa parte del contenuto della sua responsabilità – non è evitare valutazioni potenzialmente conflittuali, ma esprimere valutazioni giuste, il che significa, da un lato, riconoscere e apprezzare il lavoro ben fatto e, dall’altro aiutare gli interessati – con rispetto e senza ledere la dignità di nessuno – a capire cosa è bene migliorare (non si fa autentica azione di sviluppo, se, essendo obiettivamente diverse le capacità, e diversi i meriti e l’impegno delle persone, tutti sono però ritenuti ugualmente bravi). È evidente il peso del lavoro di valutazione, se ci si impegna a farlo seriamente (ma anche per questo – e anzi particolarmente per questo – si viene retribuiti). Anzitutto, occorre dedicare tempo e attenzione alla raccolta Promemoria per il valutatore e al trattamento delle informazioni, in modo da pervenire a valutazioni ben motivate o comunque ben Valutare bene implica la fatica di spiegare, spiegare e spiegare. Accettare di motivabili. La conoscenza dei fatti richiede poi autosottoporsi a questa fatica non è un atto riflessione, perché è soggetta agli errori di osservadi generosità, ma un atto dovuto: il dirizione cui si accennato a p. 44 ed è influenzata da gente è pagato anche per questo. una istanza quasi naturale di attenzione selettiva che spinge il supervisore a notare soprattutto ciò che va male nel lavoro che osserva e a non soffermarsi invece ciò su che va bene, trascurando così di darne riconoscimento e merito agli interessati (con effetti demotivanti di non lieve momento). Occorre infine spiegare bene agli interessati perché si ritenga di dover adottare una certa decisione valutativa piuttosto che un’altra e occorre prendersi tutto il tempo che serve per queste spiegazioni. È tempo comunque speso bene, perché può evitare incomprensioni e rancori e risparmiare onerosi strascichi di contenzioso. Per quanto la retorica possa finire per falsare tutto, resta comunque vero che le persone sono la risorsa organizzativa più preziosa, e fra le condizioni essenziali di motivazione e valorizzazione di questa risorsa c’è la capacità di dare un adeguato feedback (sul tema cruciale del feedback vedi più diffusamente p. 53). Valutazioni “d’istinto” non sono difendibili e non possono quindi essere accettate. Non le accetterebbe per sé il valutatore, quando è egli stesso a dover essere valutato, né può egli pensare – per un elementare principio di reciprocità – che possano accettarle le persone di cui ha la responsabilità di valutare l’operato. L’ausilio del sistera38, 38 Ad esempio, H.L. Tosi, M. Pilati, N.P. Mero e J. Rizzo, Comportamento organizzativo, cit., p. 336. 49 USO DI UN MODELLO DI COMPETENZE 50 ma di valutazione è anzitutto nel richiamo all’obbligo di obiettivare con dati e citazione di episodi significativi i propri giudizi, andando al di là delle semplici, e non di rado fallaci, impressioni. Per agevolare il compito della valutazione, si possono seguire alcuni accorgimenti utili a mantenere le decisioni valutative su un piano di realismo. Indicazioni di questo tipo vengono definite eurismi negli studi di organizzazione che riprendono costrutti delle scienze cognitive: l’eurisma è una regola cognitiva che può facilitare la soluzione di problemi complessi, qual è, per l’appunto, quello della valutazione di prestazioni professionali non riducibili a schemi di azione semplici e routinari. Nel nostro caso, un’indicazione euristica (ovvero un “eurisma”) di buon senso, potrebbe essere questa: “In assenza di elementi negativi di giudizio o di elementi di giudizio particolarmente positivi, si può senz’altro valutare la prestazione della persona come ‘adeguata’ al ruolo ricoperto”. Questa regola risponde a considerazioni di buon senso e semplifica non poco il lavoro di valutazione. La statistica come bussola di serietà Se i parametri di giudizio sono vaghi e generici, il vincolo della cosiddetta “curva normale” o “gaussiana” di distribuzione statistica dei dati, può servire ad evitare slittamenti generalizzati verso l’alto dei giudizi oppure difformità di valutazione ingiustificate tra i diversi valutatori (in pratica, tale criterio viene in genere applicato, prevedendo, ad esempio, che le prestazioni eccellenti o anche quelle significativamente superiori alla media non possano superare una quota dell’x% del totale delle persone da valutare). Un modello di competenze ha però anche lo scopo di oggettivare quanto più possibile i criteri di valutazione, sicché il vincolo rigido della gaussiana può in questo caso determinare distorsioni valutative, precludendo forzatamente l’inserimento nelle fasce di giudizio superiori di persone che magari lo meriterebbero in base ai criteri prestabiliti. Adoperato tuttavia come bussola, il riferimento alla gaussiana può rivelarsi assai utile per segnalare l’eventualità di atteggiamenti lassisti o, viceversa, indebitamente severi nei giudizi. Sul valutatore ricadrebbe l’onere di motivare le valutazioni che lo hanno condotto a una distribuzione di giudizi sensibilmente difforme dalla curva normale39. Pubblicità delle valutazioni Qualunque capo tiene ad essere riconosciuto come valutatore serio. Questa motivazione verrebbe ad essere rafforzata se si prevedesse la possibilità di rendere pubblica in forma aggregata, a livello di ogni ufficio, la distribuzione delle valutazioni per le diverse fasce di giudizio. 39 La curva normale assomiglia graficamente a una campana (vedi appendice, p. 164). Un modello di curva più rispondente alla specifica realtà dell’Agenzia delle Entrate potrebbe essere costruito effettuando periodicamente (a titolo indicativo ogni tre anni) valutazioni a controllo incrociato particolarmente accurate e rigorose (prevedendo, ad esempio, assessment da parte di esperti esterni e anche valutazioni a 360°) su un campione significativo di uffici. Sulla base di tali valutazioni si costruirebbe, per il periodo di riferimento, la curva di distribuzione “normale” delle valutazioni all’interno dell’Agenzia. USO DI UN MODELLO DI COMPETENZE Bonus di selettività valutativa Ciò che può indurre il valutatore ad allentare lo standard di serietà delle sue valutazioni è la comprensibile preoccupazione di non penalizzare i propri collaboratori rispetto a quelli di altri colleghi che non dovessero dar prova di analoga serietà di giudizio. Tale preoccupazione può essere contrastata prevedendo retribuzioni di risultato superiori a quelle ordinarie a favore di coloro che operino presso uffici ove si registri – data appunto la serietà del valutatore – un indice elevato di selettività valutativa. 4.2 La situazione del valutato Così come occorre incidere, con adeguati accorgimenti, sulla dinamica degli interessi da cui è mosso il valutatore, analogamente occorre controbilanciare la pressione del valutato ad acquisire sempre e comunque giudizi ampiamente favorevoli. Quali meccanismi si possono a tale scopo utilizzare? Gli esperti sconsigliano in genere, almeno nella fase iniziale, di prevedere un impatto significativo della valutazione delle competenze professionali sulle politiche retributive, nel presupposto che, eliminando o riducendo tale impatto, scemerebbe – scusando il bisticcio di parole – “l’interesse degli interessati” ad avere valutazioni più che positive, al di là dei loro effettivi meriti40. La tesi appare plausibile, ma bisognerebbe ricordare l’esperienza già citata dei rapporti informativi, che non avevano impatto retributivo e che, ciò nonostante, si concludevano quasi sempre con l’attribuzione del fatidico 105. Non è detto quindi che se si sterilizzano, per così dire, i riflessi retributivi della valutazione delle competenze, si elimina o si attenua la pressione ad avere giudizi lusinghieri dal proprio capo (la pressione può anzi persino rafforzarsi, perché nel caso di cui parliamo il dipendente potrebbe far presente al superiore che “non gli costa nulla” dare un giudizio favorevole, e il superiore, dal canto suo, si chiederebbe quale convenienza avrebbe mai a negare tale giudizio, quando appunto “non gli costa nulla”, e il rigore rischierebbe alla fin fine di apparire solo un’inutile cattiveria). Continuando ad esplorare il repertorio dei possibili accorgimenti utili a fronteggiare il problema di cui ci stiamo occupando, importante è sicuramente la considerazione che il riconoscimento di meriti e capacità non può dare luogo solo ad onori (benefici economici e di carriera) ma deve anche implicare oneri. Chi è stato valutato in maniera particolarmente positiva deve quindi di buon grado accettare standard qualitativi e quantitativi di lavoro in linea con le competenze riconosciutegli (questa ipotesi fa da pendant a quella prima prospettata per l’assegnazione degli obiettivi ai valutatori nel caso in cui essi ammettano, con le valutazioni che esprimono, di beneficiare della collaborazione di impiegati tutti o quasi tutti molto bravi). In sostanza, questa soluzione farebbe da pendant 40 Per una disamina delle questioni connesse alla retribuzione delle competenze si può vedere Spencer & Spencer, trad. it., op. cit., pp. 287-299 e U. Capucci (a cura di), Business, strategia, competenze, Milano, Guerini e Associati, 1999, pp. 171-190. Vedi anche l’interessante articolo di G.D. Klein, La retribuzione fondata sulle conoscenze: l’analisi di un’esperienza di successo, in «Problemi di gestione», Formez, 1999, vol. XXI, n. 6, pp. 57-74. 51 USO DI UN MODELLO DI COMPETENZE 52 a quella già prospettata per il valutatore: si tratterebbe di collegare il sistema di valutazione del personale al sistema di assegnazione degli obiettivi all’ufficio. Il personale non avrebbe più interesse a valutazioni gonfiate, perché si vedrebbe gonfiare gli obiettivi dell’ufficio in cui lavora. Insomma, si tratta di rendere manifesto agli interessati che giudizi non aderenti alle loro reali capacità professionali finiscono per essere controproducenti, anche perché determinano la loro esclusione da percorsi formativi utili a colmare i loro gap e a favorire così il loro effettivo sviluppo professionale (perciò, chi tenta di sopravvalutarsi dimostra alla fine la stessa intelligenza dello struzzo che – secondo un luogo comune – vorrebbe far sparire le proprie difficoltà nascondendo la testa sotto la sabbia). 4.3 La cultura della valutazione Per favorire la veridicità delle valutazioni, non basta attivare contrappesi agli interessi dei valutatori e dei valutati che spingono a esprimere valutazioni non serie. Occorre anche lavorare sulla “cultura della valutazione”. I punti che vanno qui fissati sono quattro. 1. Un sistema di valutazione può dare valore alle persone (può valorizzarle) solo se ha valore, cioè se aiuta a produrre valutazioni serie. La veridicità delle valutazioni – cioè la loro rispondenza all’effettivo valore della prestazione resa e delle competenze dimostrate – è essenziale affinché un sistema di valutazione possa dirsi “serio”. In estrema sintesi, si può anzi dire che un buon sistema di valutazione è un sistema che è oggettivo nei criteri cui s’impronta e serio nelle valutazioni cui dà luogo. Bisogna far capire il valore della serietà: far parte di un’organizzazione seria crea orgoglio professionale, che è il cemento più forte di un’organizzazione (sempreché sia accompagnato da almeno un pizzico di senso critico e – perché no – da una sana capacità di autoironia). Ma non è solo una questione di orgoglio, è anche una questione di convenienza. Le organizzazioni pubbliche che hanno fama di serietà anche nelle valutazioni interne guadagnano, nell’opinione pubblica, prestigio e credibilità, che legittimano la richiesta di trattamenti adeguati per i propri dipendenti. 2. Occorre sviluppare una “cultura della diversità” non individualistica. La mentalità dominante nelle pubbliche amministrazioni guarda con sospetto tutto ciò che tende al riconoscimento della diversità dei meriti, quasi fosse una colpa ammettere che qualcuno è più bravo di un altro e merita perciò più di altri. È importante convincersi che la valorizzazione del merito non va necessariamente concepita secondo un’ottica individualistica indirizzata solo e principalmente a beneficio dei diretti interessati (cioè delle persone che dimostrino capacità professionali più marcate). Non offrire specifiche opportunità ai più bravi dà luogo ad uno spreco di talento che non può non ricadere negativamente sul progresso culturale e professionale dell’organizzazione nel suo complesso, impoverendola. Non favorire l’emergere, il consolidamento e il riconoscimento di competenze di punta significa alla fine privare tutti gli altri di preziose ricadute di conoscenze e di capacità che, nelle organizzazioni vive e vitali, avviano dinamiche virtuose di apprendimento, di crescita e di emulazione positiva. USO DI UN MODELLO DI COMPETENZE 3. Medietà non vuol dire mediocrità. Guardando al funzionamento complessivo di una grande organizzazione, non contano solo le competenze di punta. La prestazione più importante e significativa è probabilmente proprio quella normale. Non sono pochi “eccellenti” a fare una buona organizzazione, bensì una maggioranza di persone capaci, volenterose e oneste, che rappresentano esempi di professionalità perfettamente adeguata al compito e assicurano così il rispetto e il mantenimento degli standard quantitativi e qualitativi su cui si regge l’organizzazione stessa. Questi colleghi rappresentano la media ma purtroppo, più o meno inconsapevolmente, siamo portati a ritenere che “medio” equivalga a “mediocre”, mentre tra i due termini c’è una differenza sostanziale, poiché, diversamente dal “medio”, il “mediocre” non apporta alcun valore aggiunto all’organizzazione. Confondendo queste due categorie, i giudizi finiscono sempre per addensarsi nelle categorie elevate (“medio-superiore” ed “eccellente”). Dobbiamo superare questa distorsione: non c’è bisogno di incassare un giudizio ultra favorevole per vedere riconosciuto il proprio impegno, sicché un sana considerazione del valore della medietà41 è il correttivo indispensabile della “sindrome da eccellenza”, tendenza tipica, e assolutamente irrealistica, dei sistemi di valutazione interna, ad attestarsi tutti (valutatori e valutati) sui livelli di giudizio massimi. Con questo appiattimento, il sistema non genera più informazioni utili dal punto di vista gestionale, né – avendo perso qualunque serietà – è suscettibile di promuovere efficaci azioni di sviluppo. Un sistema valutativo poco serio, rende poco seria l’organizzazione che lo applica, svilendo il senso di appartenenza ad essa (per convincersene basterà ricordare che, da studenti, a nessuno piaceva far parte di una scuola dove a tutti si regalavano voti eccellenti e brillanti promozioni). Insomma, ci si può chiedere se un’obiettiva verifica e una genuina presa di coscienza di cosa si è realmente fatto e di cosa si è realmente dimostrato di saper fare siano un momento necessario del processo di sviluppo personale. Ma un’eventuale risposta negativa difficilmente potrebbe essere considerata meritevole di discussione. 4. È importante saper dare e ricevere il giusto feedback. Un’immagine positiva di sé è indispensabile per lavorare bene e con entusiasmo, fino a che però non si cade nella trappola dell’autoinganno, che svia ogni tentativo di seria autovalutazione, spingendoci a dare maggior peso a tutto ciò che conferma un’immagine di noi non rispondente alla realtà. In qualsiasi organizzazione non cessa di stupire lo spettacolo quotidiano di persone che, con toni anche saccenti, accampano pretese a riconoscimenti di ogni genere (incarichi, incentivi economici, ecc.), facendo valere meriti e capacità che soltanto loro riescono a vedere in se stessi e che, tutt’al più, ritengono di poter comprovare in base al possesso di titoli formali cui non corrispondono reali competenze professionali. È un leit-motiv (peraltro giustissimo) che un sistema di valutazione ha, tra le sue finalità essenziali, quella dello sviluppo delle persone, che significa anzitutto superare il gap fra la prestazione attesa e quella effettivamente resa. Ma il gap più arduo da colmare è in primo luogo quello costituito dalla 41 Tale considerazione potrebbe trasformarsi, con una buona dose di intelligenza ed arguzia espositiva, in una sorta di “elogio della medietà”. Il tema è sviluppato in appendice a p. 162. 53 USO DI UN MODELLO DI COMPETENZE distanza fra la percezione di sé, del proprio valore, e la percezione che possono averne le persone con cui quotidianamente interagiamo sul posto di lavoro. Cos’è che può salvarci dall’autoinganno? Il feedback degli altri, che non è facile però né dare, né ricevere. 54 Secondo gli autori di una recente opera dedicata alla leadership, tra i maggiori ostacoli che si frappongono al feedback vi è un malinteso senso di gentilezza. Vale la pena riportare per intero il brano, che ha come titolo: “Che cosa c’è di sbagliato nell’‘essere gentili’?”. Che cosa c’è di sbagliato nell’“essere gentili”? Il proprietario di un bistrò parigino, col grembiule bianco e il cappello da chef stava sulla porta del suo locale ad accogliere i clienti. Una coppia, entrando, gli chiese sorridendo se fosse lui il proprietario. “Sì”, rispose lo chef. I due avventori diedero una rapida occhiata in giro: l’ambiente, gli allestimenti e l’assortimento dei piatti in bella vista erano magnifici. Si rivolsero allora al ristoratore dicendo: “È un posto fantastico: grande atmosfera e cibo sopraffino!”. A quel commento il loro interlocutore osservò: “Aspettate di aver cenato per dirlo!”. Essendo il proprietario del bistrò, lo chef non disdegnava certo l’approvazione, però voleva che fosse autentica e non un semplice atto di gentilezza. Allo stesso modo nelle organizzazioni, è possibile che nel dare un feedback la gente cerchi di essere gentile, invece di muovere osservazioni utili e precise. Vittime di questo atteggiamento sono soprattutto i leader. Per anni alcuni studiosi del comportamento hanno sostenuto che il feedback sulle prestazioni non dovesse avere contenuto valutativo e andasse depurato di qualsiasi elemento di positività o negatività. In tal modo, dicevano, lo si sarebbe reso più digeribile e quindi più utile. Privato del suo potenziale offensivo, il feedback sarebbe stato meglio accettato dai destinatari. D’altra parte, tale neutralizzazione di fatto diminuisce l’utilità del feedback, come è stato dimostrato da uno studio realizzato al Massachusetts Institute of Technology (MIT). Una cauta e non compromettente neutralità spoglia il feedback di importanti contenuti emozionali. Lo studio fu condotto su studenti che partecipavano a un MBA, nel corso di un modulo sul comportamento delle organizzazioni. Ai partecipanti fu chiesto di indicare un obiettivo di cambiamento cui dedicarsi nelle 15 settimane di corso che sarebbero seguite. Ogni settimana gli studenti si riunivano in gruppo, nel corso delle lezioni, per ricevere un riscontro dei loro progressi. Al termine di ogni lezione, a ciascuno veniva chiesto di indicare i tre feedback più utili che aveva ricevuto. USO DI UN MODELLO DI COMPETENZE Contrariamente all’opinione prevalente a quei tempi, emerse che il feedback giudicato più utile era quello valutativo, ossia quello in cui le persone avevano ricevuto apertamente indicazioni specifiche sull’adeguatezza o meno del loro comportamento. Questi risultati trovano una giustificazione. Tutti sappiamo infatti, più o meno consciamente, che gli altri osservano e giudicano il nostro comportamento. È quindi naturale che la maggior parte di noi preferisca conoscere la versione integrale di questo giudizio, piuttosto che quella edulcorata. Mitigando il loro feedback o cercando di essere garbati per non turbarci, gli altri non ci rendono un favore, ed anzi ci privano in realtà di informazioni essenziali al nostro miglioramento. Tratto da: D. Goleman, R.E. Boyatzis, A. McKee, Essere leader, trad. it. Milano, Rizzoli, 2002, p. 166 Dire – e dirsi – la verità (e questo fa inevitabilmente parte del feedback) è talora impossibile senza procurare qualche ferita (se non altro al proprio narcisismo). Il punto è come aprire, insieme a ferite talora inevitabili, anche il cammino verso la guarigione, cioè verso una più autentica comprensione di sé e del proprio valore. Riuscire a fare questo, evitando l’“imprigionamento delle relazioni produttive in quelle affettive”42, significa dare ai propri collaboratori un buon feedback, che è forse il compito più difficile di un capo. Un buon feedback si caratterizza per il fatto di essere: • costruttivo (dice alle persone come possono migliorare, le incoraggia di continuo a migliorare e ne rafforza l’autostima per tutto ciò che di buono fanno e sanno fare); • specifico (si rivolge con chiarezza ad aspetti ben determinati della prestazione di lavoro); • tempestivo (interviene subito dopo l’accaduto, quando le questioni in gioco sono ancora rilevanti e ben chiare a ognuno); • continuativo (non è intermittente, ma viene dato giorno per giorno); • propositivo (trova il suo scopo non nella volontà di ferire e di abbattere gli animi, ma nell’intenzione di migliorare la performance); • appropriato (il tipo di feedback, lo stile con il quale viene comunicato, il tempo e l’occasione devono essere appropriati alla persona e alla situazione). Si è appena detto che dare e ricevere feedback è tutt’altro che facile. Lo scambio riesce quando entrambi riescono a “mettersi nei panni dell’altro”. Cosa significa questo operativamente? Quando si ha il compito di dare feedback, è importante comprendere il punto di vista dell’altro, aprirsi alle questioni che egli pone e assicurarsi che i messaggi che vengono dati siano compresi. Per un capo è cruciale concepire il proprio ruolo di “datore” di 42 A. Grandori, Organizzazione e comportamento economico, cit., p. 172. 55 USO DI UN MODELLO DI COMPETENZE 56 feedback come parte di un ruolo più ampio, che è quello di coaching43 (coach = allenatore). Gli aspetti principali del coaching sono questi: • individuare bene e focalizzare con cura cosa ci si attende dai collaboratori; • spiegare, dandone dimostrazione concreta, come le cose vadano fatte; • fornire supporto e dare rinforzi di tipo positivo (non limitarsi cioè alle “legnate”); • indicare la direzione da seguire, consentendo però alle persone di trovare la strada a loro più adatta; • comprendere le diverse modalità di apprendimento delle persone ed essere disponibili a modificare il proprio stile di coaching per adattarlo allo stile altrui di apprendimento; • mostrare alle persone gli strumenti che possano aiutarle ad imparare da sé; • dare alle persone le capacità e i mezzi per monitorare e verificare la propria performance; • dare responsabilità alle persone e metterle in condizione di sentirsi realmente responsabili; • incoraggiare le persone e dare loro la possibilità di acquisire credito per i propri successi; • celebrare i successi; • saper trasformare gli errori, e la comprensione degli errori, in una delle vie elettive di apprendimento, facendone buon uso per migliorare la performance (procedere by trial and error – per tentativi ed errori – è la strada maestra del progresso scientifico); • dare opportunità di sviluppo; • verificare ciò che le persone sono riuscite ad apprendere grazie alle opportunità di sviluppo di cui hanno potuto fruire. Quando invece si tratta di ricevere feedback, è importante ascoltare bene che cosa l’altro dice e capire: • perché ci viene dato quel feedback; • che cosa significa quel feedback; • quale validità riveste per noi nella situazione in cui ci troviamo; • quali azioni dobbiamo impegnarci a compiere a seguito di quel feedback. Concludendo, il punto è come dare e ricevere feedback senza farne una affermazione di potere e un motivo di lacerazione del tessuto organizzativo, trasformandolo, al contrario, in uno strumento essenziale di coesione e di crescita di un gruppo. È un lavoro molto delicato e impegnativo, che forse giustifica da solo almeno la metà della retribuzione del dirigente. La difficoltà maggiore si può forse riassumere in questa formula: come far riconoscere alle persone i propri limiti senza che esse si sentano limitate. Il capo che riesce a far questo si colloca esattamente – per usare una terminologia da economisti – nell’ideale punto di incrocio fra la curva del feedback valutativo e quella del coaching. 43 Il concetto secondo cui il feedback valutativo fa parte del lavoro di coaching proprio del capo è stato sviluppato riprendendo le considerazioni svolte al riguardo nel New Performance Management System dell’Agenzia fiscale della Nuova Zelanda. USO DI UN MODELLO DI COMPETENZE 5. La comunità dei valutanti Avere criteri di giudizio comuni, intenderli allo stesso modo e applicarli in maniera analoga, così che una determinata prestazione lavorativa possa ricevere valutazione uniforme quale che sia il valutatore. Realizzare tali condizioni significa dare vita a quella che abbiamo già chiamato “comunità dei valutanti” (intendendo per valutanti, come già accennato a p. 14, sia i valutatori che i valutati). In cosa consiste, più precisamente, tale comunità? Consiste nella formazione di un sentire e di un pensare comune riguardo ai comportamenti cui si decide di attribuire valore nella e per l’organizzazione di cui si fa parte. In altre parole, è certamente vero che un sistema di valutazione è condiviso in quanto è oggettivo, ma è altrettanto vero che è oggettivo in quanto è condiviso. E la condivisione – cioè il sentire e il pensare comune – prende forma elaborando dialetticamente (ossia attraverso un confronto fra tutti gli interessati, valutatori e valutati44) la comune esperienza di vita nell’organizzazione, in modo da: • definire precisi indicatori comportamentali che chiariscano – rendendolo così condivisibile – il significato di giudizi valutativi di uso comune (“è bravo”, “è intelligente”, “è preparato”, “è equilibrato”, “sa trattare con le persone”, “sa imporsi”, ecc.); • dare applicazione omogenea ai significati attribuiti ai diversi giudizi valutativi (in questo consiste l’equità della valutazione). In sintesi: non basta che tutti utilizzino lo stesso metro di giudizio, ma occorre anche che tutti imparino ad utilizzarlo nello stesso modo. Come avviene per tutti i codici comportamentali (giuridici, etici, religiosi, sociali, ecc.), la prassi e il training continuo che si accompagna alla riflessione sul loro uso, contribuiscono a rafforzare la comprensione comune delle regole di comportamento e ne rendono così più omogenea l’applicazione. La meta ideale di questo processo di apprendimento collettivo è, appunto, una comunità di valutanti dove la condivisione dei giudizi sia piena e totale. In questa comunità ideale il valutatore non ha la preoccupazione di dover gestire conflitti, perché può contare sulla percezione sobria e realistica che il valutato ha delle proprie abilità, né il valutato ha da guardarsi dal valutatore, poiché ha fiducia nella sua capacità di giudizio. Quanto è lontana questa meta? La domanda è sbagliata e come tale può avere solo risposte sbagliate. La comunità ideale dei valutanti non va concepita come la stazione più o meno lontana di un tragitto più o meno lungo da percorrere. È piuttosto un ideale regolativo, un orizzonte – se si vuole usare una metafora – che come tale non si tocca mai, ma “è sempre lì” e costituisce il contesto perenne di riferimento e di senso della nostra esperienza valutativa. Insomma, non si tratta di “raggiungere l’orizzonte” (l’e- 44 Nella realtà organizzativa, i ruoli di “valutatore” e “valutato” non sono fissi ma si invertono in continuazione. Sul piano informale i capi (anche se non ne sono sempre consapevoli) sono continuamente oggetto di valutazione da parte dei loro collaboratori, e lo saranno anche sul piano formale con l’introduzione della valutazione a 360° dei dirigenti. La “reciprocità” delle valutazioni è una condizione essenziale per lo sviluppo della “comunità dei valutanti”. 57 USO DI UN MODELLO DI COMPETENZE 58 spressione è in se stessa priva di significato) ma di “tenerlo aperto” passo dopo passo. E come? Favorendo tutte le iniziative che sostengano il processo di apprendimento collettivo prima descritto. E fra queste iniziative non possono mancare quelle volte a dare ai valutati garanzie concrete riguardo all’equità dei valutatori. La pratica della valutazione fa crescere un’organizzazione solo se c’è fiducia nella capacità dei valutatori di discernere bene meriti e attitudini. Le organizzazioni sindacali tendono sempre ad esprimere forti perplessità al riguardo e sono appunto queste riserve sulla credibilità dei valutatori che generalmente motivano le resistenze sindacali all’introduzione di sistemi interni di valutazione. Quali meccanismi possono servire a sostenere la fiducia nell’equità delle valutazioni? Una soluzione efficace (anche per la sua valenza simbolica) potrebbe essere quella di costituire un nucleo di valutatori esperti, scelti fra i dirigenti con riconosciuta fama di rigore, equilibrio ed autorevolezza. Questo nucleo verrebbe creato con un’apposita selezione e con adeguate azioni formative, avvalendosi anche dell’aiuto di specialisti della materia (in particolare, esperti in assessment attitudinale, con il compito di aiutare a individuare, con criteri oggettivi, i dirigenti che abbiano maggiori potenzialità per svolgere bene il ruolo in questione). Ad uno di questi “valutatori scelti” il valutato avrebbe facoltà di rimettere fin dall’inizio la valutazione del proprio operato qualora egli ritenesse che il valutatore diretto non sia dotato di sufficiente senso di “obiettività” per esprimere su di lui un giudizio equilibrato. Non c’è da temere che questo atto di “sfiducia” possa essere operato alla leggera, poiché rischierebbe di ritorcersi sull’interessato, ove la valutazione degli esperti non dovesse risultare a lui favorevole. È vero, tuttavia, che questo meccanismo di garanzia potrebbe essere interpretato dai dirigenti come una manifestazione di generalizzata sfiducia nei propri confronti. Ma l’argomento è rovesciabile. La possibilità di azionare quel meccanismo può essere la prova del nove della credibilità di un dirigente, credibilità che è invece solo presunta senza la previsione di quella forma di garanzia. Il valutato che non opta per un valutatore esterno – e si può ritenere che questa sarà la situazione di gran lunga più frequente – dimostrerà con ciò stesso che il dirigente gode di fiducia nel proprio ufficio, rafforzandone così il prestigio e l’autorevolezza. La soluzione appena prospettata, oltre a costituire per i dirigenti un segnale forte dell’importanza della propria credibilità come valutatori, rappresenta la conseguenza logica di un principio. Quello secondo cui la valutazione non è un obbligo cui si è costretti a soggiacere, ma anzitutto un diritto da far valere. Il diritto, appunto, ad una valutazione giusta (nel senso di “corretta”, “aderente alla realtà”, come già detto a p. 48) ed equa dei propri meriti e delle proprie capacità45. 45 Può sembrare curioso parlare di un “diritto alla valutazione”, e in effetti così è se s’inquadra il discorso in una prospettiva di tipo giudiziario (sarebbe appunto stravagante qualificare un “diritto” il fatto di dover essere assoggettati a un verdetto). Ma un’organizzazione non è come un’aula di tribunale, dove, sfortunatamente, può capitare che ci si venga a trovare per rispondere di qualche imputazione. È il luogo dove si sceglie di trascorrere la maggior parte della propria vita spendendo energie assieme ad altre persone in funzione di una causa comune, e la circostanza che il proprio lavoro non formi oggetto di valutazione viene vis- USO DI UN MODELLO DI COMPETENZE Quanto tempo occorre perché possa mettere radici e svilupparsi il processo di apprendimento che trasforma gradatamente un’organizzazione da un semplice “aggregato di valutanti” in una “comunità di valutanti”? Sarebbe ingenuo aspettarsi tempi brevi, data anche l’estensione della platea dei soggetti interessati in un’organizzazione complessa e articolata come quella dell’Agenzia delle Entrate. Ma il tempo che potrà occorrere non può comunque costituire un alibi per non iniziare il cammino o ritardare la partenza. Si racconta (non si sa se la storia sia vera, ma è comunque illuminante come “parabola organizzativa”) che una mattina, attraversando Parigi (tornava dal trionfo di Austerlitz), Napoleone vide in un giardino un albero maestoso pieno di fiori bellissimi. “È stupendo!”, esclamò rivolgendosi al maestro nell’arte dei giardini che lo accompagnava spesso nei suoi viaggi, e aggiunse: “Voglio che alberi di quel tipo siano piantati lungo i principali viali di Parigi”. “Ma Sire”, obiettò il giardiniere, “Quell’albero appartiene a una specie rara che impiega quasi trent’anni a fare i fiori!”. Rispose l’imperatore: “E allora non bisogna assolutamente perdere tempo. Comincia a piantarne i primi già questo pomeriggio!”. suta tutt’altro che positivamente (come accadrebbe invece se si trattasse di “scampare a un giudizio”). La persona che ha un minimo di amor proprio finisce per trarne il convincimento che in quello che egli fa la sua organizzazione trova ben poco, o addirittura nulla, meritevole di considerazione. 59 PARTE TERZA DIZIONARIO DELLE COMPETENZE 61 DIZIONARIO DELLE COMPETENZE Competenze intellettive e prestazione di lavoro 63 1. Dinamismo intellettivo (Intuito & Costruzione logica) Il dinamismo intellettivo esprime l’intelligenza pratica, cioè la capacità di combinare insieme analisi critica e intuizione nella quotidianità delle situazioni di lavoro. L’analisi critica è la facoltà stessa del raziocinio, vista, in negativo, come capacità di evitare vizi e fallacie logiche e, in positivo, come capacità di produrre prove e inferenze valide e pertinenti. L’intuizione è l’attitudine a identificare rapidamente, sulla scorta anche di dettagli apparentemente secondari, l’aspetto chiave di una situazione complessa, orientando di colpo, nella direzione giusta, la ricerca di elementi risolutivi di questioni che analisi magari lunghe e metodiche non erano fino ad allora riuscite a sciogliere. D’altra parte, è proprio la sistematicità dell’analisi che, generalmente, prepara il terreno alla repentina sintesi dell’intuizione (finendo questa per apparire, nell’opinione comune, una visione improvvisa – un lampo, come suole dirsi – nella quale vanno a incastrarsi, come d’incanto, le tessere di un puzzle attorno al quale ci si era a lungo affannati). Contrapporre, dunque, la prima alla seconda – cioè l’analisi critica all’intuizione – è sicuramente sbagliato, perché esse operano in sinergia e sono l’una complementare all’altra. Attitudine al ragionamento e creatività di pensiero, seppure concettualmente distinte, si presentano in concreto strettamente intrecciate, tant’è che nell’uso linguistico comune (e a questi usi fa richiamo questo manuale per estrarne la verità che solitamente essi contengono) affermare che una persona è intelligente significa sia che ha capacità di analisi logica, sia che sa “tirare fuori” (o che spesso le “vengono in mente”) buone idee quando servono. E questo è vero ancor più nell’ambito delle professioni tecniche intellettuali (quali sono quelle dell’Agenzia) ove la capacità intuitiva ha pregio solo se congiunta a una robusta capacità argomentativa. Per questa ragione, si è ritenuto opportuno (evitando così inutili complicazioni) considerare insieme in questa sede, sotto l’unica categoria di “dinamismo intellettivo” o di “Intuito & Costruzione logica”, entrambe le competenze intellettive appena enunciate, che invece in altri sistemi di valutazione vengono talora distinte (si parla in tal caso di “pensiero analitico” per designare, grosso modo, la capacità di ragionamento logico e di “pensiero concettuale” per designare l’intuizione, approdando, nella descrizione dei diversi gradi di intensità di queste competenze, a sottili distinzioni che probabilmente DIZIONARIO DELLE COMPETENZE 64 sono apprezzabili solo da uno psicologo cognitivista). Pertanto, in questo manuale le parole “dinamismo intellettivo”, “competenze intellettive”, “Intuito & Costruzione logica” sono praticamente sinonime. In sintesi, il dinamismo intellettivo è la capacità di attingere al patrimonio delle proprie conoscenze tecniche e di utilizzarle al momento opportuno per l’identificazione, la messa a fuoco e la soluzione dei problemi. L’intelligenza orientata all’azione – che è un altro possibile nome del dinamismo intellettivo – traccia le alternative utili a superare eventuali impasse, aprendo la strada a scelte innovative. Il dinamismo intellettivo ha riflessi diretti e immediati sulla prestazione di lavoro e perciò il modo più semplice e oggettivo di valutarlo è quello di analizzare i risultati cui dà luogo. In sostanza, invece di pretendere di valutare in se stesso il comportamento intelligente (che ha una fenomenologia piuttosto varia e complessa, all’interno della quale è ben difficile istituire graduatorie chiare e univoche di “intensità di intelligenza”), si valuta il risultato intelligente con appositi indicatori che saranno analiticamente illustrati più avanti (ad esempio, chiarezza e congruenza della soluzione). Sia pure per rapidi tratti (cercando però di evitare banali e sommarie semplificazioni), è importante comunque comprendere – sia per chi deve produrre risultati, sia per chi deve valutarli – in cosa consista il comportamento intelligente (a questa analisi sono dedicati i primi due paragrafi seguenti). Acquisirne una più lucida consapevolezza non basta sicuramente a garantirne la pratica, ma può forse, in qualche modo, ispirarla. Così come studiando la logica non si ha alcuna garanzia di fare ragionamenti logici, ma se ne può trarre notevole giovamento per costruire dimostrazioni plausibili ed evitare errori nella pratica argomentativa. 1.1 Il dinamismo intellettivo come capacità di individuare e inquadrare “problemi chiave” “Intelligente e professionalmente preparato” sono i due termini che nel linguaggio valutativo comune descrivono sinteticamente il funzionario dotato di elevato “dinamismo intellettivo”. Domanda: è possibile esplicitare il senso di questi termini (in particolare di quello relativo all’aspetto della “intelligenza”), superando l’impressionismo soggettivo, le opinioni incerte e destrutturate, gli stereotipi, la vaghezza di giudizio, quando non il vero e proprio pregiudizio e arbitrio del valutatore? E si può fare questo senza cadere in artificiose e complicate concettualizzazioni, solo apparentemente esatte e destinate invece, nella loro astrattezza, a rimanere sterili enunciazioni prive di effetti pratici? In altri termini, la questione cruciale è se sia possibile puntare in questo campo ad una “oggettività intelligente”, cioè ad una oggettività che abbia, al tempo stesso, le caratteristiche della pertinenza e della praticabilità, di seguito descritte: • pertinenza significa che si vanno a intercettare reali manifestazioni di intelligenza sul posto di lavoro (non hanno, ad esempio, questa caratteristica di pertinenza taluni meccanismi paraconcorsuali di tipo tradizionale che, invece di rilevare i reali meriti espressi on the job, si traducono in un conteggio formalistico di “titoli culturali” o di DIZIONARIO DELLE COMPETENZE “titoli di servizio” che non trovano corrispondenza nella manifestazione di effettive capacità professionali sul luogo di lavoro); • praticabilità significa che si vanno a rilevare queste concrete manifestazioni di intelligenza professionale con strumenti di misurazione attendibili e tuttavia il più possibile semplici, senza virtuosismi tecnici. È evidente che il compito appena prospettato è particolarmente arduo. Affrontarlo richiederà quindi uno spazio considerevolmente più ampio di quello che verrà dedicato all’analisi delle altre competenze. Tralasciando per il momento il tema della “preparazione professionale”, di cui si parlerà più avanti a proposito della competenza “sviluppo e diffusione del sapere”, si tratta ora di articolare il concetto di “intelligenza”, visto come comportamento cardine della vita organizzativa. A questo riguardo, proviamo anzitutto a immaginare una persona che riesca a selezionare e identificare (comunemente si dice: “afferrare”) nel continuum di per sé indistinto (per non dire caotico) dell’esperienza – vale a dire nel groviglio delle situazioni in cui opera e nella valanga di dati da cui è quotidianamente sommersa – i “veri problemi” o, come anche di solito li si definisce, i “problemi reali”, i “problemi chiave” o le “questioni cruciali”, quelle cioè dalla cui soluzione dipende la riuscita del proprio lavoro e, in una prospettiva più vasta, il successo della propria organizzazione. E proviamo poi a immaginare che quella persona – nell’atto stesso in cui riesca a individuare, nella concreta situazione di lavoro, il “problema vero” – riesca anche a darne con chiarezza una formulazione nuova e diversa che ne agevoli la soluzione, sfuggendo alla trappola di “fossilizzarsi” (per usare un termine ricorrente) su “questioni false”, su “questioni apparenti” o su “questioni male impostate”, che sviano l’attenzione e indirizzano il processo decisionale lungo piste sbagliate o infruttuose. Ebbene, questa sequenza di comportamenti – che prende avvio dalla percezione, prima vaga e poi sempre più nitida, che nell’intreccio degli elementi noti qualcosa “non quadri”46, a dispetto magari dell’opinione dei tanti che nella sequenza dei fatti osservati non scorgono nulla di strano o di problematico – costituisce la prima e decisiva concatenazione di mosse di un attore dotato di “intelligenza pratica”47. 46 La percezione che qualcosa “non quadri” è l’essenza stessa di un problema cognitivo, che, in definitiva, altro non è se non il venire alla luce, nella mente dell’osservatore, di un contrasto – prima inavvertito – fra due o più assunzioni teoriche oppure fra un’assunzione teorica e ciò che chiamiamo “realtà”. 47 In una strategia è cruciale la “selezione” del problema da cui si decide di prendere le mosse. Il successo delle imprese giapponesi negli anni ’80 fu essenzialmente dovuto ad uno spostamento del problema chiave. Passò in secondo piano la questione, che prima appariva fondamentale: “come soddisfare i bisogni attuali del cliente” e prese forma invece, fino ad occupare la scena, una domanda diversa: “come andare incontro ai bisogni latenti del cliente”, i bisogni, cioè, della cui soddisfazione il cliente stesso non ha finora mai fruito, perché non li ha neppure ancora avvertiti. Come disse anni addietro un alto dirigente della General Motors: “Non si sarebbe mai arrivati alla produzione della Mazda Miata soltanto con le ricerche di mercato. È stato necessario un grande salto creativo per capire cosa avrebbe potuto volere il cliente” (citato da Peter M. Senge, Il nuovo lavoro del leader. Costruire l’apprendimento nelle organizzazioni, in Leadership, a cura di G.P. Quaglino, Milano, Raffaello Cortina, 1999, p. 33). È in accordo con queste esperienze l’espressione comune che definisce “intelligente” la persona di mente duttile che “afferra” rapidamente problemi inediti e cruciali. 65 DIZIONARIO DELLE COMPETENZE 66 Entrano qui in gioco almeno quattro fattori, tra loro variamente combinati: intuizione, senso critico, padronanza linguistica e “intelligenza emotiva”. 1. L’intuizione non ha – contrariamente all’opinione comune – nulla di magico o misterioso, ed esprime piuttosto l’abilità tipica della persona esperta (l’intuizione del principiante si dimostra, non di rado, una semplice “alzata di ingegno”, quando non si confonde – per usare un termine più icastico – con la “sparata”) di riconoscere rapidamente, nel mutevole e confuso caleidoscopio delle situazioni del presente, schemi di azione e di pensiero pazientemente costruiti ed affinati nel corso di una lunga esperienza48. Come osservava Raimond Poincaré (eminente statista francese del ’900), l’ispirazione – cioè la soluzione improvvisa, d’emblée, di problemi assillanti rimasti a lungo aperti – viene solo alle menti preparate49, e la storia della creatività scientifica sta a testimoniarlo. Ma sarebbe sbagliato vedere nella dinamica dell’intuizione così intesa un processo di apprendimento solo ed esclusivamente adattivo (che è comunque quello statisticamente più significativo e che perciò sarebbe ingenuo e sbagliato snobbare, data la vasta incidenza che esso ha in pratica in ogni organizzazione, fosse anche quella a più elevato tasso di creatività). Il fatto è che il presente non è mai pura ripetizione, e l’intuito rivela allora i suoi tratti di originalità e creatività autentica50, nel cogliere, per un verso, le analogie nascoste con il passato (quelle che in genere vengono trascurate o cadono al di là del campo di percezione comune), liberandosi, per un altro verso, dall’attrazione esercitata dalle somiglianze apparenti o dagli usi consueti51. Si 48 “Intuizione” deriva dal latino “intueor” che significa “vedo” (l’origine etimologica della parola è più evidente nel corrispondente vocabolo inglese “insight”, ove sight è appunto l’atto del vedere). Ciò che si “vede” è il passato traslato e rimodellato (più o meno originalmente) nel presente. Ed è appunto il riconoscimento nel presente di schemi e repertori di conoscenze già appresi in precedenza e sistematizzati (di solito chiamati “chunks”, letteralmente “grossi pezzi”) che spiega – come ha osservato Herbert Simon – il tratto tipico di “rapidità” che caratterizza la risposta intuitiva rispetto alla lentezza e alla fatica della riflessione e del calcolo, che si trovano invece a dover affrontare una configurazione “vergine” di elementi o di fenomeni non dissodata in precedenza (vedi Herbert A. Simon, Razionalità e non razionalità nei processi decisionali, in «Problemi di gestione», Formez, 1997, vol. XX, supplemento al n. 6, pp. 239-260; il titolo originale dell’articolo è: Making Management Decision: The Role of Intuition and Emotion). 