21 ottobre 2003 Stefano Santangelo LA SCISSIONE NELLA RIFORMA Sommario: Premessa 1. La modificazione della terminologia da "trasferimento" ad "assegnazione" 2. L'art. 2506 2.1. La causa della scissione 2.2. La causa della scissione non proporzionale 2.3. La cd. scissione negativa 2.4. La distribuzione di partecipazioni della scissa invece che delle beneficiarie, con il consenso unanime dei soci, di cui all'art. 2506 II comma seconda parte 2.5. Il conguaglio, di cui all'art. 2506 II comma prima parte 2.6. Il disposto dell'art. 2506 III comma c.c.. La soppressione della previsione della scissione di società sottoposte a procedure concorsuali. Rinvio. 3. L'art. 2506-bis. Il Progetto di scissione 4. La tutela della minoranza nella scissione 4.1. Il diritto di recesso 4.2. Il diritto di vendere le partecipazioni in caso di scissione non proporzionale 5. I procedimenti semplificati 5.1. La scissione proporzionale 5.2. Scissione per incorporazione in beneficiaria che possiede almeno il 90% delle partecipazioni della scissa. Art. 2505-bis I comma 5.3. Un difetto di coordinamento tra fusione e scissione. Art. 2505-bis II comma 5.4. Omissione della redazione della situazione patrimoniale e dalla relazione illustrativa di cui agli artt. 2501 quater e 2501 quinquies con il consenso dei soci e dei possessori di altri strumenti finanziari muniti di diritto di voto 6. La relazione di stima prevista in caso di scissione eterogenea. Art. 2501- sexies c.c. 7. Il regime della responsabilità 8. Inderogabilità del termine dei trenta giorni tra iscrizione del progetto di scissione e delibera di approvazione di esso 9. Art. 2504-bis richiamato dall'ultima parte del I comma dell'art. 2506quater 9.1. Il principio della continuità dei valori di bilancio 9.2. Rapporto tra principio della continuità contabile e capitale post-scissione 9.3. La gestione del disavanzo da scissione 10. La ratio del mancato richiamo all'art. 2505-quater Premessa Con questo lavoro la scissione viene indagata nel cono di luci e di ombre che su di essa ha proiettato la novella societaria, sfrondata quindi sia delle problematiche comuni alla fusione, alla quale si fa costante ma implicito riferimento, sia del lungo dibattito che ha interessato l'istituto sin dalla sua nascita avvenuta all'inizio degli anni '90. 1. La modificazione della terminologia da "trasferimento" ad "assegnazione" Il disposto dell’articolo 2506 c.c., nell'individuare le varie forme in cui può articolarsi l’operazione di scissione, prevede che la stessa si attui attraverso l’"assegnazione" (in luogo di "trasferimento"), in tutto o in parte, del patrimonio della società scindenda ad una o più società, preesistenti o di nuova costituzione, a fronte della distribuzione di azioni o quote di queste ultime ai soci della prima; analogamente il legislatore della riforma, con precisione chirurgica, ha espunto da tutti gli articoli che vi facevano riferimento il verbo "trasferire" ed il sostantivo "trasferimento", sostituendoli con il verbo "assegnare" ed il sostantivo "assegnazione"; si rileva la disattenzione contenuta nel II comma dell'art. 2506 bis, dove ancora si legge "società trasferente". Preliminarmente appare opportuno esaminare i motivi che hanno indotto il 2 legislatore ad operare tale modificazione lessicale al fine di verificare se ciò possa influenzare o meno il dibattito dottrinale già in essere circa la ricostruzione dogmatica dell'istituto della scissione. Pertanto non possiamo esimerci dall'entrare in tale dibattito, sorto all'indomani dell'introduzione dell'istituto della scissione ad opera del D.lgs. 22/1991, in ordine alla natura giuridica della scissione stessa che ha visto fronteggiarsi i fautori della teoria del trasferimento patrimoniale tra società e coloro i quali qualificano la figura come vicenda modificativa dell'organizzazione societaria. E' bene chiarire, però, che l’economia di questo lavoro ci consente di analizzare tali teorie solo nei loro tratti essenziali; questo pur nella consapevolezza che ridurre il dibattito ad una mera contrapposizione tra due visioni soltanto del fenomeno che ci occupa è certamente riduttivo in quanto le posizioni sull'argomento sono molteplici, spesso sfumate ed articolate; sull'altare della semplificazione si deve però spesso sacrificare la completezza espositiva, pur nella consapevolezza della sua imprecisione. L’orientamento, per così dire, tradizionale, richiamandosi alle indicazioni emergenti dalla direttiva comunitaria ed al dato letterale dell’articolo 2504 septies e segg. c.c., considera centrale nella ricostruzione dogmatica dell’operazione scissoria il momento traslativo rappresentato dal trasferimento di attività e/o di passività dalla società scindenda alle beneficiarie, sulla considerazione che la scissione attui una successione nell’intero patrimonio o in parte di esso. Coerentemente con le premesse, si è ritenuta applicabile alla scissione l’intera disciplina dettata in materia di trasferimenti con intuibili ripercussioni sulle tecniche contrattualistiche in genere e sull'attività del notaio in particolare (si pensi ad esempio alle verifiche di ordine urbanistico, alla trascrizione degli atti ecc., formalità queste tipicamente e tradizionalmente legate alla circolazione di beni immobili). A fronte di una tale impostazione, si è progressivamente affermata una diversa ricostruzione della scissione, alla quale aderisce chi scrive, che tende ad analizzare il fenomeno in termini propriamente societario-organizzativi: la 3 scissione rappresenta separazione, divisione di una struttura organizzata la cui essenza non può esaurirsi in termini di trasferimento di beni tra soggetti, qualunque ne sia il titolo. Anticipando talune riflessioni che saranno poi sviluppate nel prosieguo di questo lavoro, appare opportuno richiamare le osservazioni di P. Ferro Luzzi (La nozione di scissione, in Giur. Comm., 1991, I, p. 1071) quale chiaro indice del particolare angolo prospettico in cui questo secondo orientamento analizza l'istituto de quo. L'autore evidenzia, infatti, che la scissione non può essere ricondotta nei sistemi "a soggetto", in cui è il soggetto il centro logico, ideologico, politico e concettuale, bensì nei sistemi "ad attività", nei quali il centro è l'attività oggettivamente considerata e non più il soggetto; i beni sono concepiti come valori economici, quali strumenti per lo svolgimento dell'attività. Se nei fenomeni a soggetto la circolazione dei beni e rapporti è relazionata ai soggetti che ne rappresentano il fulcro, nella scissione si modifica e si "disgrega" l'organizzazione cui questi beni fanno capo. Ciò premesso, alla luce del rinnovato testo normativo potrebbe apparire chiara la finalità cui tende il legislatore con l’eliminazione di ogni riferimento al termine "trasferire": far venir meno il principale appiglio testuale alla ricostruzione del fenomeno scissorio quale trasferimento. Ulteriore conforto potrebbe trarsi dalla lettura della relazione di accompagnamento alla riforma della commissione "Vietti", ove espressamente si afferma che <<... Da un punto di vista terminologico si è ritenuto opportuno in tema di scissione caratterizzare i suoi riflessi sui beni in termini di "assegnazione" e non di "trasferimento". Ciò anche al fine di chiarire, come riconosciuto da giurisprudenza consolidata, che nell'ipotesi di scissione medesima non si applicano le regole peculiari dei trasferimenti dei singoli beni (ad esempio relative alla situazione edilizia degli immobili).>>. Ad avviso di chi scrive, però, né la modifica terminologica, né la chiarificazione contenuta nella relazione sono elementi di per sé sufficienti per la propensione alla teoria della modifica organizzativa pensionando definitivamente la teoria traslativa; sotto questo aspetto riteniamo ragionevole quanto afferma 4 G.B. Portale (Osservazioni sullo schema di decreto delegato approvato dal Governo in data 29-30 settembre 2002, in tema di riforma delle società di capitali, in Riv. Diritto Privato, 2002, 4, p. 718), il quale sottolinea che l’innovazione legislativa vuole offrire una stampella normativa alla tesi della natura semplicemente organizzativa e non traslativa dell’istituto, laddove non è compito del legislatore puntellare una tesi utilizzando una terminologia piuttosto di un'altra: la propensione per una teorizzazione deve essere giocata sul campo della rigorosa ricostruzione dogmatica. All’impostazione tradizionale non può non imputarsi una miope ricostruzione degli scopi del procedimento di cui si parla, nel quadro di un’analisi che, rimanendo ancorata al concetto (che definirei statico e civilistico) della traslazione di beni da una società ad un’altra, non considera la reale portata della vicenda che coinvolge, invece, quali centri di riferimento degli interessi, i soci e non le società. Nella visione che configura la scissione quale modificazione dell'assetto strutturale delle società partecipanti all'operazione, visione che ci sia consentito definire "dinamica", la scissione è teleologicamente tendente ad attuare un riassetto societario, o meglio una riallocazione degli elementi patrimoniali della scissa allo scopo di meglio perseguire il fine proprio degli enti societari rappresentato dallo scopo di lucro. In questo modo il punto di vista prospettico si sposta dal piano squisitamente "civilistico" dello spostamento patrimoniale tra soggetti - le società coinvolte - al piano "sociale" che si sostanzia nel riassetto organizzativo della struttura delle stesse società partecipanti per mano dei soci. Nell'ambito di un simile approccio interpretativo le società beneficiarie devono essere considerate, una volta portata a termine la scissione, quali evoluzioni organizzative della società scissa: la parte del patrimonio della scissa (o l'intero patrimonio nel caso di scissione totale) viene ricollocato e destinato (sempre senza abbandonare il piano organizzativo) ad un fine ritenuto più "utile" al perseguimento degli scopi lucrativi. In gioco non sono le società come soggetti portatori di un proprio interesse; rilevanti sono invece gli interessi tra le 5 compagini sociali che riassettano, riallocano, riorganizzano i beni a mezzo dei quali è svolta l'attività commerciale attraverso lo strumento societario. Se prima della scissione le partecipazioni al capitale della scissa detenute dai soci di questa rappresentano la misura dei loro diritti patrimoniali e amministrativi sul patrimonio sociale, alla conclusione dell'operazione di scissione la partecipazione acquisita dagli stessi nella società beneficiaria, a fronte dell'assegnazione di parte del patrimonio, rappresenta la medesima misura sul patrimonio di quest'ultima, costituendo per i soci unicamente una sorta di "surrogazione reale". Si pensi ad esempio al socio titolare del 10% del pacchetto azionario della società ALFA con patrimonio netto 2.000 (quindi potenziale titolare di una ricchezza pari a complessivi 200) che a seguito di una scissione parziale assegna la metà del patrimonio netto alla BETA S.p.a. che ha patrimonio netto 1.000; nella ALFA il socio mantiene il suo 10% su un patrimonio netto postscissione di 1.000 (potenziale titolare di ricchezza per 100), mentre nella BETA con patrimonio ora di 2.000 (1.000 + 1.000) il socio acquisisce una partecipazione del 5% in BETA (il 10% sui 1.000 assegnati, diventa 5% per la somma con il patrimonio netto già di 1.000; corrispondente a potenziale ricchezza per 100). La posizione economica del socio non ha subito quindi alcuna modificazione; naturalmente resta ferma la possibile fisiologica alterazione degli indicati valori determinata dall'incidenza del rapporto di cambio fissato dagli amministratori, controllato nella sua congruità dagli esperti e che i soci avranno "accettato". Dal punto di vista economico sostanzialmente nulla si modifica per il socio in quanto resta invariato l'ammontare della potenziale ricchezza a lui facente capo. Il socio dall'operazione di scissione non riceve un vantaggio né un nocumento poiché l'operazione è semplicemente volta alla razionalizzazione dei beni aziendali per un loro utilizzo più proficuo: quella che è finalità sinergica della fusione, nella scissione è razionalizzazione dell'organizzazione. A questo punto non possono non prendersi in considerazione le vibrate critiche alla teoria che nega la presenza di una vicenda traslativa, formulate da U. Belviso (La fattispecie della scissione, in Studi in onore di G. Cottino, CEDAM, 6 II, p. 1433) il quale sostiene che negare la traslazione significa <<ammettere che le società ... non sono, alla pari delle persone fisiche, veri soggetti di diritto, ma ipostatizzazione di discipline di attività e beni comuni a più persone fisiche.>>. Negare il fenomeno traslativo, a detta dell'autore, significherebbe negare la soggettività della persona giuridica in termini di centro di imputazione; infatti <<anche quando i soci di una società si vedono assegnate azioni ottenute dalla loro società per il conferimento da questa fatto ad altra società può dirsi ... che non c'è stato alcun vero trasferimento di beni tra la prima società e la seconda, ma solo l'assoggettamento di certi beni messi in comune per l'esercizio dell'attività economica a un diverso regolamento societario, e che i soci hanno ottenuto azioni che rappresentano pur sempre beni che già loro appartenevano.>> Questa critica, a mio avviso, non convince. Lo scopo della o delle società partecipanti alla scissione è una ristrutturazione organizzativa che passa attraverso una risistemazione degli elementi patrimoniali, con la conseguente distribuzione di azioni o quote ai soci. Proprio l’attenta analisi dei due "segmenti" attraverso cui l’operazione si realizza ("assegnazione" di beni dalla società scindenda alla beneficiaria; distribuzione di azioni o quote della beneficiaria ai soci della prima) consente di comprendere come la scissione sia istituto caratterizzato da una duplice vicenda incidente su piani diversi: un piano sociale in relazione al quale si realizza la vicenda che coinvolge i soggetti persone giuridiche, costituito dall'assegnazione di parte del patrimonio da una società ad un'altra ed un piano che può definirsi extra-sociale, rappresentato dall'incidenza sui patrimoni dei singoli soci con l'attribuzione ad essi (e non alla società scissa) delle partecipazioni delle società beneficiarie. Diverso sarebbe se le partecipazioni della o delle società beneficiarie fossero attribuite alla società scissa e non ai soci di quest'ultima; l'operazione si concluderebbe su un unico piano e si esaurirebbe in un'unica vicenda tra i medesimi soggetti rappresentati dalle società partecipanti. L'intersecazione delle due ricordate vicende rappresenta, quindi, il fulcro della figura della scissione (così come quella della fusione): due vicende che, diversamente da come accade normalmente, non si esauriscono in un rapporto tra 7 i medesimi soggetti sul medesimo piano, ma coinvolgono soggetti diversi (nella prima le società tra loro, nella seconda i soci tra loro) su piani diversi (nella prima quello sociale-organizzativo, nella seconda quello "contrattuale" tra i soci). Nel sistema "ad attività" cui allude il Ferro Luzzi, non c'è trasferimento, ma evoluzione organizzativa delle strutture societarie: in maniera speculare alla fusione, la riorganizzazione passa non già attraverso il trasferimento civilistico, ma per il tramite di una volontà di scomposizione di riallocazione degli elementi patrimoniali della scindenda. Ravvisare nell'operazione in oggetto una società "dante causa" che trasferisce beni ad una società "avente causa" che li riceve, significa dare una lettura statica e fuorviante del fenomeno, che perde di vista il reale scopo della scissione, consistente nel consentire ai soci di perseguire l'oggetto sociale attraverso una razionalizzazione degli elementi patrimoniali. Ecco, allora, perché il termine "assegnare" usato dal legislatore della riforma non può essere considerato mero espediente dialettico, costituendo invece indice di una diversa visione dell'istituto, evocando peraltro quell'"effetto distributivo" che è proprio del contratto di divisione del quale ci è tanto cara la natura dichiarativa e non costitutiva. Alla luce dei rilievi appena esposti, le affermazioni di Belviso non possono essere condivise in quanto, se con il conferimento in senso tecnico il trasferimento del bene ne segna il passaggio dalla sfera del soggetto a quello dell'organizzazione (il disponente riceverà la partecipazione alla società conferitaria) passando così dal piano soggettivo del socio al piano "sociale", con la scissione si ha unicamente un diverso utilizzo (riallocazione) della porzione patrimoniale oggetto di scissione già organizzata, e quindi già presente nel piano "sociale". 2. Art. 2506 I comma 2.1. La causa della scissione La riformulazione del primo comma dell'art. 2506 c.c. dove il legislatore enumera le varie forme in cui può esplicarsi la scissione, sintetizzandone decisamente il portato rispetto al precedente art. 2504-septies, non appare tuttavia 8 operazione ben riuscita; infatti se da un lato dal punto di vista lessicale dal testo di legge sembrerebbe emergere che è la società scissa che assegna le azioni o quote delle beneficiarie "con la scissione una società assegna l'intero suo patrimonio ... e le relative azioni o quote ai suoi soci", dall'altro il legislatore ha perso l'occasione per evidenziare che l'assegnazione di partecipazioni ai soci della scissa non rappresenta una fase necessaria dell'operazione di scissione. Tralasciando il rilievo sul tenore letterale della norma che, pur nella sua infelicità, non mi pare possa creare particolari problemi applicativi (forse più grazie al disposto del vecchio art. 2504-septies che ai propri meriti), mi soffermerei sulla seconda questione sollevata relativa al disposto del primo comma dell'art. 2506 c.c. (come peraltro dell'originario art. 2504-septies), ove il legislatore sembra riconoscere la necessaria coesistenza nell'impianto causale della scissione di due fasi: assegnazione, di tutto o parte, del patrimonio della società che si scinde ad una o più società (siano esse già esistenti o di nuova costituzione), e contestuale assegnazione delle azioni o quote di queste ai soci della scissa. Anticipando le conclusioni cui giungeremo, ad avviso di chi scrive, la fase dell'assegnazione delle partecipazioni della o delle società beneficiarie ai soci della scissa non è elemento caratterizzante del procedimento scissorio; l'istituto in esame è capace di da dar vita a due tipologie diverse di scissione, ciascuna delle quali caratterizzata, a mio avviso, da una autonoma struttura causale. Per affermare tale assunto è necessario preliminarmente distinguere le ipotesi in cui l'operazione scissoria coinvolge un unico centro di interessi rappresentato da un'unica compagine sociale, dai casi in cui i centri di imputazione di tali interessi siano due o più. Le principali ipotesi in cui è possibile riconoscere in una scissione un unico centro di imputazione degli interessi e quindi una unica compagine sociale sono: - dalla società scissa nascono una o più società di nuova costituzione e le partecipazioni di queste sono attribuite proporzionalmente ai soci della scissa; 9 - la società scissa possiede l'intero capitale della società beneficiaria o delle società beneficiarie; - la società scissa e la società beneficiaria sono possedute nella medesima proporzione dagli stessi soci; - la società scissa possiede parte del capitale della società beneficiaria e la restante parte è posseduta nella medesima proporzione dagli stessi soci. Le principali ipotesi in cui è possibile invece riconoscere in una scissione due o più centri di imputazione degli interessi e quindi due o più compagini sociali sono: - i soci della società scissa ed i soci della società beneficiaria o delle società beneficiarie già esistenti sono diversi; - dalla società scissa nascono una o più società di nuova costituzione e le partecipazioni di queste sono attribuite in modo non proporzionale ai soci della scissa. Per giungere ad una corretta ricostruzione della causa è però necessario procedere all'individuazione dei centri di interesse sui quali incide la vicenda scissoria, enucleando quindi se la compagine sociale coinvolte nella scissione è una o più di una. Analizzando l'ipotesi di una scissione parziale di una società con attribuzione di parte del suo patrimonio a favore di altra società che detiene il 100% del capitale della prima, G.B. Portale (La scissione nel diritto societario italiano: casi e questioni, in Riv. Soc., 2000, p. 480) ha avuto modo di affermare che <<l'assegnazione concreta di nuove partecipazioni in sostituzione, rappresenta un elemento non sempre indispensabile>>. Non si può non rilevare che tale affermazione merita, se non una critica, una precisazione che ne chiarisca la portata. Nell'ipotesi prospettata è di tutta evidenza che la compagine sociale coinvolta nell'operazione è esclusivamente una, rappresentata dai soci della società beneficiaria; infatti, come nelle altre ipotesi innanzi elencate, ove si proceda ad una scissione proporzionale, l'interesse rinvenibile nella vicenda non può che essere univoco in assenza di altre compagini sociali che svolgano il ruolo 10 di controparte. Ne consegue che, al di là della semplificazione procedurale riconosciuta dalla normativa e dall'evoluzione della letteratura in argomento, la causa di una tale ipotesi non può che essere unicamente quella della ridistribuzione di elementi patrimoniali quale strumento per una diversa partecipazione dei soci allo scopo di lucro. Non sarebbe, infatti, giustificabile, né utile, un'assegnazione di partecipazioni in assenza dei presupposti per la determinazione del rapporto di cambio, presupposti rappresentati dalla presenza di altri soci cui attribuire azioni o quote, nel caso di scissione in società già esistente. Allo stesso modo, nel caso di scissione proporzionale con costituzione di una o più nuove società, l'assegnazione ai soci delle partecipazioni rappresentanti il capitale delle società beneficiarie, non costituisce elemento causale, ma degrada a mera modalità esecutiva dell'operazione, ciò poiché l'assegnazione ai soci rappresenta, in questo caso, solo il meccanismo (meramente aritmetico e non discrezionale) per attribuire il capitale della o delle nuove società; il concetto di assegnazione delle partecipazioni in presenza di più compagini sociali contrapposte, come vedremo, rappresenta, invece, strumento servente rispetto al rapporto di cambio determinato per fissare gli equilibri nell'assetto societario postscissione. Concettualmente, strutturalmente e causalmente diversa appare l'ipotesi in cui la vicenda scissoria non si esaurisce in una ristrutturazione di risorse che, in assenza di alterazioni delle posizioni interne (diversa infatti è l'ipotesi di scissione non proporzionale di cui parleremo), coinvolge una sola compagine sociale. Allorquando si contrappongono due o più compagini sociali, nella scissione devono trovare composizione i diversi interessi dei quali ciascuno è portatore; a questo meccanismo pertanto si chiede qualcosa di diverso rispetto a quanto sopra analizzato e senz'altro di maggior impegno. Sarà necessario, una volta valutati nella loro effettività i patrimoni delle società partecipanti, determinare quel rapporto di cambio che esprime il "momento contrattuale" dell'operazione di scissione e che trova la sua attuazione nell'assegnazione delle partecipazioni della 11 società (o delle società) beneficiaria ai soci della scissa. Si comprende come l'assegnazione delle partecipazioni (in uno con il rapporto di cambio) rappresenta il momento assolutamente centrale dell'operazione tale, a mio avviso, da disegnare una funzione economica non assimilabile a quella della scissione in presenza di una sola compagine sociale, ma del tutto autonoma. In tale struttura causale, quindi, appare assolutamente imprescindibile la presenza dei due elementi individuati dall'art. 2506 c.c.: l'assegnazione del patrimonio alle società beneficiarie unitamente all'assegnazione delle partecipazioni di queste ai soci della scissa. In conclusione, ad avviso di chi scrive, deve affermarsi che, nonostante l'unitarietà della figura, la presenza di uno o più centri di imputazione degli interessi finali dell'operazione riconducibili ad uno o più compagini sociali, comporta la configurazione di due diversi tipi di scissione, ciascuno caratterizzato da una propria struttura causale (assegnazione del patrimonio in presenza di una compagine sociale sostanzialmente unica, assegnazione del patrimonio contro assegnazione di partecipazioni in presenza di più compagini) e da una diversa disciplina, semplificata la prima, più articolata la seconda. 2.2. La causa della scissione nella scissione non proporzionale Una precisazione relativamente alla causa si impone allorquando si procede ad una scissione non proporzionale in presenza di un'unica compagine sociale. Quella contrapposizione degli interessi che informa la scissione in presenza di più compagini sociali, si ritrova con i medesimi elementi di problematicità nell'ipotesi prospettata, con l'unica variante che questa contrapposizione nasce tra i soci della società scindenda. In tal caso, infatti, all'assegnazione del patrimonio della società scissa non potrà non seguire l'assegnazione delle partecipazioni determinata sulla base del rapporto di cambio. 2.3. La cd. scissione negativa Si procede ora alla disamina dell'ipotesi in cui la somma dei valori delle 12 attività e passività assegnate alla società beneficiaria sia di segno negativo; questa problematica, oltre a creare non poche difficoltà applicative, mi sembra di fondamentale importanza per sottolineare come e quanto le due strutture causali, ora delineate, siano tra loro profondamente diverse (sull'ammissibilità della scissione negativa F. Laurini, La scissione di società, in Riv. Soc., 1992, p. 930; di contrario avviso, E. Gelato, in nota a Trib. Verona 6/11/1992, Giur. comm. 1995, II, 434). In primo luogo, occorre sgombrare il campo da equivoci terminologici relativamente al concetto di "apporto patrimoniale negativo". Si deve innanzitutto distinguere il caso in cui le attività e le passività scorporate esprimono un valore reale superiore a zero ovvero le attività esprimono una particolare importanza strategica per la società beneficiaria, ma un valore contabile negativo. Tale ipotesi, che per chiarezza chiamerò "scissione con valore contabile negativo", ricorre ad esempio qualora i beni iscritti in bilancio per 100, ma che in realtà hanno un valore reale di 200 e vengono assegnati alla società beneficiaria unitamente a passività per 150: in tal caso il valore contabile sarà - 50 (100 - 150), mentre quello reale sarà + 50 (200 - 150). Fattispecie diversa si configura qualora le attività e le passività scorporate esprimano oltre ad un valore contabile negativo anche un valore reale inferiore a zero. Tale ipotesi che chiamerò "scissione con valore reale negativo", ricorre ad esempio allorquando i beni iscritti in bilancio per 100 hanno un valore reale di 100 e vengono assegnati alla società beneficiaria unitamente a passività per 150: in tal caso tanto il valore contabile quanto quello reale sarà - 50 (100 - 150). E' d'uopo analizzare ora il diverso atteggiarsi degli apporti patrimoniali negativi rispetto alle diverse tipologie di scissione che si possono riassumere in cinque fattispecie: 1) scissione NON PROPORZIONALE in beneficiaria/e già esistente ove l'assegnazione sia di valore contabile negativo; 2) scissione NON PROPORZIONALE in beneficiaria/e di nuova costituzione ove l'assegnazione sia di valore contabile negativo; 13 3) scissione NON PROPORZIONALE (sia in beneficiaria/e già esistente che di nuova costituzione) ove l'assegnazione sia di valore reale negativo; 4) scissione PROPORZIONALE in beneficiaria già esistente ove l'assegnazione sia di valore reale o contabile negativo; 5) scissione PROPORZIONALE in beneficiaria di nuova costituzione ove l'assegnazione sia di valore reale o contabile negativo. Quanto alla prima ipotesi di scissione non proporzionale in beneficiaria già esistente ove l'assegnazione sia di valore contabile negativo: l'operazione è certamente realizzabile in quanto le contrapposte compagini sociali avranno considerato "utile" procedere alla scissione, utilità economicamente evidenziata dal rapporto di cambio (rectius: dall'assegnazione delle partecipazioni della beneficiaria) che, pur apparendo incongruo relativamente ai dati contabili, è espressione dell'interesse che le compagini sociali delle società partecipanti ripongono sui valori reali latenti dei beni dell'attivo superiori ai contabili o sulla loro valenza strategica per la società assegnataria. Ovviamente siffatta operazione scissoria porterà un avanzo di scissione per la società scissa che registrerà in bilancio un valore di segno positivo; di contro un disavanzo di scissione per la società beneficiaria che sarà gestito o, come previsto dall'art. 2504 bis richiamato dall'art. 2506 ter c.c., rivalutando gli elementi dell'attivo ricevuti nei limiti della capienza dei beni e per la differenza imputato ad avviamento (nel solo caso in cui vi sia un valore reale superiore al contabile), o compensato con riserve già presenti nel bilancio o infine rilevando una perdita, anche nel caso in cui il maggior valore sia frutto di una valutazione strategica. Quanto poi alla seconda ipotesi di scissione non proporzionale in beneficiaria di nuova costituzione, sempre con assegnazione di valore contabile negativo: l'operazione non appare realizzabile poiché la nuova società nascerebbe senza un patrimonio netto di segno positivo costituente il capitale sociale; ciò in quanto anche nel caso in cui fosse possibile imputare il disavanzo di scissione agli elementi dell'attivo trasferiti, al più tale disavanzo potrà essere assorbito integralmente, ma in nessun caso la rivalutazione di tali beni potrebbe spingersi 14 fino a creare patrimonio netto imputabile a capitale. Passando poi alla terza ipotesi in cui la scissione sia non proporzionale in beneficiaria/e già esistente o di nuova costituzione e l'assegnazione sia di valore reale negativo; ad avviso di chi scrive, l'operazione non è in alcun modo configurabile (in senso contrario cfr. G. e A. Vasapolli, Avanzo, disavanzo e differenze di scissione, in Le Società, 1995, 2, p. 162). In tale fattispecie mancherebbe, infatti, quell'utilità dell'operazione per la società beneficiaria che la giustifica; la presenza in siffatta ipotesi delle due compagini sociali contrapposte (della scissa e della beneficiaria o degli stessi soci della scissa) non può prescindere dall'interesse dei soci della beneficiaria, rappresentato o dal maggior valore reale dei beni o dal loro peso strategico. Perché sia configurabile la causa della scissione in presenza di più compagini sociali, come ho già avuto occasione di chiarire, all'assegnazione dei beni e delle passività da parte della scissa dovrà corrispondere l'assegnazione delle partecipazioni della beneficiaria sulla base del rapporto di cambio. Alla mancanza dell'interesse da parte dei soci della beneficiaria a ricevere per scissione beni di valore reale negativo, corrisponderebbe la mancata assegnazione di partecipazioni della stessa beneficiaria ai soci della scissa; il che comporterebbe il venir meno della causa della scissione non proporzionale e quindi l'impossibilità di qualificare l'operazione come scissione. Infatti, in mancanza di tale assegnazione di partecipazioni ai soci della scissa, si realizzerebbe unicamente un "trasferimento" di beni dalla scissa alla società beneficiaria con un contestuale accollo di debiti costituiti dalle passività; operazione giuridicamente riconducibile nell'alveo della compravendita con accollo di debito e non certo ad una scissione. Esaminando la quarta ipotesi ci si domanda se, diversamente dall'ipotesi di scissione non proporzionale, nel caso di scissione proporzionale in società già esistente sia possibile un'assegnazione di valore reale negativo (le cui conclusioni a maggior ragione valgono per il caso di valore contabile negativo). Alla luce dell'indagine fin qui condotta, a mio avviso, l'operazione in tal caso sembra perfettamente configurabile. Si evidenzia che nella scissione proporzionale la 15 compagine sociale di riferimento è soltanto una e la causa della scissione si esaurisce nella sola assegnazione di attività e passività. In tale fattispecie l'utilità e l'interesse che sostengono l'operazione sono esclusivamente quelli di riallocazione e riorganizzazione delle risorse, utilità ed interesse che qui emergono con chiarezza; i soci dell'unica compagine sociale coinvolta avranno ritenuto maggiormente conveniente riallocare determinati beni e passività assegnandoli ad altra società pur se il valore reale è negativo. In questa fattispecie, l'avanzo o disavanzo di scissione saranno gestiti come chiarito sopra e la tutela delle ragioni dei creditori anteriori al progetto di scissione è comunque garantita dall'opposizione. Diversa da tale ultimo caso è la quinta ipotesi, qualora la scissione proporzionale si realizza con la costituzione di una nuova società, per il qual caso vale tutto quanto detto in relazione alla scissione non proporzionale con assegnazione di valore contabile negativo; anche in questo caso l'operazione non appare realizzabile poiché la nuova società nascerebbe senza un patrimonio netto di segno positivo da imputare a capitale sociale. 