49 Citato in Herbert A. Simon, La ragione nelle vicende umane, trad. it. Bologna, il Mulino, 1984, p. 60. 50 Da sottolineare qui il termine “autentico”, di contro al chiacchiericcio di moda sulla innovazione creativa, che in realtà – quando si guardano le cose senza il velo della retorica “novista” – è abbastanza rara. 51 È famoso il caso della 3M, una multinazionale americana della chimica, nei cui laboratori si cerca di mettere a punto colle sempre migliori, rispondenti a questi due parametri: tenuta e rapidità di essiccazione. Un giorno venne prodotta per sbaglio una colla che non si asciugava mai, e quindi permetteva di appiccicare e staccare gli oggetti molte volte. A giudizio unanime, la si sarebbe quindi definita una colla pessima. Ma una segretaria ebbe l’idea di usarla per una funzione alternativa: attaccare promemoria su superfici lisce. Nacquero così i post-it, quei foglietti, generalmente gialli, che servono per appiccicare appunti. Il fatto che la colla non s’induriva si rivelò un vantaggio insospettato, consentendo di staccare, spostare e facilmente sostituire appunti. La segretaria si era defocalizzata dalla funzione abituale e aveva ideato un uso alternativo. Non dissimile, ma per nulla nota, è l’origine della registrazione informatica in tempo reale degli atti del registro. Questa innovazione si deve a un operatore di front-line dell’Ufficio di Roma 5 dell’Agenzia delle Entrate, cui è venuta in mente l’idea di utilizzare per lo scopo appena detto una particolare funzionalità della procedura informatica di registrazione degli atti, funzionalità che era stata in realtà progettata a tutt’altro fine. Illustrare qui i dettagli della scoperta porterebbe via troppo tempo. Quel che conta è che anche in questo caso vi è stata una felice intuizione che ha intravisto (“intuire” è “vedere”) in una determinata situazione possibilità e alternative trascurate o sfuggite alla considerazione comune. DIZIONARIO DELLE COMPETENZE modificano in questo modo schemi consolidati (che guidano e orientano comunque il pensiero e la ricerca dell’esperto), attivando un processo che va dal mero adattamento (comunque mai passivo) degli schemi stessi fino, in certi casi, alla loro reinvenzione (l’esperto è tale non solo perché può e sa utilizzare vasti e collaudati repertori di saperi accumulati e organizzati nel tempo, ma anche perché è capace di forgiarne e strutturarne via via di nuovi). Esiste insomma un uso adattivo ed uno creativo (o generativo) dell’intuizione. Generalmente, fra l’uno e l’altro non c’è salto, ma passaggio più o meno graduale; 2. Il senso critico è l’abilità nel mettere in atto strategie di controllo e di falsificazione delle ipotesi di partenza. La trappola che il senso critico punta a neutralizzare è quella di fissarsi sulle assunzioni iniziali e di cercarne a tutti i costi conferme (il meccanismo di fissazione, ben studiato dalla psicologia cognitivista, è all’origine degli errori o delle illusioni concettuali, così comuni nella vita pratica, da cui scaturiscono, a loro volta, decisioni sbagliate), trascurando i casi e gli indizi che potrebbero invalidarle (è tipico del giurista, dell’avvocato e dell’investigatore di non eccelsa vaglia – per non dire mediocre – sforzarsi solo di trovare pezze d’appoggio alla tesi sostenuta, evitando di immaginare seri casi falsificanti della propria impostazione, e di confrontarsi con essi). Se, da un lato, l’intuizione alimenta l’attitudine all’esplorazione e la duttilità nella ricerca, il senso critico guida l’indagine, mettendo a fuoco le ipotesi da vagliare, ed evitando così che essa proceda alla cieca o sulla base di impostazioni rigide e di atteggiamenti pregiudiziali. 3. Quale ruolo ha nella strutturazione dei problemi la padronanza linguistica? Stabilire una equivalenza perfetta tra il pensiero e il linguaggio è sicuramente eccessivo (è comune esperienza quella di dovere spesso faticare per riuscire ad esprimere appropriatamente ciò che si agita nella mente, il che vuol dire che c’è uno scarto fra quello che – pur confusamente – pensiamo, e quello che riusciamo, almeno inizialmente, a verbalizzare: uno scarto, appunto, fra pensiero e linguaggio, che, oltre ad essere comprovato da questa difficoltà di traduzione interna da pensieri a parole, è dimostrato anche da un altro fatto, comunissimo, costituito dalla traduzione di parole da una lingua all’altra, operazione, questa, assolutamente inspiegabile se non si presupponesse un contenuto di pensiero in qualche modo comune alla lingua di partenza e a quella di arrivo, e che non costituisce quindi – né con l’una né con l’altra – un tutt’uno indistinguibile e inseparabile). Ma se tutto questo è vero, è altrettanto vero che il linguaggio non è un semplice rivestimento esteriore, un involucro di un pensiero già in sé formato (fino a che non riusciamo ad esprimere quello che abbiamo in testa, il contenuto mentale, lungi dall’essere in sé ben definito, è invece – come abbiamo appena notato – confuso, tanto da trarne una sensazione di disagio). In poche parole, la sostanza intima del pensiero si plasma nell’atto stesso in cui il linguaggio vi dà forma e la conclusione è che il dinamismo intellettivo è fortemente condizionato dalla competenza linguistica. Questo vale certamente nella individuazione iniziale del problema, così come vale nelle successive fasi della sua messa a fuoco e della strutturazione delle possibili soluzioni. 4. La competenza intellettiva non è una monade senza porte, né finestre. L’intuito e il senso critico hanno una stretta interrelazione con le competenze extraintellettive, 67 DIZIONARIO DELLE COMPETENZE 68 come la tensione al risultato, l’iniziativa, l’orientamento all’altro e la passione per il lavoro. Queste competenze, che esprimono la dimensione emozionale della vita organizzativa (rappresentano l’intelligenza emotiva, per citare un’espressione ormai entrata nell’uso comune), contribuiscono alla selezione dei problemi che formeranno oggetto del pensiero analitico. In particolare, giocano qui la tensione al risultato e la passione per il lavoro, che infondono la motivazione e l’energia necessarie per affrontare l’onere gravoso dell’impresa cognitiva (cercare dati, verificarli, organizzarli sistematicamente, ecc. è faticoso, e non sono quindi attività compatibili con la pigrizia che non ama “la fatica del pensiero”). E gioca inoltre l’orientamento all’altro, che suscita e alimenta la “sensibilità dialogica” o “dialettica”, indispensabile per porsi – nella costruzione del discorso e nell’articolazione dei suoi snodi – le “domande giuste”, quelle cioè mirate a prevenire possibili problemi, preoccupazioni ed obiezioni dell’interlocutore (sia egli il capo, il collega, il collaboratore o l’utente). Di fatto, il bravo funzionario con elevato dinamismo intellettivo è quello che non si fa sorprendere – o si fa sorprendere di rado – con osservazioni del tipo: “Ma come è possibile che non ti è venuto in mente che …”, “Come hai fatto a trascurare il fatto che …”, “Non hai pensato che scrivendo così, avresti indotto in errore o in equivoco chi legge o ti saresti attirato queste critiche…”, ecc.52. 1.2 Il dinamismo intellettivo come capacità di strutturare problemi e di risolverli. Il “Problem IS-Solving” Alla fase iniziale (e decisiva) di individuazione del “vero” problema, seguono quella della sua strutturazione (esplicitazione dei termini costitutivi del problema, organizzazione logica dei loro rapporti interni e definizione delle loro relazioni esterne con il contesto di riferimento) e infine la fase della sua soluzione. Se, nella prima fase, è dominante l’intuizione (nel senso prima specificato), nelle altre esercita un ruolo preponderante la capacità di costruzione concettuale (e quindi anche linguistica) del discorso e di ordinamento gerarchico dei pensieri53. Solitamente ci si riferisce alla competenza intellettiva utilizzando l’espressione inglese Problem Solving. Ma abbiamo visto che non conta solo il Solving, ma anche – e ancor prima – contano le operazioni di Identifying (individuazione) e Structuring (strutturazione) del problema. Sicché il neologismo Problem 52 Enumerare queste eventuali osservazioni critiche (almeno le principali), stabilirne la frequenza nel tempo e graduarle in ragione della loro significatività (per l’importanza e la delicatezza della questione trattata, per la rilevanza dell’interlocutore, ecc.), prendendone nota in una sorta di “diario di bordo”, rappresenta certo per il valutatore, almeno all’inizio, un esercizio faticoso (l’abitudine però ne alleggerirà via via il peso), e tuttavia proficuo, perché le annotazioni costituiscono (anche in un eventuale contenzioso) attendibili misuratori, seppure in negativo, del dinamismo intellettivo. Ribaltando in positivo il concetto, si può affermare che il funzionario valido sotto l’aspetto intellettuale è quello i cui prodotti sono soggetti a basso o nullo riciclo di lavorazione, elemento, questo, su cui si tornerà più avanti (p. 79). 53 Il concetto di “gerarchia logica” non si riferisce a un’idea di razionalità aprioristica e astratta (che è un non sense, perché la razionalità è per sua natura strumentale), ma all’esigenza di un ordine espositivo dei concetti adeguato a far comprendere il più agevolmente possibile allo specifico interlocutore cui il testo è diretto il senso di ciò che si vuole affermare. DIZIONARIO DELLE COMPETENZE IS-Solving, se pure suona strano, non sarebbe affatto inappropriato a rappresentare più compiutamente nella sua complessità il dinamismo intellettivo. Attenzione particolare va posta al concetto di “strutturazione” di un problema 54, ricordando il detto ricorrente secondo cui la soluzione di un problema sta in larga misura nel modo in cui lo si rappresenta. Di fatto, l’analisi delle grandi innovazioni scientifiche e tecnologiche mostra chiaramente che esse appaiono quando elementi che erano già ampiamente noti vengono riconfigurati o ricombinati (cioè, appunto, strutturati) in un modo nuovo e inedito. Quali forme assume questa strutturazione o ristrutturazione concettuale di un problema? Molto varie, e non è questa la sede per tentarne una catalogazione. Ma per indicare qualche criterio valido a misurare la natura e la portata di questo fondamentale processo intellettivo, basterà qui osservare che la nostra esperienza conoscitiva consiste essenzialmente – ne siamo o no consapevoli – nell’ordinare in classi (“classificare”, come si dice normalmente, o anche “categorizzare”) gli oggetti che percepiamo (oggetto va preso in questo contesto in senso lato, in quanto include eventi, situazioni, rapporti tra persone, modelli di comportamento, eccetera). Il punto però è che la stessa entità può essere concepita come appartenente a classi diverse. Un cubo di legno rosso55 si può considerare un componente della classe di tutti gli oggetti rossi, della classe dei cubi, della classe degli oggetti di legno, della classe dei giocattoli, eccetera. Dipende in gran parte non da presunte “verità ultime, immutabili e oggettive” ma dalle circostanze contingenti e dalle opinioni storicamente dominanti il fatto di prendere in considerazione, trascurare, preferire, temere, ecc. una attribuzione di appartenenza di classe fra le tante possibili. Ma una volta che l’opinione dei più abbia deciso che qualcosa ha un particolare significato o valore e si deve quindi inquadrare in una classe piuttosto che in un’altra, è molto difficile accettare (e far accettare) che questo “qualcosa” venga invece fatto appartenere ad una classe diversa anche se ugualmente valida. Nel superamento di questa difficoltà sta l’impresa o innovazione intellettiva rappresentata dalla strutturazione o ristrutturazione di un problema, che in genere si risolve appunto nello spostamento o cambiamento di “classe di appartenenza” di un oggetto nel senso lato prima descritto. E l’innovazione intellettiva apre, a sua volta, la strada all’innovazione organizzativa (ciò già di per sé giustificherebbe lo spazio che in questo manuale viene dato all’analisi del dinamismo intellettivo), come appare ad esempio in quella scelta decisiva di “cambio di classe di appartenenza” che si effettua quando un oggetto (una data situazione) viene spostata dalla classe dei “vincoli” a quella delle “opportunità”56. 54 Herbert A. Simon, Le scienze dell’artificiale, trad. it. Bologna, il Mulino, 1988, p. 164. 55 L’esempio è ripreso da P. Watzlawick, J.H. Weakland, R. Fish, Change. Sulla formazione e la soluzione dei problemi, trad. it. Roma, Astrolabio, 1974, p. 106. 56 Esemplare, a questo proposito, il caso dell’IKEA, azienda svedese leader mondiale nell’arredamento domestico, la cui idea di business si fondava in origine su una formula già abbastanza innovativa (la vendita per posta), ma che non era certo sofisticata come sarebbe poi diventata in seguito. In larga misura, il progetto di business finale emerse dall’aver affrontato e gestito le avversità (cioè eventi inclusi nella classe dei “vincoli”, per riprendere l’ordine di concetti esposto nel testo). Poiché il sistema di fornitura dei mobili esistente 69 DIZIONARIO DELLE COMPETENZE FOCUS: la ristrutturazione di un problema come chiave della sua soluzione 70 Sono molteplici gli esperimenti della ricerca cognitivista che dimostrano come la soluzione di un problema (specie se complesso) possa talora scaturire o sia fortemente facilitata non dall’acquisizione di nuovi dati ed elementi, ma da un’opportuna ricombinazione o da una diversa rappresentazione di quelli già noti. Proprio questo è ciò che si chiama “riformulazione del problema” (definita talora, nel linguaggio corrente, “colpo di genio”). Il vantaggio che ne deriva può essere, ad esempio, quello di mettere in luce – grazie alla “rotazione prospettica” operata – un isomorfismo di base fra il problema in esame ed altri problemi già affrontati in passato e della cui soluzione ormai si dispone. Un altro vantaggio (ma la casistica è assai varia) derivante dalla riformulazione di un problema può essere quello di dissolvere la gabbia di vincoli o di condizioni che il problema sembrava presentare (ma che in realtà non aveva) nella precedente prospettazione. Un caso del genere è costituito dal cosiddetto problema dei 9 punti (che è una versione più sofisticata del celebre problema dell’uovo di Colombo). Consiste nel collegare i 9 punti sotto rappresentati con quattro linee rette senza sollevare la matita dal foglio: • • • • • • • • • I punti, così come disposti, sembrano raffigurare un quadrato e questa rappresentazione, cui inconsapevolmente soggiace l’osservatore, induce a ritenere che la soluzione si debba trovare tracciando le linee senza uscire dal quadrato stesso. Condizione, questa, che non è affatto richiesta dal problema e che tuttavia le persone alle prese con esso finiscono per autoimporsi, precludendosi così la possibilità di arrivare alla soluzione. Che è invece abbastanza facile, una volta sgombrato il campo da quella presupposizione non necessaria (la soluzione del problema è riportata più avanti). in Svezia metteva con le spalle al muro le aziende che producevano per l’IKEA, Ingvar Kamprad, il fondatore dell’azienda, dovette rivolgersi a dei produttori stranieri, scoprendo così i benefici del subappalto e del conferimento sistematico delle attività a dei contesti di produzione a basso costo (nella definizione del problema di business dell’IKEA, questo fu il primo salto dalla classe dei vincoli a quella delle opportunità). Ma non finì qui. Si racconta che quando venne aperto il primo magazzino IKEA, alla periferia di Stoccolma, la fila di clienti era così lunga che l’azienda perse il controllo della situazione e la folla fece irruzione all’interno per impossessarsi direttamente dei mobili esposti. Quell’evento venne poi riclassificato creativamente e portò al trasferimento sistematico delle attività ai clienti. Oggi l’IKEA reclamizza nel catalogo la sua business idea come divisione specifica del lavoro fra l’azienda e il cliente (il caso è descritto da Richard Normann nel libro Ridisegnare l’impresa. Quando la mappa cambia il paesaggio, trad. it. Milano, Etas, 2002, p. 72). DIZIONARIO DELLE COMPETENZE Ecco un altro caso: il problema del treno e del gabbiano, cui si riferisce l’immagine di seguito riprodotta57. 71 100 miglia orarie 25 miglia orarie 25 miglia orarie 50 miglia Due stazioni di una linea ferroviaria della costa orientale dell’Australia distano fra loro 50 miglia. È un giorno di sabato del 1927. Alle 14 due treni partono dalle due stazioni l’uno in direzione dell’altro. Nell’istante in cui i due treni partono, un gabbiano spicca il volo dal primo treno verso il secondo. Quando il gabbiano raggiunge il secondo treno, torna indietro verso il primo e continua così finché i treni non si incontrano. Se entrambi i treni viaggiano a 25 miglia all’ora (la velocità è modesta e questo consentirà ai macchinisti di frenare in tempo, evitando lo scontro fatale) e il gabbiano a 100 miglia all’ora, qual è la distanza percorsa dal gabbiano nel momento in cui i due treni si incontrano? Soluzione del problema del treno e del gabbiano Come tutti i problemi reali, il problema appena esposto contiene una serie di dettagli suscettibili di sviare o focalizzare “inopportunamente” l’attenzione, nel senso che possono condurre a impostare la questione in modo tale da renderne subito assai difficoltosa o persino impossibile la soluzione. A parte alcuni dettagli non significativi di cui è facile sbarazzarsi subito (come la linea ferroviaria costiera, il fatto che sia in Australia, la partenza dei treni il sabato, ecc.), l’elemento “stregante” è rappresentato dal movimento di andirivieni del gabbiano da un treno all’altro che tende a far immaginare la soluzione del problema come il risultato di una complicata sommatoria dei tanti tratti di andata e ritorno che il gabbia- 57 Il problema è ripreso, con qualche variazione solo nella forma narrativa, da J.M. Darley, S. Glucksberg, R. A. Kinchla, Fondamenti di Psicologia, trad. it. Bologna, il Mulino, 1998, p. 222. Nello stesso testo viene descritto il problema dei 9 punti (p. 226), che è anche illustrato in P. Watzlawick, J.H. Weakland, R. Fish, Change. Sulla formazione e la soluzione dei problemi, cit., p. 41. DIZIONARIO DELLE COMPETENZE 72 no compie fino a che i treni non si incontrano. Un calcolo del genere appare quanto mai arduo, considerato che i tratti da sommare non sono uguali, ma via via più piccoli mano a mano che i treni si avvicinano. Quale potrebbe essere una riformulazione del problema utile a facilitarne la soluzione? Un suggerimento che viene dall’euristica è quello di intervenire sul cosiddetto stato iniziale del problema (euristica significa “metodologia di ricerca di soluzioni”; deriva dalla parola greca “heurísko” ‘trovo’. La mossa decisiva sta nel trasformare così la domanda di partenza: non più “qual è la distanza percorsa dal gabbiano?” ma “per quanto tempo volerà il gabbiano?”. Evidentemente volerà fino al momento in cui i treni si incontrano. E quando si incontreranno i treni? Se entrambi hanno un’identica velocità – 25 miglia all’ora – e la distanza fra le due stazioni è in tutto 50 miglia, è chiaro che passerà un’ora prima che i treni si incontrino a mezza strada: il treno A in un’ora avrà percorso 25 miglia e così anche il treno B. Sommati insieme i due tratti fanno 50 miglia, che è per l’appunto la distanza fra le due stazioni. Ebbene: se i due treni viaggeranno in tutto per un’ora prima di incontrarsi, anche il gabbiano volerà per un’ora e poiché egli vola alla velocità di 100 miglia all’ora, la distanza percorsa dal gabbiano quando i treni si incontreranno sarà proprio 100 miglia. Riformulando la domanda iniziale, la soluzione è diventata molto facile. Qualcuno ha detto che per capire che una risposta è sbagliata non occorre un’intelligenza eccezionale, ma per capire che è sbagliata una domanda ci vuole una mente creativa. Claude Lévi-Strauss, il grande antropologo francese, affermava che “lo scienziato non è l’uomo che fornisce le vere risposte. È quello che pone le vere domande”. 1 4 2 Soluzione del problema dei 9 punti 3 DIZIONARIO DELLE COMPETENZE 1.3 La rilevazione del dinamismo intellettivo Criteri di rilevazione Nel processo che per comodità di sintesi abbiamo denominato con il neologismo Problem IS-Solving, la competenza intellettiva si può analizzare con sufficiente oggettività mediante criteri che individuino i diversi aspetti significativi dei prodotti tipici dei processi lavorativi in cui si è impegnati (risposte a quesiti, relazioni, appunti, note, verbali di verifica, motivazioni di atti quali ad esempio quelli di accertamento, ecc.). I criteri da applicare sono tre: chiarezza ed efficacia, congruenza, innovatività. Chiarezza ed efficacia Cosa significhi “chiarezza” sembrerebbe domanda futile, tanto ne appare evidente il senso. E parrebbe, del resto, paradossale che ad essere oscura sia proprio la nozione di ciò che debba intendersi con la parola “chiaro”. Ma, ammesso che questo sia vero (forse, però, nulla è più vago e sfuggente di ciò che appare ovvio), come si fa ad oggettivare e “misurare” il concetto di chiarezza, almeno nel contesto di una organizzazione? Una definizione operativa di chiarezza, calibrata sulla pratica degli uffici, può essere questa: un testo è chiaro se il lettore cui è rivolto non vi inciampa ad ogni piè sospinto e non è costretto perciò ad interromperne in continuazione la lettura, per chiedersi, fra lo smarrito e l’irritato, cosa l’autore abbia “voluto dire”. Se il numero delle interruzioni (cui spesso si accompagna l’apposizione energica di un punto interrogativo accanto ai paragrafi d’inciampo) è nullo o è ridotto, il testo è molto chiaro o comunque abbastanza chiaro. Se il numero è invece alto, il testo è oscuro. In altri termini, come criterio oggettivo di misurazione della chiarezza, si potrebbe introdurre il concetto di frequenza di stop di lettura, che sono le “oscurità” in cui inciampa il lettore scorrendo il testo58. Ma perché viene fatto riferimento, nella definizione di chiarezza appena data, al concetto di “lettore cui il testo è rivolto”? Perché non c’è un testo chiaro in assoluto. La sua comprensibilità dipende dalla situazione specifica del destinatario, e cioè anzitutto dalle conoscenze di cui questi dispone, ma anche dagli interessi da cui è mosso, dai punti di vista che lo influenzano, dalle questioni che lo preoccupano. Prefiggersi l’obiettivo della chiarezza significa preliminarmente – se ne abbia o no consapevolezza – formulare 58 Volendo fornire un’indicazione solo a titolo orientativo, si potrebbe aggiungere che, se non più del 5% dei testi prodotti dal valutato presenta stop di lettura, la sua prestazione di lavoro è assai apprezzabile sotto il profilo della chiarezza comunicativa. Naturalmente, è possibile che il testo che io, valutato, considero chiaro come acqua di sorgente (la capacità di autocritica è una difficile conquista personale) può sembrare invece oscuro all’altro che lo legge (nella specie, al mio valutatore). Tutto questo però non inficia l’oggettività della valutazione, se deve intendersi per oggettività ciò che è suscettibile di controllo intersoggettivo. E qui la possibilità di tale controllo c’è sicuramente. L’eventuale controversia sulla chiarezza del testo prodotto viene infatti ad ancorarsi ad una evidenza perfettamente controllabile da altri soggetti qual è appunto ciò che il capo ha contrassegnato come “stop di lettura”. Sarà cura del valutatore, per corroborare i propri giudizi, raccogliere un campione significativo di tali evidenze. Dopo di che, siccome non è lui solo a valutare, in caso di contenzioso si stabilirà, con le previste procedure di riesame della valutazione, chi ha torto e chi ha ragione. 73 DIZIONARIO DELLE COMPETENZE 74 una presupposizione su che cosa il destinatario del messaggio sappia già (o possa già sapere) sui contenuti di quel messaggio o sappia già farne. Si dice che i grandi giornalisti americani crescevano ad una scuola dura che aveva, tra le sue regole essenziali, quella di scrivere “pensando al lattaio dell’Ohio”59. La regola comportava una chiara opzione di fronte ad una scelta che è in ultimo etica: decidere su chi deve gravare prevalentemente il peso della fatica del pensiero. Sul lettore, obbligandolo ad addossarsi la fatica di comprendere, o invece sull’autore, impegnandolo a caricarsi della fatica di spiegare (si sa, anche se talora lo si dimentica, che è molto facile essere oscuri e complicati, mentre è molto difficile – cioè assai oneroso in termini cognitivi – essere chiari e semplici60). Certo quella regola era enfatica e, a pensarci bene, persino improponibile. Seguendola alla lettera, gli articoli di quei giornalisti avrebbero dovuto avere un taglio troppo elementare per l’opinione colta cui pure si rivolgevano. Oppure avrebbero dovuto contenere – per far capire tutto al lattaio – chiose e spiegazioni di ogni genere, finendo così per risultare pesanti e noiosi (cosa che nessun giornalista di razza è disposto ad accettare). E tuttavia l’ideale regolativo di chiarezza predicato da quella scuola funzionava. Ne sono testimonianza articoli di straordinaria bravura, che affrontavano con acume e profondità argomenti complessi e importanti e, al tempo stesso, venivano unanimemente giudicati modelli di prosa cristallina. Un giudizio analogo circondava e circonda gli scritti di Hans 59 Il motto: “Cerco di scrivere in modo che mi possa capire anche un lattaio dell’Ohio” era di Webb Miller, un giornalista dell’United Press, una delle più grandi agenzie di stampa del mondo. Miller è famoso per un suo articolo, che ebbe risonanza vastissima, sulla spietata repressione da parte della polizia coloniale inglese di una manifestazione non violenta organizzata in India dal movimento di Gandhi. Il 21 maggio 1932, mentre Gandhi era in carcere, presso le saline di Dhrasana duemilacinquecento manifestanti guidati da una donna, Sarojini Naidu (era una poetessa cui Gandhi aveva affidato la direzione del movimento mentre era in carcere), si avvicinarono pacificamente alla polizia. D’improvviso, a un ordine secco, schiere di poliziotti si gettarono sui manifestanti e cominciarono a colpirli con manganelli rivestiti di acciaio. “Da dove mi trovavo” – scrisse Webb Miller – “udivo il suono tremendo dei randelli sulle teste non protette. La folla dei dimostranti in attesa guardava la scena, gemendo e trattenendo il respiro, sentendo su di sé ogni singolo colpo. Quelli caduti a terra giacevano privi di sensi o si torcevano con il cranio fratturato e le spalle spezzate. Quelli ancora incolumi, senza rompere i ranghi, continuarono silenziosamente ad avanzare finché furono tutti abbattuti. Marciavano compatti, a testa alta, senza l’incoraggiamento della musica e degli applausi e senza alcuna possibilità di potersi sottrarre a gravi ferite e forse alla morte. La polizia arrivava a ondate e metodicamente colpiva una colonna dopo l’altra. Non ci fu battaglia, né lotta, essi avanzavano semplicemente fino a quando cadevano. La polizia cominciò a prendere selvaggiamente a calci gli uomini seduti per terra, colpendoli all’addome e ai testicoli. Alle undici del mattino il caldo era arrivato a 46 gradi e l’assalto si placò”. Miller andò nell’ospedale dove erano ricoverati i feriti, molti ancora privi di sensi, altri che si torcevano dal dolore: ne contò 320, due erano morti. Le autorità inglesi vinsero la “battaglia” ma la storia di quell’episodio fece il giro del mondo, perché Miller scrisse un servizio che fu ripreso da oltre mille giornali in America e all’estero. La violenza della polizia inglese sollevò l’indignazione generale, persino in Inghilterra. In tutte le regioni dell’India riaccese il risentimento più profondo e rese ancora più determinata la lotta per l’indipendenza. Alla fine i vincitori risultarono i perdenti e gli sconfitti vinsero. Dietro quella vittoria c’era stato anche il lavoro onesto e coscienzioso di Webb Miller, il giornalista che scriveva pensando a come farsi capire anche da un lattaio dell’Ohio. 60 C’è una frase di Galileo, riportata in epigrafe alla prefazione del Manuale di scrittura amministrativa dell’Agenzia delle Entrate, che dice così: “Parlare oscuramente lo sa fare ognuno, ma chiaro, pochissimi”. Il manuale è pubblicato nel sito web dell’Agenzia: http://www.agenziaentrate.it/ilwwcm/connect/Nsi/ Documentazione/Pubblicazioni/Le+guide+dell%27Agenzia/Guide+anni+precedenti/2005/scrittura+ amministrativa. DIZIONARIO DELLE COMPETENZE Kelsen, considerato da molti il più grande giurista di tutti i tempi. Riusciva ad esprimere con grande nitidezza concetti ardui e difficili rendendoli comprensibili anche a un pubblico di non specialisti. Se ne può trarre un secondo criterio di misurazione della chiarezza. Quando l’argomento affrontato è complesso, e ciò nonostante l’autore, senza concessioni e sconti sul piano del rigore e della precisione, riesce a farsi capire anche da lettori non specialisti, allora questo è un segno di grande chiarezza61. Passiamo ora alla nozione di “efficacia”. La domanda è se essa coincida o no con la “chiarezza”. Ad una prima analisi le due parole sembrerebbero equivalenti, quasi a formare una semplice endiadi. Se lo scopo dell’autore è infatti quello di riuscire a far capire al lettore ciò che intende comunicargli, un testo chiaro raggiunge sicuramente tale scopo e quindi, in questo senso, è efficace. Ma si può anche sostenere che l’efficacia è qualcosa di più rispetto alla chiarezza. Un testo è chiaro se non fa inciampare il lettore e lo lascia procedere spedito sino alla fine. È efficace se riesce ad “avvincerlo” subito e a catturarne l’attenzione sino al termine della lettura. In un certo senso, la chiarezza è la comprensibilità vista in negativo (assenza di fattori di ostacolo alla comprensione), l’efficacia è la comprensibilità vista in positivo (presenza di fattori di rinforzo della comprensione). A parità di chiarezza, un testo efficace impegna per meno tempo la risorsa scarsa dell’attenzione del lettore, ma viene compreso più rapidamente e riesce a rimanere impresso assai più a lungo nella memoria. Se si afferma, ad esempio, che nelle famiglie i contrasti tra fratelli sono quasi sempre più accesi di quanto non siano quelli fra estranei, si formula un enunciato sicuramente chiaro (che, ovviamente, potrà essere o no condiviso a seconda dei punti di vista). Ma se poi si citasse, in alternativa o anche in aggiunta, il detto di Totò secondo cui “i parenti sono come le scarpe: più sono stretti e più fanno male”, ecco che l’enunciato, oltre ad essere chiaro, sarebbe anche assai efficace, per come riesce a calamitare l’attenzione di chi ascolta e a rimanervi impresso. Non si insisterà mai abbastanza sull’importanza che assume in un’organizzazione la capacità di comunicare con incisività (in questo contesto tale parola è un sinonimo di “efficacia”). Il bene più scarso è alla fine proprio il tempo, e quello dei capi lo è ancora di più. Il funzionario bravo è quello che riesce a comunicare economizzando al massimo e col maggiore beneficio possibile la limitata “risorsa di attenzione” di cui il proprio capo dispone62. Si può apprendere a comunicare con chiarezza ed efficacia? Sicuramente sì, senza per questo voler negare l’influenza di possibili predisposizioni individuali (ma Flaubert diceva che il lavoro di uno scrittore è solo per il 10% ispirazione e per il restante 90% è sudore). In un’amministrazione pubblica il registro comunicativo è quello dell’informa- 61 In un contesto organizzativo, questo significa che un testo è molto chiaro se il valutatore, pur sapendone molto meno, nello specifico argomento, del funzionario che lo ha redatto riesce lo stesso a seguire agevolmente il filo dell’esposizione, senza essere costretto a ricostruirselo tutto da sé, mettendo mano all’intera documentazione contenuta nel fascicolo. 62 Si è appena detto che l’efficacia è qualcosa di più della chiarezza. È possibile che a volte sia qualcosa di meno? In altri termini: si può essere efficaci senza essere chiari? Purtroppo sì. Il messaggio di imbonimento (ai più diversi fini) e la prosa oracolare, che spesso riescono a fare straordinaria presa sui destinatari, stanno a dimostrarlo. Fortunatamente si tratta di forme di comunicazione interdette alle amministrazioni pubbliche (che non è detto, tuttavia, rispettino sempre tale divieto). 75 DIZIONARIO DELLE COMPETENZE 76 zione e della argomentazione, che richiedono essenzialmente conoscenza e capacità di apprendere e ragionare, qualità fortunatamente assai più diffuse e comuni di quanto non sia, ad esempio, la disposizione all’inventio letteraria, indispensabile per altri registri comunicativi, quali la narrativa, la poesia, ecc. (anche se pure queste forme espressive sono almeno in parte suscettibili di apprendimento, come dimostra, ad esempio, l’esistenza di scuole di scrittura creativa). Si tratta di praticare, individualmente e collettivamente, un lavoro paziente e metodico di affinamento della scrittura, confrontandosi con le best practice (i testi additabili come modelli di chiarezza e di efficacia) e le worst practice (le pratiche comunicative oscure, astruse e farraginose). Denotano un marcato orientamento alla chiarezza e all’efficacia: • l’attenzione ad evitare costruzioni di frasi goffe, pesanti, sgraziate e maldestre, che denotano l’assenza più o meno grave di scioltezza espressiva ed urtano la sensibilità del lettore attento ed esigente (rientra, ovviamente, nel canone appena indicato anche il rispetto delle regole grammaticali e sintattiche, la cui osservanza costituisce il requisito minimo della scorrevolezza discorsiva); • la ricerca della ricchezza e della brillantezza espressiva (importante, a questo riguardo, è l’uso intelligente delle metafore, che può aiutare a rappresentare le cose con immediatezza ed espressione vivida), senza indulgere a leziosità, divagazioni ed abbellimenti discorsivi, ed evitando tecnicismi ed espressioni burocratiche non strettamente necessari nel contesto di riferimento; • lo sforzo di capire quale sia, nella specifica questione affrontata, lo stato delle conoscenze del destinatario del testo (tale elemento è indispensabile per stabilire dove occorre insistere e dove si può invece sorvolare) e di comprenderne il punto di vista, gli interessi, i possibili interrogativi e le attese, in modo da prevenire fraintendimenti e dirigere opportunamente l’attenzione del lettore sui punti cui si annette maggiore rilevanza, facendogli capire subito “dove si vuole andare a parare”; • la cura attenta del ritmo e dei tempi nella modulazione del flusso informativo e nella scansione del percorso argomentativo, evitando di abbondare, là dove occorre invece sfrondare, e di tirare invece via frettolosamente, là dove, al contrario, occorre soffermarsi (due sono gli errori da cui occorre specialmente guardarsi: un affastellamento di dettagli che, nello specifica situazione comunicativa, sono inutili e irrilevanti e producono solo l’effetto di stancare il lettore sovraccaricandone la memoria di lavoro e sviandone l’attenzione oppure un’omissione di spiegazioni e di particolari che, nel contesto comunicativo, sono invece indispensabili al destinatario o servono comunque ad agevolargli la comprensione del testo)63. 63 Come per ogni altra caratteristica, anche la chiarezza e l’efficacia sono descrivibili, oltre che in positivo, anche in negativo, nel senso che accanto alle manifestazioni della presenza di tali qualità, si possono evidenziare anche quelle della loro assenza. In questo senso un testo privo di chiarezza e di efficacia si caratterizza per l’inconfondibile “effetto melassa” generato al suo interno dal goffo affastellamento di concetti mal definiti o solo appena abbozzati, che denotano scarsa padronanza della materia o comunque povertà di riflessione. DIZIONARIO DELLE COMPETENZE Congruenza È un’ampia categoria valutativa che riguarda il processo di combinazione del raziocinio e delle conoscenze, ossia il processo mediante il quale la logica viene applicata alle conoscenze di cui si dispone. Comprende giudizi di uso comune come “illogico” oppure “poco sensato” oppure ancora “sbagliato”. In sostanza, quando si parla di “congruenza”, ci si riferisce sia alla “défaillance” sotto il profilo strettamente logico (l’esempio più vistoso è la contraddizione), che allo “strafalcione” sotto il profilo conoscitivo (tipico indice di un difetto di sapere tecnico). Come si è più volte osservato, il metodo utilizzato nella costruzione del modello Antares non è quello di “inventare” categorie valutative, ma semmai di “scoprirle”, cioè di far emergere dall’esperienza quotidiana, scavandovi dentro con l’analisi e la riflessione, categorie valutative già di fatto praticate e che richiedono però di essere depurate da connotazioni meramente soggettive nella loro genericità, approssimazione ed ambiguità (è il concetto di “codificazione di saperi e vissuti quotidiani” cui si è fatto riferimento nella introduzione a p. 14). Non appena si incomincia questo “scavo riflessivo”, appare subito evidente che quando si afferma, molto sbrigativamente, che il concetto di “bravura professionale” è fatalmente soggettivo, l’indicatore “congruenza” sta lì a dimostrare che quell’affermazione contraddice la quotidiana esperienza di lavoro. Un accertamento fiscale ben costruito e argomentato, che ha ottime probabilità di resistere in sede contenziosa, si distingue nettamente da un accertamento mal motivato che gli stessi interessati si vergognano di andare a difendere in commissione tributaria. Riassumendo, ragionare in modo congruente significa: a) in negativo, evitare incoerenze logiche nell’argomentazione o comunque affermazioni che – pur senza costituire vere e proprie contraddizioni – risultino però scarsamente plausibili in termini di ragionevolezza (ad es. le generalizzazioni indebite o le affermazioni arbitrarie) oppure – sic et simpliciter – errate in quanto contrastanti con dati o nozioni di comune evidenza o che si sarebbe comunque tenuti a sapere per il ruolo ricoperto; b) in positivo, produrre prove e inferenze valide e pertinenti. In altre parole, costruire dimostrazioni che “filino” sotto il profilo logico e che siano appropriate alle questioni in esame. La “congruenza” non va ovviamente confusa con la “chiarezza”: quest’ultima significa comunicare in modo tale da far capire subito quello che si vuole dire. Se poi quello che si dice è anche congruente, è questione diversa64. 64 È opinione comune che la scarsa chiarezza serva spesso, se non a celare l’illogicità o l’inconsistenza del proprio discorso, quanto meno a premunirsi dal rischio che qualcuno possa agevolmente scorgervi pecche di tal genere. Per questa ragione, nelle organizzazioni che premiano a fatti e non a parole l’assunzione (non temeraria ma responsabile) di rischi e il coraggio (senza l’una e l’altro non v’è possibilità di autentica innovazione), l’abitudine alla chiarezza è un comportamento che merita sempre e comunque di essere apprezzato e incoraggiato. 77 DIZIONARIO DELLE COMPETENZE Espressioni significative di “congruenza” nei diversi tipi di attività Nelle attività tecnicamente più complesse, una delle espressioni più apprezzabili di congruenza è l’organicità e la completezza dell’output, mentre nelle altre attività ciò che in genere fa la differenza è l’accuratezza del lavoro. Analizziamo più in dettaglio questi subindicatori. 