2.4. La distribuzione di partecipazioni della scissa invece che delle beneficiarie, con il consenso unanime dei soci, di cui all'art. 2506 II comma seconda parte La seconda parte del secondo comma dell'art. 2506 c.c. affronta una fattispecie che negli ultimi anni ha formato oggetto di dibattito in sede tanto dottrinale quanto giurisprudenziale. Il riferimento va al caso in cui l'operazione di scissione sia strutturata in modo tale che solo ad alcuni soci della società scissa siano attribuite azioni o quote della beneficiaria, con conseguente diminuzione delle partecipazioni di questi nella scissa e corrispondente accrescimento, a titolo di compensazione, delle partecipazioni degli altri soci. Chiamato a pronunciarsi sulla fattispecie testè esposta, il Tribunale di Verona, con decreto del 2/12/1999, ritenne non omologabile la delibera di approvazione di un simile progetto di scissione parziale, considerando la 16 fattispecie in oggetto non sussumibile nello "schema tipico" della scissione, schema questo che non consentirebbe, ad avviso del Collegio, in alcun modo di alterare la proporzione in cui i soci partecipino al capitale della società scindenda. La questione, invero, appare quanto mai interessante, anche al fine di comprendere l'elasticità applicativa della scissione, non senza dimenticare i profili che coinvolgono la struttura e la causa della figura. Si faccia il seguente esempio: A,B,C e D sono soci in quote uguali della società ALFA, la quale procede a scissione parziale in BETA di nuova costituzione; di tale ultima società diventano unici soci C e D, mentre A e B restano unici soci di ALFA, passando dal 25% al 50% ciascuno del capitale. Ci si chiede se è possibile ritenere tale fattispecie riconducibile al "tipo" della scissione parziale delineato dal legislatore. La risposta a tale interrogativo passa necessariamente per una attenta analisi dell'art. 2506 I comma c.c., norma che, prevedendo l'assegnazione delle partecipazioni della beneficiaria ai soci della scissa quale elemento qualificante il procedimento scissorio, non contempla la possibilità di diversa distribuzione delle azioni o quote della scissa. Di contrario avviso rispetto al provvedimento del Tribunale di Verona è la pronuncia della Commissione Società del Consiglio Notarile di Milano la quale, in una recente massima formulata nel vigore dell'attuale normativa, ha ritenuto ammissibile e pertanto riconducibile alla fattispecie scissoria, l'ipotesi in esame ma, ritenendo lesi i diritti e gli interessi dei soci, ha concluso che la deliberazione di approvazione del progetto di scissione debba in tal caso essere assunta all'unanimità. Ebbene, analizzando il riformato disposto normativo, appare evidente che il legislatore della riforma ha recepito quanto riportato nelle Massime formulate dalla Commissione Società del Consiglio Notarile di Milano. Tuttavia, sia consentito notare come questa norma suoni, ad avviso di chi scrive, quale nota stonata nel sistema della scissione. Infatti, riconosciuto (correttamente) che un'operazione così strutturata, diversamente da quanto ritenuto dal Tribunale di Verona, non esuli dalla figura 17 della scissione come delineata dal codice civile, non si comprende per quale motivo la Commissione Milanese, prima, il legislatore della riforma, poi, abbiano ritenuto di dover prevedere un consenso unanime dei soci al fine di legittimare l'operazione in oggetto. Considerato che tale ipotesi integra, in re ipsa, una scissione non proporzionale, la tutela del socio doveva, a parere di chi scrive, essere garantita dai normali rimedi previsti per il caso di scissione non proporzionale. Invero, con particolare riferimento al nuovo dettato della norma oggetto di analisi, va notato come la previsione del consenso unanime dei soci a sostegno dell'operazione, appare in controtendenza sia rispetto al principio informatore della riforma rappresentato dalla semplificazione del procedimento (che, di contro, in tal modo viene appesantito dalla necessaria unanimità che potrebbe rivelarsi strumento paralizzante nelle mani dei soci di minoranza), sia rispetto alla disposizione del penultimo comma dell'art. 2506-bis, norma che, per il caso di scissione non proporzionale, attribuisce al socio in disaccordo il diritto di vendere le proprie partecipazioni (in sostituzione del diritto di optare per la partecipazione proporzionale). Inoltre, quand'anche si fossero ritenute le peculiarità del caso tali da rendere necessari strumenti più incisivi a tutela dei soci, altre soluzioni sarebbero state più congrue allo scopo: si pensi alla riproposizione della facoltà del socio in disaccordo di optare per la partecipazione proporzionale nella diverse società coinvolte, ovvero alla possibilità di richiedere lo specifico consenso all'operazione da parte dei soli soci ai quali si riduce o annulla la partecipazione nella scissa. Appaiono, invero, evidenti i differenti risultati cui quest'ultimo rimedio avrebbe condotto, rispetto alla soluzione legislativa: si pensi, in particolare, al caso di soci che, mantenendo una partecipazione proporzionale nella scissa e nella beneficiaria, risulterebbero assolutamente non coinvolti - sotto questo profilo dall'operazione, acquistando ciò nonostante, in forza del disposto del comma 2 art.2506, un insperato ed ingiustificato diritto di veto. Alla luce delle considerazioni innanzi espresse, appare possibile concludere 18 nel senso che la norma in oggetto, oltre a destare molteplici perplessità sul piano sistematico, potrà essere facilmente aggirata dal gruppo di comando, il quale, onde scongiurare il rischio di dover vedere approvato da tutti i soci il progetto di scissione, ben potrà strutturare l'operazione in modo tale da sottrarla all'ambito applicativo della norma in discorso. Risultati del tutto simili a quelli che il legislatore della riforma ha inteso arginare imponendo con la norma in commento il consenso unanime possono, infatti, essere raggiunti con diverse articolazioni del procedimento scissorio: - alla totale separazione della compagine sociale può giungersi invece che con una scissione parziale, con una scissione totale in due nuove società nelle quali ad alcuni soci vengono assegnate le partecipazioni di una sola società e agli altri le partecipazioni dell'altra, con deliberazione a maggioranza, fermo restando il correttivo oggi previsto dell'art. 2506-bis penult. com. c.c. trattandosi sempre di scissione non proporzionale; - gli amministratori potranno, sempre attraverso lo strumento della scissione, privare la società scissa di quasi tutto il suo patrimonio attribuendolo alle beneficiarie, rendendo così la stessa scissa poco più che un contenitore vuoto. La fattispecie in discorso, a mio avviso, mostra i medesimi profili di rischio rispetto ai casi testè citati; non potendosi certo estendere la disciplina del II comma dell'art. 2506, e quindi la richiesta di consenso unanime, a tutte le ipotesi di scissione non proporzionale stante la disposizione ad hoc dell'art. 2506-bis penultimo comma, avrei ritenuto in linea con la figura trattare l'ipotesi prevista dalla norma alla stregua di una normale scissione non proporzionale, senza attribuirle alcuna disciplina privilegiata. Che poi la tutela predisposta dal legislatore per i soci non consenzienti ad una scissione non proporzionale sia particolarmente penalizzante per i soci di minoranza, rientra nelle scelte operate dal legislatore e delle quali si parlerà in seguito. Solo per amore di precisione noto che, nella norma in commento, il termine "azioni" deve essere inteso nel senso di "azioni o quote". 19 2.5. Il conguaglio, di cui all'art. 2506 II comma prima parte Nell'elencazione del contenuto del progetto di fusione, sia nell'attuale disciplina (art. 2501-bis I comma n. 3), sia nel D.Lgs. 6/2003 (art. 2501 ter I comma n. 3), è prevista la possibilità di affiancare alla fissazione del rapporto di cambio la previsione di un conguaglio in denaro, che, in base al disposto dei suddetti articoli, non può essere superiore al 10% del valore nominale delle azioni o delle quote assegnate. Com'è noto, la funzione del conguaglio è quella di evitare la fissazione di un rapporto di cambio frazionario; con la previsione del conguaglio in denaro, infatti, gli amministratori delle società partecipanti all'operazione, al fine di semplificare le operazioni di concambio, possono fissare un rapporto di cambio aritmeticamente semplice e senza decimali, con il notevole vantaggio di evitare la formazione dei resti attese le difficoltà che questi comportano. Si faccia il seguente esempio: se, in base alle contrattazioni, risultasse un rapporto di cambio di 1,1 azioni dell'incorporante contro 1 azione dell'incorporata, onde evitare l'alto concambio di 11 contro 10, sarebbe possibile fissare il rapporto di cambio di 1 ad 1 con un conguaglio in denaro di 0,1 a favore di ciascun socio dell'incorporata. Appare opportuno ricordare che secondo la dottrina prevalente (per tutti P. Marchetti, "Appunti sulla nuova disciplina delle fusioni", Riv. Not. XLV, p.38), suffragata dagli artt. 3.1 e 4.1 della III direttiva CEE, il conguaglio si può prevedere solo a favore dei soci dell'incorporata, non anche a favore di quelli dell'incorporante ed inoltre esso deve necessariamente avere un applicazione di carattere generale, non potendo riguardare solo alcuni azionisti per i quali, a seguito del concambio, vi siano dei resti. Il limite fissato dal legislatore nel 10% del valore nominale delle azioni o delle quote attribuite, ha la funzione di evitare che un conguaglio eccessivamente elevato riduca in modo determinante il valore della partecipazione del socio nella società beneficiaria (o incorporante), impedisce cioè che il conguaglio possa essere utilizzato intenzionalmente dalla maggioranza come strumento per 20 escludere soci indesiderati, ed evita la possibilità di consentire un sostanziale recesso senza il rispetto delle norme previste per questo istituto (Serra, voce Scissione di Società (dir. comm.), in Enc. Giur. Treccani, XXVIII, Roma, 1999). Il legislatore della riforma, con l'inserimento della prima parte del secondo comma dell'art. 2506 c.c., ha posto fine ad un acceso dibattito dottrinario sorto sotto la disciplina anteriore alla riforma del 2003 ed attualmente vigente, relativo alla possibilità o meno di fissare nel progetto di scissione un conguaglio in denaro superiore al 10% del valore nominale delle azioni o quote attribuite ai soci della scindenda, a causa del mancato richiamo del 2° comma dell'art.2501-bis c.c. che prevede detto limite nella fusione. Gli interpreti si erano, infatti, interrogati circa l'intenzionalità o meno di tale omissione da parte del legislatore anteriore alla riforma, anche sulla considerazione che l'art. 21 della VI Direttiva CEE, espressamente prevedeva detto limite anche per la scissione. Secondo un primo orientamento minoritario (Morano, Lucarelli), il mancato rinvio era da intendere quale espressione di una precisa volontà del legislatore di consentire, nella scissione, la previsione di conguagli in danaro in misura superiore al dieci per cento, sulla considerazione delle varie forme che può avere la scissione (fra cui quella con attribuzione non proporzionale di azioni e quote). Altri autori (Campobasso, Serra-Spalidoro, G. Laurini) hanno invece sostenuto che il mancato richiamo fosse ascrivibile ad una mera dimenticanza e pertanto il riferito limite doveva ritenersi operante anche nella scissione, basando tale assunto sull'individuazione dell'interesse tutelato dalla relativa previsione; infatti il limite del 10% del valore nominale delle azioni o quote attribuite, tutela l'interesse del socio alla conservazione della partecipazione nelle società beneficiarie ed evita che i possessori di partecipazioni minime possano essere del tutto estromessi dalle società risultanti al termine dell'operazione; del pari impedisce che il conguaglio possa essere utilizzato intenzionalmente dalla maggioranza come strumento per escludere soci indesiderati (Buttaro, Campobasso, Ferrara jr.- Corsi). 21 Il testo riformato ha sposato la tesi da ultimo citata; l'art. 2504-septies c.c. (pur se in una sede che non appare la propria, preferibile sarebbe stato collocare la previsione nell'articolo dedicato al progetto di scissione) prevede, come già prima pur se per richiamo, l'ammissibilità del conguaglio in denaro al quale appone espressamente il limite massimo del 10%. Occorre però fare un'ulteriore precisazione; il legislatore della riforma, a differenza di quanto statuito in tema di fusione, non ha previsto alcuna eccezione al limite del 10%; l'art. 2505-quater c.c., nel quadro della semplificazione per le operazioni di fusione cui non partecipano società con capitale rappresentato da azioni, dispone fra l'altro che non si applica il II comma dell'art. 2501 ter. c.c. . Riterrei questa scelta, di cui si parlerà oltre, un implicito riconoscimento da parte del legislatore della maggiore pericolosità e complessità strutturale della figura della scissione rispetto alla fusione, che prescinde dal tipo di società che pone in essere la scissione; implicito riconoscimento che, a mio avviso, avrebbe dovuto indurre il legislatore, in sede di riforma, a disciplinare compiutamente la figura della scissione e la definizione della fusione per richiamo, operando così una inversione dell'attuale sistema. 2.6. Il disposto dell'art. 2506 III comma c.c.. La soppressione della previsione della scissione di società sottoposte a procedure concorsuali. Rinvio. La previsione dell'art. 2506 III comma c.c. appare a dir poco sibillina: la società scissa può attraverso l'operazione di scissione attuare il proprio scioglimento senza liquidazione ovvero continuare la propria attività. Invero ritengo questa disposizione un pleonasmo; che la società scissa nella scissione propria si sciolga senza liquidazione e che nella scissione parziale continui la propria attività non mi pare ci possano essere dubbi; probabilmente il legislatore ha inteso solo sottolineare per la scissione quanto contenuto nel comma 1 dell'art. 3 della III direttiva CEE in materia societaria ove la fusione mediante incorporazione è espressamente definita uno “scioglimento senza liquidazione” (vedi App. Milano, 4 maggio 1993, in Le Società, 1993, p. 1229). 22 Quanto alla soppressione della previsione della scissione di società sottoposte a procedure concorsuali si fa espresso rinvio alle considerazioni svolte in tema di fusione (si veda inoltre L. De Angelis, Relazione al Convegno "Riflessi Concorsuali della Riforma Societaria" Milano 27/6/2003, in fallimento.ipsoa.it). 3. Progetto di scissione. Art. 2506-bis Il tenore letterale dell'art. 2506-bis c.c. è rimasto sostanzialmente immutato se si eccettuano l'inserimento al terzo comma della previsione che comporta la limitazione della responsabilità delle società beneficiarie al valore effettivo del patrimonio netto loro assegnato, di cui parleremo allorquando ci occuperemo del profilo della responsabilità, ed il penultimo comma, ove è disciplinata l'ipotesi in cui il progetto di scissione preveda una distribuzione delle partecipazioni ai soci della scissa non proporzionale, del quale parleremo nel successivo paragrafo. Pertanto si segnala unicamente che, oltre alla sostituzione lessicale da "trasferire" ad "assegnare" e con la rilevata disattenzione nel secondo comma dove ancora si legge "società trasferente" di cui si è ampiamente detto all'inizio, il legislatore della riforma ha perso l'occasione per correggere l'errato richiamo operato dall'ultimo comma del vecchio art. 2504-octies all'ultimo comma art. 2501-bis, piuttosto che al penultimo comma di tale articolo relativo all'iscrizione nel Registro delle Imprese del progetto di scissione; conseguenza ne è che oggi, come nel testo ante riforma stante il medesimo errore, il codice civile non prevede alcun sistema di pubblicità per il progetto di scissione. 4. Considerazioni sulla tutela della minoranza nella scissione L'incidenza che la riorganizzazione societaria programmata attraverso la scissione è idonea ad operare sulle posizioni soggettive dei soci, potendone modificare direttamente o indirettamente la consistenza patrimoniale e la rilevanza amministrativa, impone di rivolgere l'attenzione agli strumenti predisposti dal legislatore della riforma a tutela della minoranza. L'analisi delle norme del d.lgs. n.6 del 2003 porta a considerare due istituti: 23 a) il diritto di recesso riferito a tutte le ipotesi di scissione; b) il diritto dei soci che non approvino l'operazione in caso di scissione non proporzionale. 4.1. Il diritto di recesso L'art. 2473 c.c. prevede espressamente tra le cause legali di recesso del socio di società a responsabilità limitata, non derogabili dall'autonomia privata, la sua "fusione o scissione". L'art. 2502 c.c., dettato per la fusione ed applicabile in via diretta alla scissione per il rinvio operato dall'ultimo comma dell'art.2506-ter, riconosce espressamente tale diritto ai soci di società di persone che non abbiano consentito all'operazione. Un'analoga disposizione manca, tuttavia, nella disciplina della società per azioni; infatti l'ampliamento delle cause di recesso operato dal nuovo testo dell'art.2437 c.c. in tema di s.p.a. non ha considerato le ipotesi di fusione e scissione della società. Nell'ipotesi in cui la scissa sia una società di persone o una società a responsabilità limitata, infatti, ai soci della società scindenda che non abbiano consentito alla scissione (dissenzienti, assenti ed astenuti), il diritto di recesso compete "in ogni caso". Di contro, ove alla scissione proceda una s.p.a., e lo statuto non preveda espressamente la scissione come causa convenzionale di recesso (art. 2437, 4° comma c.c), il diritto di recesso spetterà solo in caso di scissione cd. "eterogenea", ovvero quando la scissione conduca ad un risultato finale corrispondente ad una delle ipotesi legali di recesso previste dall'art.2437 c.c. (si pensi ad esempio all'ipotesi in cui ai soci della società per azioni scissa vengano assegnate partecipazioni di società di tipo diverso; in tal caso ai soci della scissa spetterà il diritto di recesso ai sensi della lett. "b" dello stesso art. 2437 c.c., trovando in tal caso applicazione le norme dettate per la trasformazione). Pertanto, salvo a voler ritenere che tale differenza di disciplina tra le s.p.a. e 24 le altre società sia priva di una effettiva ratio e da ascrivere ad una mera dimenticanza del legislatore, appare interessante ricercare il motivo che ha indotto il legislatore a prevedere soluzioni diverse a seconda che la società che si scinde sia una società di persone, una s.r.l., ovvero una s.p.a. . A prima vista il legislatore potrebbe apparire schizofrenico in quanto, proprio per il modello societario che presumibilmente ha una più ampia compagine sociale, priva i soci "che non hanno concorso alla deliberazione" di un agile strumento per abbandonare la società, in totale controtendenza con lo spirito della riforma che ha ampliato a dismisura il diritto di recesso, nato come istituto eccezionale, tanto da innalzarlo a sistema idoneo per liberarsi dei soci cd. "scomodi". Invero, a ben vedere, ritengo che tale scelta sia stata dettata dall'intento perseguito dal legislatore di sottrarre, nelle s.p.a., alle minoranze riottose, strumenti che possano impedire il compimento di operazioni ritenute strategiche dalla maggioranza. Infatti per giungere a tale conclusione è necessario individuare in quale momento del complesso procedimento di scissione il recesso può essere esercitato. Deve ritenersi che esso coincida con la decisione dei soci che approvano il progetto di scissione; l'art. 2437-bis c.c. in tema di s.p.a. fissa i termini per l'esercizio del recesso (non solo legale ma anche convenzionale) a decorrere dalla iscrizione nel Registro delle Imprese della delibera che lo legittima; l'art. 2473 c.c., ultimo comma, in materia di s.r.l., espressamente esclude che il diritto in discorso possa essere esercitato, e, se già esercitato, lo dichiara privo di effetti ove la società revochi la deliberazione che ne costituisce il presupposto. L'individuazione del momento in cui i soci possono esercitare il diritto di recesso nella deliberazione (rectius: decisione) della società che approva il progetto di scissione, non è priva di rilievo ove se ne considerino i riflessi sull'attuazione dell'intera operazione di scissione. Infatti, pur se la nuova disciplina del recesso prevede modalità di 25 liquidazione della quota del socio uscente finalizzate a "tutelare l'integrità del capitale sociale e gli interessi dei creditori" (art.4, comma 9, lett. "d" legge delega), ove le azioni o quote del socio receduto non vengano collocate presso gli altri soci o i terzi (secondo le modalità previste dagli artt. 2437-quater per la s.p.a. e 2473, 4° comma, c.c. per le s.r.l., e in ogni caso per le società di persone), obbligata a pagare resta comunque la società, la quale è tenuta ad adempiere utilizzando riserve disponibili o, in mancanza, riducendo il capitale sociale in misura corrispondente al valore della partecipazione. Ne consegue che in tal caso la liquidazione della quota del socio receduto, secondo una valutazione non penalizzante in quanto svincolata dai valori di bilancio ma riferita al valore reale del patrimonio sociale, comporta una variazione in diminuzione delle poste positive del netto della società che subisce il recesso o addirittura, in assenza di poste positive, crea posta negativa o la incrementa se già esistente. Ed è evidente che, in presenza di valori rilevanti, la modificazione degli elementi patrimoniali coinvolti nell'operazione di scissione secondo il progetto approvato e ancor di più l'alterazione del numero delle partecipazioni (visto l'annullamento di talune di esse a seguito del recesso) sulla base delle quali gli amministratori hanno determinato il rapporto di cambio, siano idonei a condizionare il successo dell'intera operazione. A mio avviso, la modificazione degli assetti così come considerati nel progetto, potrebbe determinare una tale alterazione del procedimento sui diritti dei soci, paragonabile ad una modificazione sostanziale del progetto (art. 2501-septies ultimo comma c.c., richiamato dall'art. 2506-ter ultimo comma c.c.), sufficiente a determinare l'impossibilità della prosecuzione e quindi il fallimento della scissione con eventuale inizio di altro nuovo procedimento scissorio. Da quanto detto emerge chiaramente la ratio della scelta operata dal legislatore della riforma di non prevedere la scissione tra le cause legali di recesso nelle società per azioni; l'interesse imprenditoriale alla conclusione del procedimento scissorio è stato ritenuto decisamente prevalente dal legislatore tanto da sottrarre alla minoranza uno strumento, quale il recesso, potenzialmente 26 idoneo a condurre alla paralisi dell'operazione. In conclusione il socio di s.p.a. in disaccordo su una operazione di scissione, se tale operazione è proporzionale non potrà far altro che subirla, se è non proporzionale potrà avvalersi del diritto di cui all'art. 2506-bis penult. comma c.c., che, come vedremo, non è un esempio di strumento a tutela delle minoranze. E' appena il caso di aggiungere che, considerare la scelta del legislatore della riforma di attribuire il diritto di recesso ai soci delle società di persone ed ai soci delle società a responsabilità limitata come una fondamentale conquista per la minoranza (cfr. Rordorf in Le Società 2003, 7, 924), a mio avviso, è vero più in apparenza che nella realtà; siamo infatti ben consapevoli di come per tali tipi di società cd. chiuse (nella nuova veste disegnata dalla riforma) caratterizzate, il più delle volte, da compagini sociali non particolarmente ampie ed a base essenzialmente personale, il disaccordo su una scelta di tale rilievo strutturale quale è una scissione, sarà individuato, gestito e composto fuori dall'operazione senza far ricorso al "traumatico" sistema del recesso. Nelle società di persone, addirittura, l'attribuzione al socio della facoltà di recedere in caso di scissione, più che una conquista della minoranza è da considerare un suo deciso arretramento; infatti a seguito dell'inserimento della disposizione che prevede per l'approvazione del progetto di scissione (come previsto anche per la fusione) una maggioranza calcolata sugli utili e non più con il consenso unanime, al socio di minoranza viene sottratto il diritto di opporsi all'intera operazione, sostituendolo con il solo diritto di exit. 4.2. Il diritto di vendere le partecipazioni in caso di scissione non proporzionale La previsione dell'art. 2506-bis, VI comma c.c., prevista esclusivamente per l'ipotesi di scissione non proporzionale, rappresenta una delle più rilevanti novità introdotte dalla riforma nella disciplina della scissione. Infatti, la disposizione in discorso, sostituendo interamente il testo del corrispondente art. 2504-octies, IV comma secondo periodo, del codice civile, ha 27 eliminato il diritto spettante a ciascun socio, in caso di distribuzione non proporzionale delle azioni o delle quote, di optare per la partecipazione proporzionale in tutte le società, sostituendolo con il diritto di far acquistare le proprie partecipazioni a determinati soggetti indicati nel progetto, a cui carico viene posto l'obbligo di acquisto, per un corrispettivo determinato alla stregua dei criteri previsti per il recesso. La nuova disciplina, sopprimendo quello che è stato definito da P. FerroLuzzi "un esempio di diritto individuale come non era facile in precedenza ipotizzare", si traduce in un incremento del potere della maggioranza ed in un corrispondente ridimensionamento delle situazioni soggettive dei soci ritenute intangibili durante societate e degli strumenti di tutela della minoranza contro il pericolo di abusi da parte della maggioranza sociale. La norma pensionata dalla riforma che prevedeva il diritto di ciascun socio di optare per la partecipazione a tutte le società interessate dall'operazione in proporzione della quota di partecipazione detenuta nella società scissa, si ispirava a due idee guida: da un lato, sottrarre alla maggioranza il potere di imporre alla minoranza la partecipazione in questa o quella società beneficiaria, dall'altro garantire il controllo da parte della minoranza nelle ipotesi in cui con la scissione si operi una netta suddivisione della compagine sociale. Deve peraltro aggiungersi che se tale norma offriva una forte garanzia per il socio di minoranza di restare nella società scissa e nelle beneficiarie, senza essere in alcun modo danneggiato, rappresentava anche una remora per la maggioranza e quindi del management della società, a prevedere criteri di distribuzione delle partecipazioni particolarmente penalizzanti per i soci di minoranza, nella speranza di indurli a non avvalersi del diritto di optare per la proporzionalità. La nuova previsione, invece, in caso di scissione con distribuzione non proporzionale delle partecipazioni, pone il socio in disaccordo sull'operazione dinanzi all'alternativa di uscire dalla società monetizzando la propria partecipazione, ovvero subire la distribuzione delle partecipazioni predisposta dagli amministratori. Tale distribuzione, persa qualunque remora da parte 28 dell'organo amministrativo, potrà essere stabilita con una dose di discrezionalità tale da essere così svantaggiosa da far sì che l'alternativa si riduca alla scelta obbligata della monetizzazione. Il legislatore della riforma nella scissione non proporzionale, nonostante possa rivelarsi particolarmente pericolosa, in quanto rimessa alla discrezionalità degli amministratori, ha ritenuto di sottrarre qualsiasi arma di contrattazione alla minoranza dissenziente, introducendo un meccanismo che è inidoneo ad incidere sugli assetti predisposti dagli amministratori nel progetto e sulle modalità dell'operazione, dando così la certezza che essa possa comunque essere attuata così come prefissata. E' evidente che, con riferimento alla fattispecie in discorso, nell'attività di bilanciamento tra le "esigenze di tutela dei soci" e "quelle di funzionalità e certezza dell'attività sociale" (art. 4 comma 7 lett. "b" legge delega) il legislatore della riforma abbia decisamente (forse troppo) privilegiato le seconde. A mero titolo informativo, ricordo che il legislatore del 1991, con la previsione dell'opzione, aveva introdotto un sistema notevolmente diverso da quello definito dalla IV Direttiva Cee in materia societaria, attuata in Italia appunto dal d.lgs. n.22 del 1991; l'art. 5, II comma, della Direttiva prevedeva, infatti come correttivo, in caso di scissione non proporzionale, proprio il diritto degli azionisti di minoranza "di far acquistare le proprie azioni", contro un corrispettivo pari al valore delle stesse. Ma questa forma di tutela era stata ritenuta insoddisfacente in quanto avrebbe costituito "un pericoloso sfondamento della linea sulla quale è oggi attestata, nel nostro diritto, la tutela delle minoranze" (F. D'Alessandro, La scissione delle società, Riv. Not. 1995, 5, 873). Veniamo ora all'analisi del meccanismo previsto dalla norma in commento per consentire al socio dissenziente di lasciare la società, sul presupposto che l'assegnazione delle partecipazioni sia non proporzionale alla partecipazione detenuta nella società scissa. In primo luogo nel progetto di scissione (quindi sin dal documento predisposto dall'organo amministrativo) deve essere espressamente previsto il 29 diritto dei soci che "non approvino" la scissione (quindi dei soci che nell'assemblea chiamata ad approvare il progetto non abbiano votato a favore dell'operazione: assenti, dissenzienti e astenuti) di far acquistare le loro partecipazioni; tale diritto, a mio avviso, deve intendersi come una proposta irrevocabile di acquisto contenuta nel progetto da parte dei soggetti che si sono obbligati ad acquistare le eventuali partecipazioni degli uscenti, progetto che pertanto dovrà essere sottoscritto anche da tutti i soggetti proponenti ovvero, in alternativa, al progetto stesso dovranno essere allegate tali proposte irrevocabili. Se i soggetti che si obbligano all'acquisto sono tutti già soci della società, le partecipazioni da acquistare saranno attribuite loro proporzionalmente alle azioni o quote già detenute nella scissa; se i soggetti sono invece tutti estranei, in parti uguali tra loro; in caso di concorso tra soci ed estranei, in presenza di una clausola di prelazione statutaria, le partecipazioni saranno acquistate dai soli soci, mentre in assenza di siffatta clausola, probabilmente, da soci ed estranei in parti uguali. Ci resta una perplessità di non poco momento circa i criteri di determinazione dei soggetti che si obbligano all'acquisto, considerando anche che il progetto è redatto dagli amministratori della società ed iscritto nel Registro Imprese prima ancora che i soci (almeno quelli non di riferimento) ne sappiano alcunché dell'operazione di scissione; in