78 • Organicità e completezza Nei lavori di maggiore complessità (ad esempio, nell’interpretazione di norme fiscali o nella redazione di atti di accertamento di particolare rilevanza), l’indicatore “congruenza” raggiunge valori elevati se il prodotto nella sua impostazione complessiva presenta caratteristiche significative di organicità e completezza o, per usare termini concettualmente affini, di sistematicità e di profondità. In un testo, queste caratteristiche sono rilevabili nell’impianto complessivo del discorso (essenziale è la strutturazione nitida dei problemi affrontati), nell’ordine di successione delle parti che lo compongono, che non deve presentare “salti logici”, “omissioni o cortocircuiti argomentativi”, “ripetizioni” non giustificate da esigenze comunicative di ridondanza65, nella esaustività della trattazione, che affronta e approfondisce tutti gli aspetti rilevanti delle questioni che andavano esaminate, soppesando, con rigore e scrupolo critico, punti di forza e di debolezza delle diverse tesi in gioco. La completezza del prodotto è un indice significativo dell’elevata competenza tecnica e della padronanza del mestiere. Per citare invece esempi in negativo, difetta di completezza un lavoro in cui – più o meno bellamente e abilmente – si è trascurato, ad esempio, di prendere in considerazione obiezioni significative alle proprie tesi. Rivelano, inoltre, carenza di completezza le semplificazioni banali e le analisi superficiali (ne costituiscono esempio i documenti in cui galleggiano come relitti – cioè senza precise relazioni tra loro – concetti vaghi, generici, sfocati o solo appena abbozzati). Proseguendo nell’inventario dei difetti, denotano assenza di organicità eventuali bilanciamenti maldestri delle diverse componenti del discorso (viene dato spazio prevalente o comunque eccessivo ad argomenti o considerazioni che ne meriterebbero invece di meno nell’economia del discorso stesso), loop logici, cioè andirivieni che fanno perdere il filo del discorso, imbrogliandone l’ordito e stordendo il lettore, che avverte una sensazione penosa di “confusione” e di “mancanza di lucidità” (un prodotto che difetta gravemente di organicità e sistematicità è quello che solitamente viene definito “un guazzabuglio senza capo, né coda”). C’è una coppia di aggettivi che inquadra bene la contrapposizione fra ciò che è organico e sistematico e ciò che non lo è: compatto versus sfilacciato. • Accuratezza Un’elevata “congruenza” si manifesta anche nella particolare accuratezza del lavoro, cioè nella precisione e nella cura dei dettagli (assenza di errori, sbavature o imprecisioni, 65 In testi che affrontano argomenti complessi o poco noti, la ripetizione opportunamente cadenzata e distanziata dei punti chiave del discorso serve a rendere più agevole la comprensione e l’assimilazione dei concetti; le ripetizioni invece non necessarie, oltre ad essere talora anche “brutte”, frastornano la mente del destinatario che non capisce se l’autore stia dicendo – inutilmente – sempre la stessa cosa o se stia invece tentando di enunciare – male – qualcos’altro. DIZIONARIO DELLE COMPETENZE che, per quanto non essenziali, possono trasmettere nel destinatario un’impressione negativa di sommarietà, approssimazione e perfino sciattezza nel modo di lavorare). L’accuratezza è particolarmente importante nelle attività che, seppure non presentino profili di considerevole complessità tecnica, assumono grande rilevanza per l’ampiezza della platea dei destinatari (sono tali, ad esempio, in misura significativa, le attività di front-office e di back-office svolte dagli uffici locali). In queste attività, insomma, la maggiore o minore congruenza si rileva fondamentalmente attraverso la maggiore o minore accuratezza con cui il lavoro è stato eseguito. Senza timore di esagerare, si può tranquillamente sostenere che dall’accuratezza con cui sono svolte tali attività dipende molto l’immagine di efficienza dei servizi dell’Agenzia. Innovatività Riguarda la dimensione “creativa” del pensiero e sta a significare che il prodotto è caratterizzato da elementi significativi di novità (nelle ipotesi sostenute, nelle argomentazioni svolte, nelle conclusioni finali, ecc.) rispetto a precedenti soluzioni. Mentre la chiarezza e la congruenza sono requisiti necessari del prodotto, non ha senso pretendere sempre che l’output sia anche innovativo. L’innovatività opera quindi solo in positivo. In altre parole, se il prodotto presenta caratteristiche significative di innovatività, viene ad esserne ulteriormente valorizzata la prestazione. In caso contrario non se ne tiene conto. Indicatore sintetico di qualità Accanto ai criteri analitici di rilevazione qualitativa sopra descritti, c’è un indicatore sintetico della qualità di un prodotto, ed è quello del riciclo di lavorazione (vi si è fatto già cenno a p. 68). Così come in una fabbrica l’indicatore di un lavoro mal fatto è la necessità di ricicli di lavorazione del prodotto, così, negli uffici, una pratica fatta male è quella che richiede anch’essa “ricicli di lavorazione”, e cioè riscritture e rimaneggiamenti più o meno estesi, sia dal punto di vista del contenuto che dal punto di vista della nitidezza espositiva (a quest’ultimo proposito, il Manuale di scrittura amministrativa dell’Agenzia delle Entrate offre chiari e oggettivi criteri di cosa sia un atto o un documento ben scritto). Dalla frequenza dei ricicli di lavorazione, e da quanto sono estesi e profondi, dipende la maggiore o minore qualità del prodotto. Il concetto di “riciclo di lavorazione” consente di trasformare apprezzamenti qualitativi in dati quantitativi, rafforzando l’oggettività del processo valutativo. Il fattore “complessità del lavoro” Come analizzare la complessità del lavoro Nell’esaminare la competenza intellettiva, ci si potrebbe chiedere se gli indicatori sopra specificati non debbano contare di più, quanto più complesso è il lavoro da svolgere. Un’ipotesi potrebbe, ad esempio, essere quella di moltiplicare il punteggio della prestazione lavorativa per un coefficiente di complessità a più livelli (ad esempio, basso, medio, alto, molto alto), stabilito in ragione delle singole tipologie di prodotto e del contesto di lavoro, in modo tale che la chiarezza e l’efficacia, la congruenza e l’innovatività 79 DIZIONARIO DELLE COMPETENZE 80 del prodotto finiscano per valere di più, quanto maggiore è la complessità del lavoro proprio della funzione ricoperta. L’ipotesi può sembrare a prima vista plausibile, ma, a rifletterci un po’, ci si accorge che non lo è affatto. Essa infatti equivale a sostenere che, se un alunno di una scuola elementare prende, ad esempio, 9 per un dettato senza errori, allora uno studente di un liceo dovrebbe, in proporzione, prendere almeno 18 per una traduzione da una lingua straniera anch’essa priva di errori (immaginando, in questo caso, che il rapporto di complessità fra un dettato e una traduzione sia di 1 a 2). In realtà, non c’è nessun bisogno di adottare scale valutative diverse in ragione della complessità del compito da eseguire. Si può tranquillamente dare 9 sia all’alunno della scuola elementare che allo studente del liceo (come del resto si è fatto sempre), senza per questo creare alcuna ingiustizia o incongruenza. L’identità del voto sta a significare che l’alunno e lo studente sono entrambi molto bravi, ma si tratta di due manifestazioni di bravura che hanno significato ed effetti diversi, perché diversa è la posizione in cui si trovano gli interessati (una cosa è frequentare una scuola elementare, un’altra è frequentare un liceo). L’ipotesi prima prospettata (modificare il calcolo del punteggio della prestazione lavorativa in funzione della complessità dei compiti propri del ruolo ricoperto) non può essere quindi accolta. Essa, oltre a complicare la procedura di valutazione della prestazione di lavoro, presenta un’incoerenza di fondo, poiché tende a mischiare l’aspetto della valutazione della prestazione eseguita (cioè la valutazione di come si è eseguito il proprio compito), con quello della prestazione richiesta (cioè la valutazione del cosa va fatto, ovvero del compito da eseguire in relazione alla specifica posizione ricoperta). Si tratta di due aspetti che vanno invece tenuti distinti. Una soluzione che non incorra negli inconvenienti appena accennati e che, al tempo stesso, dia adeguato riconoscimento alla bravura di chi esegue lavori complessi, può essere questa: a) stabilire che, nel calcolo del punteggio della prestazione di lavoro, va attribuito un peso maggiore all’aspetto qualitativo della prestazione rispetto a quello quantitativo (la qualità è tanto più importante, quanto più complesso è il lavoro da svolgere); b) prevedere che la prestazione qualitativamente superiore comporta per l’interessato vantaggi suppletivi, sia in termini retributivi che di sviluppo professionale, quando venga resa in posizioni che comportano lo svolgimento di attività di lavoro ad alta complessità. Come definire la complessità del lavoro Nei discorsi che riguardano la classificazione dell’attività di lavoro, “complesso” e “complessità” sono sicuramente fra i termini più ricorrenti. Per la loro importanza, è bene cercare di dare a questi termini un significato meno sfuggente di quello che normalmente hanno. Come al solito, seguendo l’impostazione metodologica del manuale, non si tratta di “inventare” nuovi significati forzando l’uso linguistico ordinario, ma di far emergere, grazie all’analisi riflessiva, significati già di fatto da sempre praticati. Per fare questo, conviene partire dall’affermazione comune secondo cui lavorare è, essenzialmente, risolvere problemi di lavoro. Del resto, è proprio attorno al concetto di “pro- DIZIONARIO DELLE COMPETENZE blema” che si è dipanata tutta la riflessione sul dinamismo intellettivo svolta nelle pagine precedenti. Ora, qual è una classificazione molto ricorrente dei problemi di lavoro? Quella fra problemi di routine e problemi non di routine. Un problema non di routine è un problema per cui non vi sono (o vi sono soltanto in misura non determinante per il caso in esame) soluzioni standard, cioè soluzioni che possono essere ricavate da “precedenti” consolidati (da questo punto di vista, i problemi di routine si potrebbero anche definire problemi standard). Ora, se è vero che tutto ciò che non è routine è complesso, sarebbe sbagliato credere che sia invece semplice tutto ciò che è routinario. Una cosa, infatti, è la routine di una catena di montaggio in una fabbrica di bulloni e un’altra è la routine di una sala operatoria in un centro di trapianti di cuore. In entrambi i casi si applicano routine ben collaudate e sperimentate, ma una differenza c’è, ed anche notevole. Nel secondo caso si tratta infatti, a differenza del primo, di routine che presuppongono un processo di apprendimento lungo e gravoso e la cui esecuzione richiede profonda concentrazione e notevole impegno mentale (ma anche grande controllo della manualità nel caso di alcune professioni come quella del musicista o del chirurgo). In altre parole, le routine non sono tutte uguali. Nell’Agenzia delle Entrate ce ne sono di facili e di difficili, e la difficoltà è connessa: • al tipo, all’ampiezza e alla profondità del know-how di cui occorre aver padronanza per eseguire le routine stesse (know in inglese significa “sapere”, mentre how significa “come”, sicché know-how – parola che non ha un preciso corrispettivo in italiano – è la capacità di applicare operativamente il proprio sapere); • allo sforzo mentale occorrente per l’esecuzione di quelle routine. Abbiamo a questo punto due coppie di concetti – facile/difficile e standard/non standard – che ci consentono una prima rappresentazione d’insieme della nozione di “complessità del lavoro”. Quadrante della complessità del lavoro + Difficile Know-how Difficile Non standard ++ Facile Standard -- Facile Non standard -+ Facile Impegno intellettivo Difficile Standard +- – Standard Non standard + Capacità ideativa & abilità argomentativa 81 DIZIONARIO DELLE COMPETENZE Se, per brevità, denominiamo la coppia di concetti “standard/non standard” come “varianza” e passiamo dal piano grafico a quello dell’analisi discorsiva, la complessità del lavoro può essere vista come l’effetto combinato di due variabili, fra loro collegate, della prestazione lavorativa: • varianza dei compiti; • difficoltà dei compiti. 82 Varianza dei compiti Un lavoro complesso può essere considerato, in primo luogo, come un lavoro caratterizzato da “varianza dei compiti”. L’espressione non sta a indicare “compiti di contenuto vario” (un lavoro non diventa complesso per il fatto che comprende tante attività, ma tutte semplici). Compiti che hanno la caratteristica della “varianza” sono quelli in cui è vario il modo di darvi esecuzione, nel senso che questa non è predeterminata, né predeterminabile mediante schemi rigidi, ma prende di volta in volta forma concreta solo grazie ad uno sforzo di inventiva e di originalità più o meno intenso. Come sinonimo di “varianza di compiti” si usa talora, in questo contesto, anche l’espressione “incertezza dei compiti”, che – analogamente – non sta a significare “compiti di contenuto incerto” (vale a dire che non si sa bene cosa siano), bensì compiti di cui è incerto il modo di darvi esecuzione, nel senso che non è mai perfettamente tracciato, né tracciabile a priori – risultando così, per l’appunto, “incerto” – il percorso da compiere per la loro attuazione. Il compito, ad esempio, di definire politiche generali in questa o in quella materia è in sé concettualmente chiaro, ma assume concreta determinatezza solo attraverso una elaborazione intellettuale che non si risolve, né si può risolvere, in operazioni di tipo “copia e incolla”. Volendo mettere ulteriormente a fuoco il concetto, si potrebbe partire da un’immagine, quella dell’organizzazione come una scala, più o meno lunga, in cima alla quale si definiscono indirizzi e linee guida generali, che, scendendo di gradino in gradino, si vanno sempre più dettagliando, fino ad arrivare, giunti in fondo alla scala, al gradino dove ci si limita alla più o meno meccanica esecuzione di semplici routine o di ordini elementari. In cima alla scala la varianza dei compiti, nel senso appena detto, è massima, mentre alla base è minima. Per quanto questa visione possa risentire della tradizionale concezione dell’organizzazione come piramide gerarchica, è un fatto che, a seconda dei ruoli ricoperti, significativamente assai diverso può essere lo “spazio di varianza” da gestire. Non c’è dubbio – per usare un’altra metafora dopo quella della scala – che anche il solo limitarsi a seguire segnali indicatori ben precisi non sarà mai un’o- DIZIONARIO DELLE COMPETENZE perazione puramente passiva: in un sentiero, seppure ben tracciato, ci possono ugualmente essere buche da evitare, sassi da scansare, terreno sdrucciolevole da aggirare, ecc. Tutt’altra cosa è però costruire e piantare cartelli e segnali indicatori in un ambiente per nulla stabile e caratterizzato anzi da elevata turbolenza, qual è quello in cui in genere si muovono gli interpreti e gli operatori del diritto tributario. In breve, c’è varianza quando gli output richiesti dal ruolo (atti, provvedimenti, contratti, pareri, stesura di rapporti, relazioni ed appunti, ecc.) o la dinamica della loro produzione non sono routinari o comunque lo sono solo limitatamente e non in modo rilevante (invece di output “routinario”, si può anche dire – sono tutti sinonimi ricorrenti – “standardizzabile”, “proceduralizzabile”, “predeterminabile”, “strutturabile”, ecc.). Un lavoro ad alta varianza (o incertezza) è un lavoro per il quale l’organizzazione pretende dal titolare del ruolo elevata autonomia di pensiero, con la conseguente impossibilità per l’interessato di agire come semplice esecutore66. Indicativamente, si possono distinguere nell’Agenzia delle Entrate quattro livelli crescenti di varianza dei compiti: • esecuzione di istruzioni semplici; • attuazione di procedure operative; • applicazione di norme (quella che i giuristi chiamano “sussunzione” di casi sotto una regola di cui è stato previamente chiarito il significato); • attività di: – interpretazione di norme (“sussunzione” di casi sotto una regola di cui occorre invece ancora chiarire il significato67 in relazione alle fattispecie concrete rispetto alle quali occorre provvedere); – partecipazione al processo di “fabbricazione” delle norme; – produzione di direttive e istruzioni generali; – investigazione operativa nei campi d’indagine non di routine. 66 La nozione di “varianza dei compiti” corrisponde a quella che nella metodologia Hay di pesatura delle posizioni viene definita Thinking Environment (Thinking = pensiero e Environment = ambiente), ossia il contesto entro cui è chiamato ad operare il pensiero. Dalle caratteristiche del Thinking Environment dipende, a sua volta, la Freedom to Think (libertà del pensiero). Il concetto è che in relazione alla tipologia di compiti che fanno carico all’interessato nell’ambiente in cui egli opera, l’organizzazione esige da lui, in misura più o meno intensa, capacità di elaborazione intellettuale e quindi Freedom to Think. Il termine “libertà” non deve qui indurre in equivoci. La “libertà” non è un capriccio che viene graziosamente concesso al titolare del ruolo, ma una responsabilità di cui egli deve farsi carico. La “libertà del pensiero” si risolve nell’imperativo: “Non chiedermi ad ogni passo cosa devi fare e come devi muoverti! Sei tu che devi stabilirlo, sforzandoti di pensare”. Nelle vecchie organizzazioni basate su automatismi burocratici si era soliti dire: “Non sei pagato per pensare!”. La “varianza dei compiti” comporta invece che si venga appunto “pagati per pensare”. 67 Chiarire il significato di una norma significa essenzialmente risolverne gli eventuali elementi di ambiguità e vaghezza, delucidando il reticolo di obblighi, divieti, permessi e facoltà che vi sono connessi nelle diverse situazioni in cui la norma stessa si applica (obbligo = cosa si deve fare; divieto = cosa non si deve fare; facoltà = cosa si può fare; permesso = cosa si può non fare). Usando la terminologia dei giuristi, lo si può chiamare il “reticolo deontico” (derivato dal greco “deon” = dovere. Si parla anche di “logica deontica” per indicare quella parte della logica che analizza gli enunciati normativi che esprimono appunto l’obbligo, il divieto, il permesso o la facoltà di compiere determinate azioni). 83 DIZIONARIO DELLE COMPETENZE 84 Quanto più elevata è la varianza dei compiti, tanto maggiore è la “sfida intellettiva”68 cui deve far fronte l’interessato e quindi l’abilità ideativa e la capacità di invenzione argomentativa di cui deve dar prova. Il concetto di varianza dei compiti riguarda i contenuti oggettivi della prestazione richiesta, mentre il concetto di sfida intellettiva riguarda l’aspetto soggettivo della prestazione eseguita, e cioè le conoscenze e capacità che il soggetto deve possedere ed esprimere per eseguire al meglio la prestazione attesa. C’è sfida intellettiva laddove vi siano attività nelle quali, come si dice in gergo, “mancano i precedenti” o è molto limitata la possibilità di farvi ricorso (non ci sono – o sono poco significativi nell’economia complessiva del lavoro – passaggi procedurali che è possibile ripetere meccanicamente o con qualche minima variazione, e ci sono invece sempre nuove obiezioni da affrontare, nuovi dati di fatto da interpretare, nuovi rapporti concettuali da istituire, ecc.). In altri termini, non ci sono soluzioni predeterminate (“belle e pronte”) da mutuare o da adattare con minime variazioni, ma ci sono invece soluzioni da inventare o da assemblare con interventi modificativi rilevanti. I giudizi che generalmente segnalano l’incapacità di qualcuno a svolgere attività di questo tipo sono: “Di fronte alla novità si perde” o “È capace solo di riempire stampati” o anche “Se non lo si imbocca, si blocca” o ancora “Cammina con i paraocchi”, ecc. Le attività dove non funziona o funziona male il richiamo al precedente sono quelle ove sorgono problemi che non hanno “the right answer” (per usare l’efficace formula della metodologia Hay), cioè che non hanno “una e una sola risposta giusta”, ma ammettono più alternative, di ognuna delle quali occorre soppesare pro e contro, senza possibilità di individuarne una che massimizzi tutti i vantaggi e minimizzi tutti gli svantaggi (tale sarebbe appunto “the right answer”). Come si affronta la sfida intellettiva? In una organizzazione – e tanto più in una organizzazione pubblica – non è consentita l’adozione di scelte arbitrarie, ma è richiesta una costruzione argomentata della soluzione del singolo caso. Tale costruzione è ciò che generalmente si chiama “motivazione” (il termine è qui usato in senso ampio: non designa solo la motivazione di un provvedimento, ma, più in generale, la dimensione argomentativa di un atto o di una condotta). Un’attività intellettualmente sfidante è quella in cui non ci si può adagiare su schemi precostituiti, ma neppure sono consentite decisioni arbitrarie. L’unica scelta consentita – anzi obbligata, data l’impossibilità di sfruttare comodamente un qualche precedente – è quella di “ragionare bene con la propria testa”. In generale, comportano un’elevata sfida intellettiva le attività per le quali sono richieste un alto livello di competenza linguistica e di abilità argomentativa, qualità, queste, che tipicamente si combinano nella capacità di elaborare motivazioni calibrate sulla peculiarità del singolo caso (rientra, ad esempio, fra tali attività, come già detto, l’interpretazione normativa, per la quale è richiesta, oltre ad una solida e approfondita preparazione, una notevole capacità di “tradurre pensieri per iscritto”, abilità, questa, ove il mero ricorso al precedente non è di significativo ausilio ed anzi porta non di rado a soluzioni “posticce”). 68 Nella metodologia Hay di pesatura delle posizioni “sfida intellettiva” corrisponde a Thinking Challenge (challenge = sfida). DIZIONARIO DELLE COMPETENZE Difficoltà dei compiti Alta “varianza dei compiti” significa generalmente anche elevata complessità del lavoro69. Questo vuole forse dire che, nei lavori connotati invece da minore varianza dei compiti, il pensiero non possa, inevitabilmente, fare altro che “girare al minimo”? No. C’è routine e routine. Una cosa – come abbiamo prima detto – è la routine di una catena di montaggio in una fabbrica di bulloni e un’altra è la routine di una sala operatoria in un centro di trapianti cardiaci. Ma ancora prima di approfondire ulteriormente la distinzione fra il concetto di “varianza” dei compiti e quello di “difficoltà” dei compiti, conviene chiedersi: che utilità c’è a fare questa distinzione? I due termini servono a distinguere i diversi tipi di complessità delle funzioni dell’Agenzia, consentendo, di riflesso, di mettere meglio a fuoco le caratteristiche professionali dei mestieri correlati a quelle funzioni. Compiti ad alta varianza sono quelli che pongono problemi la cui soluzione non può essere cercata – o può esserlo solo in misura limitata – in un repertorio consolidato di “precedenti”. La soluzione, per essere efficace ed appropriata, deve avere connotazioni originali, che richiedono all’operatore abilità inventiva ed attitudine a costruire risposte intelligentemente calibrate – nella delucidazione dei problemi e nell’argomentazione con cui vi si dà soluzione – sulle specificità delle questioni affrontate. In sostanza, laddove c’è varianza, non ci si può affidare a routine consolidate. Viceversa, vi possono essere in generale compiti di elevata difficoltà dove però non c’è alta varianza perché ci si basa proprio su routine ben collaudate e sperimentate. E dove è allora il difficile? La difficoltà sta nel fatto che l’apprendimento di queste routine è considerevolmente gravoso (si pensi al training – fatto di studio meticoloso e di rigorosa disciplina – cui si sottopone un violinista per eseguire alla perfezione un pezzo musicale o, per riprendere l’esempio di prima, un chirurgo per eseguire con la massima precisione possibile un determinato tipo di intervento operatorio) e la loro esecuzione richiede elevata concentrazione e sforzo mentale. Esaminiamo distintamente queste due componenti della difficoltà dei compiti: il know-how e l’impegno intellettivo. In ogni lavoro il “fare” ha come sua condizione un “sapere” e un “saper fare”. Il loro intreccio è ciò che si chiama know-how. Generalmente, tanto maggiore è la varianza da gestire, tanto più elevato è il know-how richiesto. Bisogna distinguere tra il know-how di base (che funge da requisito di accesso alla posizione ricoperta ed è legato al possesso di un determinato livello di istruzione scolastica o universitaria) e il know-how di lavoro (che identifica il bagaglio di specifica conoscenza tecnica acquisibile solo on the job e che è necessario per svolgere bene il ruolo rivestito). La distinzione 69 In assoluto non si può escludere che vi siano attività semplici ma con notevole varianza nei modi in cui possono essere realizzate. Presenta, ad esempio, queste caratteristiche un’attività di tipo artigianale che, seppure semplice, in quanto richieda un limitato know-how, abbia però, come fattori principali di competitività, l’inventiva e la fantasia nella realizzazione dei prodotti. Si tratta tuttavia di una possibilità che non ha concreto riscontro nei mestieri dell’Agenzia delle Entrate. 85 DIZIONARIO DELLE COMPETENZE 86 fra know-how di base e know-how di lavoro è importante poiché, a parità di know-how di base, vi può essere, tra i diversi ruoli di una medesima area d’inquadramento, una differenziazione significativa in termini di conoscenze di cui è necessario impadronirsi sul posto di lavoro per interpretare al meglio il proprio ruolo (può essere richiesta l’acquisizione di variegate conoscenze tecniche per gestire ruoli connotati da polivalenza professionale, quali quelli legati all’attività di informazione ed assistenza, oppure l’acquisizione di approfondite conoscenze specialistiche per gestire, ad esempio, processi come quello della riscossione). Come si valuta la complessità del know-how richiesto (sia quello di base che quello di lavoro)? Analizzando le caratteristiche del percorso di apprendimento necessario per acquisirlo e mantenerlo aggiornato. Un know-how elevato (vale a dire specializzazione tecnica approfondita o vastità interdisciplinare del sapere) è correlato a un percorso di apprendimento lungo e cognitivamente oneroso, per via dello studio, dell’applicazione, dell’esperienza e del costante aggiornamento richiesti per raggiungere la padronanza del mestiere. L’acquisizione e la crescita della polivalenza richiedono un know-how che si acquista con un training impegnativo, così come impegnativo – e spesso anche molto impegnativo – è il processo di apprendimento per acquisire un adeguato sapere specialistico in materie tecnicamente ardue. Passiamo ora all’impegno intellettivo. Esistono nell’Agenzia attività a ridotta varianza e tuttavia di significativa difficoltà? La risposta è sì, e per individuarle può essere utile servirsi di una metafora. Comporre un puzzle è un’attività totalmente predeterminata nella soluzione e priva quindi di varianza nel senso sopra specificato. E tuttavia una cosa è comporre un puzzle di 10 pezzi, un’altra è comporne uno di 100 e un’altra ancora comporne uno di 1000. In tutti e tre i casi, c’è un modo, ed uno solo, di comporre il puzzle (varianza, dunque, pari a zero), ma essi ciò nonostante presentano una grande differenza, poiché l’incastro di un gran numero di pezzi richiede un forte impegno intellettivo. Ecco allora – per riprendere i concetti prima esposti – che possono esistere lavori a bassa varianza di compiti che però comportano notevole impegno mentale. Sintetizzando, si potrebbe dire, sia pure un po’ sommariamente, che mentre le attività ad alta varianza e intellettualmente sfidanti sono, nell’Agenzia, quelle tipiche delle professionalità specialistiche che richiedono una preparazione di base di tipo universitario, le attività a varianza meno elevata, ma tali da comportare comunque un grado consistente di impegno intellettivo, sono quelle che non richiedono, per il loro adeguato svolgimento, una preparazione di quel tipo. L’impegno intellettivo è correlato all’intensità del lavoro intellettuale richiesto per costruire i ragionamenti necessari a risolvere le questioni di lavoro proprie del ruolo ricoperto. L’intensità dello sforzo può dipendere dalla molteplicità degli elementi da DIZIONARIO DELLE COMPETENZE combinare (come nell’esempio del puzzle prima citato), dalla difficoltà intrinseca dei concetti che occorre padroneggiare (in questo caso, si va da nozioni elementari di comune esperienza a nozioni più sofisticate la cui acquisizione richiede lunghi e impegnativi percorsi di apprendimento), dalle risorse di attenzione e di memoria che occorre mobilitare, dalla ramificazione più o meno folta dell’albero logico lungo il quale si snoda la concatenazione dei diversi aspetti di un problema e dei suoi elementi risolutivi (un esempio al riguardo, tratto dall’ingegneria del software, è la corretta nidificazione degli if-then-else in un programma informatico, operazione, questa, che, pur non avendo alcuna parentela con le attività che abbiamo definito incerte, può nondimeno risultare mentalmente assai estenuante). Del resto, a parità di area di varianza, il lavoro del pensiero può essere più o meno difficoltoso, a seconda appunto della maggiore o minore complicatezza delle situazioni da affrontare all’interno di quell’area. In altre parole, assumendo che l’area di varianza di compiti in cui due persone sono chiamate ad operare sia la stessa – ad esempio quella dell’interpretazione normativa che presenta, comparativamente ad altre aree di compiti, elevata varianza – le situazioni non per questo sarebbero per forza identiche in termini di complessità del lavoro, proprio perché vi possono essere normative che presentano – rispetto ad altre – possibilità assai maggiori di combinazione di norme in fase applicativa (il caso tipico è quello della normativa fiscale, specie in determinati ambiti come il reddito d’impresa). Prima di passare oltre, proviamo a serrare, in un quadro d’insieme, i concetti appena enucleati. Nelle funzioni in cui esistono aree di varianza, c’è anche sfida intellettiva, che può variare di intensità a seconda della “natura del terreno” compreso, per così dire, nell’area di varianza. Più il terreno è “accidentato” (scarsità dei precedenti, normative instabili, eterogeneità delle fattispecie applicative), maggiore è il lavoro che il pensiero deve compiere per individuare bene i problemi e approntare soluzioni efficaci. Ma il pensiero può essere chiamato al lavoro anche quando l’area di varianza è ridotta e ridotta è pure, di conseguenza, la sfida intellettiva. Come mostra lo studio della matematica, un problema difficile da risolvere non è necessariamente un problema incerto per il quale non vi è una regola precostituita di decisione. Sommare due numeri interi (5+7) e risolvere un’equazione di secondo grado sono in entrambi casi esecuzione di un calcolo, cioè un’attività priva di varianza. Nondimeno però le due operazioni sono molto diverse dal punto di vista dell’impegno intellettivo richiesto (la prima operazione può essere eseguita da un bambino, mentre occorre un lungo apprendimento per arrivare a calcolare un’equazione di secondo grado). Analogamente, esaminare una dichiarazione dei redditi può essere, a parità di grado di varianza (generalmente basso), un lavoro molto semplice in un caso (es. dichiarazione di un lavoratore dipendente che possieda solo la casa in cui abita ed esponga come unico onere deducibile gli interessi sul relativo mutuo), mentre in un altro caso può risultare intellettualmente impegnativo (es. dichiarazione sempre di un lavoratore dipendente che però possieda diversi fabbricati e abbia anche redditi di altra natura, oltre a numerose tipologie di oneri deducibili, alcune delle quali poco frequenti). 87 DIZIONARIO DELLE COMPETENZE Conclusioni 88 Volendo riassumere la tematica qui illustrata, i concetti essenziali da cui occorre partire per descrivere la complessità del lavoro sono due: il tipo di prestazione lavorativa che l’organizzazione richiede al proprio personale e il tipo di capacità cognitive necessarie per far fronte a tale richiesta. Il primo concetto riguarda la dimensione oggettiva del lavoro (ciò che va fatto, ossia i contenuti della prestazione richiesta), mentre il secondo riguarda la dimensione soggettiva del lavoro (la natura della performance intellettiva che deve saper esprimere la persona per eseguire la prestazione richiesta). Ragionando secondo la dimensione oggettiva, possiamo differenziare la complessità del lavoro (e correlativamente i mestieri che raggruppano i diversi tipi di attività lavorativa) in base alla varianza e alla difficoltà dei compiti da eseguire. Ragionando, invece, secondo la dimensione soggettiva, possiamo distinguere nel “lavoro del pensiero” in cui deve cimentarsi il personale dell’Agenzia due diversi aspetti: uno è la sfida intellettiva, che ha come paradigmi l’invenzione argomentativa e la brillantezza investigativa, e l’altro è l’impegno intellettivo, che ha, come modelli concettuali di riferimento, l’impostazione logica di “formule di calcolo” e la loro applicazione metodica (rispondere a quesiti fiscali non elementari, assemblando con ordine i diversi elementi di risposta attinti da un’ampia banca dati, è una tipica espressione di “impegno intellettivo” nel senso appena detto). Se la prima forma di attività intellettuale esprime “intelligenza creativa”, la seconda esprime “intelligenza combinatoria”. Schematizzando, i nessi fra la dimensione oggettiva e quella soggettiva della complessità del compito sono questi: dimensione oggettiva varianza dei compiti difficoltà dei compiti ↔ ↔ dimensione soggettiva sfida intellettiva impegno intellettivo La combinazione delle variabili sopra descritte secondo “dosaggi” diversi (non ci sono lavori dove tutto è “varianza” o dove tutto è routine, né – dove c’è routine – i compiti sono tutti facili e nessuno difficile, ma c’è sempre un mix di tutte queste componenti) concorre a determinare la configurazione e la rilevanza del singolo ruolo professionale (ciò che chiamiamo “mestiere”) e, di riflesso, concorre all’individuazione e alla pesatura delle competenze occorrenti per esercitare quel ruolo. DIZIONARIO DELLE COMPETENZE Si riportano di seguito alcuni esempi di comportamenti che hanno dato luogo a prestazioni significative di dinamismo intellettivo (Intuito & Costruzione logica). Esempio 1 Indicatori rilevati di abilità intellettiva: congruenza (completezza e accuratezza) e innovatività 89 Consulenza legale “Una società svizzera aveva immobili in Italia, ma non una sede nel nostro Paese. Le era stato notificato un avviso di accertamento per svariati miliardi che la società aveva contestato dichiarando di non avere domicilio in Italia. Dovevo dimostrare che la notifica in Italia non fosse nulla, come eccepito dal contribuente e che la società avesse domicilio nel nostro Paese. Non era un caso standard, mancavano i precedenti. Non c’erano indirizzi, non avevo punti di riferimento. Ho trovato nell’archivio storico una vecchia dichiarazione con cui la società anni prima aveva chiesto il codice fiscale con domicilio in Italia, ho consultato l’Anagrafe tributaria e lì ho trovato l’informazione. Ho anche ricercato dottrina, normativa e giurisprudenza, ecc. Ho analizzato le informazioni e le ho sintetizzate. Ho combinato norme diverse, dovevo fare un collegamento complesso, non univoco e neppure immediato. In questo modo sono riuscito a contrastare vittoriosamente l’eccezione sollevata dalla società sulla nullità della notifica in Italia”. Esempio 2 Indicatori rilevati di abilità intellettiva: congruenza (completezza e accuratezza) Controllo “Mi occupo di contribuenti che operano nel settore del commercio al dettaglio. Stavo facendo un controllo sulla posizione di una società con una contabilità formalmente corretta che dichiarava un reddito molto basso negli ultimi anni. Ho verificato l’ubicazione del negozio: era in centro, le vetrine davano sulla strada principale, il negozio era nuovo ed esponeva marche famose. Ho analizzato il reddito dichiarato nei diversi anni per capire se c’erano stati episodi particolari. Ho fatto delle interrogazioni sui beni immobili, sui rapporti con altri soggetti e sul numero dei soci, per vedere quante persone vivessero grazie a quella attività. Valutando questi elementi ho concluso che i dati dichiarati da quel contribuente non erano in sintonia con la situazione che avevo rilevato”. DIZIONARIO DELLE COMPETENZE Esempio 3 Indicatori rilevati di abilità intellettiva: congruenza (completezza e accuratezza) 90 Controllo “Stavo facendo una verifica ad una pasticceria artigianale. Formalmente quadrava tutto. Ho trovato a bilancio numerosi imballaggi il cui valore era molto alto. In magazzino ho appurato che gli imballaggi erano molto ingombranti. Ho pensato di confrontarli con il numero di viaggi fatti dall’autocarro di cui si serviva la ditta. Le fatture recenti relative agli imballaggi erano state emesse da un fornitore con il contratto della tentata vendita. Sulle fatture c’era la targa dell’autocarro del fornitore. Ho telefonato alla motorizzazione ad una impiegata che avevo conosciuto in occasione di una precedente verifica. Avevo conservato il suo numero di telefono per mantenere un contatto interno in grado di farmi evitare perdite di tempo. Attraverso la targa dell’autocarro sono riuscita a risalire alla sua portata, stabilendo che non era congruente con il numero di viaggi effettuati per quella ditta. A questo punto ho pensato di eseguire un’indagine presso la ditta fornitrice di imballi e ho riscontrato che non esisteva. Si trattava di un soggetto evasore totale che vendeva fatture false. La pasticceria invece aveva dedotto costi di imballo superiori a quelli effettivamente sostenuti”. Esempio 4 Indicatori rilevati di abilità intellettiva: congruenza (completezza e accuratezza) e innovatività Controllo “Ci fu una segnalazione della Prefettura riguardo a un centro di attrazione polisportivo che dichiarava lo svolgimento di attività non lucrative. In ufficio non c’erano elementi disponibili per l’avvio della verifica, sicché ho pensato bene di iniziare con un accesso. Ho visto che figuravano 5 società anziché un’associazione: una era la polisportiva, una gestiva la piscina, una il bar, una il campo di calcetto, una i campi da tennis. La polisportiva si faceva pagare dalle società gli affitti di pertinenza. Ho pensato di estendere le ricerche anche alle altre società. Ho cercato poi di individuare gli elementi comuni alle varie attività perché la documentazione che avevo acquisito per ognuna era insufficiente e la metodologia in uso non mi forniva indicazioni per casi come questo. Non potevo desumere il volume d’affari. Quindi ho cercato di fare una ricostruzione unitaria partendo dai consumi dell’energia elettrica per arrivare ai consumi relativi a tutti gli DIZIONARIO DELLE COMPETENZE impianti. Sono andato all’ENEL per indagare sui Kw/h. Ho raccolto gli orari di apertura degli impianti per capire a cosa fosse collegato il consumo dell’energia e come si correlasse al numero di clienti. Ho calcolato quanto consumava la piscina, per scorporare poi questo consumo dal consumo totale. Ho somministrato dei questionari agli istruttori per conoscere il loro stipendio e per rilevare il numero di allievi per ogni turno e per ogni vasca. Ero a conoscenza dei prezzi medi per allievo, dovevo solo capire quante persone frequentavano gli impianti poiché loro avevano buttato tutte le matrici relative. Ho dedotto il numero medio di allievi per vasca e per turno e ho stabilito il numero degli allievi. Ho proceduto in questo modo anche per le altre attività, riuscendo così estendere la verifica a tutto il centro polisportivo”. Si apprende non solo dall’osservazione di esempi virtuosi, ma anche dalla riflessione su comportamenti che virtuosi non sono. Nella galleria che stiamo percorrendo, non sta male quindi, accanto a ritratti di bravura professionale, qualche “cammeo” di performance tutt’altro che brillante. La vicenda di seguito descritta riguarda un verificatore, che, per ovvie ragioni di riservatezza, viene qui identificato (con notevole sforzo di fantasia) con lo pseudonimo “Verdi”. Esempio 5 Controllo Verdi è stato distaccato presso la Direzione regionale per svolgere verifiche di rilevanti dimensioni. Tale attività non ha prodotto risultati lusinghieri: la verifica da lui eseguita come capo nucleo nei confronti della soc. … era affetta da macroscopici errori di impostazione dei rilievi, di calcolo e di procedimenti applicati (quali: uso di medie aritmetiche, anziché ponderate). Errori che hanno comportato la necessità di un supplemento di indagini da parte di altri verificatori e in seguito, stante l’impossibilità di mutare totalmente l’impostazione della verifica, l’abbandono da parte dell’Ufficio della pretesa di circa un miliardo e mezzo di lire per ognuna delle annualità verificate che emergevano dalle conclusioni originarie. In buona sostanza il controllo dell’Ufficio, sulla base della verifica che evidenziava rilievi per circa 3 miliardi di imponibile, si è concluso per adesione con una maggiore imposta di poche decine di milioni. Nello stesso anno Verdi ha eseguito anche alcune verifiche a piccole imprese, ugualmente conclusesi con risultati deludenti. L’anno successivo è stato impegnato nella verifica di un soggetto di grandi dimensioni (S.p.A. …), con esiti molto modesti. Le altre verifiche che ha eseguito 91 DIZIONARIO DELLE COMPETENZE nell’anno hanno riguardato soggetti di piccole dimensioni. Neanch’esse hanno dato significativi risultati. In base a questi precedenti negativi non sono state più affidate a Verdi, dall’anno …, verifiche di grandi dimensioni. Attualmente esegue solo verifiche a soggetti di piccoli dimensioni sotto la costante vigilanza del capo team controlli. 92 L’episodio di seguito riportato descrive i momenti iniziali di una verifica. Nella descrizione non viene detto quali siano state le conclusioni della verifica stessa, né quali ne siano state le motivazioni, sicché non si è di fronte, in questo caso, a comportamenti sfociati in un prodotto suscettibile di valutazione. L’interesse dell’episodio (ed è solo questa la ragione che ne ha determinato l’inclusione nel manuale) è quello di rappresentare un atteggiamento di apertura alla ricerca e all’esplorazione, che rivela attitudine a coniugare intuizione e costruzione logica. Esempio 6 Controllo “Quando arrivo in azienda non guardo solo le carte e la contabilità, ma ascolto anzitutto il contribuente. Perché ciò che mi dice all’inizio non lo ripeterà più: quelle sono informazioni molto preziose. Incontro il titolare e cerco di farmi spiegare il contesto in cui opera: questo non è scritto nelle procedure standard. Faccio un giro in azienda e, curiosando qui e lì, provo a capire il processo produttivo oppure le modalità di commercializzazione. In quel caso feci domande del tipo: ‘Dove ha acquistato il filato? Ha solo un fornitore?’ Le informazioni raccolte dovevano trovare riscontro nelle fatture. Di solito quando inizio la verifica non so esattamente quali domande farò. Mi nascono dentro spontaneamente guardandomi intorno in azienda”. Esempio 7 Riscrittura di un testo Il brigadiere è davanti alla macchina per scrivere. L’interrogato, seduto davanti a lui, risponde alle domande un po’ balbettando, ma attento a dire tutto quel che ha da dire nel modo più preciso e senza una parola di troppo: «Stamattina presto andavo in cantina ad accendere la stufa e ho trovato tutti quei fiaschi di vino dietro la cassa del carbone. Ne ho preso uno per DIZIONARIO DELLE COMPETENZE bermelo a cena. Non ne sapevo niente che la bottiglieria di sopra era stata scassinata». Impassibile, il brigadiere batte veloce sui tasti la sua fedele trascrizione. «Il sottoscritto, essendosi recato nelle prime ore antimeridiane nei locali dello scantinato per eseguire l’avviamento dell’impianto termico, dichiara d’essere casualmente incorso nel rinvenimento di un quantitativo di prodotti vinicoli, situati in posizione retrostante al recipiente adibito al contenimento del combustibile, e di aver effettuato l’asportazione di uno dei detti articoli nell’intento di consumarlo durante il pasto pomeridiano, non essendo a conoscenza dell’avvenuta effrazione dell’esercizio soprastante.» È evidente che l’episodio sopra riportato non è accaduto negli uffici finanziari. Non è neppure accaduto negli uffici di Polizia, né in una stazione dei carabinieri. È una invenzione narrativa di Italo Calvino (ma si sa che le autentiche invenzioni narrative sono più reali della realtà, nel senso che ne esprimono il senso profondo). Il grande scrittore raccontò quarant’anni fa questa storia in un articolo apparso su un quotidiano dell’epoca (Il Giorno, 3 febbraio 1965). Il suo intento era attaccare quella che lui chiamava l’antilingua, termine, questo, che costituiva il titolo stesso dell’articolo. Cos’è l’antilingua? Questa era la spiegazione che ne dava Calvino: Ogni giorno, soprattutto da cent’anni a questa parte, per un processo ormai automatico, centinaia di migliaia di nostri concittadini traducono mentalmente, con la velocità di macchine elettroniche, la lingua italiana in un’antilingua inesistente. Avvocati, funzionari, ministeri e consigli di amministrazione, giornali e telegiornali scrivono, pensano, parlano nell’antilingua. Caratteristica principale dell’antilingua è quello che definirei il «terrore semantico», cioè la fuga di fronte a ogni vocabolo che abbia di per se stesso un significato, come se «fiasco», «stufa», «carbone» fossero parole oscene, come se «andare» «trovare» «sapere» indicassero azioni turpi. Nell’antilingua i significati sono costantemente allontanati, relegati in fondo a una prospettiva di vocaboli che di per sé non vogliono dire niente o vogliono dire qualcosa di vago e sfuggente. È ben difficile contestare la fondatezza di questa analisi, ma, senza voler minimamente mancare di rispetto all’autorità di Calvino, bisognerebbe chiedersi se, coniando il termine “antilingua” e dandogli il significato che vi ha dato, lo scrittore abbia veramente centrato il problema o ne abbia invece colto solo una parte, e forse neppure quella più significativa. In fin dei conti, se il guaio fosse solo quello che gli impiegati pubblici traducono, veloci come macchine elettroniche, dalla lingua all’antilingua, la cosa non sarebbe al giorno d’oggi tanto grave, perché esistono ormai macchine elettroniche – assai più potenti di quelle dell’epoca in cui scriveva Calvino e molto più veloci degli impiegati pubblici – che sistemerebbero tutto all’istante, ritraducendo egregiamente (ci sono già software di questo tipo) 93 DIZIONARIO DELLE COMPETENZE 94 dall’antilingua alla lingua (trasformando, ad esempio, in un batter d’occhio la frase “eseguire l’avviamento dell’impianto termico” in “accendere la stufa”). In realtà, il registro più importante e delicato della comunicazione istituzionale non è tanto quello descrittivo, bensì quello argomentativo. Il punto critico, insomma, non è la rappresentazione naturalistica di oggetti (fiaschi, stufe, carbone, ecc.), ma la costruzione logica di concetti (diritti, obblighi, facoltà, scelte discrezionali di opportunità, ecc.). È in questa seconda operazione che è difficile – e lo è tanto più quanto più complessi sono i concetti in gioco – dare prova di chiarezza, efficacia, congruenza e completezza. E i computer, in questo caso, danno ben poco aiuto. Nei corsi di affinamento della qualità della scrittura amministrativa, un esercizio ricorrente è quello di partire da un testo pressoché impresentabile per oscurità e difetto di logica, bersagliarlo poi con notazioni pungenti, così come si trafiggeva il saracino nelle giostre medievali, e riscriverlo infine di sana pianta. Qui, invece, attingendo sempre alla pratica degli uffici, si fa un esercizio un po’ diverso, ma forse ancora più utile, perché più aderente all’esperienza reale, ove, fortunatamente, “l’aborto linguistico” non è poi così frequente. Si prende un testo di discreta fattura e si cerca di migliorarne ulteriormente la tessitura (il lettore, ovviamente, potrà cimentarsi in altre riscritture, poiché il processo di miglioramento linguistico non ha di per sé mai fine, e solo considerazioni di economia di tempo e di fatica vi pongono di volta in volta termine). È un testo di una certa importanza, trattandosi di una direttiva del Direttore dell’Agenzia ai Direttori regionali in materia di relazioni sindacali. Versione originaria Interventi sul testo Versione finale Lo scrivente ha già avuto modo, in occasione della riunione dei Direttori regionali del 4 dicembre scorso, di sottolineare l’importanza di corrette relazioni con le organizzazioni sindacali, a tutti i livelli, a partire dal posto di lavoro. • Viene eliminato il burocratico “Lo scrivente”, sostituendolo con il pronome in prima persona. In più occasioni, e da ultimo proprio in apertura della riunione del 4 dicembre scorso, ho ritenuto necessario sottolineare l’importanza di corrette relazioni con le organizzazioni sindacali a tutti i livelli, sia a quello centrale e regionale, che a quello locale del singolo ufficio. • Nella versione originaria si legge: “in occasione della riunione dei Direttori regionali del 4 dicembre scorso”. La direttiva è già indirizzata però ai Direttori regionali che sanno perciò perfettamente di essere loro i partecipanti a quella riunione. È un difetto, seppure lieve, di accuratezza, che può essere eliminato dicendo semplicemente: “in occasione della riunione del 4 dicembre scorso”. • Invece di “lo scrivente ha già avuto modo di sottolineare” viene detto, con espressione più forte: “ho ritenuto necessario sottolineare”. DIZIONARIO DELLE COMPETENZE Versione originaria Interventi sul testo Versione finale • Viene rimarcato che l’importanza di corrette relazioni sindacali è stata evidenziata dal Direttore dell’Agenzia in più occasioni e non solo nella riunione del 4 dicembre (da questo punto di vista la versione originaria della direttiva difetta di completezza). 