sostanza gli amministratori restano arbitri della scelta in ordine all'individuazione dei soggetti che acquisteranno la partecipazioni dei soci non consenzienti. In secondo luogo il corrispettivo dovrà essere già determinato per le azioni o quote alla stregua dei criteri previsti per il recesso; in caso di contestazione del socio venditore, sull'ammontare stabilito nel progetto, ritengo che si applichino gli art. 2437-ter VI comma c.c. per le s.p.a. e l'art. 2473 III comma per le s.r.l. . In terzo luogo ritengo che il legislatore, quanto meno al fine di garantire il socio venditore, bene avrebbe fatto a prevedere una forma di tutela dello stesso contro il rischio di inadempimento, dell'obbligo di corresponsione del prezzo. Infatti se è vero, come è vero, che il progetto deve contenere una proposta irrevocabile di acquisto delle partecipazioni, la comunicazione da parte del socio 30 uscente che è intenzionato a venderle (la forma della comunicazione sarà presumibilmente stabilita dal progetto stesso), rappresenterà accettazione della proposta di acquisto e quindi la partecipazione dovrà ritenersi trasferita. Del versamento del prezzo e dell'impossibilità del socio uscente di verificare la solvibilità dell'acquirente, il legislatore non si preoccupa; sarà opportuno prevedere nel progetto stesso, o un deposito del prezzo in società oppure una fideiussione bancaria o assicurativa prestata dall'acquirente (non si dimentichi però che al momento della sottoscrizione del progetto l'eventuale acquirente ignora sia se acquisterà partecipazioni sia il numero di esse). Aggiungerei infine che l'eventuale mutamento del soggetto acquirente potrà rientrare tra le modifiche al progetto di cui all'art. 2502 II comma c.c. ammesse fino all'approvazione dello stesso da parte dell'assemblea. Infine mi pare opportuno fare una riflessione circa il concorso di norme che si determina in caso di scissione non proporzionale, circa la disciplina applicabile al socio non consenziente che intende abbandonare la compagine sociale: può il socio che non approva la scissione avvalersi del diritto di recesso se la scissa è una s.r.l. o società di persone, ai sensi degli artt. 2473 e 2502 c.c., e se è una s.p.a. nell'ipotesi in cui sia espressamente previsto nello statuto? Devo dare risposta negativa a tale quesito sulla considerazione che il portato dell'art. 2506-bis V comma c.c. prevede un meccanismo di exit del socio in disaccordo con la scissione (non proporzionale) specifico che si rapporta al meccanismo di uscita previsto in caso di recesso come una sorta di species a genus. 5. I procedimenti semplificati 5.1. La scissione proporzionale Se nella fusione, con l'espressione fusione semplificata si intende il totale possesso delle partecipazioni della società incorporata da parte della società incorporante, nonché tutte le ipotesi ad essa assimilabili individuate da dottrina e giurisprudenza per le quali non nasce la necessità della determinazione del rapporto di cambio, nella figura della scissione il concetto di semplificazione si 31 esprime in termini di proporzionalità. La scissione può dirsi semplificata, o come mi sembra più appropriato, proporzionale ai sensi dell'art. 2506-ter III comma allorquando avviene "mediante costituzione di una o più nuove società e non siano previsti criteri di attribuzione della azioni o quote diversi da quello proporzionale"; dottrina e giurisprudenza (cfr. per tutti Trib. Udine 18-20/8/1997, in Le Società, 1998, 1, p. 82) hanno giustamente ritenuto che la semplificazione procedurale di cui al citato art. 2506ter III comma c.c. (già prevista dall'art. 2504-novies) vada estesa a tutti i casi in cui è ravvisabile una "eadem ratio" che si sostanzia nell'impossibilità che l'operazione determini una variazione della reale consistenza della partecipazione dei soci nelle società interessate, casi dei quali abbiamo peraltro già detto innanzi, caratterizzati da unico centro di interessi rappresentato da un'unica compagine sociale, quali ad esempio: - la società scissa possiede l'intero capitale della società beneficiaria o delle società beneficiarie; - l'intero capitale della scissa e delle beneficiarie è posseduto da uno stesso unico socio; - la società scissa e la società beneficiaria sono possedute nella medesima proporzione dagli stessi soci; - la società scissa possiede parte del capitale della società beneficiaria la cui restante parte è posseduta nella medesima proporzione dagli stessi soci. In tutti i suddetti casi si applicherà, pertanto, il disposto dell'art. 2506-ter III comma c.c., secondo il quale la semplificazione si realizza attraverso la mancata richiesta della redazione della relazione degli esperti. Di fondamentale rilievo per l'individuazione della ratio sottesa alle semplificazioni, è la considerazione che il legislatore ante riforma, nelle uniche ipotesi semplificate previste (riprese anche dal testo riformato ma alle quali sono state aggiunte ulteriori ipotesi) non ha trattato la figura della fusione e quella della scissione in modo analogo. Infatti per la fusione, in assenza di un rapporto di cambio, ha previsto la possibilità di omettere tanto la relazione degli 32 amministratori, volta all'illustrazione di esso, tanto quella degli esperti diretta ad accertarne la congruità; diversamente per la scissione ha consentito l'esonero dalla sola relazione degli esperti, e non da quella degli amministratori. A prima vista siffatta scelta legislativa potrebbe apparire priva di logica, stante la medesima ratio nelle due semplificazioni rappresentata della mancanza di diverse compagini sociali contrapposte che nella fusione rende inutile la previsione del rapporto di cambio e nella scissione l'attribuzione delle partecipazioni o l'assegnazione proporzionale ai soci della scissa. Ritengo, invece, che questo trattamento differenziato sia indice di come il legislatore ante riforma sia stato molto più attento a cogliere una fondamentale differenza strutturale e procedimentale della scissione rispetto alla fusione. Nella fusione, infatti, la relazione degli amministratori ha, come detto, quale unica funzione quella di illustrare il rapporto di cambio e quindi, mancando quest'ultimo, la relazione non ha ragion d'essere; nella fusione i patrimoni delle società partecipanti si aggregano e tutti i beni e le passività presenti in ciascuno di essi si ritroveranno nel patrimonio della società risultante dall'operazione. Nella scissione, invece, gli amministratori nella relazione da redigere in occasione della scissione, oltre ad illustrare i criteri di distribuzione delle azioni, devono indicare il valore effettivo del patrimonio netto assegnato alle società beneficiarie e di quello che eventualmente rimane nella società scissa. Nella scissione semplificata se da un lato l'assegnazione di partecipazioni sarà proporzionale e quindi meramente aritmetica rendendo superflua l'illustrazione da parte degli amministratori, l'ulteriore funzione propria della relazione circa l'indicazione del valore effettivo del patrimonio assegnato e di quello che eventualmente resta alla scissa non può assolutamente mancare: anche nell'ipotesi di scissione semplificata, infatti, il patrimonio della società scissa si disaggrega e pertanto i creditori ed i soci, non possono non essere informati sia su quali sono i beni che vengono assegnati alle o alle beneficiarie e quali eventualmente restano alla società scissa, ma anche qual è il valore effettivo di tali beni tenendo conto che, durante societate gli unici valori conosciuti sono quelli di bilancio (costo 33 storico, appostamento prudenziale ecc.) ben diversi da quelli reali. Per i soci si tratterà di una indispensabile informativa, laddove per i creditori rappresenta elemento essenziale per una valutazione anche in vista del diritto di opposizione. 5.2. Scissione per incorporazione in beneficiaria che possiede almeno il 90% delle partecipazioni della scissa. Art. 2505-bis I comma Da quanto sopra detto si comprende e si condivide il mancato richiamo dell'art. 2506-ter ultimo comma c.c. all'art. 2505 c.c., in quanto questo articolo disciplina la fusione semplificata laddove l'art. 2506-ter III comma, regola la scissione semplificata; discipline diverse dettate per situazioni non assimilabili. Con il richiamo al solo art. 2505-bis c.c., il legislatore ha inteso disciplinare un'ulteriore ipotesi di semplificazione, nuova al nostro codice, che è rappresentata dall'operazione di fusione e scissione di società possedute al 90%. In ambito di scissione la fattispecie contemplata dalla norma è quella di scissione parziale in beneficiaria esistente che possiede il 90% del capitale della scissa, capitale che per il restante 10% appartiene ad altri soci (per una più agevole lettura dell'articolo richiamato si sottolinea che l'incorporante è per noi la società beneficiaria, laddove la incorporanda è la società scissa). In primo luogo appare opportuno delineare brevemente quali siano le differenze strutturali e procedimentali che distinguono la scissione semplificata (ex art. 2506-ter III comma), di cui si è detto innanzi, e la scissione da me denominata, solo per evitare confusioni terminologiche, scissione agevolata, o anche detta semplificata al 90%. Nella scissione semplificata (ex art. 2506-ter III comma), sul presupposto che si tratti di scissione con assegnazione proporzionale delle partecipazioni e quindi non vi sia alcun criterio di distribuzione da valutare, la norma, riconoscendo l'inutilità di essa, consente di omettere la relazione degli esperti. Nella scissione cd. agevolata, viceversa, il legislatore non opera una semplificazione riconoscendo che un documento, richiesto in altri casi, nella 34 fattispecie in parola appare superfluo, bensì ritiene opportuno snellire il procedimento consentendo l'omissione della relazione degli esperti (normalmente tale relazione non era richiesta solo in assenza di rapporto di cambio); relazione nient'affatto superflua in questo caso vista la presenza di un rapporto di cambio stabilito dagli amministratori, sul presupposto che il capitale della società scissa è posseduto almeno al 90% dalla beneficiaria e il solo 10% (o meno) è detenuto da altri soci e che sia previsto per tali ultimi soci il diritto di vendere la proprie azioni alla società beneficiaria per un corrispettivo determinato alla stregua dei criteri previsti per il recesso. I soci di minoranza, pertanto, ancora una volta, si troveranno dinanzi alla scelta di accettare un rapporto di cambio predisposto ed illustrato dagli amministratori delle due società (che dato il ricordato possesso del 90% del capitale della scissa da parte della beneficiaria, sono espressione di una unica maggioranza), senza nemmeno poter conoscere il parere sulla congruità di esso da parte degli esperti, oppure, pur senza a tanto essere materialmente obbligati, potranno vendere le partecipazioni della società scissa da loro detenute alla stessa società beneficiaria. Ancora una volta ritengo che questo diritto di exit attribuito a determinati soci dal legislatore della riforma, non è da considerare una ulteriore facoltà concessa per consentire loro di uscire da una compagine sociale nella quale non intendono restare perché non ne condividono le scelte strategiche, bensì un'arma in più fornita alla maggioranza per costringere la minoranza alla scelta obbligata di abbandonare la società (si pensi alla fissazione di un rapporto di cambio particolarmente penalizzante). Tornando alla norma in esame, per procedere ad una scissione con la procedura "agevolata", il progetto di scissione (diversamente da come accade nella scissione "semplificata") dovrà necessariamente contenere: - la determinazione del rapporto di cambio; - la previsione del conseguente aumento di capitale dalla società beneficiaria, aumento che al tempo del progetto potrà essere fissato solo nel suo eventuale 35 ammontare massimo stante l'impossibilità di quantificare i soci di minoranza che alieneranno la propria partecipazione; - il diritto concesso a tali soci di vendere le partecipazioni alla beneficiaria per il prezzo determinato alla stregua dei criteri previsti per il recesso, precisandosi che ciascuno dei soci di minoranza dovrà avere il diritto di alienare la propria quota in tutto o anche solo in parte e non potrà essere previsto alcun vincolo od obbligo di alienare unicamente l'intera partecipazione, come gli stessi soci di minoranza non potranno essere obbligati ad una vendita cumulativa delle partecipazioni al fine di consentire alla beneficiaria di acquisire così l'intero capitale della scissa. Analogamente a quanto sostenuto in occasione dell'analisi del penultimo comma dell'art. 2506-bis, il diritto concesso ai soci detentori del 10% del capitale della scissa, ritengo debba intendersi come una proposta irrevocabile di acquisto di dette partecipazioni, contenuta nel progetto di scissione formulata dalla società beneficiaria. Ricordo poi che la scissione prevista da questa norma, è per incorporazione e pertanto la società beneficiaria è, e resta, socia della società scissa al pari degli altri soci di minoranza che non intenderanno vendere; nell'ipotesi in cui nello statuto della società scissa/incorporanda sia prevista una clausola di prelazione, ritengo che non vi sarebbe alcun motivo apprezzabile per dare prevalenza all'interesse del socio della società beneficiaria (pur se maggioritario) di acquistare tutte le partecipazioni dei soci alienanti ai sensi dell'articolo in commento, a danno del diritto degli altri soci che invece le partecipazioni non intendono alienarle (ciascun socio, compresa la beneficiaria, manterrà il proprio diritto di prelazione). In conseguenza, stante una clausola di prelazione nello statuto della società scissa, nel progetto di scissione la società beneficiaria (già titolare almeno del 90% delle partecipazioni della stessa scissa) dovrà avanzare proposta irrevocabile di acquisto delle residue partecipazioni, precisando però che l'atto di acquisto (e non la proposta), che si concluderà con l'accettazione del socio di minoranza, sarà subordinato alla condizione risolutiva rappresentata dall'esercizio del diritto di prelazione da parte degli eventuali altri soci di minoranza, pur se limitatamente alla porzione delle partecipazioni oggetto 36 della vendita per le quali la società beneficiaria non ha il diritto di esercitare la propria facoltà di acquisto in prelazione. A tale macchinoso meccanismo si giunge al fine di non danneggiare il socio uscente; infatti in tal modo si garantisce l'acquisto da parte della società di tutte le partecipazioni dell'uscente, come peraltro è previsto dalla norma, pur senza sacrificare il diritto di prelazione che volessero esercitare gli altri soci di minoranza. Circa il corrispettivo della vendita delle azioni, vale quanto detto già detto in sede di analisi del penultimo comma dell'art. 2506-bis c.c. . Resta solo da aggiungere che l'operazione di acquisto dovrà, a mio avviso, sempre essere realizzata tra la data di iscrizione della delibera di scissione nel Registro delle Imprese (art. 2436 pen. comma c.c.), presupposto per la nascita del diritto di vendere, e la stipulazione dell'atto di scissione. 5.3. Un difetto di coordinamento tra fusione e scissione. Art. 2505-bis II comma Premesso che quanto al portato dell'art. 2505-bis II comma, faccio rinvio ai commentatori della fusione, intendo occuparmi del difetto di coordinamento tra fusione e scissione relativamente alle ipotesi di deliberazione operata dall'organo amministrativo piuttosto che dalle assemblee. Per l'operazione di fusione, sia quella semplificata (incorporazione di società interamente posseduta e casi analoghi, ex art. 2505 c.c.), sia quella da me definita agevolata, o semplificata al 90% (incorporazione di società posseduta al 90%) è prevista l'ulteriore semplificazione procedurale rappresentata dalla possibilità (se contemplata dallo statuto) che la deliberazione di approvazione del progetto sia decisa dal suo organo amministrativo. Nel procedimento scissorio, invece, tale facoltà è attribuita all'organo gestorio solo per la scissione agevolata (parziale in beneficiaria esistente che possiede il 90% del capitale della scissa), ma non è prevista per la scissione semplificata. Ciò in quanto il richiamo alla fusione agevolata, operato dall'art. 2506-ter c.c., è riferito all'intero art. 2505-bis c.c. (in 37 assenza di qualunque indicazione di commi), mentre manca qualunque richiamo all'art. 2505 c.c.; mancato richiamo legittimo, quanto al primo comma che prevede la fusione semplificata in quanto la scissione semplificata è autonomamente disciplinata dall'art. 2506-ter III comma c.c., ma problematico quanto al secondo comma, poiché tale mancato richiamo crea una incongruenza di non poco momento. Ritengo che tale inspiegabile differenza di disciplina sia frutto di una mera dimenticanza o di un difetto di coordinamento del legislatore della riforma, sulla base di due considerazioni: in primo luogo le due ipotesi di scissione semplificata ed agevolata, in un certo qual modo e sotto questo aspetto, appaiono assimilabili e speculari a quelle della fusione, per entrambe le quali il legislatore ha concesso la facoltà, se prevista nello statuto, di attribuire la decisione dell'operazione agli amministratori. In secondo luogo non si spiegherebbe un trattamento meno rigoroso per una fattispecie, quale la scissione cd. agevolata, che rispetto alla scissione semplificata presenta certamente maggiori profili di pericolosità, stante il conflitto tra la compagine dei soci di minoranza della scissa e la compagine sociale della beneficiaria (che si concretizza nella fissazione di un rapporto di cambio), conflitto, invece, totalmente assente nella scissione semplificata. 5.4. Omissione della redazione della situazione patrimoniale e dalla relazione illustrativa di cui agli artt. 2501 quater e 2501 quinquies con il consenso dei soci e dei possessori di altri strumenti finanziari muniti di diritto di voto Al quarto comma dell'articolo 2506-ter c.c., il legislatore della riforma dispone che, con il consenso unanime dei soci e dei possessori di altri strumenti finanziari che diano diritto di voto nelle diverse società partecipanti alla scissione, l'organo amministrativo può essere esonerato dalla redazione "dei documenti previsti dai precedenti commi", e dunque dalla redazione: 1) del documento contabile costituito dal bilancio o dalla situazione patrimoniale, previsti dall'articolo 2501-quater c.c.; 2) della relazione illustrativa del progetto di scissione, di cui all'articolo 2501 38 quinquies. Viene in tal modo prevista una ulteriore semplificazione del procedimento di scissione (che a prima vista potrebbe apparire condivisibile e coerente con le istanze della semplificazione procedurale contenute nella VI Direttiva comunitaria e nella legge delega) nell'ipotesi in cui l'alleggerimento della documentazione propedeutica alla scissione trovi la sua giustificazione non già in caratteristiche ontologiche delle società coinvolte o in situazioni di fatto relative alla procedura (si pensi al caso del controllo totalitario), bensì nella volontà unanime dei soci. Tuttavia, proprio la idoneità del consenso unanime dei soci delle diverse società a sacrificare, sull'altare della semplificazione, il "contenuto informativo minimo" imposto per assicurare la trasparenza dell'operazione genera, in chi scrive, più di un motivo di perplessità. Invero, non può non ricordarsi in questa sede come il contenuto informativo, cui si alludeva in precedenza, ed in particolare il documento contabile sulla base del quale si procede alla scissione, ha come destinatari non soltanto i soci della o delle società coinvolte nell'operazione, ma altresì i creditori di tali società, anche al fine di dare loro l'opportunità di esercitare il diritto di opposizione. Ebbene, se si accetta questa premessa, appare quanto meno discutibile la scelta del legislatore della riforma di rimettere ai soli soci, sia pure all'unanimità, la possibilità di esonerare l'organo amministrativo dalla redazione di un documento contabile richiesto non tanto a loro tutela, ma anzitutto a tutela dei creditori sociali; ci si domanda allora come possano i creditori sociali esercitare consapevolmente il diritto di opposizione garantito dalla legge essendo stati sottratti loro i parametri di riferimento per tale scelta, ed inoltre allorché avessero comunque proposto siffatta opposizione, come possa il Tribunale, ai sensi dell'art. 2445 c.c. (così come richiamato dall'ult. comma dell'art. 2503 c.c.), esprimere un giudizio sulla infondatezza del pericolo di pregiudizio per i creditori e disporre che la scissione possa avere ugualmente luogo. La disposizione contenuta nel terzo comma dell'articolo in commento, invero, necessita di una precisazione anche in ordine al silenzio circa la relazione 39 degli esperti di cui all'articolo 2501-sexies. La norma, infatti, consente ai soci di esonerare l'organo amministrativo dalla redazione dei documenti che rientrano nella competenza dello stesso (come si è detto, bilancio di scissione e relazione degli amministratori), mentre non fa menzione alcuna della relazione degli esperti, che dunque rimarrebbe necessaria in questa ipotesi convenzionale di procedura semplificata. La conclusione cui il dato letterale sembrerebbe deporre, appare, tuttavia, poco convincente e ciò sia per considerazioni di ordine pratico, sia per ragioni di carattere logico-giuridico. In primo luogo, appare opportuno riflettere su oggetto e finalità di tale relazione. Invero, nel quadro di un procedimento rigido ed analitico quale è quello previsto dal legislatore per le ipotesi ordinarie di (fusione e) scissione, si susseguono due relazioni: la prima, quella degli amministratori, la quale illustra e giustifica, sotto il profilo giuridico ed economico, il progetto di fusione ed il rapporto di cambio; la seconda, quella degli esperti a mezzo della quale questi controllano e valutano l'adeguatezza e la congruità dei criteri seguiti dall'organo amministrativo nella determinazione del rapporto di cambio. Appare di palmare evidenza, allora, come la prima operazione costituisca referente necessario della seconda, di talché, nelle ipotesi in cui l'organo amministrativo non sia chiamato ad illustrare e giustificare le proprie scelte in ordine al rapporto di cambio, appare difficile pensare ad un controllo degli esperti avente ad oggetto i criteri seguiti nella determinazione di un tale rapporto, criteri rimasti totalmente sconosciuti. E' vero, come è stato affermato pur se in modo dubitativo (Sonia Carmignani "La Riforma delle Società a cura di M. Sandulli e V. Santoro", Giappichelli, art. 2506ter, p. 500), che in questa ipotesi gli esperti possono ottenere da ciascuna società partecipante alla scissione tutte le informazioni e i documenti utili a norma dell'articolo 2501 sexies comma 5; in tale ipotesi tuttavia, il fine di semplificazione, che pervade il quarto comma dell'articolo 2506-ter, verrebbe vanificato ed il procedimento di scissione, alleggeritosi di taluni documenti, verrebbe di contro appesantito da una richiesta di informazioni che finirebbe inevitabilmente per dilatarne i tempi. 40 E' sulla base di queste considerazioni che l'opinione prevalente dei commentatori del testo riformato (per tutti L.A. Miserocchi, La fusione, su www.federnotizie.org) è nel senso della non necessità - in questa ipotesi convenzionale di procedura semplificata di scissione - della relazione degli esperti. Coerente a tali osservazioni è, altresì, la considerazione per la quale la relazione degli esperti è forma di garanzia diretta proprio ai soci, per cui appare plausibile pensare che il consenso unanime degli stessi possa rendere superfluo tale documento. Chiariti tali aspetti, si rende opportuna un'ultima riflessione sui tempi ed i modi in cui la decisione di semplificazione possa essere adottata da soci e possessori di strumenti finanziari con diritto di voto. Ebbene, a parere di chi scrive, tale decisione deve essere adottata prima dell'assemblea chiamata ad approvare il progetto di scissione. Depone, in tal senso, la considerazione in base alla quale i ricordati documenti vanno di regola redatti contestualmente al progetto di scissione ed unitamente a questo devono rimanere depositati presso la sede sociale durante i trenta giorni che precedono l'adunanza assembleare. Quanto, invece, ai modi in cui tale decisione può essere adottata, l'unico metodo perseguibile appare quello "referendario" e dunque con la raccolta separata ed "extraassembleare" del consenso dei soci, purchè ovviamente questi siano adeguatamente informati dagli amministratori sui motivi che rendano opportuno uno svolgimento accelerato della procedura in oggetto. Il consenso così prestato dovrà, in sede di deliberazione di approvazione del progetto, essere documentato dagli amministratori o attestato dagli stessi (meno pratica appare una conferma in assemblea dei soci stessi, si pensi ad un socio assente) al fine di consentire al notaio di darne atto nel verbale quale step del procedimento scissorio. 6. La relazione di stima prevista in caso di scissione eterogenea. Art. 2501sexies c.c. Senza volermi occupare della relazione degli esperti e dei soggetti ai quali, 41 ex art. 2501-sexies ultimo comma, è affidata la perizia di stima nel caso in cui a seguito di una fusione o di una scissione una società di persone assegni tutto o parte del suo patrimonio ad una incorporante/beneficiaria di capitali, tema per il quale opero un totale rinvio ai commenti in tema di fusione, mi preme sottolineare come, anche in questo argomento, si sia persa l'ennesima occasione di chiarimento. In caso di fusione o scissione con aumento del capitale sociale, ove all'operazione partecipi una società di persone che assegni tutto o parte del patrimonio ad una società di capitali che non possieda patrimonio netto capitalizzabile per coprire l'emissione delle partecipazioni da assegnare ai soci dell'incorporata/scissa, la funzione che riveste la relazione di stima ex art. 2343 c.c., è quella di garantire la consistenza dell'aumento di capitale sociale e quindi la copertura delle ricordate partecipazioni, in quanto per le società di persone non è previsto alcun controllo sui valori emergenti dal rendiconto. Analogamente, se da una società di persone con scissione parziale si dà vita ad una società di capitali di nuova costituzione, la perizia di stima sarà documento imprescindibile. E' pur vero però che tale perizia non sempre è necessaria. Infatti, non è indispensabile nel caso in cui nella fusione/scissione cd. eterogenea (con incorporazione nella società di capitali della società di persone) non si rende necessaria alcuna variazione nel capitale sociale della incorporante/scissa o se l'aumento di capitale a servizio dell'operazione di concambio è attuato utilizzando riserve disponibili già iscritte nel patrimonio netto della società incorporante. Conferma della validità e correttezza di tale conclusione è data dalla considerazione che la situazione che si verifica nel caso di specie, è del tutto assimilabile all'ipotesi in cui una società di capitali aumenti gratuitamente il capitale imputando ad esso parte del proprio netto (operazione per la quale non è certo richiesta la relazione di stima); la considerazione in parola deriva dall'analisi della funzione della perizia di stima. Tale assunto è corollario della tesi condivisa circa la funzione della perizia. Se, come io credo, la funzione della perizia è 42 quella di garantire la copertura delle partecipazioni emesse a seguito dell'operazione, in presenza di netto capitalizzabile (già esistente nel bilancio della società incorporante/beneficiaria) sufficiente per la copertura delle partecipazioni, la perizia non ha ragion d'essere; il patrimonio della società di persone acquisito dalla società di capitali incorporante, sarà appostato in bilancio dall'organo amministrativo secondo i principi vigenti senza alcuna particolarità. In conclusione il legislatore della riforma essendosi occupato ex professo della relazione di stima a norma dell'art. 2343 c.c., in riferimento ai soggetti cui affidarla, ben avrebbe potuto in questa sede chiarire in quali casi la relazione di stima nella fusione e per richiamo nella scissione, fosse documento indispensabile. 7. Il regime della responsabilità Il regime di responsabilità delle società partecipanti alla scissione è stato ridisegnato in modo pregnante dal legislatore, che, con una norma ad hoc, ha circoscritto l'ambito della responsabilità delle società beneficiarie relativamente agli elementi del passivo assegnati alla società scissa, la cui destinazione non sia desumibile dal progetto. Infatti, mentre il disposto dell'art. 2504-octies terzo comma anteriore alla riforma, prevede che degli elementi del passivo la cui destinazione non è desumibile dal progetto, rispondono in solido, nel caso di scissione totale, tutte le società beneficiarie e, nel caso di scissione parziale, le beneficiarie in solido con la scissa, il nuovo art. 2506-bis terzo comma ha introdotto un forte temperamento al testo previgente, sancendo che nell'ipotesi prospettata la responsabilità solidale delle beneficiarie, sia in caso di scissione totale che parziale, è comunque circoscritta al valore effettivo del patrimonio netto attribuito a ciascuna di esse. In altri termini il Legislatore ha accolto l'istanza di autorevole orientamento dottrinale che aveva contestato l'eccessivo rafforzamento della posizione dei creditori delle società partecipanti alla scissione, anche sulla base del principio informatore delle operazioni quali fusione e scissione, improntato alla assoluta 43 neutralità di esse. Infatti i creditori delle società partecipanti, secondo il regime ad oggi ancora vigente, per gli elementi del passivo trasferiti dalla società scissa e la cui destinazione non sia desumibile dal progetto, possono rivolgersi direttamente a qualsiasi delle beneficiarie per richiedere l'integrale soddisfacimento del proprio credito ricevendo un immeritato vantaggio rappresentato dalla moltiplicazione dei patrimoni sui quali rifarsi. Infatti la società richiesta dell'adempimento non può, sempre vigente l'attuale testo normativo, opporre il limite del valore effettivo del patrimonio netto ad essa attribuito, poiché il testo dell'art. 2504-octies terzo comma c.c. anteriore alla riforma, si limita a qualificare l'obbligazione della beneficiaria come obbligazione solidale, senza alcuna distinzione tra la porzione di patrimonio della scissa ricevuta in occasione dell'operazione ed il proprio patrimonio. Appare quindi corretta la scelta legislativa di contemperare l'esigenza di tutelare i creditori delle società partecipanti alla scissione con quella di non pregiudicare, o meglio non aggravare la posizione delle società partecipanti alla scissione. D'altra parte la responsabilità sussidiaria solidale delle società beneficiarie di una scissione era già prevista nel testo previgente dell'art. 2504-decies secondo comma c.c. che poneva a carico delle società beneficiarie, la responsabilità per i debiti della scissa non soddisfatti dalla società cui avrebbero fatto carico a seguito della scissione, ma unicamente nei limiti del valore effettivo del patrimonio netto attribuito a ciascuna di esse. In altre parole il testo anteriore alla riforma regolamenta in maniera diversa la responsabilità delle società beneficiarie discendente dall'impossibilità di desumere dal progetto la destinazione degli elementi del passivo, rispetto alla responsabilità derivante dal caso in cui la società, cui avrebbero fatto espressamente carico elementi del passivo, si rendesse inadempiemente. Nel primo caso infatti i creditori sociali possono rivolgersi direttamente a qualsiasi delle beneficiarie per richiedere l'integrale soddisfacimento del proprio credito; nel secondo caso invece la responsabilità solidale è sussidiaria, in quanto 44 i creditori insoddisfatti possono agire nei confronti delle beneficiarie, ma unicamente nei limiti del valore effettivo del patrimonio netto attribuito a ciascuna di esse. In definitiva il Legislatore della Riforma ha superato questa discrasia circa la responsabilità, equiparando la disciplina delle due diverse