95 • Si sottolinea ancora di più l’importanza di corrette relazioni sindacali, rimarcando che il richiamo a tale principio è avvenuto “proprio in apertura” della riunione con i Direttori regionali (e quindi in testa a tutti gli argomenti all’ordine del giorno). • Si enfatizza la rilevanza di corrette relazioni sindacali “a tutti i livelli”, specificando tali livelli uno per uno. Viene inoltre eliminata la frase “a partire dal posto di lavoro”, perché la correttezza delle relazioni sindacali non deve partire solo “dal basso” (cioè dal singolo posto di lavoro), ma è anche – e, forse, soprattutto – questione di “buoni esempi dall’alto”. A tal proposito, preme innanzitutto ricordare quanto la capacità di coinvolgere le risorse umane assegnate al dirigente assuma particolare rilevanza in una pubblica amministrazione come la nostra, investita da ormai più di dieci anni da un costante processo di riforma organizzativa. Questa capacità è ancor più rilevante nell’attuale fase, ancora iniziale, di trasformazione da branca di un Ministero in Ente pubblico dotato di quell’ampia autonomia che con coerenza rivendichiamo quale condizione per il pieno raggiungimento degli obiettivi posti dal Governo. • Viene eliminato lo stilema, un po’ consunto e burocratico, “A tal proposito, preme anzitutto ricordare…”. • La versione originaria sviluppa a questo punto, per ben due paragrafi, il concetto dell’importanza della capacità del dirigente di coinvolgere le risorse umane affidategli. Il concetto è in sé condivisibile però non è ben contestualizzato. In altre parole, non viene spiegato bene che legame vi sia tra tale concetto e quello della necessità di corrette relazioni sindacali. C’è qui un difetto di congruenza al quale se ne aggiunge subito dopo un altro, quando si accenna al legame fra “la capacità del dirigente di coinvolgere le risorse umane” e il tema dell’autonomia dell’Agenzia. Anche qui si rischia di “andarsene per la tangente”, ingenerando nel lettore l’impressione che il richiamo all’autonomia dell’Agenzia sia ormai una stucchevole “clausola di rito” che immancabilmente I risultati assai positivi raggiunti dall’Agenzia delle Entrate già dal suo primo anno di attivazione non sarebbero stati possibili senza l’ampia e convinta partecipazione del personale alle attività di missione e al processo di cambiamento organizzativo culminato nell’istituzione dell’Agenzia. DIZIONARIO DELLE COMPETENZE Versione originaria Interventi sul testo Versione finale ricorre ogni volta che si parla di Agenzie fiscali. Meglio quindi espungere questo concetto e impostare così la strategia argomentativa della direttiva: – mettere in evidenza i positivi risultati raggiunti dall’Agenzia fin dal suo primo anno di attivazione; – sottolineare il fatto che il raggiungimento dei risultati è dipeso dalla convinta partecipazione del personale al processo di riforma; – concludere dicendo che questa partecipazione presuppone, a sua volta, un buon clima di relazioni sindacali (il personale annette molta importanza alla costruttività delle relazioni sindacali, come è testimoniato, fra l’altro, dall’alta affluenza alle elezioni delle RSU). 96 • La strategia argomentativa appena delineata trova articolazione nella nuova versione, nella quale si inizia appunto a descrivere con semplicità e nitidezza il nesso fra i risultati raggiunti dall’Agenzia e la partecipazione del personale. • La versione originaria presenta inoltre difetti di efficacia stilistica. Alcuni passaggi, invece di attrarre l’attenzione del lettore, rischiano di smorzarla o persino di ingenerare fastidio. Il paragrafo a fianco riprodotto della versione originaria presenta, ad esempio, toni stentorei (“Ente pubblico dotato di quell’ampia autonomia che con coerenza rivendichiamo quale condizione...”) che rischiano di rendere troppo enfatica la direttiva, che già solo per il suo contenuto è esposta a questo rischio. Si tratta di un profondo processo di riforma che è stato possibile portare avanti e che potrà continuare ad essere sostenuto solo attraverso l’ampia condivisione da parte del personale degli obiettivi di trasformazione in una struttura sempre più capace di dare risposte in termini di efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa. Il concetto che la direttiva deve a questo punto esprimere è che la partecipazione del personale al processo di riforma trova corrispondenza nel forte sostegno dato dalle OOSS all’avvio del progetto “Agenzie fiscali”. Questo sostegno – così importante per il successo della riforma – non viene invece focalizzato nella versione originaria, che Nel rilevare questo, è giusto riconoscere il forte sostegno dato dalle organizzazioni sindacali al progetto di riforma dell’Amministrazione finanziaria. Tale appoggio è stato determinante – in considerazione anche delle resistenze opposte da altre parti – per consentire, prima, il varo delle Agenzie fiscali in sede legislativa e, poi, la concreta atti- DIZIONARIO DELLE COMPETENZE Versione originaria Interventi sul testo Versione finale sotto questo aspetto presenta perciò un difetto di completezza e di congruenza (in una nota che tende a rimarcare l’importanza di corrette e costruttive relazioni sindacali, non può mancare una forte sottolineatura del ruolo svolto dalle OOSS per il varo e l’attuazione della riforma). vazione delle nuove strutture, nel cui ordinamento le forze sindacali hanno visto, oltre che la possibilità di dare una più efficace risposta in termini di servizio ai singoli contribuenti e alla collettività, un’importante e inedita opportunità di valorizzazione delle risorse interne. La partecipazione assai elevata del personale dell’Agenzia alle recenti elezioni delle Rappresentanze Sindacali Unitarie testimonia l’importanza del ruolo della rappresentanza sindacale sul posto di lavoro e dell’interesse che il personale attribuisce al pieno utilizzo degli strumenti di partecipazione disciplinati dalla contrattazione collettiva. D’altra parte, l’elevatissima partecipazione del personale dell’Agenzia alle recenti elezioni delle Rappresentanze Sindacali Unitarie testimonia l’importanza del ruolo della rappresentanza sindacale sul posto di lavoro e dell’interesse che il personale attribuisce al pieno utilizzo degli strumenti di partecipazione regolati dalla contrattazione collettiva. In questo quadro sembra abbastanza evidente che il sottolineare l’importanza di corrette relazioni sindacali non intende essere un formale richiamo al rispetto di regole già sancite da norme di carattere giuridico e contrattuale, ma vuole bensì essere un’indicazione verso una reale e piena condivisione dell’obiettivo di relazioni sindacali che, a partire dal posto di lavoro, divengano uno strumento effettivo per il coinvolgimento pieno del personale, attraverso le varie forme già definite dalla normativa legislativa e contrattuale. È ovvio che il raggiungimento degli obiettivi sopra esposti, trattandosi di relazioni sindacali, richiede comportamenti coerenti al rispettivo ruolo da ambedue le parti. Tanto più sarà possibile pretendere comportamenti adeguati dalle controparti, quanto più noi stessi avremo adottato comportamenti corretti e coerenti col ruolo rivestito. • Dalla versione originaria, ove i verbi sono in terza persona (“sembra abbastanza evidente che il sottolineare …non intende essere” ecc.), si passa, nella nuova versione, all’uso di verbi in prima persona (“non intendo…ma voglio”). L’espressione ne risulta ben più incisiva (prima era appesantita anche dal goffo infinito “il sottolineare”). • È reso con maggiore chiarezza il concetto che le relazioni sindacali devono essere interpretate e vissute dalla dirigenza non come un fastidioso adempimento, ma come uno strumento di coinvolgimento del personale nei processi di cambiamento. In questo quadro, non intendo quindi semplicemente rivolgere un invito formale al rispetto di regole sancite da norme legislative e da disposizioni contrattuali, ma voglio sottolineare che il mantenimento e lo sviluppo – nella naturale distinzione dei ruoli – di corrette e costruttive relazioni con le rappresentanze sindacali costituisce, ancor più che un doveroso adempimento di prescrizioni normative, una manifestazione essenziale da parte della dirigenza di autentica sensibilità e attenzione per l’importanza del coinvolgimento pieno del personale nei processi di cambiamento in atto. Nella versione originaria si omette di sottolineare l’importanza del ruolo dei sindacati non solo per l’avvio della riforma ma anche per la sua continuazione. L’inserimento di questo concetto è importante per la completezza della direttiva. Così come è stato nella fase di progettazione e di avvio della riforma, allo stesso modo non può mancare per la prosecuzione e il successo dell’opera intrapresa l’adesione del personale e delle forze che lo rappresentano. Nella versione finale si esprime con maggiore scorrevolezza e concisione il concetto della reciprocità che deve informare le relazioni sindacali. I dirigenti si lamentano spesso della scarsa “affidabilità” della parte sindacale. Si può però pretendere senso di responsabilità dalla controparte solo se si è disposti a dare per primi prova di responsabilità. Tanto più sarà possibile richiedere alla controparte sindacale comportamenti all’altezza del ruolo rivestito, quanto più noi stessi sapremo concretamente dare prova di consapevolezza e responsabilità nel ruolo di parte pubblica. 97 DIZIONARIO DELLE COMPETENZE Competenze extraintellettive e clima di lavoro 99 1. Affidabilità Il termine affidabilità include diverse caratteristiche. La prima – richiesta a chiunque lavori nell’Agenzia delle Entrate – è l’onestà personale e, congiunta a questa, la correttezza professionale. Non meno importante è il grado di coinvolgimento nel proprio lavoro. La persona affidabile tiene fede agli impegni lavorativi che assume e mette in atto comportamenti chiari e trasparenti in coerenza con i valori dell’Agenzia. È disposta ad investire risorse ed energia nel lavoro, trasmettendo entusiasmo e “contagiando” anche i colleghi. Il suo apporto è costante e spesso è al di sopra di quanto richiesto. Le competenze che esprimono queste caratteristiche sono “Coerenza” e “Passione per il lavoro”. 1.1 Coerenza Alla domanda: “Perché pagare le tasse?”, la risposta è in genere: “Per finanziare i servizi sociali”. È una risposta ineccepibile ma incompleta. Non sono solo i diritti sociali (istruzione, salute, ecc.) che dipendono dal pagamento delle imposte, ma anche i diritti di libertà (come osservano due giuristi americani in una loro recente opera dal titolo eloquente70, cosa ne sarebbe della proprietà privata, della libertà di parola, di associazione, di movimento, ecc. se, per citare un esempio, non vi fossero efficienti – e quindi costose – forze dell’ordine a garantirne il rispetto?). Se quindi si deve esigere coerenza e integrità da ogni funzionario pubblico, a maggior ragione occorre esigerle da chi vigila sull’osservanza di un dovere da cui dipende la libertà di tutti. Non a caso, se a un bravo direttore di un ufficio tributario fosse chiesto di riassumere in quattro parole i tratti che vorrebbe che i suoi funzionari avessero, risponderebbe quasi sicuramente: “intelligente, preparato e lavoratore”, ma prima ancora è certo che direbbe: “onesto”. Come si può descrivere questa qualità e come la si può valutare? Una definizione di “coerenza” potrebbe essere questa: disposizione ad agire in accordo con i valori e i 70 S. Holmes e C.R. Sunstein, Il costo dei diritti. Perché la libertà dipende dalle tasse, trad. it. Bologna, il Mulino, 2000. DIZIONARIO DELLE COMPETENZE 100 principi della propria organizzazione, anche (e soprattutto) quando ciò comporti sacrifici personali. Intesa in questo senso, la coerenza coincide con l’integrità professionale e la “lealtà istituzionale”. Più difficile è il discorso relativo ai criteri operativi di valutazione di questa competenza. Sarebbe troppo ingenuo, se non ipocrita, ignorare che ci si muove qui su un terreno scivoloso. Che cosa, di quella costellazione di atteggiamenti in cui si esprime la coerenza personale, si può realisticamente andare a sondare con qualche sicurezza? Almeno due tipi di comportamenti, di cui alcuni negativi (quelli, cioè, che è bene che non siano posti in essere) e altri positivi (quelli, cioè, che è bene invece che siano posti in essere). In negativo la caratteristica della coerenza è evidenziata dall’assenza di comportamenti che diano luogo (o siano suscettibili di dare luogo) a conflitti di interesse e a situazioni di incompatibilità. Il regolamento volto a tutelare l’indipendenza e l’autonomia tecnica del personale delle Agenzie fiscali (D.P.R. 16 gennaio 2002, n. 18) introduce a questo riguardo disposizioni ancora più rigorose di quelle vigenti per la generalità dei dipendenti pubblici e fissa due principi di ampia portata. Il primo stabilisce che “il dipendente salvaguarda l’immagine e la credibilità dell’Agenzia di appartenenza e delle funzioni istituzionali a questa demandate, evitando ogni possibile condizionamento dell’attività di servizio”. Il secondo dispone che “il dipendente evita le attività che possono condurre a conflitti di interesse con l’Agenzia di appartenenza e che possono interferire con la sua capacità di adottare decisioni imparziali”. Nell’ambito dell’altra classe di comportamenti – quelli positivi – occorre distinguere tra i comportamenti relativi ai rapporti con l’esterno e quelli invece relativi ai rapporti interni. Nel primo caso, il comportamento richiesto consiste nel tenere rapporti con i contribuenti ispirati alla più scrupolosa correttezza. Nel mondo anglosassone si usano a questo proposito le parole fair play e fair game (entrambe collegate al sostantivo fairness), traducibili grosso modo in italiano con “gioco leale” o “gioco pulito”. Il loro significato si lascia forse più facilmente afferrare ex contrario riflettendo sul termine opposto “gioco sporco”, che sta a designare comportamenti o tattiche che, senza formalmente violare una specifica norma giuridica, vengono più o meno subdolamente adottati per impedire o rendere comunque gravosi alla controparte l’esercizio dei suoi diritti o la messa a frutto di opportunità riconosciutele dall’ordinamento. In questo senso la “correttezza” sta a denotare uno stile di condotta che va al di là della mera osservanza legalistica di questa o quella norma e indica piuttosto un atteggiamento complessivo di leale rispetto, sia nella lettera che nello spirito, dei diritti e degli interessi dei contribuenti, nei cui confronti l’esercizio dell’autorità non deve mai assumere nessuna delle connotazioni che, pur non ricadendo sotto un espresso divieto di legge, possono essere sintomatiche di un “abuso di posizione di potere”. Non è superfluo sottolineare che il comportamento che abbiamo chiamato fair play o “gioco leale” va adottato nei riguardi della generalità degli interessati, senza favoritismi nei riguardi di qualcuno o, viceversa, vessazioni nei confronti di altri, e in questa caratterizzazione semantica (riassumibile come “avversione allo spirito di parte”) la nozione di coerenza va ad apparentarsi a quelle di “imparzialità” e di “neutralità”, tipiche del tradizionale linguaggio amministrativo (è questo uno dei casi in cui “tradizionale” non significa “obsoleto”). DIZIONARIO DELLE COMPETENZE Quanto invece ai rapporti interni, che legano il dipendente alla propria organizzazione, la valutazione della coerenza va commisurata all’entità dei sacrifici compiuti o che si è disposti a compiere nell’interesse dell’istituzione. Questo comporta anzitutto capacità di resistenza a indebite sollecitazioni interne o esterne al proprio ambiente di lavoro e, specularmente, netta avversione a farsi tramite o ispiratori di tali sollecitazioni per tornaconto personale. Gli elementi appena descritti sono indicatori diretti della coerenza, ma vi sono anche indicatori di tipo indiretto. Uno è l’attitudine a comunicare le proprie idee in modo aperto e ad agire con autenticità e trasparenza anche quando considerazioni opportunistiche indurrebbero ad atteggiamenti meno franchi. Un altro indicatore è la refrattarietà ad assumere atteggiamenti caratteristici di un tipo di persona che nel linguaggio comune viene solitamente descritto con un termine attinto al repertorio degli strumenti orchestrali: “il trombone”. L’espressione viene qui usata in un’accezione specifica che non ha a che fare con la dimensione psicologica del carattere, ma con la valutazione etica del comportamento organizzativo. In altri termini, il comportamento che si vuole stigmatizzare con quella parola non è semplicemente quello di esagerare o enfatizzare le proprie capacità, ma è quello di attribuire a se stessi meriti che non si hanno e di negarli ad altri cui andrebbero invece riconosciuti. Praticato abitualmente, tale comportamento è tra i più deleteri, perché ostacola l’affermazione del senso di equità in un’organizzazione, e proprio per questo motivo assume particolare rilevanza sotto il profilo della coerenza e dell’integrità. Indicatori A. Non è un modello di coerenza. Dimostra di essere permeabile a pressioni esterne e a indebite sollecitazioni. Intraprende azioni che possono danneggiare l’immagine o gli interessi dell’Agenzia. Antepone i propri interessi a quelli dell’organizzazione di cui fa parte. Utilizza la sua posizione di autorità per ottenere vantaggi. Non mantiene gli impegni presi. B. Si uniforma alle regole. Segue le procedure e si attiene alle regole deontologiche dell’Agenzia evitando situazioni di conflitto di interessi e di incompatibilità. Rispetta gli impegni assunti, portando a termine il lavoro nei tempi concordati. C. Agisce lealmente. Non esita ad assumersi la responsabilità dei propri atti senza scaricarla su altri. Dà prova di autentica correttezza nell’applicazione delle norme, fornendo, ad esempio, al contribuente le informazioni giuste che gli consentono di ottenere benefici fiscali o di evitare errori. D. È un modello di coerenza. Non bada solo alla propria condotta personale, ma si preoccupa che anche il proprio ambiente di lavoro sia permeato dei principi e dei valori della propria organizzazione. Mostra la determinazione necessaria per assumere decisioni “scomode”. Evita e contrasta atteggiamenti e comportamenti collusivi con gli interlocutori. Non si fa intimorire ed è pronto ad affrontare un contrasto anche forte con la controparte quando vede posti in discussione i principi cui si ispira. Quando è necessario, antepone le esigenze dell’ufficio a quelle personali e anche alle preferenze professionali (assume, ad esempio, incarichi gravosi o non particolarmente gratificanti quando lo richiedono le strategie aziendali). 101 DIZIONARIO DELLE COMPETENZE Di seguito sono riportati gli esempi relativi alla competenza Coerenza. Esempio 1 Livello C della competenza Coerenza 102 Servizi al contribuente “In un caso di compravendita di terreni mi è capitato che nell’atto di cessione era stata dimenticata, per colpa del notaio o del contribuente, la frase che invocava i benefici fiscali concessi dalla legge. In questi casi l’impiegato dovrebbe segnalare al contribuente questa dimenticanza e rappresentargli i benefici cui ha diritto. Alcuni miei colleghi sono legati a formalismi burocratici di vecchio stampo e quindi si asterrebbero sempre dal ricordare ai contribuenti quali siano le opportunità e i benefici accordati loro dalla legge, ritenendo che ciò rappresenti un danno per l’Amministrazione. Io invece credo che l’impiegato debba dare un buon servizio al contribuente, e questo significa anche fornirgli sempre l’informazione giusta”. Esempio 2 Livello D della competenza Coerenza Controllo “Stavo facendo una verifica ad un contribuente ed erano emersi elementi piuttosto gravi. Stavo per emettere l’atto di accertamento quando venne a trovarmi un personaggio assai influente, parente del contribuente, per informarsi sulla pratica. Si è presentato in modo arrogante e dopo che gli avevo spiegato la situazione ha cercato di convincermi con vari argomenti che non era opportuno proseguire nell’emissione dell’accertamento. Avrei potuto forse agevolmente cavarmela, dicendo a quel signore che la questione era delicata e che avrebbe dovuto perciò rivolgersi al direttore. Ma non volevo dargli un’impressione di remissività: se uno fa vedere che tiene dritta la schiena, non difende solo la propria immagine, ma anche quella dell’ufficio di cui fa parte. Sono stato perciò molto deciso nel mantenere la mia posizione e a un certo punto, visto che non desisteva, ho posto fine all’incontro dicendogli a brutto muso che ero in possesso di elementi sicuri che mi obbligavano, salvo a venire meno ai miei doveri, ad emettere l’atto di accertamento”. 1.2 Passione per il lavoro “È un gran lavoratore”. Solitamente è questa l’espressione che nel linguaggio comune designa le persone animate da “passione per il lavoro”. Si tratta di una caratteristica personale che può essere valutata su due dimensioni. La prima è l’intensità dell’energia che si è disposti a spendere, giorno per giorno, nel proprio lavoro. La seconda è la DIZIONARIO DELLE COMPETENZE natura della motivazione che dà impulso, sorregge e accompagna l’impegno personale. Il dato caratteristico è rappresentato qui dal fatto che la motivazione al lavoro si trasforma da estrinseca in intrinseca. In altri termini, chi ha passione per il proprio lavoro, si riconosce facilmente perché vuole dare sempre di più, al di là dello stretto dovere, e trova, nella propria attività, sempre nuovi interessi e stimoli, traendo soddisfazione da quello che fa, più ancora che da quello che riceve per ciò che fa. L’autentica passione per il lavoro non si traduce in un attivismo caotico, né va confusa con l’effimero entusiasmo. Esprime, al contrario, un forte senso di autodisciplina e di perseveranza, che aiuta a non disperdere le energie personali e a focalizzarle sulla meta da raggiungere, prendendo a cuore i problemi, senza mai demordere fino a che non siano stati risolti. La si può considerare una “metacompetenza” o una competenza di base (basic competence), poiché si ritrova, come “energia motrice”, nei livelli alti di tutte le altre competenze. È difficile sopravvalutarne l’importanza per la vita di un’organizzazione. La possibilità stessa del cambiamento dipende, in larga misura, dalla presenza di persone che, con la loro passione professionale, riescono a “contagiare” gli altri e a suscitare in loro la voglia di impegnarsi. Indicatori A. Lavora svogliatamente. Cerca di fare meno del minimo indispensabile. È più attento all’orologio che al lavoro che svolge. Quando si avvicina la fine della giornata, “molla la penna” o la tastiera del computer qualunque cosa stia facendo e si precipita davanti al tornello ad aspettare che scocchi l’ora di uscita. Evita scrupolosamente di farsi coinvolgere in attività che teme possano rivelarsi impegnative e rifugge le novità, specie quando richiedano applicazione. I prodotti deI suo lavoro rivelano superficialità ed approssimazione nell’approccio ai problemi e sono spesso inficiati da errori, causati da sviste e distrazioni, che costringono il supervisore a onerosi interventi di aggiustamento, quando non a veri e propri rifacimenti. B. Esegue quanto richiesto. Esegue disciplinatamente quanto gli è assegnato senza però mostrare particolare coinvolgimento: non approfondisce la logica di ciò che gli viene chiesto e non ha quindi capacità autocorrettiva (questa capacità si rivela, ad esempio, nell’attitudine ad integrare o ad adattare, in funzione della mutevolezza delle circostanze, le prescrizioni ricevute). I prodotti o il servizio offerti soddisfano comunque gli standard normali di qualità e di accuratezza. C. Va oltre quanto richiesto. Sollecitato dal desiderio di fare, “non stacca” fino a quando non ha portato a termine il lavoro. Quando si trova di fronte ad un’emergenza si attiva autonomamente senza aspettare “ordini dall’alto”. Sa mantenere elevati e costanti standard di accuratezza nel lavoro, anche quando il carattere seriale delle attività tende a ridurre il livello di attenzione. Propone spontaneamente di fermarsi oltre l’orario quando lo richiedano le esigenze di servizio, senza aspettare che sia il superiore a chiederglielo. È pronto ad assumere carichi di lavoro aggiuntivi per sostituire colleghi momentaneamente assenti. 103 DIZIONARIO DELLE COMPETENZE 104 D. Lavora con entusiasmo. Dà prova di grande dedizione nel risolvere i problemi di lavoro, dimostrando un impegno che eccede di gran lunga quello ordinario. Ha un vivo senso dell’urgenza e delle priorità, che lo spingono a dedicarsi “anima e corpo” alle questioni fino a quando non sono state risolte. È curioso, sta sempre con le “antenne dritte”, anche al di fuori dell’ambiente di ufficio, pronto a cogliere tutti i segnali, anche deboli, che possano avere un impatto positivo sul proprio lavoro (ad esempio, se fa il verificatore non lesina sforzi nel cercare indizi utili ad aprire nuovi e fruttuosi filoni di indagine). Promuove innovazioni nei processi lavorativi, ne sperimenta la validità e se ne fa promotore presso i colleghi. Ricerca sempre nuove opportunità e occasioni di miglioramento, sforzandosi di apprendere dall’esperienza altrui e da quella personale, che sa analizzare con determinazione e schiettezza senza cercare scuse per i propri eventuali insuccessi. Rivede in modo critico il proprio operato per evitare di ripetere gli errori. Di seguito sono riportati alcuni esempi relativi alla competenza Passione per il lavoro. Esempio 1 Livello C della competenza Passione per il lavoro Controllo “Mi è capitato di lavorare in momenti successivi su casi di segnalazione di residenti all’estero che però, in base a circostanze specifiche, erano residenti fiscalmente in Italia. La prima volta ho lavorato in modo superficiale ed ho ricopiato il verbale riportandone acriticamente la motivazione: davo per scontato che il lavoro fosse stato fatto bene. Quando il contribuente si è presentato in ufficio per l’accertamento con adesione, mi sono reso conto di quanto eravamo stati approssimativi. Non avevamo infatti considerato diversi elementi importanti. In seguito, in un caso analogo (si trattava di un contribuente con residenza a Montecarlo) ho letto riga per riga il verbale e gli allegati, ho fatto una ricerca su Internet e ho trovato ulteriori elementi sulla posizione fiscale del contribuente non inseriti nel verbale. Per esempio, mi sono accorto che tutti gli accrediti bancari avvenivano su una banca di Roma e mi sono allora chiesto: ‘Se abita a Montecarlo, perché tutti i soldi sono accreditati a Roma?’. Alle motivazioni ho aggiunto anche questi nuovi elementi grazie ai quali sono arrivato ad un atto di accertamento decisamente più completo del primo, che ha consentito di formulare una proposta di adesione assai migliore per l’ufficio”. Esempio 2 Livello D della competenza Passione per il lavoro Controllo “Stavo facendo una verifica in un noto ristorante della città. Vado in cucina dove trovo lo chef che lavorava la pasta all’uovo. Vedo sul tagliere 10 gusci di uova con DIZIONARIO DELLE COMPETENZE 1,5 kg di farina. Il ristorante dichiarava che con quegli ingredienti faceva 10 porzioni di pasta all’uovo. Il fatto mi ha molto incuriosito e ho voluto provare anch’io. Sono andato al supermercato, ho comprato 1,5 kg di farina e 10 uova. Sono tornato a casa e, con qualche fatica, ho impastato il tutto. Alla fine, lo spettacolo della cucina a soqquadro era desolante e ancora più desolante era lì, in mezzo alla cucina, mia moglie che urlava imbestialita. Ma ho potuto concludere che con quella farina il ristorante faceva molti più pasti di quelli dichiarati (18 invece di 10) e quindi avrebbe dovuto fatturare assai più di quanto aveva dichiarato.” 2. Dinamismo realizzativo Nel Dinamismo realizzativo sono raggruppate le competenze che consentono al personale, nella quotidianità delle situazioni di lavoro, di giungere a risultati significativi sia sotto il profilo quantitativo che sotto quello qualitativo. Il cluster comprende tre competenze: l’Iniziativa, la Tensione al risultato e lo Sviluppo e il trasferimento del sapere. La prima esprime la “proattività”, cioè l’attitudine ad agire autonomamente senza sollecitazioni esterne. La seconda costituisce un intreccio di motivazione e capacità: motivazione a perseguire obiettivi non facilmente realizzabili e capacità di impegnarsi a fondo per raggiungerli. La terza denota l’attitudine e la determinazione a sviluppare il proprio patrimonio di conoscenze ed esperienze a beneficio della propria performance lavorativa e di quella dei colleghi. 2.1 Iniziativa C’è un termine che non è di uso comune ma serve molto bene a riassumere le caratteristiche di una persona dotata di spirito d’iniziativa: “autopropulsivo”. L’iniziativa è appunto la capacità “proattiva” di attivarsi autonomamente senza aspettare di essere sollecitati. Implica il desiderio di cercare comunque soluzioni, anche attraverso strade mai percorse. Caratteristica tipica dell’iniziativa è la tendenza ad anticipare gli eventi per coglierne le opportunità, senza farsi intimorire dai rischi che vi sono collegati. Indicatori A. Non prende iniziative. Agisce solo su richiesta esterna e fa solo ciò che gli viene espressamente richiesto. Trova scuse per non prendere iniziative e si limita per lo più a sterili recriminazioni (per esempio, incolpa la burocrazia, il “sistema”, la mancanza di risorse, la scarsa cooperazione altrui, ecc.). B. Si attiva autonomamente a fronte di un problema o di una scadenza. Quando si trova in situazioni di emergenza e criticità non aspetta impulsi esterni e sollecitazioni, ma reagisce prontamente, assumendo le necessarie iniziative. 105 DIZIONARIO DELLE COMPETENZE 106 C. Previene le criticità. Cerca, per quanto gli è possibile, di prevenire le situazioni di emergenza (ad esempio, picchi di lavoro) adottando per tempo gli opportuni accorgimenti. Quando gli imprevisti si accumulano, non si scoraggia, ma persevera e fa ripetuti tentativi per superare gli ostacoli. Si ingegna con le risorse che ha a disposizione, senza accampare mai scuse o alibi per l’inazione o l’attesa passiva degli eventi. D. Opera sistematicamente in modo proattivo. Dimostra una radicata abitudine a riflettere criticamente sulle proprie esperienze, per trarre lezioni dal passato, con l’obiettivo di anticipare gli eventi, evitando di farsi sorprendere impreparato e di ripetere errori eventualmente commessi in precedenza. Guarda al futuro più che come fonte di incertezze e rischi da cui cautelarsi, come sfida a cogliere nuove opportunità e a cercare soluzioni inedite, che non tiene gelosamente per sé, ma è pronto a proporre ad altri. Di seguito sono riportati alcuni esempi relativi alla competenza Iniziativa. Esempio 1 Livello B della competenza Iniziativa Controllo “Eravamo in periodo di scadenze e c’erano degli atti da notificare. Non c’era il messo comunale e quindi ho preso la mia macchina e sono andato personalmente a notificarli.” Esempio 2 Livello C della competenza Iniziativa Controllo “Stavo facendo una verifica in un’azienda. L’impiegato addetto all’amministrazione non era in grado di calcolare, con il software della contabilità, i saldi del magazzino. Gli ho chiesto di mettermi in contatto con la ditta che aveva fornito il programma di contabilità, ma questa aveva chiuso. Ho chiamato la Camera di Commercio per avere i nominativi dei titolari della ditta, li ho rintracciati e contattati e mi sono fatto spiegare quale era il modo per stampare i mastri di conto di ogni prodotto”. 2.2 Tensione al risultato Esprime la motivazione a lavorare sodo e bene e a stabilire propri standard realistici ma sfidanti, con l’obiettivo di migliorare il livello quantitativo e qualitativo della prestazione ed accrescere la soddisfazione dei contribuenti e del “cliente interno”. Indice sicuro del possesso di questa competenza è la capacità di improntare la propria azione a criteri di proficuità, bilanciando costi e benefici. Tra le diverse “competenze DIZIONARIO DELLE COMPETENZE d’azione”, è, generalmente, quella che più influisce sull’utilizzo appropriato delle capacità intellettive, poiché esercita un ruolo decisivo nell’orientare l’attenzione sugli aspetti più importanti di una situazione critica, evitando che la riflessione si disperda senza costrutto in una miriade di aspetti secondari, con effetti pregiudizievoli sul piano dell’efficienza (è tipico, ad esempio, di analisi mal indirizzate sotto il profilo della tensione al risultato finale, l’attivazione di dispendiose e improduttive iniziative di controllo). 107 Indicatori A. Non è all’altezza del proprio compito. Lavora in modo disattento, discontinuo e approssimativo. Tutto ciò che realizza richiede normalmente rifacimenti e integrazioni. È lento e lascia che le pratiche si accumulino. Non mette mai nulla di nuovo nel suo lavoro, ed anzi respinge per principio le novità senza tentare mai di sperimentarle (“tanto non funziona”, “chi me lo fa fare” ecc.). La mancanza di tensione al risultato si coglie talora anche nel tempo sproporzionato che dedica a dettagli insignificanti o comunque di scarso peso, perdendo di vista il senso complessivo del lavoro e l’esigenza di assicurare soddisfacenti livelli di servizio e di produttività. B. Si attiene agli standard. Si uniforma agli standard definiti e agli aspetti formali. Punta solo a raggiungere i risultati che gli vengono strettamente richiesti. L’accuratezza con cui lavora è quella minima prescritta. C. Migliora le modalità di lavoro. È attento alle implicazioni che le proprie decisioni comportano in termini di costi e di consumo di risorse. Si pone obiettivi di miglioramento. Promuove nuove modalità di lavoro, superando abitudini consolidate poco produttive. Sa gestire il suo tempo e fissa le priorità in un’ottica di efficienza. D. Si pone obiettivi sfidanti. La metafora sportiva che più si attaglia al suo modo di agire è quella dell’atleta di salto in alto che si mette continuamente alla prova alzando sempre più l’asticella. Si prefigge obiettivi che richiedono grande impegno e non risparmia sforzi per realizzarli, conseguendo risultati eccellenti. Pianifica la sua attività in una prospettiva temporale non limitata al breve periodo. Si assume fino in fondo la responsabilità delle proprie scelte. Giudica il proprio lavoro con obiettività, raffrontandolo a quello dei colleghi e traendo dal confronto spunti per migliorare. Di seguito sono riportati alcuni esempi relativi alla competenza Tensione al risultato. Esempio 1 Livello C della competenza Tensione al risultato Controllo “Disponevamo di una metodologia di controllo consolidata, che non mi sembrava però completa e che, soprattutto, era, a mio avviso, poco efficace per le difficoltà di comprensione cui dava luogo. Ne erano prova i riscontri negativi in termini di effi- DIZIONARIO DELLE COMPETENZE cacia/efficienza. Ho preso perciò il manuale e mi sono messa a riscriverlo, prefiggendomi due obiettivi: rendere più chiara e comprensibile la metodologia ed eventualmente arricchirla di nuovi elementi di controllo. Ho iniziato dalla riscrittura, perché la comprensibilità mi sembrava l’elemento prioritario”. 108 Esempio 2 Livello D della competenza Tensione al risultato Consulenza giuridica Una persona dichiarava il domicilio a Montecarlo ma era stato accertato che risiedeva in Italia. L’ufficio gli aveva notificato un atto di accertamento. Il contribuente si era dichiarato disponibile ad un accertamento con adesione e calcolammo perciò una percentuale forfetaria dei costi che abbattesse i ricavi per quanto riguardava le imposte dirette. Proponemmo un abbattimento nella misura del 30%, perché risultava equo in base all’indagine svolta. Per l’IVA, invece, il versamento con autofattura era stato regolarmente effettuato da chi per legge ha questo obbligo (cioè da chi riceve la prestazione). Il team di controllo voleva però procedere ad un accertamento anche per l’IVA. Ho caldamente consigliato di non farlo, assumendomene tutta la responsabilità, perché mancava a mio avviso il presupposto, avendo l’Agenzia già riscosso la quota spettante. Di fatto, si sarebbe determinata una doppia imposizione, con la conseguenza pressoché certa di un lungo contenzioso, che, con ogni probabilità, avremmo perso, rimettendoci le spese in base al principio della soccombenza. La determinazione con cui ho affermato, senza la minima titubanza, che mi sarei preso tutta la responsabilità delle conseguenze di quello che proponevo ha indotto i colleghi a seguire il mio consiglio”. 2.3 Sviluppo e diffusione del sapere È l’attitudine a sviluppare il proprio patrimonio di conoscenze ed esperienze a beneficio della propria performance lavorativa e di quella degli stessi colleghi, nei cui confronti ci si adopera attivamente per mettere in comune l’acquisizione del sapere e favorire così l’apprendimento organizzativo. Questa competenza si coglie nei comportamenti che: • manifestano un forte desiderio personale di crescere professionalmente attraverso lo studio e l’aggiornamento continuo; • esprimono una lucida e schietta consapevolezza delle proprie carenze formative; DIZIONARIO DELLE COMPETENZE • denotano una seria intenzione di colmare le proprie lacune ed ampliare il proprio bagaglio professionale; • tendono a diffondere nell’ambiente di lavoro le conoscenze acquisite. Considerati nel loro insieme, tali comportamenti consentono di distinguere tra la persona professionalmente preparata e quella che solitamente si definisce un “topo di biblioteca”. È la finalizzazione della crescita del sapere che distingue l’una dall’altra. La prima si differenzia dalla seconda per due motivi: a) sviluppa le proprie conoscenze per utilizzarle come strumenti di lavoro; b) tende a capitalizzare ciò che apprende a beneficio dei colleghi e dell’organizzazione nel suo complesso. Indicatori A. Si accontenta di quello che sa. Le conoscenze che utilizza sono generalmente poche, insufficienti e non aggiornate. Ne risente visibilmente la qualità e l’affidabilità del suo lavoro. Ritiene sufficiente il livello di conoscenza raggiunto senza chiedersi se le proprie conoscenze siano adeguate al ruolo che svolge. Considera le iniziative di formazione a cui deve partecipare più come una “pausa lavorativa” che un’occasione di apprendimento. In sintesi, è la persona cronicamente impreparata: quando la si interroga su qualche questione di lavoro, risponde quasi sempre in modo confuso e approssimativo; messa alle strette, cerca di cavarsela prendendo tempo, che si guarda però dall’utilizzare per aggiornarsi un po’. B. Ha un livello di conoscenza sufficiente per svolgere il lavoro. Integra le proprie conoscenze con l’utilizzo dei mezzi e degli strumenti informativi che l’Agenzia mette a disposizione per l’aggiornamento. Partecipa attivamente e proficuamente alle iniziative formative dell’Agenzia. C. Ha un bagaglio professionale ampio e aggiornato che applica per migliorare l’efficacia del proprio lavoro. Le sue conoscenze gli consentono di risolvere anche problemi complessi e nuovi e quando gli si chiedono informazioni specifiche sulle materie di cui si occupa (ad esempio: cosa prevede esattamente quella norma? Come si applica in questo caso?) la risposta è sempre precisa e completa. Dedica tempo e risorse personali all’aggiornamento, per esempio acquistando libri, consultando quotidianamente l’Intranet, abbonandosi a riviste del settore, ecc. D. È l’esperto cui i colleghi si rivolgono. Non limita il suo studio ad alcuni aspetti della propria attività (ad esempio, quelli che di volta in volta rivestono maggiore urgenza), ma lo estende a discipline e argomenti che gli consentono di avere una visione più ampia e completa delle problematiche di lavoro. La vasta preparazione e la cura che dedica all’aggiornamento e all’ampliamento delle proprio sapere ne fanno “l’esperto” dell’ufficio e il punto di riferimento dei colleghi per le problematiche più complesse. Di seguito sono riportati alcuni esempi relativi alla competenza Sviluppo e diffusione del sapere. 109 DIZIONARIO DELLE COMPETENZE Esempio 1 Livello C della competenza Sviluppo e diffusione del sapere 110 Segreteria “A seguito di una riorganizzazione della struttura operativa nella quale lavoro, la nuova assegnazione richiedeva una conoscenza dei programmi Word ed Excel maggiore di quella che avevo. Ho seguito con interesse i corsi organizzati ed ora riesco a sfruttare le potenzialità dei due programmi e gestisco i documenti in modo più razionale e proficuo. Ho già chiesto di partecipare ai corsi avanzati”. Esempio 2 Livello C della competenza Sviluppo e diffusione del sapere Controllo “Prima quando non sapevo qualcosa cercavo di cavarmela chiedendo ai colleghi. È inutile nasconderlo: non mi piaceva sgobbare sui libri. Adesso, invece, studio a fondo i singoli casi e, prima di consultarmi con altri, mi impegno a cercare da solo le soluzioni, riuscendo a gestire il mio lavoro autonomamente. Spesso consulto testi specialistici per approfondire le materie che tratto e apprendere le novità del settore in cui lavoro”. 3. Dinamismo relazionale Le competenze raggruppate in questo cluster sono quelle legate alla relazione e hanno impatto immediato sulla qualità e sull’efficacia del rapporto interpersonale. La capacità di costruire relazioni positive e quella di comporre conflitti sono fondamentali sia per creare le condizioni più favorevoli ad un proficuo scambio comunicativo nei rapporti con i contribuenti, sia per instaurare un clima interno sereno, senza il quale il lavoro di gruppo e, in più in generale, la cooperazione stentano a produrre effetti significativi. Il dinamismo relazionale interagisce con quello cognitivo, dal momento che l’attitudine a porsi in modo non conflittuale nel rapporto con gli altri e con il mondo esterno influenza molto la capacità di comprendere pienamente la realtà circostante e i suoi mutamenti. Alla base del dinamismo relazionale si ritrova sempre un atteggiamento di fiducia e di sicurezza in se stessi, indispensabile per mettersi in gioco nel confronto con gli interlocutori, ed essere pronti a riconoscere, in un aperto scambio dialettico, la validità delle posizioni degli altri senza rinunciare a portare avanti le proprie tesi. Il cluster comprende tre competenze: Orientamento all’altro, Fare squadra e Flessibilità. DIZIONARIO DELLE COMPETENZE 3.1 Orientamento all’altro “È una persona che sa ascoltare e capire” oppure “è un tipo che si fa in quattro per aiutarti”. Sono queste, di solito, le espressioni che nel linguaggio comune designano “l’orientamento all’altro”. Lo si può definire come la capacità di stabilire relazioni costruttive con gli altri (contribuenti, colleghi, ecc.), cercando seriamente di comprenderne il punto di vista. Richiede un paziente lavoro su se stessi in una duplice direzione: sviluppo dell’autocontrollo e affinamento della sensibilità interpersonale. L’autocontrollo è necessario per evitare di farsi influenzare oltre misura dalle emozioni negative degli altri, precludendosi la possibilità di valutare obiettivamente la situazione e di trovare vie di sbocco al conflitto. La sensibilità interpersonale è la disposizione ad ascoltare e a porsi in sintonia con i pensieri, i sentimenti e le preoccupazioni degli altri. Nel rapporto con i contribuenti – che rappresenta il campo tipico di azione della competenza in esame – le due dimensioni appena delineate (l’una di interdizione dei propri impeti emotivi e l’altra di apertura ai sentimenti e alle idee altrui) appaiono strettamente intrecciate: l’autocontrollo serve ad impedire che i sentimenti negativi di ansia e di ira che il contribuente non di rado manifesta nel suo primo approccio all’ufficio inneschino negli operatori reazioni conflittuali destinate ad allontanare la soluzione dei problemi, se non addirittura a precluderla. La sensibilità interpersonale consente invece di captare e interpretare le preoccupazioni e le esigenze dei contribuenti, andando anche al di là della loro formulazione espressa (inevitabilmente non sempre chiara, dato il tecnicismo della materia). Costituiscono espressione di tale atteggiamento l’attitudine ad adattare lo stile di comunicazione alla tipologia degli interlocutori (consulente, piccolo imprenditore, pensionato ecc.) e, più in generale, l’impegno forte nell’attività di assistenza e informazione. Indicatori A. Si pone in modo brusco, arrogante o indisponente, come colui che detiene un “potere indiscusso” (e indiscutibile). Considera il contribuente come una fonte di “fastidi” inevitabili e non mostra alcuna disponibilità a comprenderne i problemi e a dare una mano per risolverli. Reagisce all’irritazione del contribuente aggredendolo. In generale, non pone attenzione a quanto gli altri affermano, né tanto meno ai sentimenti che essi provano. Questa difficoltà ad entrare in relazione con l’altro, lo induce a lavorare quasi esclusivamente “sulle carte”, evitando il più possibile il contatto diretto con gli interlocutori. Non si preoccupa di appurare se le informazioni che richiede al contribuente non siano già in possesso dell’Agenzia. B. Opera in maniera professionalmente corretta. Ascolta e dà informazioni esaurienti, fornendo, ad esempio, chiarimenti e spiegazioni precise sui modelli da compilare. Si dimostra rispettoso delle opinioni degli altri e disponibile a prenderne in esame senza preconcetti le argomentazioni. C. Profonde impegno nel servizio. Assiste il contribuente, fino ad occuparsi personalmente dei suoi problemi (ad esempio, invece di costringerlo a cercare informazioni 111 DIZIONARIO DELLE COMPETENZE 112 disseminate tra più uffici, telefona direttamente ai colleghi per acquisire quelle notizie e le comunica poi all’interessato). È prodigo di spiegazioni e motiva sempre chiaramente le proprie richieste, senza trincerarsi dietro criptiche citazioni normative. Adegua il proprio comportamento e lo stile di comunicazione alle caratteristiche dell’interlocutore, utilizzando modi e termini appropriati. Ascolta con attenzione le ragioni del contribuente, senza atteggiamenti di saccenza, e laddove non sia in grado di fornire compiuta risposta alle sue domande o alle sue osservazioni, non lo liquida frettolosamente, ma si assume l’impegno (che poi onora) di approfondire la questione e di comunicargli rapidamente la soluzione. D. Si mette dalla parte dell’altro. Eccelle nella sensibilità interpersonale: coglie subito le preoccupazioni che stanno alla base dei comportamenti altrui e ne comprende intimamente le ragioni, anche al di là della formulazione, non sempre chiara e precisa, che riescono a darne gli stessi interessati. Sa interpretare anche i “bisogni latenti” dei contribuenti e fornisce servizi non esplicitamente richiesti. È ineccepibile nell’autocontrollo e ne dà dimostrazione pratica riuscendo, per esempio, ad evitare la tipica trappola emotiva consistente nel trasformare l’irritazione o la rabbia del contribuente in un’occasione di risentita affermazione della propria autorità (ad esempio, fa “sbollire” un contribuente in preda all’ira, senza farne una questione di leso prestigio personale). Di seguito sono riportati alcuni esempi relativi alla competenza Orientamento all’altro. Esempio 1 Livello B della competenza Orientamento all’altro Controllo “Entrato nell’azienda, mostrai il tesserino e la lettera d’incarico dell’ufficio in modo che la parte sapesse che ero autorizzato, qual era il motivo della verifica e quali erano gli anni da sottoporre a verifica. Illustrai le modalità, i tempi della verifica e i momenti in cui avrei avuto bisogno della presenza del titolare dell’attività sottoposta a verifica, dichiarandomi disponibile a fornire ulteriori chiarimenti”. Esempio 2 Livello C della competenza Orientamento all’altro Servizi al contribuente “Venti giorni fa è arrivato un contribuente con una cartella relativa a una tassazione separata. Era convinto di non doverla pagare. Ho pensato che dovevo mettere il contribuente in condizione di comprendere il motivo per il quale doveva pagare quell’importo e gli ho illustrato in ordine i singoli passaggi. Ho cercato le informa- DIZIONARIO DELLE COMPETENZE zioni sul terminale, le ho stampate e le ho mostrate al contribuente. Gli ho spiegato che si trattava di un conguaglio d’imposta, perché l’importo trattenuto dal datore di lavoro era inferiore al dovuto. Per spiegarmi ho fatto ricorso ad un esempio pratico: ‘Ha presente la bolletta del gas? Il cliente versa degli acconti e poi alla fine dell’anno, se ha consumato di più, deve pagare un conguaglio. Lo stesso accade con le trattenute fatte dal datore di lavoro che sono dei versamenti in acconto’. Il contribuente si è convinto ed ha accettato visibilmente soddisfatto la mia risposta”. Esempio 3 Livello C della competenza Orientamento all’altro Servizi al contribuente “Il contribuente si presentò senza la cartella. Gli chiesi: ‘Di che anno è?’. Risposta: ‘L’ho ricevuta di recente’. ‘E cosa c’è scritto?’ ‘Non me lo ricordo’. Come inizio, non era male… Pensai allora di chiedergli: ‘Di che colore è?’ Di solito i contribuenti si ricordano del colore e in effetti se lo ricordava anche quel contribuente. Il colore mi fece pensare agli atti del registro. ‘Di quanti fogli è formata la cartella?’ ‘Un solo foglio.’ Il numero di fogli è indicativo della natura dell’avviso. Poteva essere un avviso di mora, perché, ad esempio, la correttiva ha un numero di fogli maggiore. Quindi gli chiesi: ‘Ha ricevuto altre cartelle di recente?’ ‘No’. La risposta non mi convinse perché le informazioni sembravano in contrasto tra loro. Ho fatto delle interrogazioni. Ebbi la conferma di ciò che pensavo: era un avviso di mora originato da una cartella relativa a una vecchia compravendita della quale il contribuente non si ricordava più. Stampai quello che appariva sul video e glielo consegnai, spiegandogli di cosa si trattava”. Esempio 4 Livello D della competenza Orientamento all’altro Servizi al contribuente “Un giorno è arrivata in ufficio una contribuente agitata e molto nervosa. Mi sono avvicinata e le ho chiesto se potevo aiutarla. Risposta: ‘Ho poco tempo a disposizione e devo prendere mio figlio all’uscita di scuola. Qui c’è una lunga fila e non riuscirò sicuramente a fare in tempo!’. La vedevo sempre più agitata. Ho cercato di calmarla un po’ dicendole: ‘Può passare avanti, se gli altri davanti a lei sono d’accordo.’ Nessuno però ha accettato di cederle il proprio posto nella fila. Sentivo che dovevo fare di tutto per aiutarla. ‘Mi lasci l’atto ed il suo numero di prenotazione. Ci penso io. Torni all’ora di chiusura e vedrà che la sua pratica sarà pronta.’ Quando la coda si esaurì, chiesi alla mia collega di sbrigare la pratica. La contribuente rimase molto sorpresa: ‘Non me lo sarei mai aspettato. Lei ha fatto per me qualcosa che nulla e nessuno la obbligava a fare’ ”. 113 DIZIONARIO DELLE COMPETENZE 3.2 Fare squadra 114 È la capacità di instaurare un rapporto permanente di collaborazione stretta con i propri colleghi in funzione di obiettivi comuni. Nelle organizzazioni il lavoro di gruppo (inteso non come soluzione transitoria ed occasionale limitata a particolari evenienze, ma come “mattone” dell’edificio organizzativo) non è stato sempre considerato con favore e lo si è anzi guardato a lungo con sospetto, nella convinzione che potesse solo attivare meccanismi di deresponsabilizzazione (“un lavoro di cui tutti sono responsabili, è un lavoro di cui nessuno più è responsabile”). Per molto tempo questo modello organizzativo ha avuto applicazione stabile ed estesa solo in miniera, dove la vita di ognuno è legata all’efficienza della squadra di cui fa parte e ai legami di solidarietà che la cementano (ed è infatti proprio dal lavoro in miniera che ha preso avvio in letteratura, attorno agli anni ’40 del ’900, una riflessione approfondita sui presupposti e sulle dinamiche del lavoro di gruppo, come modalità fondamentale di prestazione dell’attività lavorativa). Oggi, il lavoro di team si va progressivamente affermando come la soluzione più efficace per lo svolgimento di funzioni che hanno elevata complessità, forte varianza e stretta interdipendenza (tali sono, per lo più, le funzioni legate alla prestazione di servizi che richiedono il concorso coordinato di conoscenze altamente specialistiche e in continua evoluzione). Un team non vive, né tanto meno riesce a funzionare bene, se abbandonato alla spontaneità delle sue dinamiche interne. Da questo punto di vista, lavorare in team (che non è, giova ripeterlo, il convergere episodico di individualità che, terminato il compito, riprendono poi ognuna la propria strada) è tutt’altro che facile e “naturale” e, per certi versi presenta anzi difficoltà analoghe a quelle della quadratura di un cerchio. In altri termini, occorre che ciascuno dei componenti del gruppo accetti come compito proprio quello di disciplinare spinte contrapposte o comunque potenzialmente divergenti, senza però soffocare le energie di nessuno ed anzi assicurandone il pieno sviluppo. Cosa comporta tutto questo? Dare spazio ai talenti individuali, spegnendo però sul nascere eventuali competizioni destinate a corrodere lo spirito di gruppo. Richiamare, quando occorre, la necessità del rispetto degli obblighi comuni, evitando però di alimentare l’istinto gregario. Favorire lo scambio aperto di esperienze e conoscenze, senza però mai smarrire, nella discussione, l’urgenza ineludibile del momento decisionale. Coniugare, insomma, autonomia individuale e senso di appartenenza. In termini di comportamenti organizzativi, sono queste le condizioni che consentono ai componenti di un gruppo di operare efficacemente insieme. Indicatori A. Fa il “solista”. Preferisce lavorare da solo. Ritiene che lavorare con gli altri, soprattutto se più inesperti di lui, determini solo una perdita di tempo. Si limita a fare ciò che è di sua stretta competenza. È piuttosto geloso delle proprie conoscenze e tiene per sé informazioni che potrebbero invece essere utili anche ai colleghi. Chiede o dà aiuto agli altri solo se è inevitabile. Può capitare che manifesti in modo non appropriato opinioni diverse da quelle del collega anche davanti al contribuente, senza preoccuparsi dell’impatto negativo che ciò può avere per l’immagine dell’Agenzia. DIZIONARIO DELLE COMPETENZE B. Collabora. Ha un atteggiamento positivo verso il lavoro di gruppo (per esempio, aiuta i colleghi in difficoltà). Di fronte ai contribuenti, tende sempre a sottolineare le posizioni su cui concordano i componenti del team e se deve evidenziare eventuali divergenze interne, lo fa comunque con toni misurati, spiegando come la diversità dei punti di vista sia obiettivamente giustificata dall’opinabilità della materia. Mette in comune le informazioni di cui dispone e mantiene aggiornati i colleghi. C. Fa lavoro di squadra. Agisce in sintonia con i colleghi, concordando con loro piani di azione e sollecitandone il contributo. Partecipa attivamente con il proprio lavoro e con la propria esperienza al raggiungimento degli obiettivi del gruppo. Offre spontaneamente il proprio aiuto, senza aspettare che i colleghi glielo chiedano. Si confronta con i componenti del team mettendo a disposizione informazioni e conoscenze per sviluppare insieme nuove idee e realizzare progetti. D. Fa da punto di riferimento nel gruppo. È convinto che il singolo possa vincere solo insieme alla squadra e, di conseguenza, fa di tutto per formarla. Instaura un rapporto di fiducia con i colleghi, cerca un approccio comune alle situazioni, difende le posizioni del gruppo, favorisce lo scambio sistematico delle informazioni all’interno della squadra, promuove la ricomposizione dei diversi punti di vista tra i colleghi con l’intento sia di rendere più efficace l’azione comune, sia di trasmettere all’esterno un’immagine di unità e di coesione tale da rafforzare il prestigio del gruppo. Di seguito sono riportati alcuni esempi relativi alla competenza Fare squadra. Esempio 1 Livello B della competenza Fare squadra Consulenza giuridica “Un collega impegnato in un accertamento riguardante una cessione di azienda fatta da un minore, mi chiede: ‘Non so dove trovare riferimenti normativi per questo caso. Cerchiamo di vedere insieme cosa possiamo fare’. Non avevo la risposta pronta. Abbiamo letto il TU, il codice commentato, il manuale di diritto civile. Abbiamo collegato due norme ed elaborato insieme la soluzione. Andrà dal suo capo con la nostra proposta. Mi ha ringraziato, era soddisfatto”. Esempio 2 Livello C della competenza Fare squadra Controllo “Se sono in verifica con un collega meno esperto devo fargli capire il motivo di certe scelte e di determinati comportamenti. Spendere un po’ di tempo per trasferire conoscenze non allunga invano i tempi di lavoro: non sono geloso di quel- 115 DIZIONARIO DELLE COMPETENZE 116 lo che so. Non penso mai che un collega meno esperto possa dire stupidaggini, qualsiasi idea può essere utile. Quindi tutto il lavoro viene fatto insieme e c’è un effettivo scambio di informazioni. Bisogna dare un’immagine di coesione e di unitarietà di fronte al contribuente, stando bene attenti ad evitare che chi guarda dall’esterno pensi che il gioco prevalente nel nostro gruppo sia quello di gareggiare a chi è più bravo”. 3.3 Flessibilità Nel linguaggio comune, una persona flessibile è quella che “si sa adattare” alle circostanze. L’espressione può essere accettata, purché non le si dia una connotazione di “adeguamento passivo” o, peggio, “camaleontico” alle dinamiche del cambiamento. In un contesto organizzativo in evoluzione, la flessibilità esprime piuttosto la versatilità a lavorare in differenti situazioni o con diverse persone o gruppi, nella convinzione di ampliare così il proprio bagaglio professionale e di acquisire, fino a rendersene padroni, nuovi e più produttivi schemi di organizzazione del lavoro (rientrano, ad esempio, fra questi schemi l’integrazione delle professionalità nel lavoro di team e lo sviluppo della polifunzionalità nelle attività di base). Oltre alla capacità di comprendere le logiche secondo cui evolvono le situazioni, la flessibilità implica anche una disponibilità di fondo ad apprezzare – senza preclusioni e rigidità – differenti o contrastanti prospettazioni di un problema, mostrandosi aperti al confronto e pronti a riconoscere la validità delle tesi altrui, invece di arroccarsi in atteggiamenti di difesa ad oltranza delle proprie tesi quando queste vengono poste in discussione con argomenti convincenti. Indicatori A. È avverso ai cambiamenti. Rimane caparbiamente attaccato alle proprie idee anche contro l’evidenza dei fatti e non fa alcuno sforzo per comprendere punti di vista diversi dal suo. È restio ad assumere nuovi compiti. È ostile ai cambiamenti che vede come una minaccia al proprio consolidato modo di lavorare. B. Si uniforma al cambiamento. Avverte il cambiamento come una necessità dettata dal mutare delle situazioni e alla quale non può sottrarsi. È comunque disponibile a confrontarsi apertamente, senza preconcetti e pregiudizi, con nuove idee e a prendere in seria considerazione la possibilità di modificare schemi e atteggiamenti consolidati. Nelle trasformazioni in atto, l’aspetto cui presta maggiore attenzione non è però tanto quello della comprensione delle logiche sottostanti, ma, piuttosto quello della conformità estrinseca alle prescrizioni e alle procedure, che non gli sembrano mai abbastanza “chiare e precise”. C. Accoglie con favore il cambiamento. Vive positivamente la trasformazione dei compiti e degli schemi di lavoro, interpretandoli, in primo luogo, come una risposta all’esi- DIZIONARIO DELLE COMPETENZE genza di migliorare i servizi nell’interesse della collettività, e, in secondo luogo, come una preziosa opportunità di arricchimento professionale. Nell’applicazione delle regole e delle procedure, dà prova di duttilità, evitando inutili formalismi e cavilli burocratici e adottando, fra più opzioni tutte legittime, quella meglio rispondente agli obiettivi da perseguire e più ragionevole ed equilibrata sotto il profilo della ponderazione degli interessi in gioco. D. Promuove il cambiamento. Modifica i propri programmi adattandoli all’evoluzione del contesto. Coinvolge i colleghi per facilitare la diffusione del cambiamento, senza scoraggiarsi di fronte ad ostacoli e imprevisti. Promuove nuove soluzioni operative volte a favorire la trasformazione dei modelli organizzativi e degli schemi di lavoro. Mostra forte propensione al cambiamento, senza però cadere in atteggiamenti acritici che eludono le difficoltà ed evitano il necessario confronto con persone di diverso orientamento e approccio rispetto ai processi di trasformazione in atto. Di seguito è riportato un esempio relativo alla competenza Flessibilità. Esempio 1 Livello C della competenza Flessibilità Riscossione “Stavo lavorando su un fallimento, quando mi sono resa conto che mancavano diversi dati. A questo punto ho contattato il curatore che ci ha aiutato a ricostruire molti dati. Ho deciso di convocarlo informalmente, evitando di seguire l’iter procedurale classico (la formalizzazione ufficiale dell’atto) che avrebbe sicuramente allungato i tempi se il curatore lo avesse impugnato. Questa scelta mi ha consentito di accorciare il procedimento e di emettere un atto che ha avuto buon fine”. 4. Leadership Per leadership si intende qui la capacità di pianificare e coordinare l’attività di un gruppo di persone per raggiungere gli obiettivi assegnati. Il leader può anche non avere un potere gerarchico. L’autorità che gli è riconosciuta deriva principalmente dalla sua autorevolezza, cioè dalle sue riconosciute capacità di gestione, dalla sicurezza che dimostra di avere dentro di sé e che sa infondere negli altri nelle situazioni critiche, dall’abbinamento, infine, di un elevato livello di conoscenza tecnico-professionale con l’attitudine a trasferirla e diffonderla nei colleghi e, più in particolare, nei componenti del gruppo che gli è stato affidato. I comportamenti tipici di questo cluster trovano analitica descrizione nelle competenze Team building (Organizzazione e sviluppo di un gruppo) e Influenza. 117 DIZIONARIO DELLE COMPETENZE 4.1 Team building (Organizzazione e sviluppo di un gruppo) 118 È la capacità di guidare un gruppo e di indirizzarne l’azione al raggiungimento degli obiettivi. In termini di “saper fare”, i tratti che denotano in modo caratteristico il possesso di tale capacità sono: • saper pianificare, organizzare e monitorare il lavoro del gruppo, mantenendone e rafforzandone la coesione interna; • saper svolgere un paziente e metodico lavoro di diffusione delle conoscenze all’interno del gruppo, sviluppandone la professionalità. Di seguito vengono descritti gli indicatori comportamentali relativi ai diversi livelli di intensità della competenza in questione. In estrema sintesi, il livello A si distingue essenzialmente da quello B, per il fatto che mentre nel primo le risorse del gruppo non vengono utilizzate (le potenzialità del gruppo sono come “sprecate”), nel secondo sono invece impiegate, seppure senza sfruttarle totalmente. Nel livello C vi è un’utilizzazione ottimale o comunque più che soddisfacente del gruppo (in termini matematici, si direbbe che si “saturano” le capacità attuali del gruppo), mentre nel livello D il gruppo viene portato, per così dire, “al di là di se stesso”, nel senso che si va oltre la meta di utilizzarlo appieno nel suo attuale valore, e si punta invece ad accrescere in misura significativa tale valore (in questa prospettiva, il teamleader eccellente è quello che consegna al suo successore un team molto più motivato ed efficiente di quello che gli era stato affidato). Indicatori A. Non sa gestire il gruppo. Non ha abilità organizzativa. Non definisce piani d’azione per il gruppo, né individua in modo chiaro le priorità; oppure le cambia inopinatamente, senza adeguata motivazione e senza considerare le implicazioni delle sue scelte sulle attività del gruppo, che viene ad esserne disorientato. Non si preoccupa di verificare se il livello delle conoscenze del gruppo è sufficiente a svolgere con efficacia i compiti assegnati. B. Sa gestire il gruppo. Propone al gruppo obiettivi chiari e ne organizza l’azione definendone le priorità. Si accerta che il gruppo possieda le informazioni e le conoscenze sufficienti per agire in modo corretto ed efficace. C. Ottimizza le attività del gruppo. Intraprende azioni specifiche per accrescere quanto più possibile il livello di operatività del gruppo. Per esempio, pianifica in modo molto accurato le attività, assegna compiti calibrati rispetto alle capacità dei singoli, fornisce strumenti e risorse per l’organizzazione del lavoro, attiva iniziative di formazione, curandone anche personalmente lo svolgimento. D. Fa crescere il gruppo, curandone il clima interno. È attento ai fattori che possono favorire o compromettere l’armonia tra i componenti del gruppo. Facilita e promuove lo scambio di informazioni e di conoscenze all’interno del gruppo e tiene abitualmente riunioni per comunicare l’andamento delle attività e dei risultati. Ricerca attivamente il contributo di tutti per migliorare l’efficacia del gruppo e valorizzare le competenze di ciascuno. DIZIONARIO DELLE COMPETENZE Di seguito sono riportati alcuni esempi relativi alla competenza Team building. Esempio 1 Livello C della competenza Team building “Ho pensato di fornire ulteriori elementi affinché gli operatori si potessero sentire più preparati per rispondere ai quesiti durante il periodo delle dichiarazioni. Nelle ore che precedono il servizio ho fatto un lavoro di lettura del modello unico. È scritto in modo molto tecnico e ho capito che dava luogo a difficoltà di comprensione. Ho chiesto: volete che lo leggiamo insieme? Sono stati contenti, hanno imparato tanta nuova terminologia. Alla fine mi hanno ringraziato”. (Team leader di un call center) Esempio 2 Livello D della competenza Team building “Ho messo nella stessa stanza persone che provenivano dalle IIDD con altre provenienti dall’IVA perché potessero imparare le une dalle altre. Io per primo, che provengo dal mondo IVA, mi sono messo in stanza con un collega che veniva dalle IIDD. Questo però non bastava per assicurare un’efficace organizzazione interna del gruppo. In passato il funzionario faceva l’accertamento a mano e lo passava al terminalista che lo inseriva a sistema. Oggi il funzionario deve farlo da solo e se non ha perciò familiarità con un computer il lavoro si blocca. Mi sono quindi messo a fianco di persone che non conoscevano il computer e ho insegnato loro ad usarlo”. (Capo del team legale di un ufficio locale) 4.2 Influenza È la capacità di sostenere con successo le proprie tesi e di convincere gli interlocutori della loro fondatezza. L’influenza è un aspetto importante della leadership, dal momento che la possibilità di ottenere dagli altri sostegno e collaborazione dipende in larga misura dalla propria capacità di persuasione. Questa competenza attinge sia alla ricchezza dell’emotività che alle risorse dell’intelligenza. Sotto il primo aspetto è richiesta, infatti, una sensibilità particolare (la si chiama talora “empatia”) per riuscire a percepire, magari da dettagli apparentemente poco significativi, quali siano le preoccupazioni e le esigenze (non sempre chiaramente esplicitate) da cui l’interlocutore è mosso, in modo da selezionare di conseguenza i canali comunicativi e il linguaggio più appropriati al contesto della discussione. Sempre sotto l’aspetto emotivo, è indispensabile inoltre forza di carattere e autocontrollo, per mantenere calma e sicura l’esposizione del proprio punto di vista, specie quando incontra opposizioni più o meno forti. 119 DIZIONARIO DELLE COMPETENZE 120 Per quanto invece riguarda il versante più strettamente intellettuale, la capacità di convincere richiede attitudine ad argomentare la propria posizione in modo chiaro e coerente e a controbattere tempestivamente con ragionamenti validi e pertinenti le altrui obiezioni. Nella graduazione della competenza in esame occorre quindi tenere al tempo stesso conto di due fattori: • maggiore o minore sensibilità e padronanza emotiva richieste per far fronte all’ambiguità, all’imprevedibilità e allo stress propri della situazione in cui deve esercitarsi lo sforzo di convinzione degli interlocutori; • maggiore o minore complessità intellettuale degli argomenti che, nel contesto di riferimento, è necessario produrre per convincere gli interessati. Indicatori A. Non è capace di convincere. Ha difficoltà a sostenere una tesi e ad argomentarne con chiarezza e con tratto sicuro i punti salienti. Può essere, ad esempio, prolisso, pedante o troppo assertorio nell’esposizione, indisponendo l’interlocutore, oppure si presenta in modo titubante e mostra poca convinzione nelle proprie opinioni. In definitiva, non sa con-vincere e riesce solo a vincere, quando può eventualmente appellarsi al ruolo formale rivestito. B. In situazioni normali sa convincere. Nelle situazioni che non presentano particolare complessità per le variabili in gioco e nelle quali il confronto con gli interlocutori si evolve in modo abbastanza conforme alle previsioni iniziali, senza assumere forte coloritura emotiva, riesce a produrre argomenti chiari e plausibili, che trovano il consenso degli interessati. C. Ha buone capacità dialettiche. Riesce in genere a prevedere le mosse dell’interlocutore e ne tiene conto nell’elaborazione e nello svolgimento delle proprie argomentazioni. Non rimane comunque smarrito di fronte a obiezioni non previste, anche laddove investano questioni complesse, ma reagisce prontamente, sfoderando argomenti persuasivi. D. Attua strategie di persuasività. Programma e mette in atto, anche in situazioni di particolare complessità, più iniziative coordinate, volte, nel loro insieme, a influenzare e convincere gli interessati. Sa rapportarsi ad una molteplicità, anche assai eterogenea, di interlocutori diversi, mostrando notevole abilità nella scelta e nella modulazione dello stile comunicativo e degli schemi argomentativi per persuadere coloro che ha di fronte. Di seguito sono riportati alcuni esempi relativi alla competenza Influenza. Esempio 1 Livello C della competenza Influenza Consulenza giuridica “Nel corso di un’udienza l’avvocato del contribuente ha eccepito il vizio della mancata costituzione in giudizio dell’ufficio. Il momento era delicato, perché DIZIONARIO DELLE COMPETENZE l’ufficio in effetti non si era fino allora costituito e la posizione dell’Amministrazione appariva a quel punto compromessa. Ma ho avuto la prontezza di sfruttare il fatto che la parte aveva chiesto la pubblica udienza. Sono intervenuto al dibattimento sostenendo che, secondo la normativa vigente, chi è presente in aula può parlare. Facendo poi appello alle mie conoscenze ho aggiunto: ‘L’ufficio può costituirsi anche in udienza: è un principio di diritto civile applicabile anche al processo tributario’ ”. Esempio 2 Livello D della competenza Influenza Servizi al contribuente “Nel mio ufficio c’erano cinque sportelli dedicati a cinque servizi diversi. Quattro su cinque avevano un flusso contenuto di contribuenti mentre uno aveva sempre persone in coda. La situazione era insostenibile: presso uno sportello si lavorava senza tregua, negli altri c’erano parecchi tempi morti. Ho segnalato al Capo Area questa criticità. Sapevo che non sarebbe stato facile parlare di polifunzionalità, cioè della possibilità di distribuire tutte le attività su più sportelli, perché da parte degli operatori c’era la paura di dover svolgere compiti nuovi e quindi di sbagliare. Bisognava superare le resistenze interne. Dopo i corsi, al momento dell’avvio dello sportello polifunzionale, ho coinvolto il collega che tra i cinque addetti allo sportello mi sembrava più convinto della bontà dell’operazione. Gli dissi: ‘Domani facciamo in questo modo: apriamo quattro sportelli su cinque e tu parti con quello polifunzionale. Ognuno degli altri quattro colleghi liberi osserverà a turno come lavori. Vorrei che si capisse che il lavoro allo sportello polifunzionale è fattibile e che variare attività durante la giornata può rappresentare un arricchimento professionale’. Il giorno dopo abbiamo fatto come concordato e, pure in un momento di picco d’affluenza, ho notato che gli altri colleghi che hanno ruotato come osservatori sembravano meno intimoriti. Ho continuato l’esperimento per una settimana e al termine, alla mia richiesta di aprire a turno uno sportello polifunzionale, nessuno si è tirato indietro”. 121 APPENDICE 123 APPENDICE 125 1. Testare la competenza invece dell’“intelligenza”* L’avvio del cosiddetto “Movimento delle competenze” viene generalmente fatto risalire ad un famoso articolo di McClelland del 1973, dal titolo Testing for Competence Rather Than for “Intelligence”, che si può tradurre: Testare la competenza invece dell’“intelligenza”. È da notare che nel titolo dell’articolo la parola “intelligenza” è riportata fra virgolette, poiché McClelland intendeva riferirsi non all’intelligenza in sé, ma all’intelligenza quale pretendevano di misurare i tradizionali test di abilità intellettiva. Leggendo l’articolo, si incontrano di continuo frasi come “predict (predire) la performance superiore” e “individuare predictors (indicatori) di performance superiore”. Le parole predict e predictors, e altre simili, costituiscono tipiche espressioni di una ricerca che ambisce ad essere scientificamente valida, dal momento che la validità di una teoria scientifica risiede appunto nella sua capacità di prevedere, sulla base di determinate ipotesi esplicative, un certo corso di eventi. L’articolo apparve sulla rivista American Psychologist (1973, n. 1, pp. 1-14), pubblicata dall’Associazione degli psicologi americani. Quasi venti anni dopo, la stessa rivista (1991, n. 10, pp. 1012-1024) pubblicò un articolo dal titolo A Reconsideration of Testing for Competence Rather Than for Intelligence, di Gerald V. Barrett e Robert L. Depinet, nel quale gli autori, dopo aver riconosciuto la vasta adesione che aveva nel frattempo avuto l’impostazione di McClelland, la sottoponevano ad una analisi fortemente critica, riaffermando la tesi che i tradizionali test di abilità intellettiva rappresentavano i migliori predittori del successo nel lavoro e non davano luogo a discriminazioni a danno delle minoranze, delle donne e dei ceti sociali meno abbienti. Tre anni dopo, sempre in quella rivista (1994, n. 1), apparvero le risposte di Boyatzis (Rendering Unto Competence the Things That Are Competent, pp. 64-66) e dello stesso McClelland (The Knowledge-Testing-Educational Complex Strikes Back, pp. 66-69), assieme alla controreplica di Barrett (Empirical Data Say it All, pp. 69-71). Per il suo elevato tecnicismo, non avrebbe senso dibattere ulteriormente in questa sede una problematica – peraltro solo collaterale all’oggetto principale di questo manuale – qual è quella del valore pre- * Vengono qui approfonditi temi trattati a p. 17. APPENDICE 126 dittivo che i cosiddetti test d’intelligenza hanno rispetto al successo delle prestazioni di lavoro (problematica invece molto viva negli Stati Uniti, dove quei test hanno da tantissimo tempo una enorme rilevanza sociale che in Italia non hanno mai avuto). Di sfuggita si può qui solo osservare che, secondo un’opinione comune – banale quanto si vuole, ma non per questo meno vera –, il più bravo chirurgo di un ospedale (per citare solo un esempio) difficilmente potrà anche esserne il miglior direttore (non di rado, anzi, si rivela un mediocre se non un pessimo direttore ospedaliero), poiché, come si dice, si tratta di mestieri molto diversi. È indubbio che occorrono elevate capacità intellettive per svolgere sia l’uno che l’altro mestiere, ma ci deve essere allora qualcos’altro che spiega perché un eccellente chirurgo è spesso incompetente per il lavoro di direttore sanitario. Ebbene, come possono cogliere questo “qualcos’altro” test puntati solo a rilevare l’“intelligenza”? Può essere utile, infine, una precisazione terminologica. In inglese esistono due vocaboli – “competence” e “competency” – al posto dell’unico vocabolo italiano “competenza”. Nell’uso comune, queste due parole inglesi hanno lo stesso significato (l’unica differenza è che competence è più frequente di competency). Nell’approccio di McClelCompetency (competencies) → Competence land, il termine competency ha invece un significato tecnico: è una categoria di comportamenti dai quali dipende il giudizio se la persona abbia o no competence nel lavoro (Competence at Work è appunto il titolo del libro di Spencer & Spencer più volte citato, che non si chiama infatti “Competency at Work”, mentre il Dizionario generale delle competenze contenuto in quel libro si chiama “Competency Dictionary” e non “Competence Dictionary”). La competency – o, più precisamente, un insieme di competencies (che è il plurale di competency, mentre il plurale di competence è competences) – è la causa della competence lavorativa. In una sua intervista, McClelland spiega così la cosa: “‘Competency’ è un termine che abbiamo introdotto in sostituzione della parola più breve: ‘skill’ (capacità). Negli Stati Uniti si può frequentare un istituto tecnico professionale per imparare il mestiere di addetto a una stazione di servizio. Si apprende a svitare tappi, mettere la benzina, e così via. Ma in base alle mie osservazioni, tutto questo è relativamente poco importante per determinare quanto spesso un automobilista si fermerà a una stazione di servizio. È più importante che l’operatore sorrida al cliente o abbia invece un fare accigliato. Così abbiamo sviluppato una competency chiamata ‘orientamento al customer service’, che copre un ampio spettro di modalità di ‘being nice to customers’ (‘essere gentili con i clienti’). La chiamammo una ‘competency’ perché è ovviamente qualcosa di più che delle semplici ‘skills’. Essa copre una varietà di tipi di azioni, ognuno dei quali è incluso nella definizione che nel dizionario si dà di quella particolare competency. Ci sono specifici comportamenti behind (dietro) ogni competency e sono tutti suscettibili di osservazione”71. 71 L’intervista fu rilasciata da McClelland nel 1997, l’anno prima della sua morte. Il testo completo è consultabile su Internet: http://competencyandei.com/Interview-with-David-McClelland. APPENDICE 2. I “superior performers” e il concetto di deviazione standard* Nella letteratura la nozione di superior performers è collegata al concetto statistico di deviazione standard. I superior performers sono coloro che eseguono performance pari a una deviazione standard al di sopra della La statistica performance media, collocandosi quindi – in una distribuzione normale a 4 fasce (inferiori, Sai ched’è la statistica? È na cosa che serve pe’ fa’ un conto in generale medio-inferiori, medio-superiori, superiori) – de la gente che nasce, che sta male nella fascia “top” del 15% dei componenti di che more, che va in carcere e che spòsa. Ma pe’ me la statistica curiosa un’organizzazione. La nozione di deviazione è dove c’entra la percentuale, standard può essere resa facilmente comprensipe’ via che, lì, la media è sempre eguale bile ricordando il noto apologo di Trilussa puro co’ la persona bisognosa. Me spiego: da li conti che si fanno secondo cui se una persona mangia due polli e secondo le statistiche d’adesso una non ne mangia nessuno, per la statistica risurta che te tocca un pollo all’anno: conterebbe solo questo: che le due persone hane, se nun entra ne le spese tue, t’entra ne la statistica lo stesso no mediamente mangiato un pollo a testa. L’eperché c’è un antro che ne magna due. quivoco non sarebbe possibile se, insieme alla Trilussa media, fosse anche indicata una misura della dispersione rispetto alla media, una misura cioè di quanto, mediamente, i valori dati si discostino dalla loro media. In statistica, la misura generalmente utilizzata per calcolare la dispersione di una serie di valori rispetto alla media è appunto la deviazione standard72. * Vengono qui approfonditi temi trattati a p. 18. 72 La deviazione standard (indicata con la lettera greca σ, cioè sigma minuscolo) è uguale alla radice quadrata della media aritmetica della somma dei quadrati degli scarti dei valori dalla media. Sentendo questa formula, e ancor più leggendo come si scrive: è possibile che il lettore non avvezzo alle tecniche statistiche sia tentato dallo stesso atteggiamento cui desiderava abbandonarsi il maresciallo Göring quando sentiva parlare di “cultura”: mettere mano alla fondina della pistola. Riflettendoci un po’ sopra, la cosa è però alla fine meno complicata di quanto potrebbe sembrare, e del resto il concetto di deviazione standard è di uso diffusissimo nei sistemi di valutazione, sicché vale la pena dedicarvi uno sforzo minimo per acquisirne sufficiente padronanza. Se abbiamo 3 valori – ad esempio 3, 4 e 8 – la loro media aritmetica è 5. Di quanto si scostano mediamente questi tre valori dalla media? Rispetto a 5 (che è appunto la media) 3 ha uno scarto di 2, 4 uno scarto di 1 e 8, infine, uno scarto di 3 (è chiaro che bisogna tenere qui conto solo dei valori assoluti, poiché altrimenti la loro somma – cioè +2, +1, -3 – non potrebbe che dare 0). Se sommiamo questi tre scarti (2+1+3) e dividiamo la somma per 3, otteniamo uno scostamento medio di 2 (in statistica si chiama “scostamento semplice medio”). Gli statistici, però, invece di sommare gli scarti semplici dei valori dalla media, preferiscono sommare i quadrati degli scarti dalla media. Nel nostro caso la somma degli scarti sarebbe: 22+12+32 = 14. Dopo di che si divide la somma per 3 e se ne estrae la radice quadrata: il risultato è 2,16. Questa è la deviazione standard e il calcolo che abbiamo appena fatto altro non è che l’applicazione della formula – apparentemente tanto astrusa – riportata all’inizio di questa nota. Ma perché gli statistici preferiscono sommare i quadrati degli scarti dalla media, anziché gli scarti semplici? Con l’operazione di elevamento al quadrato degli scarti, l’effetto matematico è di amplificare notevolmente il peso degli eventuali valori anomali in una distribuzione di dati (valori anomali sono quelli che si discostano molto dalla media aritmetica e quindi dalla netta maggioranza dei valori della distribuzione stessa), facendo così spostare verso di essi l’indice di variabilità. Di 127 APPENDICE 128 Se è concettualmente chiara la nozione di superior performers, potrebbe però sembrare un punto debole della ricerca di McClelland il fatto che egli abbia demandato all’Amministrazione il compito di individuare in concreto il campione dei superior performers. In altre parole, chi ci dice che l’Amministrazione non potesse sbagliare in questa opera di individuazione, segnalando come superior performer chi in realtà non lo era e omettendo invece di segnalare persone che lo erano veramente? Naturalmente, l’errore singolo è sempre possibile, ma – a parte la considerazione che non si vede chi potesse mai ritenersi abilitato a fare quella scelta in alternativa all’Amministrazione – McClelland non ha lavorato con singoli superior performers, ma con gruppi statisticamente significativi73, che non comprendevano solo persone caratterizzate da elevata performance, ma anche average performers. Va inoltre osservato che il metodo dell’intervista BEI stabilisce che gli intervistatori non debbano conoscere a quale campione appartenga la persona intervistata, proprio per evitare condizionamenti di giudizio nello svolgimento dell’intervista e nella sua successiva codifica74. Un metodo di individuazione delle competenze che prescinde da una previa individuazione di best performers e di average performers è quello dell’analisi funzionale, che ha però l’inconveniente di individuare solo le competenze soglia, ma non le competenze distintive (quelle cioè che spiegano la performance superiore). Si tratta quindi di un metodo che, se ha il vantaggio di non richiedere una individuazione a priori dei bravi e dei meno bravi, ha però il torto di non consentire questa individuazione neanche a posteriori. La questione viene meglio chiarita a p. 131. Un altro approccio, molto originale, che non richiede di individuare preventivamente un campione di best performers è quello di un ricercatore svedese, Jörgen Sandberg, che ha fatto uno studio presso gli stabilimenti Volvo coinvolgendo un gruppo di ingegneri impegnati nel lavoro di ottimizzazione dei motori. Intervistando un campione significativo di questi ingegneri, Sandberg scopre che essi non hanno la stessa concezione conseguenza, la deviazione standard assume valori tanto più elevati dello scostamento semplice medio, quanto maggiore è lo scarto tra i valori anomali della distribuzione e la media aritmetica. In sostanza, la deviazione standard è – rispetto allo scostamento semplice medio – un indice di variabilità che meglio rappresenta l’esistenza di valori anomali all’interno di una distribuzione. Nell’esempio che abbiamo fatto, la deviazione standard è 2,16, e quindi è di pochissimo superiore allo scostamento semplice medio. La forbice tenderebbe a crescere, e di molto, quanto più fosse anomala la distribuzione dei dati. Torniamo ora all’apologo di Trilussa. Lì, se facciamo i conti, la deviazione standard è 1. Domanda: 1 è un valore basso o elevato? Dare una risposta in assoluto non avrebbe senso: essa dipende, evidentemente, dal valore della media da cui ci si discosta. Poiché in quel caso la media è anch’essa pari a 1, una deviazione standard uguale a 1 sta a significare che i due valori posti a raffronto (due polli e zero polli) hanno uno scarto in più o in meno rispetto alla loro media che è uguale a ben il 100% della media stessa (in statistica il rapporto fra deviazione standard e media aritmetica si chiama “coefficiente di variazione”). Si tratta quindi di una deviazione standard notevolmente alta. Ecco allora spiegato l’equivoco in cui cade Trilussa. Non è affatto vero che la statistica assimila indebitamente situazioni diverse, perché la statistica non lavora solo con il concetto di media, ma anche con quello di dispersione rispetto alla media. La situazione A in cui due italiani mangiano effettivamente ognuno il proprio pollo e la situazione B in cui un italiano mangia due polli e l’altro nessuno, sono sì uguali sotto l’aspetto della media aritmetica (è 1 in entrambi i casi), ma non lo sono affatto sotto l’aspetto della deviazione standard (è 0 nel primo caso e 1 nel secondo). 73 I criteri sono dettagliatamente esposti da Spencer & Spencer, op. cit., p. 97 dell’edizione originale. 74 Si tratta del procedimento del doppio cieco, in cui il ricercatore direttamente a contatto con il soggetto non è a conoscenza (al pari del soggetto stesso) del gruppo sperimentale cui il soggetto è assegnato. APPENDICE di lavoro. In altre parole, alcuni di loro ritengono che “ottimizzare bene” i motori richieda un ottimizzatore con determinate caratteristiche (conoscenze, capacità e altri attributi), mentre altri ingegneri del gruppo campione ritengono che il “bravo ottimizzatore” ne debba avere delle altre. Scavando più in profondità, Sandberg ritiene di poter arrivare alla conclusione che le concezioni di lavoro sottese all’attività degli ingegneri intervistati sono fondamentalmente tre (lo studio di Sandberg viene meglio analizzato più avanti). Domanda: qual è la concezione migliore? La questione è cruciale, poiché Sandberg parte dall’assunto implicito che chi ha la concezione di lavoro migliore realizzerà anche la performance migliore (assunto sicuramente problematico, poiché non spiega come mai a parità di concezione di lavoro, le performance possano poi essere molto diverse), e sarà quindi anche il best performer. Come risponde Sandberg a questa domanda? Con l’ipotesi della “inclusività” delle concezioni di lavoro: la concezione migliore è quella che incorpora le altre, come in una specie di matrioska. La conclusione lascia perplessi. In primo luogo, va notato che quando Sandberg cerca un riscontro empirico della sua ipotesi, non fa altro che ricorrere alla classica peer evaluation, cioè alla “valutazione dei colleghi”. Ma se è la valutazione di persone competenti (in questo caso non i capi, ma i colleghi) a dover alla fine stabilire chi è più bravo, che problema c’è a partire fin dall’inizio con questa valutazione, sia pure sottoponendola poi al vaglio critico della riflessione negli expert panels? In secondo luogo: è proprio vero che fra le diverse concezioni di lavoro in una organizzazione è sempre possibile trovare questo magico rapporto di inclusività o non si tratta invece spesso di concezioni in conflitto fra le quali occorre scegliere per individuare qual è quella migliore ai fini della performance superiore? E se è così, perché non partire dal dato empirico dell’esistenza di best performers (siano essi individuati da capi, colleghi o clienti, o attraverso un mix di queste fonti di giudizio), sia pure – è bene ripeterlo – con la successiva revisione critica ad opera degli expert panels? 3. La distinzione fra competenze e risultati* Fra competenze e risultati viene fatta spesso una distinzione analoga a quella fra mezzi e fini. Se i risultati rappresentano cosa bisogna fare, le competenze indicano come (cioè con quali comportamenti) si riesca a raggiungerli. Questa distinzione può dare luogo a un duplice malinteso. Il primo è di pensare che ciò che conta è alla fine sono solo i risultati, sicché il discorso sulle competenze avrebbe, tutto sommato, importanza solo secondaria. Il secondo malinteso – corollario del primo – è che, assumendo come essenziali solo i risultati e avendo le competenze caratteristiche meno tangibili (e quindi meno “oggettive”) dei risultati, occorrerebbe limitarsi alla considerazione di questi ultimi, evitando di soffermarsi sulle competenze. I malintesi nascono dal fatto che non si tiene conto della distinzione fra risultati a breve e risultati a medio e lungo termine. Prestare attenzione alle competenze, significa focalizzare l’aspetto chiave della continuità e del miglioramento progressivo dei risultati: “Se, per esempio, hai venduto e acquisito un ordine, hai un sicuro * Vengono qui approfonditi temi trattati a p. 22. 