ipotesi prospettate, statuendo che in ogni caso la responsabilità delle società partecipanti alla fusione, ancorchè solidale, è sussidiaria. Pertanto sia che si agisca perché non è desumibile la destinazione di alcuni elementi del passivo della scissa, sia che si agisca perché la società cui avrebbero dovuto far carico elementi del passivo ben individuati si sia resa inadempiente, il creditore sociale potrà agire nei confronti di ciascuna beneficiaria nei limiti del valore effettivo del patrimonio netto attribuito a ciascuna di esse. 8. Inderogabilità del termine dei trenta giorni tra iscrizione del progetto di scissione e delibera di approvazione di esso L'ultimo comma dell'articolo 2506-ter c.c., presentando una serie di richiami a disposizioni dettate in tema di fusione (rese così applicabili anche alla scissione), induce l'interprete a valutare la coerenza delle scelte operate dal legislatore, chiarendo in particolare se il sistema dei rinvii innanzi esposto risponda ad una ferrea logica di conseguenzialità ovvero se in esso vadano ravvisati sviste od errori di coordinamento. Ebbene, con riguardo a tempi, adempimenti e modalità della procedura di scissione, in un contesto normativo in cui il procedimento scissorio è in larga parte modellato sulla fusione, va sottolineato il mancato richiamo alla disposizione contenuta nell'ultimo comma dell'articolo 2501-ter, norma con la quale il legislatore - in materia di fusione - fissa una regola, secondo la quale tra l'iscrizione nel registro delle imprese del progetto di fusione e la data fissata per la decisione sulla fusione debbano intercorrere almeno trenta giorni, ed una eccezione al principio stesso, stabilendo che i soci possano rinunziare, con il consenso unanime, a tale termine, potendo così deliberare l'approvazione del 45 progetto di fusione immediatamente. Il silenzio normativo serbato dal legislatore con riguardo alla scissione rende, allora, doveroso chiarire in primo luogo quale sia il termine entro cui debba intervenire l'approvazione del progetto di scissione; stabilito quale sia detto termine, l'analisi dovrà verificare se i soci possano, così come previsto per la fusione, rinunziare a detto termine al fine di abbreviare i tempi della procedura. Quanto al primo interrogativo, pur in mancanza di una testuale disposizione normativa, sono diversi gli indici che depongono per l'applicazione anche alla scissione del suddetto termine di trenta giorni dall'iscrizione del progetto. Un primo argomento, che oserei definire di ordine logico-sistematico, è rappresentato dalla indiscutibile identità di procedura tra fusione e scissione, che risulta evidente anche alla luce delle riformate disposizioni normative, non avendo il legislatore inteso alterare in alcun modo la struttura del procedimento stesso. Una conferma a tale conclusione può essere, inoltre, desunta, sul piano normativo, dal disposto dell'art. 2501-septies (come richiamato dall'art. 2506-ter ultimo comma): tale norma, infatti, nel disciplinare il deposito degli atti presso la sede sociale propedeutico alla delibera di fusione (e di scissione), lascia chiaramente intendere che i giorni, che precedono la approvazione del progetto, debbano essere non meno di trenta dall'iscrizione del progetto stesso. Dato per assunto che anche in tema di scissione trova applicazione il suddetto termine di trenta giorni (nessuno lo pone in dubbio), l'analisi deve ora fare un passo in avanti, tentando di chiarire se, in assenza di un testuale richiamo normativo, anche in vista di una delibera di scissione i soci possano, con consenso unanime, rinunziare a tale termine. Al riguardo, in via preliminare, giova porre l'accento sulla diversa scelta operata dal legislatore della riforma, il quale, omesso - come detto - ogni rinvio per la scissione all'articolo 2501 ter, adotta una differente soluzione con riguardo all'articolo 2501 septies, richiamato anche in tema di scissione. Tale ultima norma, previsto l'obbligo di deposito presso la sede sociale, durante i trenta giorni che precedono la delibera di fusione (e di scissione), di copia del progetto, dei 46 bilanci degli ultimi tre esercizi (con le relative relazioni) e delle situazioni patrimoniali redatte a norma dell'articolo 2501 quater, ammette che i soci, con consenso unanime, possano rinunziare anche a tale termine. Ebbene, si tratta di comprendere se i richiami (o i mancati richiami) legislativi rispondano ad una precisa logica, ovvero se - come ha ritenuto, forse frettolosamente, taluno dei primi commentatori - trattasi di mere dimenticanze, cui non possano essere riconosciuti particolari significati. Invero, a parere di chi scrive, tanto il mancato richiamo dell'art. 2501 ter ultimo comma quanto il rinvio all'articolo 2501 septies rispondono ad una ratio ben precisa; anche tale scelta legislativa, a mio avviso, deve essere letta alla luce del principio, che più volte abbiamo richiamato in questo lavoro, secondo il quale il legislatore della riforma riconosce ed evidenzia che l'istituto della scissione, comportando disgregazione di patrimoni e conseguente riallocazione di realtà imprenditoriali, appare sicuramente più delicata della speculare procedura di fusione, ove si realizza la convergenza tra strutture societarie; disaggregando occorre avere contezza dei valori assegnati per poter valutare, aggregando ciò che si trovava nei patrimoni poi sommati certo vi sarà (si ricordi il mancato richiamo nella scissione all'art. 2505-quater che consente ulteriori semplificazioni per la fusione di società con capitale non rappresentato da azioni; tale articolo fornisce la prova della consapevolezza del legislatore circa la maggiore problematicità della scissione rispetto alla fusione). Ebbene, proprio la delicatezza ed i maggiori profili di pericolosità della scissione, impongono di ritenere irrinunciabile l'intervallo di tempo tra deposito del progetto e adozione della delibera, che assicura maggiore ponderazione dell'operazione, riducendo così i rischi di valutazioni avventate. Le considerazioni che precedono non sono, poi, smentite dal richiamo all'art. 2501-septies, che di contro consente ai soci di rinunziare al (diverso) termine di deposito dei documenti informativi innanzi richiamati. Occorre, infatti, considerare come l'indicata norma, prescrivendo siffatto deposito, coinvolge soltanto gli interessi dei soci, mirando ad assicurarne una loro completa 47 informazione sull'operazione, come è anche testimoniato dall'ulteriore considerazione che il diritto di opposizione dei creditori trova la propria disciplina in un'altra norma, l'articolo 2503 c.c., dettato in tema di fusione e puntualmente richiamato per la scissione. Ebbene, la circostanza per la quale il deposito presso la sede sociale di copia del "materiale informativo" risponda all'esclusivo interesse dei soci, spiega come possano questi ultimi (si intende, all'unanimità) rinunciarvi perché già ben informati sull'operazione, e giustifica altresì l'applicazione di tale norma alla scissione, per la quale la diversità morfologica dell'operazione rispetto alla fusione, non importa differenti valutazioni in ordine alla informativa dei soci sulla procedura in atto. In conclusione mentre il termine di cui all'art. 2501-ter ultimo comma (non richiamato nella scissione) è un termine procedurale, il termine di cui di cui all'art. 2501-septies (richiamato nella scissione) è un termine meramente informativo. Alla luce delle considerazioni innanzi espresse, pertanto, è possibile concludere nel senso che i richiami contenuti nell'articolo 2506-ter siano espressione di un preciso disegno del legislatore, nel senso di creare, per fusione e scissione, una disciplina "elastica", che, sia pur rispondente ad analoghi principi, sappia adeguarsi alle indubbie diversità tra procedure sì speculari, ma non per questo del tutto omogenee. 9. Art. 2504-bis richiamato dall'ultima parte del I comma dell'art. 2506quater 9.1. Il principio della continuità dei valori di bilancio Pur senza voler invadere il campo in materia di bilancio, mi limito ad analizzare quelli che, a mio avviso, sono i profili dell'art. 2504-bis IV comma che possono avere importanti risvolti civilistici. In primo luogo osservo che il legislatore, nella prima parte del IV comma dell'art. 2504-bis (richiamato espressamente dall'ultima parte del I comma dell'art. 2506-quater), sancisce un principio, invero già acquisito dalla prassi 48 aziendalistica, secondo il quale nelle operazioni di fusione e scissione è immanente la regola della continuità dei valori di bilancio tra il documento o i documenti contabili sulla base dei quali si effettua l'operazione ed il primo bilancio o bilanci successivi all'operazione stessa (cfr. S. Landolfi, I valori nella scissione e il trasferimento del patrimonio, in Le Società, 1194, 7, p. 890). Sottolineo però che, se nell'ottica del giurista questa norma sembra costituire principio finalmente acquisito, gli studiosi della materia hanno mostrato perplessità relativamente alla scelta legislativa, ritenendo che il principio di continuità contabile collocherebbe la riforma in assoluta retroguardia rispetto ai principi contabili internazionali (concetto espresso da G.E. Colombo, nella Relazione tenuta al Congresso svoltosi presso l'Università del Molise il 6 e 7 giugno 2003, i cui lavori sono in corso di pubblicazione). Ebbene, non può negarsi che un primo risultato di notevole rilievo pratico ottenuto con la statuizione della continuità contabile, sarà quello di porre fine alla prassi, peraltro a mio avviso assolutamente non condivisibile, di far luogo, in sede di fusione o scissione tra società di capitali (quindi non eterogenee), alla predisposizione di una perizia di stima di tutti, o alcuni beni patrimoniali, al fine di far emergere il loro maggior valore rispetto a quello risultante dal documento contabile, maggior valore diretto a soddisfare il rapporto di cambio con l'aumento di capitale della società incorporante/beneficiaria per un importo eccedente la somma del suo patrimonio netto e della parte di netto ricevuto dalla stessa, in occasione dell'operazione, dall'incorporata/scissa. Di contrario avviso si è espresso F. Zabban (Notariato, Quaderni, n. 9, Le società: autonomia privata e suoi limiti nella riforma, Ipsoa, p. 95) il quale, anche alla luce della riforma, ha avuto modo di sostenere proprio che la perizia di stima, oltre ad essere necessaria in caso di fusione (e quindi di scissione) eterogenea, possa svolgere un'ulteriore funzione in materia di fusione (e scissione) tra società di capitali, allorché, per far luogo alla soddisfazione del rapporto di cambio, l'incorporante abbia ad aumentare il proprio capitale sociale per una somma eccedente il patrimonio netto dell'incorporata (scissa). Pur riconoscendo che tale soluzione è stata più volte 49 adottata nella pratica e spesso avallata dalle Corti di merito, ritengo che essa non avrebbe dovuto trovare cittadinanza nel nostro ordinamento, e ciò sia prima che dopo la riforma, dovendosi riconoscere quale uno dei principi informatori del bilancio (non scritti, ma immanenti nelle norme di sistema) quello della continuità dei valori di bilancio, ispirato alla tutela dell'integrità del capitale, così come il corpus dei principi di valutazione dei beni nel bilancio. La tesi innanzi sostenuta trova conferma, a mio avviso, nel disposto dell'art. 2504-bis IV comma richiamato espressamente dall'ultima parte del I comma dell'art. 2506-quater, che, con l'avvento della nuova normativa, non mi pare lasci alcuno spazio alla possibilità di modificare i valori dei beni nel primo bilancio della società risultante dall'operazione di fusione o scissione, pur se con l'ausilio di perizie di stima giurate; non sarà infatti possibile in nessun caso (con esclusione dell'ipotesi della gestione del disavanzo di cui si dirà tra breve che però come vedremo non ne rappresenta un'eccezione) procedere all'appostamento nel bilancio post fusione/scissione dei beni per valori diversi da quelli che i cespiti stessi avevano nel documento contabile anteriore all'operazione, dovendo essere ribadito che le operazioni di fusione e scissione sono improntate alla neutralità contabile. 9.2. Rapporto tra principio della continuità contabile e capitale post-scissione Alla luce delle considerazioni svolte sul principio della continuità dei valori di bilancio sancito dal legislatore della riforma, ritengo opportuno riflettere sulla possibilità che tale principio possa in qualche modo incidere sulla determinazione del capitale post scissione (considerazioni che naturalmente, mutatis mutandis, valgono anche per la fusione). Ampiamente superate appaiono sia la tesi secondo la quale il capitale nella scissione per incorporazione in società già esistente debba essere quantificato nella somma dei capitali della beneficiaria e dell'eventuale porzione del netto della scissa capitalizzato e conseguente riduzione del capitale della scissa proporzionale al netto assegnato alla beneficiaria, sia che tutte le poste presenti 50 nel bilancio della società scissa devono essere proporzionalmente riproposte nella beneficiaria. Per comprendere i motivi di una tale "scelta di campo" rispetto a talune delle tesi pervicacemente sostenute dalla dottrina formatasi in argomento, è bene analizzare distintamente le diverse fattispecie che possono realizzarsi. Nel caso di scissione con costituzione di nuova o nuove società, il capitale sociale potrà essere determinato nel suo ammontare senza alcun vincolo, con l'unico ovvio limite rappresentato dalla capienza dei patrimoni netti assegnati alle società neocostituite, e potrà condurre ad una riduzione del capitale della scissa o meno a seconda della capienza del suo patrimonio netto. Colgo l'occasione per notare che, vigente la normativa ante riforma, in ossequio al principio della riducibilità del capitale unicamente in caso di perdite o per esuberanza, è stata tradizionalmente oggetto di ampio dibattito la possibilità di ridurre il capitale della società scissa ad un importo inferiore a quello rappresentato dalla somma dei capitali delle beneficiarie e della scissa stessa, il che avrebbe determinato una riduzione sostanziale del capitale originariamente appartenuto alla società che si scinde (per tutti F. Di Sabato, Manuale delle Società, UTET, 1987, p. 621). Invero, con l'avvento della riforma, la questione perde, a mio avviso, gran parte della sua valenza. Infatti, potendosi operare liberamente la riduzione del capitale sociale, una scissione nella quale la somma dei capitali delle società beneficiarie di nuova costituzione è inferiore all'importo originario del capitale della stessa società scissa, è senz'altro ammissibile; al più, si potrà discutere sulla possibilità che l'operazione sia considerata interna alla scissione stessa (come ha sostenuto F. Di Sabato) ovvero deliberazione connessa (anche se inscindibilmente) alla scissione, ma ulteriore e distinta rispetto ad essa; da tale scelta deriveranno, tuttavia, soltanto diverse conseguenze in ordine al termine di efficacia e al termine dell'opposizione dei creditori. Considerando ora il caso di scissione con beneficiaria già esistente (al pari della speculare ipotesi in tema fusione) il capitale sociale, se trattasi di operazione semplificata (beneficiaria totalmente posseduta dalla scissa o medesima 51 compagine sociale, con identiche proporzioni di partecipazione al capitale, nelle diverse società partecipanti) non sarà minimamente modificato; laddove invece per procedere alla scissione sarà necessario determinare un rapporto di cambio (fissato, come è noto, dagli amministratori sulla base di loro valutazioni), il capitale sociale della società beneficiaria dovrà essere aumentato di un importo sufficiente ad attribuire ai soci della società scissa le partecipazioni della beneficiaria sulla base del rapporto di cambio. Quindi se ad esempio il capitale azionario della beneficiaria fosse 100 e quello della scissa 1000, dato per assegnato un patrimonio netto di 500, sulla base di un rapporto di cambio di 1 azione della società beneficiaria ogni 10 partecipazioni detenute dai soci della scissa, il capitale della società beneficiaria dovrà essere aumentato a 200. Venendo al quesito che ci siamo posti all'inizio circa l'eventuale incidenza sulla determinazione del capitale post scissione del principio della continuità dei valori di bilancio, la risposta è senz'altro negativa. L'aver abbracciato il principio della continuità contabile non incide minimamente sull'ammontare del capitale in quanto, secondo detto principio, come peraltro emerge anche dalla stesso tenore dell'art. 2504-bis IV comma, la continuità da rispettarsi deve riferirsi all'iscrizione delle attività e delle passività (dove per tali intendiamo le voci del passivo non costituenti patrimonio netto) nel bilancio o nei bilanci post fusione/scissione rispetto al loro appostamento di partenza nel bilancio della incorporata/scissa. Il principio della continuità, in altri termini, riguarda solo il valore di appostamento dei beni e delle passività; ne resta totalmente fuori il patrimonio netto il quale, come ben sappiamo, non è altro che la risultante della differenza tra ammontare dell'attivo ed ammontare del passivo (non patrimonio netto), espressione sintetizzata nella famosa uguaglianza A (attività) = N (patrimonio netto) + P (passività). 