129 APPENDICE 130 risultato, che finisce nel tuo budget e che ti rende felice. Ma la domanda però è: ‘come’ hai venduto. Qui si aprono altre domande: il cliente è soddisfatto? Il cliente continuerà ad essere soddisfatto? Il cliente saprà adoperare bene ciò che ha acquistato? Gli hai venduto ciò che gli serve davvero, o solo ciò che ti ha chiesto? E poi: hai accumulato conoscenza e competenza sul suo processo di acquisto, sulla tua argomentazione di vendita, sulla qualità del tuo processo di vendita? E poi la tua vendita ha utilizzato il prodotto a magazzino? Ha utilizzato una standardizzazione a monte, per customizzare a valle? Ha ridotto lo spreco del tuo assortimento? Gli ha ‘venduto’ – oltre al prodotto, alla sua prestazione, alla sua funzione d’uso – anche una relazione affidabile, una integrità? Così la tua azione ha prodotto, oltre a un risultato visibile, una pluralità di effetti secondari che – nel tempo – costituiranno un patrimonio: il valore sta qui” (U. Capucci, La generazione di valore nella società della conoscenza, in FOR, Rivista per la formazione, FrancoAngeli, n. 62, gennaiomarzo 2005, p. 7). Insomma, se si allarga lo sguardo oltre l’arco del breve periodo, si può dire che le competenze sono in qualche modo esse stesse risultati. La distinzione netta fra il cosa e il come viene quindi a sfumare, e le competenze si affermano come il reale valore di un’organizzazione nel tempo. Peraltro, in termini teorici più generali, la distinzione tranchant fra azione (comportamento) e risultato si presenta problematica, poiché un risultato si qualifica in un senso piuttosto che in un altro a seconda di come qualifichiamo l’azione che gli è correlata. Per citare un caso immediatamente comprensibile, la “morte di un individuo” è qualificabile come evento-risultato “omicidio” se l’azione era volta, ad esempio, ad impadronirsi dei beni del defunto, mentre è qualificabile come “difesa legittima” se il comportamento che ha determinato la morte era di difesa da un’aggressione. In ogni caso, è opportuno qui ricordare che nel modello delle competenze dell’Agenzia, le competenze riconducibili al “dinamismo intellettivo” non sono rilevate attraverso comportamenti, ma, per ragioni di semplicità, attraverso il loro output (vedi p. 26). 4. L’iceberg delle competenze* Cosa c’è “dietro” o “sotto” i comportamenti generatori di superior performance? In questa direzione ha scavato un filone di studi che ha avuto larga risonanza anche presso il vasto pubblico. Ne sono esponenti autori (alcuni dei quali allievi dello stesso McClelland), come Richard Boyatzis, Spencer & Spencer e Daniel Goleman, noto, quest’ultimo, per le sue brillanti opere divulgative sulla cosiddetta “intelligenza emotiva” (non mancano però i critici75 * Vengono qui approfonditi temi trattati a p. 23. 75 Tra i più recenti si può vedere E.A. Locke, Why emotional intelligence is an invalid concept, in «Journal of Organizational Behavior», 26 (4), June 2005, pp. 425-431. APPENDICE che contestano la scientificità di tale concetto). La domanda di partenza è stata all’incirca questa: cosa consente ad una certa persona, piuttosto che a un’altra, di mettere in atto comportamenti che generano prestazioni lavorative di livello superiore? La risposta sarebbe, secondo Spencer & Spencer, nell’iceberg delle competenze. Nello strato di superfice della personalità, vi sarebbero conoscenze e capacità (in inglese, skills), poi, più giù, sotto il pelo dell’acqua, la comprensione di sé (self-concept), che include gli atteggiamenti, i valori e l’immagine di sé e, infine, nello strato più profondo (la core personality), le motivazioni e i tratti. Secondo questo approccio, non basterebbe dire che le competenze sono i comportamenti tipici del best performer in un determinato lavoro. Bisognerebbe piuttosto dire che sono le caratteristiche individuali che stanno sotto a quei comportamenti. Precisamente, le competenze sarebbero underlying characteristics of an individual (caratteristiche “sottostanti” di un individuo o, per usare dei sinonimi, soggiacenti o sottese) che causano – e quindi consentono di predire – una outstanding performance on the job (una prestazione lavorativa fuori del comune). In italiano “underlying characteristics of an individual” viene solitamente tradotto con l’espressione “caratteristiche intrinseche di un individuo”. Probabilmente è l’unica traduzione accettabile nella nostra lingua, che ha però il difetto di non rendere la radice “sotto” del vocabolo inglese, che nel caso di specie ha un preciso valore semantico, come mostra l’immagine dell’iceberg. C’è anche da osservare che quell’immagine può intuitivamente servire a porre l’accento sulle difficoltà che si possono incontrare nei processi di formazione e sviluppo delle competenze. In essa, però, vengono affastellati aspetti troppo diversi ai fini di una soddisfacente spiegazione e previsione dei comportamenti. È importante, ad esempio, distinguere se una persona non ha una buona performance per mancanza di conoscenze e capacità (migliorabili con la formazione) o per carenza di motivazione (in questo caso, non si tratterebbe tanto di attivare processi di formazione, ma piuttosto di ricorrere a incentivi, sia materiali che immateriali). Su questo punto vedi A. Grandori, Organizzazione e comportamento economico, cit., pp. 92-93. 5. Il dibattito sulla nozione di “competenza”* Viene generalmente riconosciuto che l’approccio alle competenze scaturito dal lavoro pionieristico di McClelland ha il vantaggio del saldo ancoraggio a dati empirici: si parte dall’evidenza che esistono in un’organizzazione best performers e average performers e si risale per via induttiva, utilizzando strumenti tipici dell’indagine scientifica come i gruppi di controllo, alla enucleazione delle caratteristiche predittive di superior performance. Tra gli svantaggi viene, di contro, sottolineato la “staticità” dell’approccio e cioè il fatto che sarebbe rivolto al passato invece che orientato al futuro: se un’organizzazione è in fase di cambiamento, mettere a fuoco le caratteristiche del best performer di ieri dirà ben poco delle qualità del “bravo di domani” ed è invece proprio questo che ci * Vengono qui approfonditi temi trattati a p. 23 e a p. 32. 131 APPENDICE 132 interesserebbe sapere, se l’organizzazione ha in mente di “cambiare pelle”. Nel caso delle amministrazioni pubbliche il passaggio topico potrebbe essere quello della trasformazione da una “amministrazione burocratica” ad una “imprenditiva” – per usare la contrapposizione resa popolare dal celebre libro di Osborne e Gaebler dal titolo Reinventing Government76 pubblicato agli inizi degli anni ’90 e da cui trasse ispirazione il programma di riforma dell’amministrazione federale americana lanciato dalla Presidenza Clinton all’inizio del suo primo mandato – oppure il cambiamento dell’organizzazione del lavoro, come, ad esempio, il passaggio da rigide segmentazioni di attività specialistiche a lavorazioni per processi e da modalità di trattazione individuale delle pratiche al lavoro per team (entrambe le trasformazioni sono intervenute fra la fine degli anni ’90 e i primi anni del 2000 nell’Agenzia delle Entrate, con la soppressione della miriade di vecchi uffici frammentati per specializzazione d’imposta – imposte dirette, IVA e registro – e la creazione di nuovi uffici unificati, articolati al loro interno nei due grandi processi del servizio ai contribuenti e del controllo fiscale e basati su modalità di lavoro che privilegiano la polivalenza e l’integrazione in team). Quale sarebbe allora la soluzione più appropriata nel caso di strutture che non siano già consolidate nel loro modello organizzativo ma si trovino in fase di forte cambiamento? C’è un filone di studi, ben rappresentato nel mondo della consulenza, secondo il quale l’approccio giusto non sarebbe, in una evenienza del genere, quello induttivo messo a punto da McClelland e dai suoi collaboratori (definito, in questo filone di studi, un po’ riduttivamente – e con una sfumatura negativa – “psicologico-individuale”). L’approccio giusto sarebbe invece quello di ricavare per deduzione dalle caratteristiche del nuovo business aziendale e dalla sua strategia le competenze che le persone devono avere (questo approccio – definito dai suoi fautori “strategico-organizzativo”, termine che, già solo per la sua risonanza molto più suggestiva di quella del termine “psicologico-individuale”, tende ad imporsi subito al lettore – trae origine dalle pubblicazioni di due autori, G. Hamel e C.K. Prahalad, sulla “Core Competence of the Corporation”, ovvero sulla “competenza distintiva delle aziende”, come è stato tradotto in italiano). Ad esempio, se l’azienda opera in un business in cui la competizione si gioca sulla continua innovazione di prodotto, si potrebbe dedurre che una capacità organizzativa chiave è la capacità dell’organizzazione di produrre innovazione, il che porterebbe ad identificare, tra le competenze importanti delle persone, la creatività, la capacità di tenersi aggiornati a livello di eccellenza tecnologica, l’orientamento allo scambio di know-how ecc. (Performance Improvement, a cura di E. Oggioni e A. Rolandi, Milano, Etaslibri, 1998, p. 15). Questo approccio sembra convincente, ma sembrava assai convincente anche la politica di selezione che il Dipartimento di Stato seguiva per il reclutamento dei funzionari da inviare all’estero presso gli uffici dell’USIS. Se il business di questi uffici era la diffusione della cultura americana all’estero, perché non dedurre che la competenza-chiave di quei funzionari dovesse essere la perfetta conoscenza della lingua e della cultura americana? L’analisi induttiva di McClelland dimostrò che quella 76 Il libro è stato tradotto in italiano con il titolo Dirigere e governare (Milano, Garzanti, 1995). La prefazione all’edizione italiana è di Sabino Cassese. APPENDICE conoscenza era una “competenza soglia”, ma non una “competenza distintiva” per realizzare performance eccellenti. Il dubbio, quindi, è che il cosiddetto approccio “strategico-organizzativo” costituisca, metodologicamente, una riproposizione, sotto nuove forme, dell’approccio tradizionale che crede di poter dedurre dalle caratteristiche funzionali di un job le caratteristiche ideali della persona che deve eseguire quel job77. Tale approccio rischia di mettere in luce solo le caratteristiche minime per svolgere un lavoro, cioè le caratteristiche di un average performer, e di fallire invece nella messa a fuoco delle caratteristiche del best performer. In sintesi, le osservazioni che si possono qui fare sono tre. La prima, di carattere generale, è che l’approccio “psicologico-individuale” e quello “strategico-organizzativo” operano su piani radicalmente diversi, in quanto rispondono a esigenze diverse, sicché va considerato comunque con cautela il tentativo di ricondurli sul terreno di un’unica problematica. Il primo approccio mira a spiegare le differenze di performance fra una persona e l’altra all’interno di una organizzazione, mentre il secondo mira invece a spiegare le differenze di performance fra un’organizzazione e l’altra (in altri termini, l’eventuale “vantaggio competitivo” di un’impresa rispetto a un’altra), tant’è che propone una definizione di “competenza distintiva” che va al di là del raffronto tra le competenze delle singole persone appartenenti ad una medesima realtà aziendale: “Le competenze distintive rappresentano ciò che l’azienda ha appreso collettivamente soprattutto sul come coordinare le diverse capacità produttive e integrare differenti correnti tecnologiche” (G. Hamel e C.K. Prahalad, La competenza distintiva delle aziende, in «Harvard Espansione», 1990, n. 49, p. 10). Per chiarire ulteriormente il proprio pensiero, gli autori appena citati proseguono così: “se, quando si parla di competenze, si parla di armonizzare differenti correnti tecnologiche, si parla anche dell’organizzazione del lavoro”. È evidente che un confronto fra le differenze tra le persone in termini di competenze si può fare solo a parità di organizzazione del lavoro, poiché altrimenti si mescolano in modo scriteriato cose diverse (attribuendo, ad esempio, alla bravura delle persone ciò che va attribuito alla bontà del modello organizzativo). Peraltro, proprio perché focalizza la questione del “vantaggio competitivo”, l’approccio “strategico-organizzativo” è calibrato sul mondo delle imprese, più che su quello delle amministrazioni 77 Nell’intervista già citata, McClelland ricorda ad esempio il caso di una compagnia petrolifera che aveva commissionato un modello di competenze per i suoi strateghi di business. In base all’analisi funzionale, il compito principale di quelle persone sembrava essere la pianificazione. I consulenti incaricati di predisporre il modello proposero quindi una lista di competenze essenziali, che includevano il “pensiero concettuale” e il “ragionamento deduttivo”. Ma le interviste BEI – che erano state separatamente richieste a McClelland dalla società petrolifera – rivelarono che una competenza fino allora insospettata (l’influenza) era molto importante per distinguere gli outstanding dagli average performers. I migliori strateghi di business ritenevano infatti che il loro lavoro fosse ben più che scrivere un buon piano strategico. Era anche importante che la dirigenza di vertice comprendesse il piano e fosse preparata ad adottarlo. Conseguentemente, i più bravi si assicuravano che i propri dirigenti fossero coinvolti nelle decisioni già nella prima fase di elaborazione del piano. I meno bravi non afferravano questo punto, né i consulenti l’avevano colto. Come concludeva McClelland, con l’analisi funzionale “the danger is that you leave things out” (“c’è il pericolo di tralasciare qualcosa”). Per citare un altro esempio, il tipico slogan “chi lavora in R&D [Research and Development] deve essere creativo” risulterebbe “ampiamente smentito da una realtà di Ricerca in cui la creatività non risultava affatto tra le competenze distintive, ma soltanto tra quelle ‘di soglia’” (Performance Improvement, a cura di E. Oggioni e A. Rolandi, cit., p. 19). 133 APPENDICE 134 pubbliche, riguardo alle quali solo in senso molto lato si può parlare di concorrenza (può essere invece interessante notare che la ricerca pionieristica di McClelland ha origine proprio nell’ambito di amministrazioni pubbliche: prima il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti – esperienza questa che abbiamo già ampiamente raccontato – e poi la Civil Service Commission, cioè la Commissione del pubblico impiego, del Massachusetts). La seconda osservazione è che l’approccio “strategico-organizzativo” funziona per l’individuazione delle competenze delle persone solo se non è interamente deduttivo ed utilizza quindi – grazie anche ad operazioni di benchmarking – la base empirica costituita dalle best performances rilevabili in aziende di successo nel business di riferimento. In altri termini, le competenze-chiave necessarie ad un’azienda che sta trasformando la sua missione vengono induttivamente ricavate, se non dai best performers di quell’azienda (perché questo significherebbe guardare al passato), dai best performers di aziende già affermatesi come leader nel nuovo business (attingendo ai modelli di competenze di tali aziende). La terza e ultima osservazione è che un modello di competenze ha rilevanza pratica solo se non si riduce a indicazioni assai generiche su cosa le persone dovrebbero fare, ma riesce a formulare, con un linguaggio chiaro e condiviso e ben orientato al saper fare, una descrizione analiticamente graduata dei comportamenti da seguire o da evitare (insomma una scala sufficientemente univoca di comportamenti osservabili). Solo una descrizione di questo tipo può infatti soddisfare le condizioni di validità ed affidabilità di un modello di competenze, indispensabili come base di una valutazione oggettiva delle competenze. Questa è, a sua volta, necessaria per promuovere efficaci processi di sviluppo delle competenze (se non si stabilisce quali siano i miei punti di forza e quali quelli di debolezza come si fa a potenziare ulteriormente i primi e a lavorare sui secondi per migliorarli?). Tutto ciò, peraltro, è riconosciuto dagli stessi fautori dell’approccio strategico-organizzativo, i quali sottolineano che “il passaggio più delicato della metodologia [di individuazione delle competenze] è la definizione del grading”, cioè la costruzione della scala su cui si misura la “bravura” in una certa competenza. E la definizione del grading (graduazione) richiede “il contributo diretto della linea, che aiuta a individuare i comportamenti reali che ‘fanno la differenza’, attraverso l’esperienza diretta e l’osservazione dei ‘più bravi’” (Business, strategia, competenze, a cura di U. Capucci, cit., pp. 102-104). Ma in questo modo non si finisce per riprendere i costrutti fondamentali del cosiddetto approccio “psicologico-individuale” rispetto al quale si intendevano invece marcare le distanze? Questa domanda appare ancora più legittima quando, nell’opera appena citata (pp. 71-72), si legge una definizione di competenza del tutto analoga a quella dell’approccio “psicologico-individuale”: un “aggregato” di conoscenze e capacità che sono definite attraverso il comportamento osservabile e sono strettamente collegate alla performance eccellente desiderata. L’autore aggiunge che la performance eccellente è quella richiesta “dal business, dalla strategia competitiva e dai suoi fattori critici di successo”, ma anche nell’approccio “psicologico-individuale” è l’organizzazione e non certo l’individuo che stabilisce cosa debba intendersi per prestazione eccellente. Nella vicenda dei funzionari USIS, per citarla ancora una volta, fu il Dipartimento di Stato che individuò, in base appunto alla sua idea di best performance, chi fossero “i più bravi”. APPENDICE Nel dibattito va anche ricordata la posizione, assai autorevole (A. Grandori, Organizzazione e comportamento economico, cit., pp. 95-99), secondo cui bisognerebbe “sviluppare un’analisi delle competenze più dinamica e generativa, rispetto all’approccio suggerito nei modelli di gestione delle risorse umane” (l’autrice si riferisce, in particolare, ai contributi di R.E. Boyatzis e di Spencer & Spencer). Tale approccio, infatti, “nulla dice su quali altre combinazioni di competenze sarebbero state possibili e forse più efficaci, né su quali altri comportamenti si sarebbero potuti generare con le stesse competenze”. L’idea alternativa è “di partire dalle competenze stesse e dalle particolari combinazioni in cui si presentano negli attori che le posseggono. Il fatto che le risorse siano incorporate nelle persone in modo scarsamente divisibile, rende spesso le risorse di fatto a disposizione più ricche di potenzialità rispetto ai particolari servizi per cui sono state selezionate. Sono le competenze possedute dagli attori, e ancor più le combinazioni possibili con le competenze di altri, che possono aiutare a definire compiti interessanti, piuttosto che viceversa. Si pensi ad esempio a docenti di una scuola di management. Un’analisi delle competenze di tipo generativo non dovrebbe partire dalle richieste dei compiti generici del docente, né da quelle specifiche di corsi e prodotti esistenti. Dovrebbe ricercare soprattutto competenze possedute ma finora non applicate, o non applicate in combinazione con altre complementari. Una mappatura di questo tipo potrebbe portare a scoprire che, per esempio, qualcuno custodisce competenze, diciamo, di metodi quantitativi di analisi reticolare, e qualcun altro di analisi reticolare dell’organizzazione che, se combinate, potrebbero generare un nuovo corso di valore”. Insomma, più che guardare al best performer reale bisognerebbe immaginare il best performer ideale (la persona che – sollecitata ad esprimere competenze fino allora solo potenziali o a combinarle in maniera inedita con le competenze di altri – riesce a produrre comportamenti ancora più efficaci di quelli espressi da coloro che sono considerati attualmente “i più bravi”). Sono spunti di riflessione importanti ai fini di una progettazione “generativa” dell’organizzazione. Non bastano però per generare un modello di competenze valido e affidabile per i processi di rilevazione, valutazione, remunerazione e sviluppo delle competenze. Per costruire un modello che abbia quelle caratteristiche occorre una base empirica – cioè fattuale e non solo immaginata – di casi di best performance e si può disporre di una base del genere solo quando il best performer concepito come ideale non è più solo nell’immaginazione generativa, ma è divenuto reale, e cioè solo quando la nuova situazione organizzativa progettata è stata effettivamente generata ed è divenuta operativa. Con il che rientra alla fine in gioco l’approccio esperienziale “suggerito nei modelli di gestione delle risorse umane”. Per concludere, un’impostazione molto interessante, che riguarda sempre il tema della definizione di “competenza”, ma che sembra finora rimasta abbastanza isolata, è quella delineata da un ricercatore svedese, Jörgen Sandberg (Interpretare le competenze, in «Sviluppo & Organizzazione», n. 182, novembre/dicembre 2000, pp. 95-107 e 111-114), in uno studio su un campione di ingegneri impegnati nel lavoro di ottimizzazione dei motori della Volvo (vi si è già accennato a p. 128). In questo studio viene approfonditamente analizzata l’idea che in una organizzazione possano convivere, più 135 APPENDICE 136 o meno implicitamente, concezioni diverse su cosa debba intendersi per best performance e best performer. Nel campione esaminato, Sandberg individua tre diverse concezioni: “ottimizzare qualità separate”, “ottimizzare qualità interagenti” e “ottimizzare dal punto di vista del cliente”. È da notare che ognuna di queste concezioni interpreta a suo modo le conoscenze e le capacità – Sandberg le chiama “attributi” – necessarie per svolgere il lavoro richiesto (ad es. conoscenza del motore, conoscenza dei sistemi di monitoraggio, capacità di autoapprendimento, capacità di cooperazione, ecc). Per proseguire nell’esempio, mentre nel contesto della concezione “ottimizzare qualità interagenti” l’attributo “capacità di autoapprendimento” significa “accrescere la conoscenza dei nessi tra le qualità di un motore”, nel contesto della concezione “ottimizzare dal punto di vista del cliente” l’attributo “capacità di autoapprendimento” significa avere “senso pratico del motore” e cioè accrescere la conoscenza della relazione tra desideri del cliente e motori. Di conseguenza, gli attributi non sono context-free, non sono cose o oggetti a sé stanti, descrivibili in sé e per sé e che, come pezzi del gioco del Meccano, produrrebbero diverse forme di competenza a seconda di come si aggregano e si “montano” tra loro (questa visione meccanica delle competenze, Sandberg la chiama “oggettivistica” o “razionalistica”), ma sono “situazionali”, cioè acquisiscono un particolare significato a seconda della concezione del lavoro in cui vanno a inserirsi. Ora, è proprio dalla diversità delle concezioni di lavoro che dipende la diversità di competenza (ovvero ciò che fa la differenza tra i più bravi e i meno bravi), poiché queste concezioni non hanno pari valenza, ma presentano un ordinamento gerarchico, in termini di maggiore o minore “inclusività” dell’una rispetto all’altra. In altre parole, le concezioni sono come cerchi concentrici. È più “inclusiva” una concezione che, per ognuno dei diversi attributi necessari per svolgere il compito assegnato, rivela una visione più ampia e organica del lavoro, risultando così complessivamente più efficace per gli scopi che l’organizzazione persegue (quindi la concezione “ottimizzare dal punto di vista del cliente” è superiore a quella “ottimizzare qualità separate”, poiché la prima comprende tutti gli attributi della seconda, nel significato che assumono nell’ambito di quest’ultima, mentre non vale l’inverso). La funzione di un modello di competenze – che si costruisce appunto attraverso l’interpretazione e la discussione sistematica delle diverse concezioni del lavoro e degli attributi che vi ineriscono – è di rendere esplicita la gerarchia di concezioni. Con l’esplicitazione di tale gerarchia, il modello può attivare un processo di cambiamenti nella concezione del lavoro, che, a sua volta, facilita lo sviluppo di competenza nell’organizzazione. Come scrive Sandberg, “i tre distinti modi di concepire l’ottimizzazione rappresentano tre differenti forme di competenza”. Differenti, nel senso appunto di sovraordinate l’una all’altra. Semplificando molto, lo studio di Sandberg costituisce uno sviluppo assai interessante della intuizione comu- APPENDICE ne secondo cui è la “mentalità” con cui si fa una cosa che determina alla fine la qualità di ciò che si fa78. Negli expert panels con cui è stato costruito il modello delle competenze dell’Agenzia si è svolto un lavoro di riflessione (vedi p. 21) che ha non poche affinità con l’approccio interpretativo di Sandberg. Fra le domande che venivano rivolte ai funzionari esperti che partecipavano ai panels, ricorrevano spesso proprio quelle del tipo che Sandberg poneva al suo gruppo di ingegneri ottimizzatori dei motori Volvo (ad es.: chi è secondo te il “bravo” verificatore? In cosa consiste una verifica fiscale fatta bene?). Piuttosto, è da osservare che le risposte non hanno messo in luce solo concezioni via via più inclusive, ma anche concezioni fra loro contrastanti e fra le quali bisognava quindi scegliere se si voleva spiegare cos’è che determina la superior performance (lo studio di Sandberg è stato analizzato sotto questo particolare profilo a p. 128). Anche queste scelte hanno portato alla configurazione del modello delle competenze dell’Agenzia. 6. Il metodo degli expert panels* L’expert panel è uno dei metodi utilizzabili per sviluppare modelli di competenze. L’intervista BEI è considerata un metodo più accurato, ma ha il serio inconveniente di essere notevolmente lungo e costoso, sicché viene generalmente impiegato per individuare competenze relative a un numero limitato di posizioni di particolare rilevanza. Tenuto conto invece della molteplicità di figure professionali da coinvolgere nella costruzione del modello delle competenze dell’Agenzia, si è ritenuto, d’accordo con i consulenti dell’Hay Group, che l’expert panel fosse allo scopo la tecnica più conveniente da seguire, anche grazie al fatto che il modello generale delle competenze delineato nel libro di Spencer & Spencer già menzionato forniva comunque molto materiale utile per la definizione del modello dell’Agenzia. Una panoramica dei metodi di raccolta dei dati occorrenti per la costruzione di un modello di competenze si può trovare nell’edizione originale del libro di Spencer & Spencer più volte citato, pp. 97-104 (cap. 10 intitolato Designing Competency Studies, non incluso nella traduzione italiana). Per onestà intellettuale non si può comunque passare sotto silenzio l’osservazione di Spencer & Spencer secondo cui gli expert panels avrebbero un grado di accuratezza di circa il 50% inferiore rispetto alle interviste BEI. In particolare, gli esperti partecipanti ai panels individuerebbero competenze che nel 25% dei casi non troverebbero riscontro nelle interviste BEI, mentre non riuscirebbero, di contro, a captare – in un altro 25% di casi – le competenze che sarebbero intercettate dalle interviste BEI. Le ragioni di questa parziale defaillance del metodo degli expert panels sarebbero due. 78 Peraltro, nell’approfondire tale intuizione, lo studioso svedese scomoda – probabilmente senza reale necessità – l’etica della comunicazione universale di Apel e, ancor più vistosamente, la fenomenologia di Husserl, richiamando il postulato che “persona e mondo siano inestricabilmente legati dall’esperienza del mondo vissuta dalle persone”. Non è escluso che vi sia qui una eccessiva semplificazione fino al fraintendimento di complesse posizioni filosofiche, così come equivoca sembra essere la contrapposizione che Sandberg istituisce fra “approccio razionalistico” e “approccio interpretativo” al tema delle competenze. * Vengono qui approfonditi temi trattati a p. 21. 137 APPENDICE 138 Gli expert panels tenderebbero a dare ingresso ai “Folklore or Motherhood Items” (“Motherhood” significa letteralmente “maternità” e “Items” significa in questo contesto “temi”. “Motherhood Items” non ha un preciso corrispondente in italiano: si può approssimativamente tradurre con “concetti familiari”), cioè a costrutti che sono in realtà solo filiazione dei pregiudizi e delle concezioni tradizionali che vivono in tutte le organizzazioni79. Ovviamente, luoghi comuni e stereotipi privi di reale fondamento non mancano mai in ogni organizzazione, rendendo non di rado controintuitive verità la cui acquisizione sarebbe di grande beneficio (per un caso molto interessante vedi p. 144). Tuttavia c’è un altro pregiudizio – sottile ma ugualmente ingiustificato e dannoso – ed è il pregiudizio che vede ovunque solo pregiudizi. Gli expert panels servono certo al vaglio critico dei Folklore or Motherhood Items, ma anche ad evitare che prevalga il pregiudizio appena accennato. Se i Folklore or Motherhood Items indurrebbero a individuare competenze in realtà non rilevanti, c’è un secondo fattore che avrebbe l’effetto opposto: precludere l’individuazione di competenze che sono invece rilevanti. Questo fattore è il “Lack Psycological or Technical Vocabulary” (“carenza di vocabolario tecnico o psicologico”)80. Anche questa criticità, però, sembra tutt’altro che insuperabile. L’inserimento negli expert panels di validi consulenti esterni (e proprio questo è avvenuto con gli expert panels in cui è stato elaborato il modello dell’Agenzia delle Entrate e a cui hanno dato il proprio supporto tecnico qualificati consulenti dell’Hay Group) può apportare quel valore aggiunto di tecnicalità che consente di superare la “carenza di vocabolario tecnico o psicologico”. In conclusione, benché il senso critico sia sempre salutare, non sembra che in questo caso giustifichi un eccessivo scetticismo nei confronti del metodo degli expert panels, che rimane comunque, per le ragioni precedentemente illustrate, quello più conveniente per la costruzione di un modello di competenze che abbia ad oggetto vaste popolazioni professionali. Si è poi già osservato che la parte più difficile del lavoro di costruzione del modello delle competenze dell’Agenzia non è stata tanto l’individuazione delle competenze, ma la specificazione degli indicatori comportamentali di ciascuna competenza. Ebbene, decisivo è stato a questo riguardo proprio il contributo degli expert panels. 7. Dall’analisi dei singoli comportamenti al disegno della mappa delle competenze* Come si arriva, partendo dalla rilevazione di singoli comportamenti, a disegnare la mappa delle competenze di una organizzazione? Con il metodo induttivo di McClelland, 79 Spencer & Spencer accennano ad esempio al “coraggio morale” che nelle organizzazioni militari i massimi comandanti indicano spesso come un requisito tipico dei buoni ufficiali. Le interviste BEI relative a migliaia di episodi critici descritti da ufficiali della Marina e dell’Esercito avrebbero invece rivelato che le decisioni con cui in genere hanno a che fare gli ufficiali riguardano temi gestionali e non ardue questioni etiche, sicché le competenze veramente critiche sarebbero quelle manageriali e non quelle etiche. 80 Spencer & Spencer fanno ad esempio riferimento alla capacità di suscitare immagini tattili e visive (“eliciting imagery”). Competenza, questa, che sarebbe distintiva degli ottimi venditori di tessuti, i quali – ad avviso degli autori appena menzionati – pensano in termini di colori e di natura dei tessuti. * Vengono qui approfonditi temi trattati a p. 19. APPENDICE il veicolo che consente questo percorso è l’intervista BEI. Le tappe del tragitto sono essenzialmente due: • una prima strutturazione di dati che si compie già nel corso delle interviste BEI; • una elaborazione dei dati acquisiti con le interviste che avviene successivamente alle interviste stesse e che si compie grazie ad una analisi di tipo contrastivo. Esaminiamo con cura questi due distinti momenti. 7.1 Strutturazione dell’intervista BEI Nell’intervista BEI, come già accennato, non si chiedono “racconti liberi”, ma racconti strutturati secondo una griglia ben precisa, riportata di seguito in lingua originale, per fissare meglio i concetti: • “What was the situation?” (Qual era la situazione?) • “Who was involved?” (Chi era coinvolto?) • “What did you think about, feel, want to accomplish?” (Cosa pensavi, sentivi o intendevi fare?) • “What did you do or say?” (Cosa hai fatto o detto?) • “What was the outcome – what happened?” (Qual è stato il risultato, cosa è accaduto?) Chiedendo di conoscere, insieme ai fatti accaduti e alle persone coinvolte, i pensieri, i sentimenti e le volizioni che accompagnavano quei fatti e che avevano come oggetto quelle persone, il materiale grezzo e spesso ambivalente degli accadimenti riceve un primo fondamentale inquadramento. Si risale dai singoli comportamenti alle categorie di comportamenti (che sono appunto le competenze) attraverso la messa a fuoco degli schemi concettuali (Thought patterns), dei modi di sentire e delle motivazioni (ciò che sta dietro alle singole volizioni) dei protagonisti dei comportamenti raccontati nelle interviste. L’assunto di base è che il comportamento organizzativo si caratterizza per la sua intenzionalità81 e l’intenzione è determinata dai pensieri, sentimenti e motivazioni degli interessati. 7.2 Analisi contrastiva nell’intervista BEI: somiglianze e differenze significative L’elaborazione successiva alle interviste BEI consiste essenzialmente in una complessa analisi di tipo contrastivo che si può così schematizzare: 81 “Un comportamento senza intenzione (intent) non definisce una competenza. Un esempio è il cosiddetto management by walking around (aggirarsi per gli uffici). Se non sappiamo perché il manager si aggira per gli uffici, non è possibile dire se dimostra una competenza. L’intenzione del manager potrebbe essere indifferentemente desiderio di scacciare la noia, di sgranchirsi le gambe, di controllare la qualità del lavoro o di ‘farsi vedere dalla truppa’” (Spencer & Spencer, op. cit., trad. it., p. 35). Dare rilievo alla “intenzione” del comportamento non significa dare spazio a intuizioni incontrollabili. Nella semplice osservazione diretta, l’intenzione del comportamento, quando non la si può immediatamente inferire dal comportamento stesso (ove questo sia in concreto suscettibile di più letture), la si ricava dall’analisi del contesto (come avviene, del resto, per qualunque altro tipo di comportamento e non solo per quello organizzativo). 139 APPENDICE Episodi di insuccesso Episodi di successo Þ Þ Þ Þ Þ Þ Þ Þ Episodi di successo Gruppo degli average performers Þ Þ Gruppo dei best performers Þ Þ Episodi di insuccesso 140 Per vedere come l’analisi concretamente funzioni, può essere utile ragionare su un caso concreto. Rievocando la storia dei funzionari dell’USIS all’estero, si è già accennato a quel giovane che, inviato in missione in un paese africano, raccontò di aver capito subito che “ad avere in mano la politica petrolifera di quel paese era il nipote dell’amante del vice primo ministro”. Egli, di conseguenza, cercò subito di farsi invitare a un party, nel quale poté incontrare quel nipote e cominciare a perorare la causa degli Stati Uniti. È da un episodio come questo, e da altri simili, raffrontati con altri dissimili, che McClelland ritenne di poter inferire che la competenza di cui aveva dato prova quel funzionario era la “rapidità a capire le relazioni politiche”. Se si va però più a fondo con il ragionamento, ci si accorge che quell’inferenza non era affatto scontata. La verità è che i casi della vita possono presentare innumerevoli somiglianze o diversità a seconda del punto di vista da cui li si osserva. Se si andassero, ad esempio, ad esaminare gli altri episodi rilevati da McClelland nei quali anche si manifestava, a suo avviso, la “rapidità a capire le relazioni politiche”, si sarebbero magari potuti trovare altri tipi di somiglianza fra quegli episodi, oppure anche, per altri aspetti, diversità assai forti. Se, ad esempio, un altro funzionario o, magari anche lo stesso funzionario, avesse raccontato che in un altro episodio era riuscito a mettere a segno un altro grosso successo grazie al fatto che aveva individuato l’amante di un altro importante uomo di potere, perché non concludere che la competenza mobilitata da quel giovane era la “sensibilità a captare relazioni affettive extraconiugali”? Si potrebbe ribattere che questa particolare somiglianza nei casi esaminati non era rilevante (“non c’entrava”, come si usa dire). Ma allora, ciò che bisogna cercare non è una qualsivoglia somiglianza (se ne possono trovare a iosa nelle situazioni concrete poste a raffronto), bensì una somiglianza rilevante. E, analogamente, le differenze che contano sono solo quelle rilevanti. Ma rilevanti rispetto a che? Rispetto allo scopo perseguito che è quello di trovare in tutti i casi posti a raffronto un elemento che possa individuarsi come causa dei successi riscontrati. Il criterio di somiglianza e di diversità non è passivamente desunto dai casi osservati (da essi potrebbero infatti ad uguale titolo desumersi altri n criteri di somiglianza e di diversità), ma è introdotto dal ricercatore come ipotesi esplicativa. In sostanza, osservando questo o quell’episodio il ricercatore concepisce, con un “salto intuitivo”, la categoria “rapidità a capire le relazioni politiche” e poi mette alla prova l’efficacia esplicativa di tale categoria, verificando se essa permette di assimilare casi fra loro diversi per tanti altri aspetti o, viceversa, di differenziare casi fra loro simili per tanti altri aspetti. Ad esempio, somiglianze rilevanti fra comportamenti di successo di più best performers o dello stesso best performer possono indicare competenze distintive di performance superiore, così come possono indicarlo differenze rilevanti fra comportamenti di successo di best performers e comportamenti di insuccesso di average APPENDICE performers82. Mentre somiglianze rilevanti fra comportamenti di successo di best performers e di average performers possono denotare competenze soglia (per la distinzione fra questi due tipi di competenze vedi p. 20). Insomma, l’analisi contrastiva serve a favorire la formulazione di ipotesi circa le competenze che generano performance superiore. Se la verifica dell’ipotesi ha successo, il ricercatore si sente legittimato a inserire – sia pure provvisoriamente e con riserva di altre convalide – quella categoria nel modello di competenze che sta costruendo. Insomma, la verità è questa: più che limitarci passivamente a trovare casi simili o dissimili, noi in realtà – con quell’atteggiamento attivo chiamato “invenzione di ipotesi” – li assimiliamo o li differenziamo83. Tutto questo spiega perché l’analisi tematica degli episodi cui faceva riferimento McClelland, ben lungi dall’essere una meccanica fotografia della realtà, è “la parte più difficile e creativa del processo di analisi delle competenze”, per citare le parole di Spencer & Spencer tratte dall’opera più volte citata (Thematic analysis is the most difficult and creative part of the competency analysis process)84. Difficult significa appunto che non si tratta di trovare semplici somiglianze o differenze, ma solo quelle significative, per cogliere le quali non funzionano semplici regole meccaniche, né tanto meno basta limitarsi alla mera “osservazione dei fatti” (ammesso che possa esistere un comportamento passivo del genere). Creative significa che occorre inventiva per afferrare le somiglianze (o le differenze) rilevanti. Come qualcuno ha detto, le buone intuizioni vengono solo a menti ben preparate ad accoglierle (o, meglio, a “generarle”). L’ingegnosa analisi contrastiva ideata da McClelland con lo strumento dell’intervista BEI serviva appunto a facilitare il concepimento di buone intuizioni. Se la metafora può servire, il metodo appena descritto funziona come un disegno a chiaroscuro, che mira a evidenziare il rilievo plastico delle cose attraverso il contrasto di luci (nel nostro caso i “comportamenti produttivi di successo”) ed ombre (nel nostro caso, “assenza di comportamenti che producono successo” e “presenza di comportamenti che causano insuccesso”). 7.3 Criteri guida Il principio di semplicità e il principio di scopo Chiarito che il disegno della mappa delle competenze è un lavoro difficile e creativo, anzi the most difficult and creative part di tutto il lavoro, è opportuno però chiedersi, visto che le energie non sono illimitate, se c’è qualcosa che possa rendere quel lavoro un po’ meno difficile e un po’ meno faticosamente creativo. La risposta è sì ad entrambe le 82 Si può qui ricordare il caso del funzionario USIS che aveva fallito nell’organizzare corsi di inglese per gli studenti del paese straniero in cui lavorava (vedi p. 20). 83 Appunto per favorire la ricerca volta a cogliere il carattere di rilevanza sia delle somiglianze che delle differenze, l’intervista BEI si focalizza non su episodi ordinari, ma – come dice già la sua denominazione – su episodi critici (di successo o di insuccesso). Per la precisione la procedura BEI chiede a un soggetto di descrivere, sotto forma di racconto breve, tre grossi successi e tre grossi fallimenti. 84 La citazione è tratta dal cap. 12 (p. 135), che porta il titolo Developing a Competency Model, non riportato nell’edizione italiana. 141 APPENDICE 142 domande e quanto verrà detto di seguito – a volte con vere e proprie indicazioni di metodo, a volte con suggerimenti pratici che hanno più che altro la natura di consigli – cercherà di darne dimostrazione. La tracciatura delle competenze è guidata, come qualunque altra ricerca che aspira ad essere scientifica, da un principio di minimo o di semplicità, che viene spesso enunciato con il cosiddetto “rasoio di Occam”: “Entia non sunt multiplicanda sine necessitate”. Come a dire: “se una cosa può avere una spiegazione più semplice, perché cercarne una più complicata?” (Guglielmo di Occam era un filosofo inglese, appartenente all’ordine francescano, vissuto tra la fine del ’200 e gli inizi del ’300). Questo comporta che un modello di competenze deve includere il numero minimo di competenze utili a spiegare la performance di successo. Tuttavia, come diceva Einstein, una teoria deve essere la più semplice possibile, senza però divenire semplicistica. Riprendendo il rasoio di Occam, gli enti non vanno moltiplicati senza necessità, ma questo di converso significa che, quando necessità invece c’è, non occorre esitare troppo a moltiplicarli. È evidente, ad esempio, che si potrebbe definire un modello con un’unica competenza: quella formata dalla classe di tutti i comportamenti che hanno effetti positivi sulla performance. Un modello siffatto sarebbe semplicissimo, ma a che servirebbe? La domanda mette sulla giusta strada. Una spiegazione deve essere la più semplice possibile, ma deve però tenere distinto ciò che va distinto. E la distinzione obbedisce a un principio di scopo. Insieme a un principio di minimo ciò che ci deve guidare nella costruzione di un modello di competenze è un principio di scopo. Una classificazione di comportamenti dipende dagli scopi per cui la facciamo. Stabilire se un risultato brillante è dipeso da una intelligente soluzione sotto l’aspetto concettuale o da una salda capacità di leadership in un momento di grave incertezza è una distinzione di cui un modello di competenze non può non tenere conto, perché l’uno e l’altro tipo di comportamento mobilitano conoscenze e capacità diverse, che – in base a cognizioni comuni – vanno selezionate, apprese e sviluppate con azioni assai diverse. E fra gli scopi essenziali di un modello di competenze c’è appunto la selezione, l’apprendimento e lo sviluppo – attraverso appropriate azioni valutative – delle conoscenze e capacità che servono all’organizzazione. Se il principio di minimo spinge a ridurre quanto più possibile il numero delle competenze e gli indicatori utili a individuarle, il principio di scopo obbliga a non contrarre tale numero fino al punto da sacrificare distinzioni che vanno invece fatte in relazione agli scopi che il modello persegue. Sulla realizzazione più o meno felice dell’equilibrio fra questi due principi si giudica la validità e l’affidabilità di un modello e quindi della mappatura di competenze definita da una organizzazione. Ciò può stabilirlo solo il banco di prova dell’esperienza, e quindi la verifica empirica del funzionamento del modello, che può indicare le correzioni e gli affinamenti da apportare. Suggerimenti pratici Ecco alcuni consigli che possono servire nell’operazione di equilibratura cui si è appena fatto cenno. APPENDICE Il primo è quello di evitare di affannarsi a reinventare la ruota, ovvero a scoprire ciò che da altri è stato già scoperto, spesso faticosamente. Ragioni di convenienza e ragioni etiche di rispetto del lavoro altrui, spingono a dedicare adeguata attenzione a ciò che, con impegno e ingegno, è stato fatto prima di noi e per noi. Anche questa – per riprendere il titolo del bel libro di Arthur Lovejoy, un insigne storico delle idee – è la “grande catena dell’essere” che lega fra loro gli uomini e le generazioni. Bisogna quindi tenere anzitutto conto della letteratura che si è da molti anni accumulata su questa materia, e questo spiega lo sforzo che si fa in questo manuale di riassumerne, quanto più chiaramente possibile, i principali filoni. Richiamandoci ancora al principio di minimo, cominciamo con il dire che qua e là si leggono a volte indicazioni semplicistiche di numeri “magici”, ad esempio le competenze individuate non devono essere meno di X e non più di Y. Più plausibile ci sembra invece l’affermazione che le competenze da individuare ed inserire nel modello sono tutte quelle a cui l’organizzazione e le persone che vi lavorano attribuiscono rilevanza – esplicitamente o, come più spesso capita, implicitamente – siano poi esse tre, cinque, sette ecc. Se gli interessati danno importanza, ad esempio, ad una categoria di comportamenti del dirigente configurabile come “autocontrollo” e si accerta che tale competenza serve realmente al buon dirigente, non ha senso escluderla dal modello perché altrimenti il numero delle competenze diverrebbe “troppo elevato”. E quel che si è detto dell’autocontrollo si può dire per ogni altra categoria di comportamenti che dovesse anch’essa risultare importante nel contesto organizzativo in cui si opera. Richiamandosi a un importante studio di Boyatzis85 del 1982, che aveva per primo enunciato una definizione generale di competenza ed era anche riuscito a individuare una serie di competenze “generiche”, cioè ricorrenti nelle più diverse organizzazioni, Spencer & Spencer hanno analizzato i dati con cui erano stati costruiti in precedenza circa 300 modelli specifici di competenze ed elaborando questo materiale hanno definito un modello di 20 competenze generali86, con circa 360 indicatori comportamentali (ogni competenza è corredata, oltre che di una definizione, di un set di indicatori comportamentali da 3 a 6), raggruppate in 6 grandi cluster (competenze di realizzazione e operative, competenze di assistenza e di servizio, competenze di influenza, competenze manageriali, competenze cognitive, competenze di efficacia personale). Tale modello è quello più affermato a livello internazionale e ha preso forma nel dizionario contenuto nella classica opera pubblicata dai due autori nel 1993 e più volte citata in questo manuale. Il modello Antares dell’Agenzia delle Entrate comprende 11 competenze, articolate in 5 cluster e corredate complessivamente di circa 300 indicatori comportamentali. 85 R.E. Boyatzis, The Competent Manager: A Model For Effective Performance, New York, Wiley, 1982. 86 Esse coprono, secondo gli autori, l’80-95% delle caratteristiche distintive della performance superiore nella maggior parte delle mansioni osservate. A queste 20 competenze, si aggiunge un altro gruppo di competenze particolari, alcune più comuni, come il saper scrivere e il non aver paura di risultare poco simpatici (low fear of rejection), altre più insolite, come la competenza giuridica, il sense of humour e la riservatezza. All’analisi di queste competenze, Spencer & Spencer dedicano, per la loro minore incidenza, non più di una pagina rispetto alle 64 dedicate alla disamina delle altre 20 competenze generali. 143 APPENDICE 144 Alcune di tali competenze riprendono, mentre altre sintetizzano, competenze già descritte nel dizionario generale di Spencer & Spencer (solitamente questo Dizionario viene chiamato “Dizionario McBer” – e così lo citeremo d’ora in poi – dal nome della società di consulenza presso cui lavoravano i due studiosi87), apportando però gli adattamenti e le “personalizzazioni” occorrenti in funzione della realtà specifica dell’Agenzia. Alcune categorie, come “Sviluppo e trasferimento del sapere” e “Passione per il lavoro”, sono invece specifiche di Antares. In pratica, il punto critico nella costruzione del modello dell’Agenzia (e lo stesso vale ovviamente per qualunque organizzazione che intendesse elaborare un proprio modello di competenze) non è stato tanto quello della enucleazione delle competenze (il repertorio fornito da Boyatzis e Spencer & Spencer è abbastanza completo, almeno per quello che si è potuto sperimentare in relazione alla concreta realtà dell’organizzazione), quanto piuttosto lo sforzo di adattamento degli indicatori di tali competenze. Volendo sintetizzare molto, non si andrebbe lontano dal vero affermando che l’impegno richiesto per la definizione di un modello è per il 10% individuazione delle competenze richieste per il lavoro che si fa nella specifica organizzazione in cui si lavora, e per il 90% definizione degli indicatori comportamentali destinati a graduare con la maggiore oggettività possibile l’intensità delle competenze in relazione alla concreta realtà organizzativa – al “vissuto”, potremmo dire – degli uffici cui il modello è riferito. Mentre nell’individuazione delle competenze il Dizionario McBer aiuta molto, nella descrizione dei rispettivi indicatori comportamentali aiuta invece molto meno. Di fatto, negli indicatori comportamentali del Dizionario Antares si troverà ben poco degli indicatori comportamentali del Dizionario McBer, perché suonavano astratti e avulsi dalle situazioni tipiche degli uffici dell’Agenzia. È a questa esigenza di tuning che devono appunto rispondere gli expert panels. È perciò di fondamentale importanza curare bene la composizione di questi gruppi. Al loro interno, è essenziale che vi siano figure che possano somigliare a dei Postcogs. Chi sarebbero costoro? Il lettore che ha visto Minority Report (se ne parlerà più avanti a p. 157) sa che i Precogs (abbreviazione di Precognitive Thinkers 88) sono in quel film individui sensitivi che prevedono eventi futuri e, precisamente, gli omicidi che saranno commessi. I Postcogs dovrebbero essere figure assai meno inquietanti, ma non meno utili: Postcognitive Thinkers, persone capaci di riflettere su esperienze passate e ricorrenti e di estrarne, grazie appunto all’acuta capacità riflessiva di cui sono dotati, il significato che racchiudono in termini di competenze. Generalmente, queste figure non abbondano: le persone che lavorano hanno spesso ricche esperienze da narrare, ma a questa ricchezza di esperienza vissuta non è frequente che si abbini un’analoga ricchezza di autoriflessione. I Postcogs hanno questa particolare abilità – denominiamola pure, se vogliamo, “competenza” – di abbinare esperienza e riflessione sull’esperienza89. Quali caratteristiche deve avere questa riflessione? 87 La società venne fondata da McClelland e da David Berlew (McBer è appunto l’acronimo dei due soci fondatori). La società McBer è poi confluita negli anni ’90 nell’Hay Group. 88 Thinkers significa letteralmente “pensatori”. 89 Un esempio emblematico di Postcog potrebbe essere Sherwood F. Moran, leggendario maggiore dei Marines che, durante l’ultima guerra mondiale, si occupò della formazione dei militari incaricati di interrogare i pri- APPENDICE Almeno due: cura del linguaggio e attenzione agli scopi cui deve essere finalizzato il dizionario che descrive la mappa delle competenze. Il linguaggio in cui si deve esprimere la riflessione deve essere vicino a quello comunemente accettato nella vita pratica degli uffici (e quindi occorre tenersi alla larga da certo gergo consulenziale). Quanto agli scopi, il dizionario deve poter servire come base oggettiva per la rilevazione e la valutazione dei comportamenti, e deve quindi individuare comportamenti facilmente osservabili. In questa prospettiva, proviamo ora a dare alcune indicazioni ancora più concrete, che possano valere come suggerimenti pratici. Si è già detto che, nell’individuazione delle competenze del modello Antares, si sono in gran parte riprese le categorie del Dizionario McBer, introducendo, però, alcune innovazioni significative. Può essere utile darne qui conto, per acquisire confidenza con i tipi di problemi concretamente connessi al disegno di una mappa di competenze. La principale innovazione riguarda il cosiddetto dinamismo intellettivo, cioè – in estrema sintesi – la capacità di applicare l’intelligenza ai problemi pratici. Nel Dizionario McBer si distinguono al riguardo due categorie di pensiero: quello analitico (Analytical Thinking) e quello concettuale (Conceptual Thinking), per designare grosso modo, con il primo termine, la capacità di ragionamento logico e, con il secondo, la creatività intellettuale. Le distinzioni fra questi due ambiti e, soprattutto, l’individuazione dei diversi gradi di intensità dà luogo però a distinzioni troppo sottili per gli scopi pratici cui il Dizionario s’ispira, che identificano come prioritaria l’esigenza della comprensibilità. Il Dizionario deve servire per un vasto pubblico come base sufficientemente oggettiva per la rilevazione e valutazione dei comportamenti. Le descrizioni devono essere perciò comprensibili da chiunque (sia pure con un po’ di formazione) e non solo da psicologi cognitivisti. Ecco, per fare solo un esempio, come nel Dizionario McBer vengono graduati i livelli bassi dell’Analytical Thinking: 1. Scompone i problemi: Scompone meccanicamente i problemi operativi in elenchi elementari di compiti o di attività, cui non viene assegnato un ordine particolare o una graduazione di importanza (A, D, B, C, …). 2. Individua le relazioni di base: Scompone i problemi insiti in una situazione, aggregandone in blocchi le parti costitutive. Collega le parti con nessi semplici e unidirezionali del tipo “A conduce a B” oppure “se…allora” oppure ancora “questi sono i pro e questi i contro”. Ordina le componenti di un problema secondo criteri di rilevanza. gionieri giapponesi. Uomo di raffinata sensibilità e profondo conoscitore della lingua e della cultura giapponese, Moran, distillando in un linguaggio semplice e avvincente una ricca riflessione sulla propria esperienza umana e professionale, tracciò, in un rapporto datato 17 luglio 1943 e indirizzato alla direzione dell’intelligence dei Marines, una sorta di “modello di competenze”, abbastanza controintuitivo, del bravo addetto all’interrogatorio di prigionieri giapponesi. Il 17 luglio 2003, 60 anni dopo, l’associazione del corpo dei Marines che riunisce gli interpreti e gli addetti a interrogatori ha reso pubblico quel rapporto (lo si può leggere su Internet all’indirizzo: http://www.bigstory.us/downloads/Tort-SFMoran_on_interrogation_1943_ familyproof_.pdf). La pubblicazione del rapporto è però passata del tutto inosservata, soprattutto da parte di quelle che vengono comunemente denominate “Autorità competenti”. Circa 6 mesi dopo sono accaduti ad Abu Ghraib i gravi fatti che hanno avuto risonanza mondiale. I comandi americani stanno ora rivedendo il modello delle competenze dell’addetto agli interrogatori. È possibile che, in quest’opera di revisione, il “modello Moran”, che ha funzionato molto bene con prigionieri fortemente ideologizzati quali erano i soldati dell’impero del Sol Levante, venga assunto come punto di riferimento. 145 APPENDICE 146 È facile intuire quale possa essere per gli appartenenti ad una organizzazione – che non sia appunto un’associazione di psicologi cognitivisti – la facilità a maneggiare indicatori di questo tipo. Nel Dizionario delle competenze organizzative dei dirigenti dell’Agenzia delle Entrate (il Dizionario è la base del sistema di valutazione Sirio), si sono perciò fatte due scelte: • Sono state unificate le categorie del “Pensiero analitico” e “Pensiero concettuale” nell’unica categoria del “Pensiero ideativo”, che esprime l’attitudine a coniugare rigoroso raziocinio e libera creatività mentale. Questo in base all’assunto che capacità di ragionamento e creatività di pensiero, seppure concettualmente distinte, si presentano in concreto strettamente intrecciate, tant’è che nell’uso linguistico comune (e a questi usi occorre sempre rifarsi per estrarne criticamente la verità che di solito essi contengono) affermare che una persona è intelligente significa sia che ha capacità di analisi logica, sia che sa “tirare fuori” (o che spesso le “vengono in mente”) buone idee quando servono. E ciò è vero ancor più nell’ambito delle professioni tecniche intellettuali (quali sono quelle dell’Agenzia delle Entrate) ove la capacità intuitiva ha pregio solo se congiunta a una robusta capacità argomentativa. • Sono stati individuati indicatori di intensità di competenza assai più vicini alla concreta esperienza delle persone e quindi assai meglio utilizzabili da tutti gli attori interessati (valutati e valutatori). Per consentire un utile raffronto, ecco qual è ad esempio, nel manuale Sirio, il set di indicatori del grado più basso di Pensiero ideativo: – Argomentare non è il suo forte: La tecnica che utilizza per identificare i problemi, articolarli e risolverli si fonda quasi esclusivamente sul ricorso alla tradizione e al “precedente”, e laddove il precedente non basta o non è utile, dà l’impressione di essere disorientato e di non avere più risorse. Difficilmente riesce a percepire i “falsi problemi”, specie quando s’impongono alla riflessione per abitudine o per tradizione, e quanto ai veri problemi raramente riesce a darne una prospettazione, se non originale, almeno utile a facilitarne la soluzione. Coglie con difficoltà le implicazioni concettuali delle questioni che affronta e stenta ad inserirle in un quadro esplicativo più ampio. Tende a smarrirsi nei dettagli, senza riuscire a mettere a fuoco ordinatamente gli elementi essenziali di un problema. Il suo modo di pensare, di argomentare, di inquadrare i problemi e di trovare soluzioni difetta di “visuale strategica”. Anche se tratta da lungo tempo le materie di cui si occupa, l’approccio scarsamente critico con il quale le affronta spiega perché dia in genere la percezione di muoversi al loro interno un po’ spaesato, come rivelano l’incongruenza non infrequente delle decisioni che adotta e l’insufficiente accuratezza tecnica dei prodotti del suo ufficio, che necessitano abbastanza spesso di estesi “ricicli di lavorazione” sotto il profilo qualitativo. Nel Dizionario delle competenze Antares (che riguarda non i dirigenti ma i funzionari) si è adottata una soluzione pratica ancora più semplice, in funzione dell’osservabilità dei comportamenti. Il dinamismo intellettivo viene descritto per quello che è (e anche con ricchezza espositiva, poiché in un’organizzazione di knowledge workers qual è l’Agenzia delle Entrate questa competenza è essenziale), ma viene rilevato attraverso APPENDICE indicatori delle caratteristiche più significative dell’output generato (chiarezza ed efficacia della scrittura, congruenza, ecc. vedi p. 73 e ss.). Oltre al richiamo ai dizionari di competenze già elaborati, vi sono altri due tipi di ausilio utili a rendere meno difficile la messa a punto di un modello di competenze. Il primo è rappresentato dagli schemi di codifica in uso, più o meno impliciti e più o meno ricorrenti, che in ogni organizzazione servono a tipizzare i comportamenti sui quali vi è larga condivisione per quanto concerne i loro effetti negativi o positivi sulla performance (ecco alcuni esempi di tali schemi: “pensa solo a coprirsi le spalle”, “si preoccupa esclusivamente della sua carriera”, “va al nocciolo dei problemi e s’ingegna a risolverli”, “è sempre pronto ad assumersi le proprie responsabilità”, ecc.). Come si è accennato, uno degli assunti di base di McClelland era che la gente si accorda più facilmente su chi è outstanding (fuori del comune) piuttosto che su che cosa rende qualcuno outstanding. In realtà, però, questo accordo non di rado c’è e le spiegazioni che lo motivano sono spesso plausibili, anche se possono richiedere affinamenti o correzioni, e rappresentano comunque – per il fatto che sono alimentate da molte e ripetute esperienze – una fonte importante da cui trarre ipotesi per il difficult and creative lavoro di classificazione che sta alla base di un modello di competenze. Infine, può essere utile accennare – sempre in una prospettiva di suggerimenti pratici – ad alcune tipiche perplessità nelle quali pressoché inevitabilmente ci si imbatte quando si costruiscono e si applicano categorie di comportamenti. Possiamo sintetizzarle così: intersezioni, ridondanze e ambivalenze. È opportuno esaminarle, anche per rendersi conto che esse non sono necessariamente indice di difetti di costruzione di un modello di competenze. Intersezioni Per lo più, le competenze si presentano intrecciate fra loro. Quando l’intreccio è particolarmente stretto, esse generalmente fanno parte di un unico cluster. Questo aspetto viene trattato con accuratezza nel Dizionario generale delle competenze sviluppato nell’opera di Spencer & Spencer. Per ognuna delle 20 competenze sono analizzati i rapporti (links) con le altre competenze (un solo esempio fra i tanti riportati nel Dizionario: “l’orientamento al cliente è supportato dalla ricerca delle informazioni e dalla sensibilità interpersonale. Lo spirito d’iniziativa è talmente implicito nell’orientamento al cliente che le scale B (sforzo) delle due competenze sono praticamente identiche”90). Si potranno forse intravedere qui possibili motivi di confusione, ma si tratta piuttosto di indicazioni che mostrano la dinamica viva e la sinergia delle competenze, e questo serve a renderne più accurato il processo di valutazione e a favorirne lo sviluppo. Ridondanze Una competenza o alcuni suoi indicatori possono apparire ridondanti, nel senso che descrivono comportamenti che, se non proprio identici, sembrano però presentare 90 Spencer & Spencer, op. cit., trad. it., p. 68. 147 APPENDICE 148 forti affinità con quelli già descritti in altre competenze o in qualcuno dei rispettivi indicatori. La ridondanza può segnalare una insufficiente applicazione del principio di minimo prima enunciato. In altre parole, può indicare la necessità di procedere ad accorpamenti di classificazioni, per eliminare inutili “doppioni”. Un certo grado di ridondanza nella individuazione delle competenze può però considerarsi fisiologico, quando ad esempio l’enucleazione di una categoria a sé stante per la classificazione di comportamenti, che potrebbero in astratto anche ricondursi sotto un’unica categoria, è giustificata dalla particolare rilevanza che si intende così attribuire a quei comportamenti. Ambivalenze Se, con riferimento a un sistema classificatorio, “ridondanza” significa presenza nel sistema di elementi di per sé non strettamente necessari, “ambivalenza” significa che elementi del sistema possono di per sé trovare più di una classificazione. Ad esempio, la competenza “Sviluppo e trasferimento del sapere” presente nel modello Antares potrebbe essere in teoria classificata sia nel dinamismo cognitivo (riguarda infatti sicuramente la dimensione della conoscenza professionale), ma anche nel dinamismo realizzativo (certamente è una competenza che contribuisce a “fare risultato”), come pure nella leadership (è un buon capo chi sa trasmettere conoscenza ai propri collaboratori per arricchirne la professionalità). Qual è la classificazione giusta? La risposta è che ognuna di queste classificazioni può essere giusta a seconda degli scopi perseguiti. Nel caso specifico la scelta potrebbe dipendere dall’interesse che ha l’organizzazione a porre l’accento su una classificazione piuttosto che su un’altra. Se, ad esempio, si vuole sottolineare la finalizzazione dell’accrescimento della conoscenza al miglioramento della performance individuale e collettiva, la classificazione “giusta” sarà quella dell’inserimento di quella competenza nel cluster del dinamismo realizzativo, e questa è appunto la scelta che è stata fatta con Antares. Così come nella costruzione, anche nell’applicazione di un modello di competenze possono presentarsi ambivalenze, nel senso che può sorgere il dubbio se un determinato comportamento vada classificato in un modo piuttosto che un altro. A questo proposito Spencer & Spencer scrivono quanto segue: “I comportamenti competenti possono essere ispirati da una o più motivazioni, anche in combinazione. Per esempio, l’intenzione di sviluppare la skill di un subordinato e di prepararlo ad una promozione potrebbe essere motivata dal desiderio di potere (‘voglio avere un effetto su di lui’), dall’orientamento al risultato (‘Se riuscisse a far bene X, Y e Z, risparmierei tot ore o dollari’) o dal desiderio di rapporti cordiali (‘Se lo sviluppo e lo promuovo, me ne sarà riconoscente, mi stimerà’) o da una combinazione di queste motivazioni”91. 91 Spencer & Spencer, op. cit., trad. it., p. 46. È da notare che gli autori stanno qui alludendo a quelle che, secondo McClelland, sono le tre fondamentali motivazioni del comportamento manageriale: need (“bisogno”) for Power, bisogno di influenzare gli altri, need for Achievement, bisogno di riuscita, need for Affiliation, bisogno di avere il consenso altrui. Per inciso, è facile fraintendere il significato di queste tre motivazioni, come rileva lo stesso McClelland, quando scrive, ad esempio, che la “power motivation” non si riferisce a un “dictatorial behavior” ma “al desiderio di avere un impatto, di essere forte e influente”. McClel- APPENDICE Come risolvere queste ambivalenze di tipo applicativo? La prima cosa da sottolineare è che non ci troviamo in casi come questi di fronte a situazioni di singolare stranezza, ma a evenienze normali nell’applicazione di codici comportamentali, evenienze cui si viene addestrati fin da bambini. Le prassi e le consuetudini che si sviluppano con l’esperienza consentono alle persone di acquisire padronanza di tecniche efficaci di interpretazione dei comportamenti, tecniche, cioè, utili a gestire e risolvere le inevitabili ambiguità. C’è da aggiungere che se questo vale per l’immenso territorio del comportamento umano – territorio tutt’altro che sconosciuto, dal momento che la sua esplorazione costituisce forse l’occupazione prevalente della gente sotto qualunque latitudine – vale anche per il comportamento organizzativo, che è una provincia relativamente assai piccola di quello sconfinato continente. Pur essendo anch’essa molto battuta, poiché il lavoro è fra le principali esperienze della vita, sarebbe irrealistico affermare che in quella provincia tutto è sempre chiaramente catalogabile. Le sfumature non mancano e non è sempre facile coglierle, e labili sono anche talora le linee di demarcazione fra una categoria di comportamenti e l’altra. Con questo intendiamo dire che un certo grado di ambivalenza può considerarsi fisiologico in un modello di competenze, come in qualunque altro modello comportamentale, ma intendiamo anche dire che le persone acquisiscono – magari a livello di conoscenza tacita – una buona padronanza delle tecniche di gestione delle ambivalenze. L’episodio, ad esempio, appena citato da Spencer & Spencer è un caso in cui l’inquadramento di un comportamento in una categoria piuttosto che in un’altra dipende dall’intenzione dell’attore, e questa si legge non con particolari doti “sensitive” ma con il confronto aperto fra gli attori della valutazione, tenendo conto del contesto del comportamento. E siccome gli esempi sono sempre utili, eccone un altro, tratto questa volta dall’applicazione pratica del sistema di valutazione dei dirigenti dell’Agenzia. Nella sua relazione sull’attività svolta, un ispettore riferì che il personale di uno degli uffici ispezionati non aveva l’anno prima beneficiato del premio di produzione perché risultava che gli obiettivi non erano stati raggiunti al livello concordato. L’ispettore si accorse però che la mancata percezione del premio era dipesa non da una bassa performance dei dipendenti, che avevano invece lavorato bene, ma da un’errata applicazione delle norme di consuntivazione che aveva portato ad escludere dal computo alcuni output che si sarebbero invece dovuti includere nel rendiconto. L’ispettore diede in quel caso chiare istruzioni su come andasse fatta la consuntivazione e si preoccupò pure che nell’ufficio si svolgesse un po’ di formazione degli addetti per evitare che l’errore si ripetesse in futuro. Grazie all’intervento dell’ispettore, il personale ebbe i soldi che si era guadagnato. land distingue, in particolare, il potere “socializzato” – che è l’influenza esercitata per realizzare un qualche bene comune più grande di quello proprio o per rafforzare (empower) gli altri: far sentire gli altri forti, “make others feel strong” – dal potere “personale”, che è l’influenza esercitata per ambizione personale: far sentire agli altri che si è forti, “make others feel he or she is strong”. Per una chiara e concisa presentazione di questi concetti si può vedere H.L. Tosi, M. Pilati, N.P. Mero e J. Rizzo, Comportamento organizzativo, cit., pp. 70-71. Un’esposizione assai più ampia e ricca di esemplificazioni si trova in un articolo dello stesso McClelland pubblicato nel 1976, dal titolo Power is the Great Motivator, ristampato in un numero speciale della «Harvard Business Review», January 2003, pp. 117-126. 149 APPENDICE 150 Sotto quale competenza va classificato questo comportamento? Il valutatore di prima istanza ritenne che il comportamento in questione manifestasse forte “assertività” (una tipica competenza richiesta agli ispettori), che è la capacità di far rispettare le regole “costi quel che costi”, e quindi anche a prezzo di sacrifici personali (in altre parole, l’assertività è la capacità di dire “no”, quando è giusto dire “no”, pur essendo magari “impopolare”). In effetti, l’ispettore aveva in quel caso provveduto a far applicare correttamente le regole in materia di consuntivazione, ma se si va a guardare la sua intenzione come appariva in modo trasparente da tutto il contesto e come l’interessato stesso la dichiarava nella descrizione dell’episodio (la mancata corresponsione del premio di produttività “non rendeva giustizia dell’attività accertatrice dell’ufficio”) era chiaro che non si trattava in quel caso di una manifestazione di “assertività” (a chi o a cosa l’ispettore aveva inteso dire “no”?), ma dell’espressione di capacità manageriali, come la propensione a sostenere la motivazione al lavoro dei collaboratori (cosa demotiva di più del non ricevere ciò che si è acquisito titolo ad avere con impegno e applicazione?). È appunto in questo senso che venne corretta la valutazione – come chiedeva l’interessato – in sede di valutazione di seconda istanza. Se ben costruito, un dizionario delle competenze dovrebbe agevolare la classificazione dei comportamenti sotto il profilo dell’intenzione che li muove. La definizione di una competenza ha infatti lo scopo di precisarne con chiarezza qual è la finalità (la ratio, direbbero i giuristi), ossia l’intenzione fondamentale che lega i comportamenti da ricomprendere in una stessa categoria. Tutto semplice dunque? No, la costruzione di un modello di competenze o il disegno di una mappa delle competenze, che sono due nomi diversi per la stessa cosa, rimangono un lavoro very difficult and creative. Come però abbiamo visto, la conoscenza dell’esperienza altrui e la riflessione sull’esperienza propria possono facilitare non poco questo lavoro. Non resta che un’ultima considerazione. È stato osservato che un limite delle classificazioni delle competenze è che “l’elenco potrebbe continuare in linea di principio all’infinito. In effetti, un rigonfiamento delle ‘liste’ di oggetti, fino a perdere potere predittivo in quanto tipologie, è un limite ricorrente e probabilmente intrinseco a tutte le tipologie basate sui contenuti – delle competenze come dei bisogni, dei tratti culturali, o degli obiettivi”. E ancora: “Le classi delle competenze sono proliferate fino a raggiungere le svariate decine, basandosi su distinzioni molto generali e di base fra tipi di capacità e di stili cognitivi – capacità analitiche e operative, tecniche e sociali, professionali e manageriali, ecc.”92. Si tratta di una critica che non può essere passata sotto silenzio, anche per la sua autorevolezza. Come già accennato, il modello generale delle competenze delineato, sulla scia di Boyatzis, da Spencer & Spencer contiene 20 competenze (che coprono però un universo di circa 300 organizzazioni anche molto diverse fra loro). Di questo modello – che è un punto di riferimento nella letteratura internazionale – si è tenuto conto nell’A- 92 Tutte queste citazioni sono tratte da A. Grandori, op. cit., pp. 94-95. APPENDICE genzia delle Entrate sia per la costruzione del sistema Sirio (riguardante le competenze dei dirigenti) sia per la costruzione di Antares. Il numero di competenze di Sirio e Antares è, peraltro, assai più contenuto del modello Spencer & Spencer, e non c’è piena sovrapposizione di contenuti neanche fra Sirio e Antares. Di fatto, ogni organizzazione ha una sua classificazione di competenze e in letteratura sono stati proposti altri modelli di classificazione93. Non v’è dubbio che un quadro del genere può trasmettere un’impressione di “erraticità” nelle classificazioni delle competenze. Ma è proprio fondata questa impressione? In verità, quando si vanno ad analizzare attentamente le diverse categorie di classificazione, ci si accorge che i nomi variano, ma la sostanza spesso è molto simile. È indubbio invece che assai diversi possono essere gli indicatori comportamentali delle competenze, ma è giusto che sia così per le ragioni precedentemente illustrate (in particolare quella relativa all’esigenza di “personalizzazione”). Ciò che potrebbe quindi sembrare di primo acchito “erraticità”, dovrebbe forse più propriamente definirsi “storicità” o – per usare un termine più vicino alle moderne teorie dell’organizzazione – “contingenza” dei modelli delle competenze rispetto alla peculiarità delle situazioni organizzative in cui vanno a calarsi. Insomma, il ritaglio delle competenze nel variopinto tessuto dei comportamenti organizzativi è un’operazione che ha margini di libertà anche ampi, che non sono però arbitrari, essendo determinati dalle variabili della situazione in cui si opera e dagli scopi che in quel contesto si perseguono. Un modello di competenze mira, in definitiva, ad esplicitare (tutte e solo) le categorie di comportamenti che in una data organizzazione sono realmente funzionali alla superior performance. In questa operazione le domande chiave sono due: • gli interessati si “riconoscono” nelle categorie individuate dal modello? In altri termini: le condividono pienamente o ritengono che qualche categoria, a loro avviso necessaria, è stata invece dimenticata o che, al contrario, qualcuna che compare nel modello è superflua o addirittura non pertinente alla missione aziendale? • è stato effettuato (in primo luogo negli expert panels) un vaglio critico della condivisione del modello da parte degli interessati? In altre parole: è stato analizzato l’effettivo rapporto di causalità fra le competenze ipotizzate nel modello e la performance dell’organizzazione, in modo da verificare se la mancata condivisione dipenda da errori od omissioni dei costruttori del modello o, invece, dai “Folklore or Motherhood Items” degli appartenenti all’organizzazione? Dalla risposta a queste domande dipende la validazione del modello. Se il modello è validato, il numero e la configurazione delle competenze in cui esso concretamente si articola non dovrebbe essere più un problema. La questione vera, insomma, non è l’e- 93 Un quadro sinottico dei principali modelli si trova in L.M. Spencer, The Economic Value of Emotional Intelligence Competencies and EIC-Based HR Programs. Questo lavoro costituisce il capitolo IV di C. Cherniss e D. Goleman, The Emotionally Intelligent Workplace: How to Select for, Measure and Improve Emotional Intelligence in Individuals, Groups and Organizations, San Francisco, Jossey-Bass/Wiley, 2001. Lo studio di Spencer è consultabile su Internet al seguente indirizzo: http://www.eiconsortium.org/ research/economic_value_of_ei.htm. 151 APPENDICE stensione della mappa di competenze, ma la sua adeguatezza alla conformazione del territorio cui si riferisce. Se il modello è validato, si potrà pure ritenere che le classi di comportamenti individuate siano troppe o troppo poche, ma ciò non è imputabile al modello bensì alla natura e alla complessità dell’organizzazione. Questa, però, è un’altra storia. 152 8. Linguaggio qualitativo e linguaggio quantitativo nella descrizione delle competenze* 8.1 Il linguaggio qualitativo Così come la regolazione dei comportamenti, la descrizione delle competenze (che sono categorie di comportamenti) può essere effettuata con due tecniche molto diverse, ognuna delle quali presenta pregi e difetti. La prima (tipica, ad esempio, degli ordinamenti giuridici dell’Europa continentale) è quella di usare definizioni generali e astratte, mentre la seconda è quella di individuare casi emblematici – individuali e concreti – da utilizzare come precedenti dotati di autorità (questa tecnica è tipica, invece, degli ordinamenti giuridici anglosassoni). Antares cerca di combinare entrambe le tecniche nell’intento di rendere quanto più chiari e univoci possibile i criteri di rilevazione delle competenze. Tutte e due le tecniche presentano poi la criticità tipica dei codici comportamentali, che è però al tempo stesso il “segreto” della potenza di questi codici: l’utilizzazione del linguaggio ordinario, di per sé caratterizzato (al contrario dei linguaggi artificiali come quello del calcolo matematico) da grande plasticità espressiva. Questa plasticità, infatti, ha come suo naturale risvolto un margine di elasticità semantica che, se per un verso può a volte dare adito ad ambiguità (e questo è appunto l’aspetto critico cui si è appena accennato), dall’altro, però, permette di ricondurre casi nuovi nelle fattispecie codificate (e qui sta la potenza dei codici comportamentali, cioè la capacità di “abbracciare” l’inesauribilità dei casi reali). Le prassi che maturano con l’applicazione delle regole rendono poi possibile una gestione efficace dei casi ambigui. Nel definire le singole competenze, il Dizionario Antares fornisce chiavi di lettura che consentono di individuare affinità o analogie idonee a inquadrare, con sufficiente univocità, nelle fattispecie espressamente descritte le situazioni non immediatamente riconducibili a quelle stesse fattispecie. Occorre aggiungere che il carattere analitico degli indicatori comportamentali specificati in un modello di competenze consente di tracciare una fondamentale distinzione: quella fra rilevazione e valutazione dei comportamenti. Una cosa è rilevare fatti e comportamenti (Tizio ha fatto questo o quello e ha adottato questo o quel comportamento), altro è valutare fatti e comportamenti, dove valutare significa “attribuirvi un valore”. Il compito dei dirigenti sarà solo quello di rilevare fatti e comportamenti, mentre il valore da attribuire a quanto si è rilevato non sarà compito dei dirigenti (che sotto questo aspetto dovrebbero propriamente qualificarsi come “rilevatori” piuttosto che come “valutatori”), ma del sistema di valutazione. Ad esempio, un comportamento suscettibile * Vengono qui approfonditi temi trattati a p. 25 e a p. 42. APPENDICE di essere rilevato potrebbe essere quello della disponibilità del dipendente a sostenere temporaneamente un carico di lavoro aggiuntivo per sostituire il collega assente. Se a questo comportamento dovrà poi essere o no attribuito un particolare valore ai fini, ad esempio, dell’apprezzamento – per la retribuzione accessoria – del grado di impegno nel lavoro, sarà il sistema di valutazione a stabilirlo. Se vi attribuirà valore, quel comportamento conterà ai fini della valutazione complessiva. In caso contrario, sarà irrilevante e quindi non dovrà essere rilevato dal dirigente. Questa distinzione fra rilevazione e valutazione è molto importante per l’oggettività dei giudizi. In letteratura le scale di valutazione legate alla descrizione dei comportamenti sono denominate BARS (Behaviorally Anchored Rating Scales = “scale di valutazione ancorate a comportamenti”). Il loro maggiore pregio è di assicurare la massima oggettività possibile nella formulazione dei giudizi. Lo svantaggio è nella laboriosità dello sviluppo di queste scale. Impegnativa è anche la loro manutenzione evolutiva, necessaria per mantenerne nel tempo la validità (cioè la capacità di intercettare i comportamenti organizzativi significativi) e l’affidabilità (cioè l’univocità applicativa, che comporta affinamenti o modifiche agli indicatori comportamentali per superare ambiguità o incertezze eventualmente emerse nella concreta esperienza valutativa). Questo processo di manutenzione evolutiva richiede un forte coinvolgimento della linea operativa. A tale scopo, nella fase di applicazione del sistema valutativo, si può prevedere una procedura di autovalutazione strutturata, grazie alla quale gli interessati possano proporre, per i diversi gradi di intensità delle competenze, altri indicatori comportamentali in aggiunta o a modifica di quelli già previsti, così da rendere quanto più rigorosa e univoca possibile la rilevazione delle competenze stesse. L’importanza di avere “behavioural anchors” che definiscano in dettaglio ogni competenza è stata sottolineata da McClelland nell’intervista rilasciata nel 1997 (è stata già citata a p. 126), nel corso della quale egli dice: “Imprese come queste [McClelland si sta riferendo a imprese che non hanno fatto un lavoro di chiara definizione delle competenze] potranno dire a qualcuno che ha un basso punteggio nella leadership. Ma quando gli interessati chiedono cosa ciò significhi, tutto quello che viene loro detto è che, qualunque cosa s’intenda per leadership, lì vanno male (you’re low in it)”. 8.2 Il linguaggio quantitativo È pensabile una descrizione delle competenze basata su un linguaggio quantitativo? Se si tratta solo di pensarla (e non anche di chiedersi se ciò che si pensa sia realizzabile) la risposta è sì. Occorrerebbe passare da descrizioni di comportamenti affidate al linguaggio ordinario (queste descrizioni si chiamano “qualitative”) a descrizioni formulate in linguaggio matematico (descrizioni, quindi, “quantitative”)94. In estrema sintesi, si tratterebbe di 94 “L’affermazione che una sbarra di ferro aumenta di lunghezza, quando è riscaldata, è un’affermazione qualitativa. L’affermazione che una sbarra di ferro aumenta la sua lunghezza di una certa quantità, quando è riscaldata a una certa temperatura, è un’affermazione quantitativa” (R. Carnap, I fondamenti filosofici della fisica, Milano, il Saggiatore, 1971, pp. 343-344). 153 APPENDICE 154 sostituire i numeri (che non siano però semplicemente numeri con valore nominale o ordinale) alle parole. Un salto del genere si è compiuto, quattro secoli fa, nel campo delle scienze della natura, con il passaggio dalla fisica qualitativa di Aristotele alla fisica quantitativa di Galileo, basata appunto sul linguaggio matematico. La logica e il senso di questo cambiamento – per il quale non è, una volta tanto, sprecato l’aggettivo “epocale”, poiché è all’origine di ciò che chiamiamo “il mondo moderno” – trovano chiara spiegazione nell’ultima opera pubblicata da Rudolf Carnap, uno dei maggiori studiosi di logica e di filosofia della scienza del ’900 (dopo l’avvento del nazismo, Carnap emigrò nel 1935 dalla Germania negli Stati Uniti e in quel paese insegnò nelle Università di Chicago e di California, fino alla morte avvenuta nel 1970). Il brano che riportiamo qui di seguito è di ammirevole chiarezza. “I concetti quantitativi non sono forniti dalla natura, ma derivano dalla nostra abitudine di applicare i numeri ai fenomeni naturali. Quali sono i vantaggi di questa operazione? Se le grandezze quantitative fossero fornite dalla natura, potremmo rispondere a questa domanda come si risponderebbe alla domanda: quali sono i vantaggi dei colori? La natura potrebbe non avere i colori, ma è piacevole vederli: sono semplicemente una parte della natura e non possiamo farci nulla. La situazione non è la stessa nei confronti dei concetti quantitativi: essi fanno parte del nostro linguaggio e non della natura. Siamo noi che li introduciamo, ed è, quindi, legittimo chiederci perché li introduciamo. Perché affrontiamo tutte le difficoltà inerenti alla formulazione di regole e postulati complicati, che ci permettono di avere grandezze che possono essere misurate su scale numeriche? È stato detto più volte che i grandi progressi della scienza, specialmente in questi ultimi secoli, non ci sarebbero stati senza l’impiego del metodo quantitativo (esso fu introdotto in maniera precisa per la prima volta da Galileo naturalmente altri lo usarono prima di lui, ma fu Galileo che ne diede per primo le regole esplicite)95. Ogni qual volta possibile, il fisico cerca di introdurre concetti quantitativi. Nell’ultimo decennio altri settori della scienza hanno seguito lo stesso cammino. Non dubitiamo che questo sia vantaggioso, ma è bene sapere più precisamente dove si trovano questi vantaggi. 95 “Questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l’universo), non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri sono triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto”. Come risulta chiaro da questa famosa citazione, tratta da Il Saggiatore, i concetti quantitativi sono, secondo Galileo, nella natura e l’uomo può solo cercare di scoprirli. Nel brano che abbiamo invece sopra riportato, Carnap sembra dire che i concetti quantitativi non sono nella natura, ma è l’uomo che ve l’introduce per i propri scopi. La contrapposizione non potrebbe sembrare più netta. Tuttavia, Carnap si è sempre opposto all’idea che la scienza sia una pura convenzione umana. Come stanno le cose? È facile intuire che la questione evocata è fra quelle più importanti della storia del pensiero. Il lettore curioso non potrà ovviamente trovare in questo manuale nessuna indicazione per una possibile risposta. Se però ne ha voglia, troverà invece nella lettura del libro di Carnap qui citato un eccellente viatico per un affascinante viaggio nel cuore della questione. APPENDICE Innanzitutto – anche se si tratta solo di un vantaggio minore – si ha un aumento dell’efficienza del nostro vocabolario. Prima che sia introdotto un concetto quantitativo occorre usare dozzine di termini o di aggettivi qualitativi diversi per descrivere i vari stati possibili di un oggetto rispetto a una data grandezza. Ad esempio, senza il concetto di temperatura, dovremmo parlare delle cose in termini di ‘molto caldo’, ‘caldo’, ‘tiepido’, ‘freddino’, ‘freddo’, ‘molto freddo’, e così via. Questi concetti sono quelli che abbiamo chiamato classificatori. Se avessimo un centinaio di questi termini, probabilmente non sarebbe necessario, almeno per gli scopi normali, introdurre il concetto quantitativo di temperatura. Invece di dire, ‘Oggi ci sono 25°’, avremmo un aggettivo opportuno per indicare tale temperatura, ne avremmo un altro per indicare 26°, e così via. Che cosa ci sarebbe di sbagliato in tutto questo? Innanzitutto dovremmo fare un grandissimo sforzo di memoria. Dovremmo non solo conoscere un gran numero di aggettivi diversi, ma anche ricordare il loro ordine in modo da sapere immediatamente se un certo termine sulla scala è più alto o più basso di un altro. Introducendo, invece, il solo concetto di temperatura, che collega ai numeri gli stati di un corpo, dobbiamo ricordare un solo termine: l’ordine di grandezza è, infatti, immediatamente fornito dall’ordine dei numeri. Naturalmente, occorre prima memorizzare i numeri, ma una volta fatto questo possiamo applicare i numeri a qualsiasi grandezza quantitativa. In caso contrario dovremmo memorizzare un diverso insieme di aggettivi per ogni grandezza e, in ciascun caso, dovremmo anche memorizzare il loro ordine specifico. E questi sono solo due vantaggi secondari del metodo quantitativo! Il vantaggio principale, come abbiamo visto nei capitoli precedenti, è il fatto che i concetti quantitativi ci permettono di formulare legge quantitative. Queste leggi sono enormemente più potenti sia per spiegare i fenomeni noti, sia per prevedere nuovi fenomeni. Anche con un ricchissimo linguaggio qualitativo, che caricherebbe la nostra memoria con centinaia di aggettivi qualificativi, incontreremmo gravi difficoltà anche nella formulazione delle leggi più semplici. Supponiamo, ad esempio, di essere in una situazione sperimentale in cui si osserva che una certa grandezza M dipende da una certa altra grandezza P […] Più specificatamente, supponiamo che M si riferisca alle qualità termiche, e che P si riferisca ai colori. Una legge che collegasse queste due qualità sarebbe costituita da un insieme di cinquanta frasi condizionali del tipo: ‘Se l’oggetto è molto, molto, molto caldo’, naturalmente ci sarebbe un aggettivo per esprimere questo concetto ‘allora è rosso brillante’. In verità, l’italiano dispone di un gran numero di aggettivi per i colori, ma questo è il solo settore di qualità per il quale abbiamo tanti aggettivi. Per molte altre grandezze della fisica vi è una notevole scarsità di aggettivi nel linguaggio quantitativo. Una legge espressa in un linguaggio quantitativo è molto più breve e molto più semplice dell’ingombrante espressione che sarebbe necessaria, se tentassimo di esprimere la stessa legge in termini qualitativi. Invece di un’equazione semplice e compatta, avremo dozzine di proposizioni ‘se... allora’ ciascuna delle quali accoppia un predicato di una classe a un predicato dell’altra. 