9.3. La gestione del disavanzo da scissione Diverso fondamento, rispetto al principio testè esposto della continuità contabile, ha la problematica della gestione del disavanzo di fusione/scissione, 52 oggetto della previsione normativa portata dallo stesso art. 2504-bis IV comma richiamato espressamente dall'ultima parte del I comma dell'art. 2506-quater. La norma in esame prevede che, nel caso in cui emerga un disavanzo da fusione o da scissione, questo dovrà essere imputato, ove possibile, agli elementi dell'attivo e del passivo delle società partecipanti e per la differenza, se ve ne sono le condizioni, ad avviamento. Per chiarire il testo normativo, si facciano i seguenti esempi: in caso di fusione per incorporazione, la società incorporante ALFA possiede l'intero capitale della società incorporata BETA appostato in bilancio al costo di acquisto pari a 1.000, laddove il patrimonio netto di BETA, corrispondente a tale partecipazione, è pari a 700 (l'amministratore della incorporante non avrà ritenuto di doverla svalutare); a seguito della fusione per incorporazione di BETA in ALFA, nel bilancio di quest'ultima, si sostituirà al costo della partecipazione pari a 1.000, il patrimonio di BETA pari al valore contabile di 700, con l'emersione di un disavanzo di 300; allo stesso modo, in caso di scissione parziale in beneficiaria già esistente, la società beneficiaria ALFA possiede l'intero capitale della società scissa BETA appostato in bilancio al costo di acquisto pari a 1.000, laddove il patrimonio netto di BETA, corrispondente a tale partecipazione, è pari al valore contabile di 700; a seguito della scissione per incorporazione di parte di BETA in ALFA, nell'ipotesi in cui la parte di beni assegnata da BETA ad ALFA sia esattamente la metà (la restante metà resterà a BETA), nel bilancio di quest'ultima, si ridurrà proporzionalmente il costo che da 1.000 diventerà 500 (espressione del costo della partecipazione che ancora resta in BETA) ed in luogo dei 500 annullati saranno iscritti in bilancio beni per 350, con l'emersione di un disavanzo di 150. In entrambi i casi prospettati, se il maggior costo sborsato è giustificato da un maggior valore reale dei cespiti della incorporata/scissa oppure grazie alla loro organizzazione se essi esprimono un avviamento, la società incorporante/beneficiaria dovrà aumentare il valore dei cespiti, se vi è capienza, o in subordine appostare avviamento (al massimo per 300 nell'esempio della fusione 53 e al massimo per 150 nell'esempio della scissione), al fine di evitare di registrare un disavanzo (perdita) in realtà inesistente, in quanto la società avendo acquisito una partecipazione in una società i cui beni esprimevano un valore reale più alto di quello contabile che ha determinato un maggior costo, oggi ricevendo quegli stessi beni sarebbe incoerente appostarli in bilancio ad un valore inferiore. E' bene preliminarmente chiarire che la previsione di imputare il disavanzo agli elementi dell'attivo aumentando il loro valore se vi è capienza o iscrivendo un avviamento prima inespresso se ve ne è la possibilità, non rappresenta un'eccezione al principio enunciato poc'anzi della continuità dei valori di bilancio, bensì ne costituisce la conferma sulla base della considerazione che entrambi hanno il medesimo scopo volto alla tutela dell'integrità del capitale sociale. Siffatta norma, infatti, intende apportare un giusto correttivo alla situazione anomala che si viene a creare allorquando una società dopo aver sostenuto un certo costo per l'acquisto della partecipazione di una società che poi incorpora, registra una perdita (disavanzo) poiché il valore contabile dei beni dell'incorporata è inferiore. Giustamente il legislatore tende a colmare tale discrasia tra valore di acquisto di una partecipazione e valore contabilizzato dei beni, differenza che dà vita ad una depressione del netto patrimoniale non giustificata se il maggior costo sborsato è espresso dal superiore valore dei beni o dall'avviamento. Dicevo che questa norma non rappresenta un'eccezione al principio della continuità dei valori di bilancio, in quanto se è vero che i beni patrimoniali oggetto dell'attribuzione in sede di fusione/scissione possono subire una rivalutazione, ciò è giustificato dallo scopo, sempre che ve ne sia la possibilità, di adeguare il dato contabile a quello di acquisto, colmare cioè la differenza tra valore contabile e costo di acquisto al fine di non far emergere perdite in bilancio cui non corrisponde una riduzione di patrimonio. La ratio di questa norma è stata molto ben sintetizzata da G.E. Colombo (in nota a Corte di Appello di Milano 4/3/1992, rel. Rordorf, in Le Società, 1992, 7, p. 959) il quale afferma che essa riposa sulla considerazione che la partecipazione in una società rappresenta un bene di secondo grado, sicché l'acquisto della 54 partecipazione per un certo importo altro non è che l'acquisto, per tale somma, dei beni della società partecipata. Di fondamentale importanza è non confondere l'ipotesi in discorso con la rivalutazione dei cespiti al fine di far emergere il loro maggior valore reale per soddisfare il rapporto di cambio con l'aumento di capitale della società incorporante/beneficiaria per un importo eccedente la somma del suo patrimonio netto e della parte di netto ricevuto dalla stessa in occasione dell'operazione dall'incorporata/scissa di cui si è detto al punto 9.1 che precede. In primo luogo il disavanzo si gestisce unicamente nell'ipotesi di un acquisto di una partecipazione in una società poi incorporata (in tutto o in parte), mentre la rivalutazione dei cespiti prescinde da questo dato; in secondo luogo con la gestione del disavanzo si adegua unicamente il valore dei beni patrimoniali al valore di acquisto della partecipazione da parte dell'incorporante; non vi è alcun riferimento al valore reale dei cespiti stessi (il valore reale dei beni potrebbe essere di gran lunga superiore al valore di acquisto della partecipazione: l'aumento del valore contabile dei cespiti dovrebbe necessariamente arrestarsi al valore di acquisto), diversamente da come accade in sede di perizia ove il valore attribuito ai cespiti è quello "reale". In terzo luogo è bene sottolineare che la gestione del disavanzo con l'aumento contabile dei valori o l'iscrizione di avviamento può riguardare unicamente i beni assegnati per fusione o per scissione dalla incorporata/scissa all'incorporante/beneficiaria e non certo altri beni della stessa incorporante/beneficiaria non attribuiti in occasione dell'operazione; se così non fosse verrebbe a cadere la ratio della norma stessa e si darebbe vita ad una mera rivalutazione di cespiti patrimoniali non ammissibile. Tornando al tenore letterale della norma, il legislatore afferma che il disavanzo deve essere imputato, come detto, sugli elementi dell'attivo se vi è capienza o sull'avviamento se ve ne è la possibilità, ma aggiunge un riferimento anche al passivo; non si vede come si possa ridurre il disavanzo imputandolo agli elementi del passivo. Questa disposizione non ha giustificazione in quanto non si può certo aumentare o diminuire l'ammontare di un debito in bilancio; l'unica 55 possibile lettura, per non doverla considerare un'ulteriore svista del legislatore, può essere quella di ipotizzare che il disavanzo possa essere assorbito da un "fondo rischi" iscritto al passivo della società incorporante/beneficiaria per un ammontare particolarmente elevato. Infine vi è da dire che la norma in commento, pur apparendo chiara a prima lettura circa il momento in cui debba essere gestito il disavanzo disponendo che gli amministratori dovranno operare gli opportuni appostamenti e valutazioni in sede di primo bilancio post fusione/scissione, a mio avviso desta perplessità. Difatti, se è vero che nell'operazione di fusione/scissione il legislatore riconosce la possibilità che emerga un disavanzo, tale disavanzo in taluni casi potrà essere tanto importante da incidere sul capitale sociale anche in modo rilevante (si pensi ad una situazione di perdite rilevanti ex artt. 2446 o 2447 c.c.). Questa notazione potrebbe avere grande rilievo in quanto, se gli amministratori devono gestire tale disavanzo nella redazione del primo bilancio successivo all'operazione, è pur vero che la società risultante dalla fusione o dalla scissione, all'indomani dell'efficacia della stessa, potrebbe trovarsi in una delle situazioni contemplate dall'art. 2446 o 2447 c.c.. Si ricordi che relativamente alla fusione in cui la società incorporante presentasse perdite superiori al terzo o tali da integrare l'ipotesi di cui al 2447 c.c., la migliore dottrina (per tutti P. Marchetti, Appunti sulla nuova disciplina delle fusioni, Riv. Not. XLV, p. 20) ha sostenuto che la fusione possa considerarsi opportuno provvedimento, a condizione che, a seguito della fusione, la società risultante dall'operazione non si trovi, o non continui a trovarsi, con perdite superiori al terzo del capitale; alla dottrina fa eco la giurisprudenza (Orientamenti del Tribunale di Milano in tema di omologhe, 1994), secondo la quale la fusione mediante incorporazione da parte di una società non in perdita di altra società che abbia il capitale sociale ridotto al di sotto del limite legale e versi nelle condizioni previste dall'art. 2447 c.c., è ammissibile nel solo caso in cui risulti dal patrimonio netto che la società incorporante disponga di eccedenze patrimoniali e di riserve sufficienti ad assorbire e neutralizzare le perdite della società da incorporare, 56 senza esporsi a sua volta alle conseguenze previste dagli articoli 2447, 2448 e 2449 c.c.. Non è, di conseguenza, considerata ammissibile la fusione di società (che non risulti deliberata per il miglior conseguimento dello scopo di liquidazione) quando le perdite della società da incorporare appaiano di entità tale da assorbire interamente anche il patrimonio netto della società incorporante e siano idonee quindi a porre la società incorporante, una volta attuata la fusione, nella impossibilità di intraprendere nuove operazioni, riducendone il capitale al di sotto del minimo di legge. In conseguenza, sulla base di quanto sostenuto ante riforma e tuttora valido sulla base del testo riformato, mi domando se si possa procedere ad una fusione o ad una scissione in cui emerga, a danno della società risultante dall'operazione, un disavanzo (non gestibile né con l'imputazione agli elementi dell'attivo per incapienza, né iscrivendo l'avviamento perché assente e naturalmente in mancanza di poste di netto positive) di tale entità da incorrere nel portato degli artt. 2446 o 2447 c.c. (si tenga conto che, ad esempio, nella fusione inversa tale problematica è sostanzialmente immanente la particolarità del meccanismo operativo). Pertanto se si accedesse al principio di cui alla disposto dell'art. 2504-bis IV comma I^ parte c.c., secondo il quale il disavanzo deve essere gestito nel primo bilancio post fusione/scissione, ne discenderebbe l'ammissibilità dell'operazione nonché l'irrilevanza della problematica del disavanzo per il notaio che riceve l'atto di fusione/scissione, ma si incapperebbe, a mio avviso, nel divieto di dar vita, con un'operazione volontaria, ad una situazione geneticamente patologica quale è quella di una società che, quale risultato dell'operazione, si trova in stato di liquidazione ex art. 2448 c.c. per perdite superiori al limite legale o con perdite rilevanti ex art. 2446 c.c., con la conseguenza di non poter intraprendere nuove operazioni e che come primo atto post operazione dovrebbe senza indugio convocare l'assemblea (provocatoriamente si potrebbe affermare che la convocazione per gli opportuni provvedimenti debba essere contenuta nello stesso atto di fusione/scissione). Ciò chiarito ritengo pertanto che non si possa dare della fattispecie in esame siffatta lettura: a mio avviso l'interpretazione da accogliere è 57 quella per la quale il legislatore abbia inteso riferire l'espressione "Nel primo bilancio successivo alla fusione", contenuta nella prima parte del IV comma dell'art. 2504-bis c.c., esclusivamente al principio della continuità contabile: "Nel primo bilancio successivo alla fusione le attività e le passività sono iscritte ai valori risultanti dalle scritture contabili alla data di efficacia della fusione medesima"; la successiva parte dell'articolo, inerente alla gestione del disavanzo di fusione/scissione, per le considerazioni addotte, non può essere retta dalla medesima espressione. In conclusione, a mio avviso, tutte le vicende contabili derivanti dalla scissione devono essere gestite nell'ambito dell'operazione stessa: come deve essere considerato l'eventuale aumento del capitale derivante da un rapporto di cambio e con quali poste farvi fronte, come si devono considerare e gestire eventuali perdite rilevanti (art. 2446 o 2447 c.c.) sul patrimonio netto post scissione della beneficiaria, allo stesso modo non possono non essere rilevati eventuali disavanzi da scissione che possono condurre le società partecipanti nelle condizioni previste dall'art. 2446 o 2447 c.c. 10. La ratio del mancato richiamo all'art. 2505-quater Si rileva che l'art. 2506-ter c.c. contenente i rinvii alle norme sulla fusione applicabili alla scissione, omette il richiamo espresso all'art. 2505-quater che prevede talune deroghe alla disciplina dell'istituto della fusione nell'ipotesi in cui ad essa partecipino società con capitale non rappresentato da azioni. Come ho avuto modo di dire più volte nel corso di questo lavoro, tale mancato richiamo non è assolutamente da ascrivere ad una svista del legislatore della riforma. Invero, a parere di chi scrive, in questo mancato richiamo ritroviamo l'implicito riconoscimento di un principio che ha guidato il legislatore della riforma: quest'ultimo ha giustamente rilevato ed evidenziato come la scissione, comportando disgregazione patrimoniale offre maggiori profili di pericolosità rispetto alla speculare procedura di fusione, ove si realizza la convergenza tra strutture societarie; nella disaggregazione si deve avere contezza 58 dei valori che si assegnano, nell'aggregazione la consistenza del patrimonio aggregato non può non essere la somma dei patrimoni originari. Il legislatore quindi, a prescindere da quale sia la società o le società che procedono alla scissione, società per azioni, società a responsabilità limitata o società di persone, richiede a coloro i quali pongono in essere tale operazione una maggiore ponderazione che si sostanzia, anche per le società con capitale non rappresentato da azioni, nell'impossibilità di far partecipare società che abbiano iniziato la distribuzione dell'attivo, di non poter derogare al limite del 10% del conguaglio, l'impossibilità di omettere la relazione degli esperti con il consenso unanime ed infine di non ridurre a metà tutti i termini di cui agli artt. 2501-ter IV comma, 2501-septies I comma e 2503. 59