155 APPENDICE 156 Il più importante vantaggio della legge quantitativa non è, però, la sua brevità, ma l’uso che se ne può fare. Quando si dispone di una legge in forma numerica, è possibile impiegare quella potente parte della logica deduttiva che chiamiamo matematica e, con essa, fare delle previsioni. Naturalmente, anche nel linguaggio qualitativo può essere impiegata la logica deduttiva per fare delle previsioni. Dalla premessa: ‘Questo corpo è molto, molto, molto caldo’ potremmo dedurre la previsione: ‘Questo corpo sarà rosso brillante’. Ma la procedura sarebbe ingombrante rispetto ai metodi di deduzione potenti ed efficienti che fanno parte della matematica. È questo il maggior vantaggio del metodo quantitativo: ci permette di formulare le leggi sotto forma di funzioni matematiche, mediante le quali è possibile fare previsioni nel modo più preciso ed efficiente. Questi vantaggi sono così grandi, che nessuno oggi si azzarderebbe a proporre ai fisici di abbandonare il linguaggio quantitativo e di tornare al linguaggio qualitativo prescientifico. Però, ai primordi della scienza, quando Galileo calcolava la velocità con la quale una sfera rotola su un piano inclinato e il periodo di un pendolo, molti probabilmente si chiedevano: ‘Che ci verrà di buono da tutto questo? In che modo ci servirà nella vita di ogni giorno? Non mi interesserà mai ciò che accade ai piccoli corpi sferici quando rotolano lungo una guida. È pur vero che i piselli sbucciati rotolano su una tavola inclinata, ma che valore ha il calcolo della loro accelerazione esatta? Quale uso pratico può avere questa nozione?’. Oggi nessuno parla in questi termini, poiché tutti usiamo moltissimi strumenti complicati – automobili, frigoriferi, televisori – che sappiamo non esisterebbero, se la fisica non si fosse sviluppata come scienza quantitativa. Ho un amico che sosteneva che lo sviluppo della scienza quantitativa è deplorevole, perché porta alla meccanizzazione della vita: gli ho replicato che se voleva essere coerente con le sue opinioni non avrebbe mai dovuto usare né un aereo né un’automobile né un telefono. L’abbandono della scienza quantitativa significherebbe l’abbandono di tutte le comodità che sono i prodotti della tecnologia moderna: non credo che molti accetterebbero questo sacrificio”96. A che scopo la trascrizione di questo lungo brano? Oltre al desiderio di comunicare il piacere di una straordinaria abilità divulgativa di temi assai complessi e di fondamentale importanza culturale, l’intento è di portare fino in fondo un esperimento mentale. Per saggiare pienamente l’utilità di uno strumento di cui già disponiamo (nel nostro caso le scale BARS), può servire immaginare qualche altro strumento che possa in teoria apparire ancora più utile al nostro scopo. Se l’esperimento riesce, siamo contenti di aver trovato una soluzione migliore. Se fallisce siano ancora più contenti dello strumento che già abbiamo, poiché, essendoci sforzati di esplorarne i limiti, possiamo ora apprezzarne meglio l’utilità. Ebbene, ipotizzare una svolta dal qualitativo al quantitativo – come quella cui si è assistito nella fisica – anche nell’ambito di cui ci stiamo occupando (che rientra nel campo più vasto delle scienze comportamentali), richiederebbe la scoperta di una legge che 96 R. Carnap, op. cit., pp. 136-140. APPENDICE leghi comportamenti organizzativi e stati psicosomatici. Per capirci, una legge che stabilisca, ad esempio, che comportamenti, ripetuti e intensi, di leadership generino tracce stabili a livello psicosomatico di modo che possano essere rilevate con opportune tecniche (rilevazione di parametri biochimici, registrazione dell’attività elettromagnetica di determinate aree cerebrali, ecc.). Sicché, per rilevare le competenze non siano più necessarie “classificazioni comportamentali”, ma bastino appunto misurazioni psicosomatiche. Un po’ come, per rilevare la febbre, non si fa ricorso a descrizioni di “comportamenti febbrili”, ma ci si affida alla scala numerica di un termometro. Potremmo così andare al di là delle semplici comparazioni qualitative (Giorgio ha più leadership di Mario) e stabilire precisi rapporti di comparazione quantitativa (Giorgio ha un una volta e mezzo di leadership più di Mario). È chiaro che questa ipotesi è pura fantascienza, ma nella sua bizzarria (che scaturisce evidentemente dal “riduzionismo fisiologico” che sembra sottendere l’ipotesi stessa) può servire a mettere meglio a fuoco il senso del problema che stiamo qui affrontando. In un film di fantascienza di qualche anno fa, Minority Report97, il tema era quello della previsione scientifica di comportamenti futuri (in particolare, di comportamenti criminosi). Nell’ipotesi appena accennata, il tema sarebbe invece quello della rilevazione scientifica di comportamenti già posti in essere. Quale potrebbe essere il senso di Minority Report? Con la spettacolarità del grande cinema di Hollywood, il film di Spielberg propone questioni eterne, come quella del libero arbitrio, riformulate sullo sfondo attuale degli angosciosi problemi di sicurezza collettiva, obbligando lo spettatore a interrogarsi sulla possibilità di farvi fronte con azioni preventive efficaci e, al tempo stesso, moralmente e giuridicamente accettabili. Un senso assai più modesto ha invece l’ipotesi di tecnologie che rilevino le competenze, come i termometri la febbre, e il senso è questo: mostrare che nel campo dei comportamenti umani è ben difficile immaginare la fine dei concetti classificatori. Se abbiamo la sensazione che una persona sia sfebbrata, ma, mettendole il termometro, ci accorgiamo che segna 37,5°, non abbiamo difficoltà a dare subito ragione al termometro. Ma se registreremo invece un contrasto fra ciò che indicano, ad esempio, i parametri biochimici e ciò che invece indicano le consuete classificazioni dei comportamenti, a quale istanza daremo ragione? Se la misurazione dell’intensità di attivazione di una determinata zona del cervello sembrerà indicare che ci troviamo di fronte a un “grande leader”, mentre la normale rilevazione dei comportamenti dovesse denotare una capacità di leadership assai modesta, a quale criterio daremo prevalenza?98. 97 Il film è ambientato in un futuro lontano (anche se non troppo lontano: il 2054) nel quale uno speciale corpo di polizia – la sezione Precrimine – arresta gli autori degli omicidi prima che questi vengano commessi. Ciò grazie a sofisticate strumentazioni che sfruttano le misteriose capacità sensitive di tre individui chiamati Precogs (abbreviativo di Precognitive Thinkers). 98 Del resto, un’eventuale, futuribile scala quantitativa della leadership (come di ogni altra competenza) richiederebbe comunque classificazioni comportamentali per definire i valori estremi della scala stessa, un po’ come nella scala centigrada della temperatura il valore zero è quello dell’acqua che congela, mentre il valore 100 è quello dell’acqua che bolle. Inoltre, poiché non sembra plausibile che l’intensità delle competenze possa costituire un continuum come il calore o un’altra grandezza fisico-naturale, dovremmo comunque definire classificazioni comportamentali cui agganciare i gradi intermedi della nostra ipotetica scala 157 APPENDICE 9. L’equità procedurale* 158 Nell’economia della conoscenza – e quindi nel mondo delle organizzazioni in cui il lavoro è basato sulla conoscenza – il principio dell’equità procedurale ha un’importanza difficile da sopravvalutare. W. Chan Kim e Renée Mauborgne, due studiosi che insegnano entrambi all’INSEAD – European Institute of Business Administration, scuola aziendale di fama internazionale che ha sede a Fontainebleau in Francia, argomentano con chiarezza questa tesi citando alcuni significativi casi aziendali (Fair Process: Managing in the Knowledge Economy, in «Harward Business Review», January 2003, pp. 127-136). Nel 1992 la Volkswagen, in un momento di forte espansione, decise, accompagnandola con generosi aumenti retributivi, una parziale revisione dei processi di lavoro per rendere più efficiente la fabbrica di Puebla in Messico, determinante per la penetrazione nel grande mercato americano. Contraddicendo clamorosamente le aspettative degli stessi sindacati, la riorganizzazione suscitò forti proteste da parte dei lavoratori. Le perdite che la produzione subì furono gravissime e la prospettiva di forti incrementi della vendita di auto negli Stati Uniti venne sconvolta. Tutto questo perché le ragioni della riorganizzazione non erano state spiegate con chiarezza alle maestranze, che persero fiducia nel management, benché le modifiche introdotte fossero in sé favorevoli ai lavoratori. Al contrario, la Siemens-Nixdorf, qualche anno dopo, nel 1994, in una fase di gravissima crisi produttiva, varò un piano aziendale che comportava forti sacrifici per il personale, ma che gli interessati accettarono, partecipando attivamente al processo di riorganizzazione. A differenza dei dirigenti della Volkswagen, quelli della Siemens-Nixdorf, a cominciare dall’amministratore delegato, si impegnarono in un capillare lavoro di spiegazione delle finalità e dei contenuti del piano di ristrutturazione, sollecitando dagli interessati – sia dirigenti di base che impiegati – modifiche o proposte migliorative. In appena due anni, la Siemens-Nixdorf condusse in porto una trasformazione che entrò nella storia dell’industria europea e riportò in attivo il bilancio dell’impresa. Gli impiegati si erano gettati a capofitto nel processo di riorganizzazione (parteciparono a iniziati- * quantitativa delle competenze. Non rimane che ripetere che nel campo dei comportamenti umani è ben difficile immaginare la fine dei concetti classificatori e la loro sostituzione con concetti quantitativi. Se, nella sua controversia con Newton, sappiamo ormai che Goethe aveva torto nel ritenere che la natura dei colori dovesse essere studiata, per una migliore conoscenza scientifica, con il metodo qualitativo anziché con quello quantitativo (Goethe scrisse un grande trattato sui colori, che considerò spesso più importante della sua intera opera poetica), nella spiegazione del comportamento sociale il linguaggio comune resta – pur con i suoi (o grazie anche ai suoi?) noti problemi di incertezza, polisemia e circolarità – lo strumento di analisi più potente e raffinato: “Si tratta di un sistema molto potente, che abbraccia una gran quantità di tipi di fenomeni sociali e individuali ed è di notevole sottigliezza e raffinatezza. Il suo livello attuale di sofisticazione è il prodotto di un lungo processo storico, durante il quale esso è stato influenzato in parte dai bisogni pratici della vita sociale, e in parte dal bisogno di esprimere le sottigliezze dell’interazione umana, bisogno avvertito da drammaturghi, romanzieri, poeti, avvocati, medici, insegnanti e altre persone impegnate in attività pratiche. Pensiamo che il linguaggio ordinario e il suo sistema concettuale costituiscano degli strumenti scientifici molto più raffinati di qualsiasi terminologia prodotta a priori e ad hoc dagli psicologi, sebbene, ovviamente, un vocabolario psicologico molto sofisticato possa essere prodotto dagli stessi processi che hanno prodotto il linguaggio ordinario” (R. Harré e P.F. Secord, La spiegazione del comportamento sociale, trad. it. Bologna, il Mulino, 1977, pp. 191-192). Vengono qui approfonditi temi trattati a p. 34. APPENDICE ve di formazione anche dopo l’orario di lavoro, spesso fino a mezzanotte), poiché avevano ritenuto – come osservano Kim e Mauborgne – che il processo avviato dall’azienda fosse un fair process (fair significa equo, corretto, come nella nota espressione fair play). Cos’è un fair process? Tre cose, rispondono gli autori appena menzionati: Engagement (coinvolgimento), Explanation (spiegazione) ed Expectation clarity (chiarezza di aspettative). Engagement significa acquisizione del punto di vista degli interessati nella formazione delle decisioni organizzative. Explanation significa spiegazione dei motivi delle decisioni prese e dei loro contenuti. Expectation clarity significa che, una volta adottata una decisione, vengono ben chiarite e comprese le aspettative che vi sono connesse (nuove regole, nuovi obiettivi, chi è responsabile di che cosa, ecc. in modo da minimizzare il political jockeying – come a dire: i “giochi di potere” – e i favoritismi). Il fair process – sottolineano Kim e Mauborgne – non significa “decision by consensus” (decisione consensuale). Non consiste, in altre parole, nel prefiggersi lo scopo dell’armonia o della conquista dell’appoggio della gente attraverso compromessi. Il suo grande vantaggio è di dare vita alla cooperazione volontaria, non per ciò che le decisioni aziendali assunte prevedono (può trattarsi anche di decisioni spiacevoli), ma per il modo in cui le decisioni vengono prese, poiché le persone ne traggono la percezione del rispetto e della considerazione delle proprie opinioni, e quindi della propria intelligenza. Questa percezione crea un clima di fiducia e la fiducia, a sua volta, suscita la “voluntary cooperation”, che catalizza iniziative e sprigiona idee, generando risposte che vanno persino al di là delle aspettative. Se questo è vero, la conclusione cui pervengono gli autori non è poi così enfatica: l’esperienza dimostra il “tremendous (enorme) power of fair process – fairness (equità) in the process of making and executing decisions. Fair process profoundly influences attitudes (atteggiamenti) and behavior critical (comportamento critico) to high performance”. A questo “tremendous” potere corrisponde il pesante “price of Unfairness”. La violazione della procedural justice scatena, per contrappasso, la retributive justice. La perdita di fiducia nel management spinge il personale “a politiche che sono minuziosamente dettagliate, rigide e spesso soffocanti sotto il profilo amministrativo”, fino magari a rigettare decisioni cruciali per la competitività dell’impresa, pur se vantaggiose per gli stessi lavoratori. “Such is the emotional power that unfair process can provoke” (“Tale è la potenza emotiva che l’unfair process può scatenare”). 10. I limiti delle casistiche* Pensare che si possa chiarire una regola enunciando un’ulteriore regola esplicativa della prima, conduce a un regresso all’infinito, che, peraltro, non porta ad una sempre maggiore chiarezza, perché, come sapevano bene i giuristi romani, se una norma è troppo dettagliata la sua applicazione tende a complicarsi invece che risultare più semplice. Questo succede perché le norme servono a regolare casi futuri e se le si appesantisce con troppi dettagli riferiti a singole fattispecie concrete diventa più difficoltosa la possibilità * Vengono qui approfonditi temi trattati a p. 44. 159 APPENDICE 160 di adattarle, in fase di applicazione, all’imprevedibile e innumerevole combinazione di casi che si possono presentare in futuro. Lo scarto tra regola astratta di giudizio (la norma) e la concreta formulazione del singolo giudizio (l’applicazione della norma) è ben illustrato in questo brano di Kant: “Se l’intelletto in generale vien definito la facoltà delle regole, la capacità di giudizio è la facoltà di sussumere sotto regole, cioè di distinguere se qualche cosa stia o no sotto una regola data (casus datae legis) ... Se [l’intelletto] volesse poi indicare in maniera generale, come si debba sussumere sotto queste regole, distinguere cioè se qualcosa vi rientri o no, questo non potrebbe avvenire altrimenti che, ancora, mediante una regola. Ma questa, appunto perché regola, esige da capo un ammaestramento della capacità di giudizio; e così si vede che l’intelletto bensì è capace di istruirsi e di munirsi con regole, ma la capacità di giudizio è un talento particolare, che non si può insegnare, ma soltanto esercitare. Quindi il giudizio è l’elemento specifico del così detto ingegno naturale, al cui difetto nessuna scuola può supplire; perciò, per quanto a un intelletto limitato questa possa somministrare e, per così dire, innestare in grande abbondanza regole tolte dalla scienza altrui, la capacità tuttavia di servirsene rettamente deve appartenere allo stesso scolaro; e non c’è regola che si possa suggerire a tale scopo, la quale, in mancanza d’un tal dono di natura, sia sicura dall’abuso. Quindi un medico, un giudice, un uomo di Stato può avere nella testa molte belle regole patologiche, giuridiche, politiche, tanto da poterne essere egli stesso un profondo maestro, e tuttavia all’applicazione sbagliare facilmente, o perché manchi di capacità di giudizio naturale (sebbene non manchi di intelletto) e comprenda bensì l’universale in abstracto, ma non sappia decidere se un caso particolare in concreto vi rientri, o anche per non essere stato sufficientemente indirizzato a un tal giudizio mediante esempi e casi pratici”. Dopo il passo citato Kant aggiunge in nota che “il difetto di capacità di giudizio è propriamente quello che si chiama grulleria, difetto a cui non c’è modo di arrecare rimedio. Una testa ottusa o limitata, alla quale non manchi altro che un conveniente grado di intelletto e dei suoi concetti, si può bene armare mediante l’insegnamento fino a farne magari un dotto. Ma, poiché in tal caso di solito avviene che si sia sempre in difetto di quello (di Secunda Petri), non è punto raro il caso di uomini assai dotti, i quali nell’uso della loro scienza lascino spesso scorgere quel tal difetto, che non si lascia mai correggere”. La Secunda Petri è la facoltà del giudizio, così detta scherzosamente da Kant con allusione alla II parte della Logica di Pietro Ramo (1512-1572), che tratta appunto della facoltà del giudizio. I brani qui citati di Kant sono tratti dalla Critica della ragion pura (Introduzione al libro secondo). 11. Il dilemma del prigioniero* Il “dilemma del prigioniero” illustra, nel linguaggio della teoria dei giochi, questo fondamentale problema: il bisogno di cooperazione nella vita sociale e la possibilità che tale bisogno abbia il sopravvento sulle tendenze egoistiche. In un carcere sono rinchiusi, in due celle isolate, e quindi senza la possibilità di comunicare fra loro, i prigionieri Neri * Vengono qui approfonditi temi trattati a p. 48. APPENDICE e Bianchi, fortemente sospettati di aver commesso una rapina a mano armata. Il giudice istruttore interroga separatamente ciascuno di essi, e fa loro un discorso che pone entrambi di fronte a questo dilemma: confessare o non confessare? Il giudice dice a Neri: “Non ho ancora la prova che tu, insieme al tuo socio, siate gli autori della rapina, ma ciò che so di entrambi è sufficiente per mandarvi in galera un anno per possesso illegale di armi da fuoco. Tieni conto tuttavia che il reato più grave di cui sei incolpato prevede una pena di 10 anni. Ora, se tu ti dichiari colpevole di questo reato e il tuo compagno invece non confesserà, farò un patto con te: te la caverai con una condanna a 3 mesi di carcere, mentre il tuo complice passerà in carcere 10 anni. Se invece confessate entrambi sarete tutti e due condannati a 5 anni di carcere”. Cosa dovrebbe fare Neri? Confessare subito e beneficiare così – sempreché l’altro non confessi – di una pena assai mite di tre mesi di detenzione? Oppure non confessare, augurandosi sempre che anche l’altro non confessi, e farsi così tutt’al più un anno di carcere? Ma attenzione! Neri deve anche considerare che se non confessa e confessa invece Bianchi, una condanna a 10 anni non gliela toglie nessuno. Meglio allora confessare subito ed essere così condannato – se anche Bianchi confessa – tutt’al più a 5 anni. Il dilemma del prigioniero Confessa NERI Non confessa 5 anni 10 anni Confessa Gioco non cooperativo: scelta sub-ottimale 5 anni 3 mesi BIANCHI Non confessa 3 mesi 10 anni 1 anno 1 anno Gioco cooperativo: scelta ottimale Niente di più facile che anche Bianchi arrivi alle stesse conclusioni e si precipiti così pure lui a confessare. Il risultato è che tutti e due dovranno stare in carcere 5 anni, mentre, se non avessero confessato, sarebbero entrambi usciti di prigione dopo solo un anno. Morale della favola: quando entrambi i prigionieri agiscono egoisticamente, perché non si fidano l’uno dell’altro, il dilemma: “confessare o non confessare?” viene sciolto adottando un comportamento (la confessione) che li porta entrambi a una lunga pena detentiva. Nel corso del tempo, il dilemma del prigioniero ha avuto numerose versioni. Una di queste, di stampo “popolare”, si ritrova nel film A beautiful mind dedicato alla vita di John Nash, matematico americano, premio Nobel. Chi ha visto il film ricorderà forse l’episodio in cui il protagonista, mentre si trova in un bar con alcuni compagni di 161 APPENDICE 162 università, descrive loro, per spiegare i principi della sua teoria, una scenetta in cui quattro giovanotti si contendono l’amore di una splendida ragazza circondata da quattro amiche. La competizione che ingaggiano li vede tutti e quattro miseramente perdenti. Cooperando le cose vanno molto meglio… Analogamente, finiscono per adottare una scelta che non è certo la migliore in assoluto (è una scelta “subottimale”, nel linguaggio degli economisti), i valutatori che non possono fidarsi (o non ritengono di potersi fidare) l’uno dell’altro. In questo caso, la scelta subottimale è quella dell’indiscriminata attribuzione a tutti i valutati del giudizio più favorevole possibile. I valutatori avrebbero interesse a una valutazione “giusta” (cioè “aderente alla realtà” e rispondente quindi al valore reale delle persone), perché questa può servire a motivare chi lavora di più e meglio. Ma poiché colui che valuta teme che il collega possa dare valutazioni tutte “gonfiate”, il suo timore è che la propria valutazione, benché “giusta”, finisca per non essere “equa”, in quanto suscettibile di penalizzare un proprio collaboratore che in un altro ufficio sarebbe magari, per la stessa prestazione di lavoro, valutato assai più generosamente. Il risultato è che ognuno rinuncia allora tout court alla serietà della valutazione, dando a tutti, indifferentemente, giudizi ottimi. Che si può fare per evitare questo esito? Come abbiamo visto, il dilemma del prigioniero avrebbe una soluzione tutta diversa e assai più favorevole per entrambi i prigionieri, se essi scegliessero di cooperare, vale a dire di non confessare. Ma occorre fidarsi l’uno dell’altro! Si tratta allora di apprestare meccanismi di garanzia che sorreggano la fiducia reciproca dei valutatori, trasformandola – se non proprio da “azzardo” in “certezza” – quanto meno da “azzardo” in “rischio calcolato” o, ancora meglio, in “affidamento ragionevole”. Tali meccanismi devono riguardare sia l’aspetto dell’oggettività del sistema di valutazione (ancorare le valutazioni a criteri di giudizio sufficientemente univoci, in modo tale che ognuno possa ragionevolmente attendersi che il collega valuterà una determinata prestazione di lavoro analogamente a come egli la valuta) che quello della veridicità delle valutazioni (ideare “contrappesi” che depotenzino la tendenza dei valutatori ad esprimere, nei confronti dei propri collaboratori, valutazioni irrealistiche, in modo tale che ciascuno possa ragionevolmente attendersi che il collega “non giocherà al rialzo” nell’esprimere le sue valutazioni). 12. Il valore della medietà e lo spazio della formazione* Potrebbe sembrare incoerente parlare del valore positivo della medietà, quando invece, nell’approccio di McClelland e dei suoi continuatori, le competenze costituiscono ciò che i più bravi fanno di differente oppure meglio o di più rispetto agli altri (e cioè presenza/assenza, grado di frequenza e livello di intensità di determinati comportamenti). L’incoerenza non c’è. In primo luogo, i medi non sono i just average performers di cui parlava McClelland (“coloro che fanno quel tanto che basta per non essere licenziati”, “people who did * Vengono qui approfonditi temi trattati a p. 53. APPENDICE their jobs just well enough not to get fired” ), ma sono persone che svolgono adeguatamente e onestamente il proprio lavoro. In secondo luogo, i medi sono coloro che eseguono una prestazione di (apprezzabile) valore medio, e non coloro che sono predestinati a poter eseguire solo una prestazione di quel tipo, come se fosse loro precluso lo spazio per ulteriori miglioramenti99. Se, partendo dall’esperienza di best performers, si arriva a delineare un modello di best performance, l’intento non è di cristallizzare, nel numero e nella composizione, la categoria di coloro che attualmente eseguono ottime prestazioni. L’intenzione è invece dinamica: definire un modello che possa valere come chiaro punto di riferimento per tutti coloro (non importa a quale categoria attualmente appartengano) che sono attivamente interessati a migliorare e sviluppare le proprie capacità. Fare un “elogio della medietà” non significa quindi porsi come obiettivo quello di congelare un’organizzazione nel suo attuale livello di medietà. Al contrario, un onesto riconoscimento della realtà di tale livello costituisce la premessa necessaria per la definizione e il perseguimento di un obiettivo veramente strategico di formazione: trasformare un’eventuale diffusa “mediocrità” (area di performance medio-inferiore) in una estesa “medietà” e una consistente quota di quest’ultima in una larga “medio-superiorità”. Le dimensioni prospettiche di questo programma formativo si possono facilmente intuire partendo dal grafico seguente che descrive la distribuzione statistica dei dati riguardanti il valore che, in una popolazione sufficientemente numerosa, una determinata variabile (ad es. la competenza professionale) tende ad assumere in assenza di interventi espliciti volti ad imprimere a quella variabile caratteristiche migliorative. La distribuzione gaussiana raffigurata nel grafico seguente è suddivisa in 5 fasce: quella centrale C presenta la frequenza più affollata (38% dei casi) e corrisponde a risul99 Nel suo celebre articolo del 1973, McClelland parlando della necessità di costruire test che riflettano i cambiamenti derivanti da ciò che gli individui apprendono, fa questo esempio: “Se l’eccellenza per un agente di polizia è in parte espressa mediante un atteggiamento imparziale verso tutti i gruppi minoritari, si potrebbe utilizzare per la selezione un test sulla imparzialità (o sulla mancanza di etnocentrismo), che dovrebbe riflettere la crescita in questa dimensione così come il poliziotto la sviluppa sul lavoro dopo il suo reclutamento. Uno dei più nascosti pregiudizi della psicologia, derivato dal concetto di attitudine immodificabile ed innata, è che qualunque tratto, come il pregiudizio razziale, non è modificabile con l’educazione. Chi nasce bigotto rimarrà per sempre bigotto. Non esiste nessuna solida evidenza che questo tratto o qualunque altro tratto umano non possa essere modificato” (McClelland, Testing for Competence Rather than for “Intelligence”, p. 8). Per quanto la contrapposizione fra i sostenitori dell’origine genetica di alcuni tratti del comportamento umano, come in particolare l’intelligenza, e quelli che ne danno una spiegazione riferita all’ambiente continui ad essere piuttosto aspra, né gli uni, né gli altri pretendono che tutta la vicenda possa essere interpretata in chiave genetica o ambientale. In altre parole, “da entrambe le posizioni si riconosce che in una certa misura le rispettive teorie non sono in grado di spiegare le variazioni che si riscontrano in questi tratti comportamentali. E questo è un punto particolarmente importante sotto l’aspetto formativo. Se si ammette infatti che il livello attitudinale possa essere almeno in parte modificato, si lascia aperta la via a un intervento esplicito che si proponga di ottenere questo risultato” (B. Vertecchi, Le parole della scuola, Milano, La Nuova Italia, 2002, p. 47). C’è, ovviamente, un problema fondamentale di costi, poiché, per dirla con le parole di un direttore del personale americano, “È possibile insegnare a un tacchino ad arrampicarsi sugli alberi, ma è più facile assumere uno scoiattolo” (Spencer & Spencer, op. cit., trad. it., p. 33). Tuttavia, una volta che le assunzioni sono state fatte, bisogna sempre attentamente considerare non solo quali siano i costi della formazione, ma anche quali siano i costi connessi all’eventuale rinuncia a miglioramenti di prestazione lavorativa resi possibili da appropriate azioni formative. Per un’analisi della convenienza economica dei programmi di sviluppo delle competenze, si può vedere L.M. Spencer, The Economic Value of Emotional Intelligence Competencies and EIC-Based HR Programs, cit. 163 APPENDICE tati medi; le fasce B e D (24% dei casi ciascuna) corrispondono rispettivamente a risultati medio-inferiori e medio-superiori; infine le fasce estreme A ed E (7% ciascuna) comprendono la prima i risultati peggiori e l’altra i migliori. Distribuzione pentenaria normale % 40 media 7 7 164 in ciascuna fascia 30 rientrano i punteggi 20 compresi nell'intervallo di una deviazione 10 standard 0 B A C D E fascia 38% 7% 7% 24% Nei modelli più avanzati di mastery learning (apprendimento per la padronanza), si ipotizza che efficaci programmi di formazione individualizzata (che non significa “individuale”) possano spostare la distribuzione dei dati dalla classica curva normale a campana ad una curva a j, così chiamata perché asimmetrica, con frequenze più elevate in corrispondenza dei risultati migliori (B. Vertecchi, Decisione didattica e valutazione, Firenze, La Nuova Italia, 1993, pp. 297-300). Distribuzione a j 70 60 50 40 30 20 10 0 A B C D E Bisogna poi sempre ricordare la comune verità – appresa fin dalle prime esperienze scolastiche – secondo la quale il concetto di media non è assoluto ma relativo (l’abilità APPENDICE media di un gruppo è la media di quel gruppo: una cosa è essere “medi” in una classe di “brocchi”, un’altra è essere “medi” in una classe di “bravi”) e non è statico ma dinamico: crescendo il livello complessivo di abilità di un gruppo, vi aumenta anche il valore medio di abilità, sicché è tutt’altro che incongruo fare, ad esempio, confronti tra due organizzazioni, giungendo alla conclusione che in una organizzazione vi sono, a differenza che nell’altra, elementi medi di “buon livello”. In effetti, ciò che fa grande una grande organizzazione non sono poche punte di eccellenza ma il raggiungimento di elevati standard medi100. In conclusione, l’apprezzamento del valore della medietà non è deterministico in almeno due sensi: • all’interno di un gruppo è sempre possibile (o almeno non lo si può mai escludere a priori) che con adeguate azioni formative sia possibile elevare la fascia dei mediosuperiori e ridurre, correlativamente, quella dei medi, spostando la composizione del gruppo da una distribuzione a campana dell’abilità professionale a una distribuzione a j. In sintesi, questo significa ridurre sensibilmente la percentuale dei medi e far crescere di riflesso la percentuale dei medio-superiori ovvero – per dirla ancora più semplicemente – far diventare maggioranza i “bravi”; • anche assumendo che la consistenza percentuale dei medi e dei medio-superiori non possa significativamente cambiare, si può sempre puntare, grazie alla formazione, ad elevare il livello di professionalità dei medi, ed è proprio questa crescita complessiva dei medi che può costituire il vantaggio competitivo di un’organizzazione rispetto all’altra (negli anni ’80 una delle principali differenze tra una fabbrica di auto europea e una giapponese stava proprio nella capacità media di lavoro degli addetti). In questa ipotesi, non cambierebbe molto, all’interno dell’organizzazione, il rapporto quantitativo fra medi e medio-superiori, ma, in assoluto, i medi raggiungerebbero un livello di professionalità significativamente maggiore rispetto al livello precedente o rispetto al livello di professionalità dei medi di un’altra organizzazione. 100 Questa considerazione di semplice buon senso, tratta dall’esperienza comune, sembrerebbe addirittura poter assumere una cifra interpretativa più profonda alla luce della teoria dell’evoluzione: “Qualsiasi collettività può giovarsi, al suo interno, di una piccola percentuale di individui con caratteristiche estreme, ovvero ‘vicini alla punta della coda’: ma è necessario che questi individui non siano troppo numerosi. È dunque un bene che vi siano dei creativi, e magari anche taluni individui molto creativi, e magari anche qualcuno così creativo da essere visionario; ma un qualsiasi gruppo diventa caotico se le persone con queste caratteristiche sono più che pochissime. Oppure possiamo supporre che una tribù, o un villaggio, tragga vantaggio dalla presenza di una certa percentuale di coraggiosi entusiasti; però andrà verso il baratro se le persone pronte a entusiasmarsi non sono controbilanciate da un numero adeguato di persone più caute e pensose, e magari da pochissime persone (non troppe!) estremamente caute e pensose. E così via. 101 Peraltro, la curva di Gauss testimonia che l’evoluzione stessa delle specie – e dei gruppi – ha operato in modo tale da distribuire sempre in proporzioni accettabili il rapporto fra medietà ed eccezionalità. Schematizzando, possiamo ritenere che le società con troppi individui banali si siano estinte non meno facilmente di quelle con troppi individui originali” (G. Jervis, Prime lezioni di psicologia, Bari, Laterza, 2000, pp. 130-131). Considerazioni del genere – che in sé sono tutt’altro che implausibili – vanno tuttavia accolte sempre con qualche cautela, poiché nella “psicologia evoluzionistica” si manifesta a volte questa tendenza: “il semplice fatto di poter concepire un’interpretazione adattiva di un dato fenomeno comportamentale diventa la ragione prima per sospettarne un’origine genetica” (H. Allen Orr, Favolistica darwiniana, in «La Rivista dei Libri», n. 9, 2005, p. 18). 165 Indice dei nomi 167 A Allen Orr, H.; 165 Apel, K.O.; 137 Argyris, C.; 15 Aristotele; 20; 42; 154 Glucksberg, S.; 71 Goethe, J.W.; 158 Goleman, D.; 55; 130; 151 Göring, H.; 127 Grandori, A.; 34; 55; 131; 135; 150 H B Barrett, G.V.; 125 Berlew, D.; 144 Boyatzis, R.E.; 55; 125; 130; 135; 143; 144; 150 Hamel, G.; 132; 133 Harré, R.; 158 Hay Group; 21; 137; 138; 144 Holmes, S.; 99 Husserl, E.; 137 C I Calvino, I.; 93 Capucci, U.; 51; 130; 134 Carnap, R.; 153; 154; 156 Cassese, S.; 132 Cherniss, C.; 151 Clinton, B.; 132 Croce, B.; 41 Isotta, F.; 34 J James, W.; 16 Jervis, G.; 165 D K Dalí, S.; 37 Darley, J.M.; 71 Davis, K.; 15 Depinet, R.L.; 125 F Kamprad, I.; 70 Kant, I.; 15; 160 Kaspar; 13 Kelsen, H.; 75 Kim, W.C.; 158; 159 Kinchla, R.A.; 71 Klein, G.D.; 51 Fish, R.; 69; 71 L G Gaebler, T.; 132 Galilei, G.; 74; 154; 156 Gandhi, M.; 74 La Torre, M.; 37 Lévi-Strauss, C.; 72 Locke, E.A.; 130 Lovejoy, A.; 143 INDICE DEI NOMI M 168 Mauborgne, R.; 158; 159 McBer; 144; 145 McClelland, D.; 17; 18; 19; 20; 21; 125; 126; 128; 130; 131; 132; 133; 134; 138; 140; 141; 144; 147; 148; 149; 153; 162; 163 McKee, A.; 55 Mero, N.P.; 32; 34; 45; 49; 149 Miller, W.; 74 Moran, S.F.; 144; 145 N Naidu, S.; 74 Napoleone; 59 Nardi, E.; 37 Nash, J.; 161 Newton, I.; 158 Normann, R.; 70 S Sandberg, J.; 32; 128; 129; 135; 136; 137 Schrödinger, E.; 40 Scott, W.G.; 15 Secord, P.F.; 158 Senge, P.M.; 65 Simon, H.A.; 66; 69 Sorokin, P.A.; 42 Spencer, L.M.; 151; 163 Spencer, L.M. & Spencer, S.M.; 18; 19; 24; 51; 126; 128; 130; 131; 135; 137; 138; 139; 141; 143; 144; 147; 148; 149; 150; 151; 163 Spielberg, S.; 157 Sunstein, C.R.; 99 T O Tosi, H.L.; 32; 34; 45; 49; 149 Totò; 75 Trilussa; 127; 128 Occam, G. di; 142 Oggioni, E.; 132; 133 Osborne, D.; 132 V P Vertecchi, B.; 37; 163; 164 Visalberghi, A.; 41 Pilati, M.; 32; 34; 45; 49; 149 Poincaré, R.; 66 Prahalad, C.K.; 132; 133 W R Ramo, P.; 160 Rizzo, J.; 32; 34; 45; 49; 149 Rolandi, A.; 132; 133 Watzlawick, P.; 69; 71 Weakland, J.H.; 69; 71 Weick, K.; 16 Wittgenstein, L.; 39; 44 Le collane del Formez 171 Quaderni 1. 2. Quarto rapporto nazionale sulla formazione nella P.A. – Lo scenario della formazione nel sistema delle autonomie locali 10. Integrazione dell’offerta formativa – La normativa nazionale (maggio 2001) 11. Sesto rapporto nazionale sulla formazione nella P.A. – Lo scenario della formazione nel sistema delle autonomie locali La riforma del welfare e le nuove competenze delle amministrazioni regionali e locali (giugno 2001) 3. Patti territoriali e agenzie di sviluppo (aprile 2003) (maggio 2003) 12. L’Amministrazione liberale – Appunti di lavoro (giugno 2003) (giugno 2001) 4. Il ruolo delle agenzie locali nello sviluppo territoriale 13. La valorizzazione sostenibile delle montagne (giugno 2003) (luglio 2001) 5. Comuni e imprese – 56 esperienze di Sportello Unico (ottobre 2001) 6. Progetto Officina – Sviluppo locale e eccellenza professionale 14. Governare lo sviluppo locale – Le aree protette marine della Sardegna (giugno 2003) 15. Le Agenzie di Sviluppo al Centro Nord – Strategie di rete e comunità professionali (giugno 2003) (febbraio 2002) 16. Contabilità ambientale negli enti locali 7. Quinto rapporto nazionale sulla formazione nella P.A. – Lo scenario della formazione nel sistema delle autonomie locali (giugno 2003) 17. Le Agende 21 Locali (giugno 2003) (maggio 2002) 8. Lezioni sul nuovo ordinamento amministrativo italiano 18. Integrazione dell’offerta formativa – Normativa regionale (luglio 2003) (ottobre 2002) 9. Le Province nell’attuazione del piano di e-government (novembre 2002) 19. Piani di azione e politiche di innovazione – Il caso dello Sportello Unico (dicembre 2003) 20. Le autonomie locali nelle regioni a Statuto speciale e nelle Province Autonome 34. Scenari per il ‘buon governo’ delle Regioni (aprile 2005) (marzo 2004) 21. La Pubblica Amministrazione e il sistema delle imprese – Rapporto di ricerca 172 35. Qualità nei Servizi per l’Impiego – Sistemi locali e nuovi strumenti di rilevazione (aprile 2005) (marzo 2004) 22. La comunicazione pubblica – Linee operative (giugno 2004) 36. Ottavo rapporto nazionale sulla formazione nella P.A. – Lo scenario della formazione nel sistema delle autonomie locali (luglio 2005) 23. La semplificazione amministrativa nelle regioni (giugno 2004) 24. Settimo rapporto nazionale sulla formazione nella P.A. – Lo scenario della formazione nel sistema delle autonomie locali 37. L’empowerment degli Sportelli unici (settembre 2005) 38. Note e commenti sul sistema amministrativo italiano/2004 (3 voll.) (ottobre 2005) (luglio 2004) 25. La formazione nella P.A. che cambia – L’esperienza del Ministero dell’Ambiente 39. Autonomia tributaria e federalismo fiscale (novembre 2005) (luglio 2004) 26. L’attrattività dei territori nelle politiche di internazionalizzazione (ottobre 2004) 27. La governance dell’internazionalizzazione produttiva – Il Laboratorio (ottobre 2004) 28. La governance dell’internazionalizzazione produttiva – L’Osservatorio (ottobre 2004) 29. La comunicazione interna nella P.A. regionale e locale (novembre 2004) 40. Nuovi profili di accountability nelle P.A. (2 voll.) (novembre 2005) 41. Il governo della salute – Regionalismi e diritti di cittadinanza (dicembre 2005) 42. Autonomia regionale e unità della Repubblica (dicembre 2005) 43. La contrattazione integrativa nei comparti della P.A. – Quadriennio 2001/2004 (febbraio 2006) 30. La public governance in Europa (7 voll.) (dicembre 2004) 31. Nuovi soggetti della governance esterna 44. Sostenibilità urbana e decentramento – La Rete dei Municipi di Roma per Agenda 21 Locale (febbraio 2006) (dicembre 2004) 32. L’analisi di impatto della regolazione in dieci Paesi dell’Unione europea 45. Scenari e tendenze della formazione pubblica (marzo 2006) (gennaio 2005) 33. Le risorse culturali – Studi di fattibilità ed esperienze di gestione (gennaio 2005) 46. I livelli essenziali delle prestazioni – Questioni preliminari e ipotesi di definizione (giugno 2006) 47. Nono rapporto nazionale sulla formazione nella P.A. – Lo scenario della formazione nel sistema delle autonomie locali 50. La semplificazione tra Stato, Regioni e Autonomie locali – Il caso della legge 241 (novembre 2006) (luglio 2006) 48. L’amministrazione per sportelli (ottobre 2006) 49. I confronti di performance tra Comuni come strumento di apprendimento 51. Note e commenti sul sistema amministrativo italiano in contesto internazionale. 2006 (3 voll.) (dicembre 2006) (ottobre 2006) Strumenti 1. Il contenzioso nel lavoro pubblico (maggio 2001) 2. Modello e strumenti di valutazione e monitoraggio dei corsi RIPAM (luglio 2001) 3. Appunti di programmazione, bilancio e contabilità per gli enti locali (gennaio 2002) 4. Project Cycle Management – Manuale per la formazione (marzo 2002) 5. Il governo elettronico – Rassegna nazionale e internazionale (marzo 2002) 6. Il governo delle aree protette (aprile 2002) 7. Il contenzioso nel lavoro pubblico – L’arbitrato (aprile 2002) 8. Common Assessment Framework – Uno strumento di autovalutazione per le pubbliche amministrazioni (giugno 2002) 9. Il controllo di gestione negli enti locali (luglio 2002) 10. Comunità di pratiche, apprendimento e professionali – Una metodologia per la progettazione (dicembre 2002) 11. Modello e strumenti web-based di valutazione e monitoraggio dei corsi RIPAM (marzo 2003) 12. L’impresa artigiana e lo Sportello Unico per le attività produttive (marzo 2003) 13. Programmazione e realizzazione di progetti pubblici locali – Un sistema di monitoraggio degli interventi (giugno 2003) 14. Manuale per il responsabile dello Sportello Unico – Regione Lombardia (giugno 2003) 15. Manuale per il responsabile dello Sportello Unico – Regione Emilia-Romagna (settembre 2003) 16. Il sistema normativo della protezione civile (novembre 2003) 17. Il ruolo delle Province in materia di viabilità (febbraio 2004) 18. Investimenti pubblici e processo decisionale (maggio 2004) 19. Manuale per il responsabile dello Sportello Unico – Regione Campania (maggio 2004) 173 20. Manuale per il responsabile dello Sportello Unico – Regione del Veneto 28. La Governance locale – Linee guida per le Province (novembre 2005) (giugno 2004) 21. Il contratto di servizio – Elementi per la redazione e la gestione 29. La governance locale – Linee guida per le Comunità montane (dicembre 2005) (luglio 2004) 174 22. Guida alla progettazione dell’offerta formativa integrata (luglio 2004) 30. Le garanzie nel sistema locale delle comunicazioni: le deleghe ai Co.Re.Com. – Linee guida per le materie delegate (dicembre 2005) 23. Programmazione e gestione della formazione – Il sistema Informal (novembre 2004) 24. Manuale per il responsabile dello Sportello Unico – Regione Piemonte (dicembre 2004) 25. La Governance locale – Linee guida per i Comuni (agosto 2005) 26. Il lavoro coordinato e continuativo nella P.A. – Linee guida 31. Manuale per il responsabile dello Sportello unico – Regione Lazio (dicembre 2005) 32. Le misure del cambiamento nella P.A. – Indicatori di performance (febbraio 2006) 33. La governance locale – Strumenti e buone pratiche (3 voll.) (maggio 2006) (settembre 2005) 27. La finanza di progetto – Esperienze a confronto 34. Scenari della riforma dell’Unione europea (ottobre 2005) (dicembre 2006) Azioni di Sistema per la Pubblica Amministrazione 1. Sportello Unico e servizi alle imprese – Le azioni delle Regioni 6. (novembre 2002) 2. L’impatto economico dello Sportello Unico (agosto 2003) 7. (novembre 2002) 3. Scambio di innovazioni tra amministrazioni Il Bilancio di Competenze – Una proposta per la Pubblica Amministrazione (giugno 2003) 5. Progetti integrati e sviluppo territoriale – Regioni Obiettivo 1 (luglio 2003) Le politiche di incentivazione del personale nella P.A. (agosto 2003) 8. (aprile 2003) 4. L’attuazione della riforma del welfare locale (2 voll.) Lo sviluppo delle risorse umane – Casi di sistemi premianti (agosto 2003) 9. Lo Sportello Unico e le politiche regionali per le imprese (dicembre 2003) 10. Modelli di gestione per i Progetti Integrati Territoriali (dicembre 2003) 11. Governance e sviluppo territoriale (dicembre 2003) 20. Percorsi evolutivi dei Piani di Zona – Analisi di sfondo (novembre 2004) 12. Le competenze delle Agenzie di sviluppo – Sperimentazione in Calabria e Sardegna (dicembre 2003) 13. Il partenariato socioeconomico nei progetti integrati territoriali (dicembre 2003) 14. Apprendimento e cambiamento organizzativo nella P.A. – Tre casi europei a confronto (aprile 2004) 15. L’esperienza dei PIT – Studi di caso (aprile 2004) 21. Riforma del welfare e gestione dei servizi sociali – Quadro normativo e strumenti di lavoro (dicembre 2004) 175 22. Lo sviluppo dei sistemi turistici locali – Regioni Obiettivo 1 (dicembre 2004) 23. Gli osservatori provinciali sociali (febbraio 2005) 24. Strategie di utilizzo del marketplace nelle amministrazioni pubbliche (marzo 2005) 16. La formazione continua nella P.A. – L’esperienza del Progetto Gymnasium (aprile 2004) 17. Flessibilità e lavoro pubblico – Manuale operativo (maggio 2004) 18. Gestione delle procedure telematiche di acquisto nelle P.A. – Linee guida sul marketplace 25. Sviluppo territoriale Agenzie e Pubblica Amministrazione – Interpretazioni e pratiche innovative (maggio 2005) 26. La programmazione sanitaria – Metodologie e strumenti di valutazione per le Regioni e le aziende sanitarie (giugno 2005) (maggio 2004) 19. Sistemi informativi per i progetti integrati territoriali (luglio 2004) 27. Dai sistemi di qualità alla qualità di sitema – La domanda-offerta di formazione per la P.A. (dicembre 2006) Formez Ufficio Stampa ed Editoria via Salaria 226, 00198 Roma tel. +39 06 85330783 [email protected] Formez Centro di Formazione Studi Presidenza e Direzione Generale via Salaria 229, 00199 Roma tel. 06 84891 www.formez.it Stampa Società Tipografica Romana S.r.l. - Pomezia (Roma) Finito di stampare nel mese di febbraio 2007 Pubblicazione non in vendita