Tesi - L`Eutanasia _dott_ssa Salton

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI FIRENZE
FACOLTÀ DI GIURISPRUDENZA
CORSO DI LAUREA IN GIURISPRUDENZA
L’EUTANASIA
NEL DIRITTO PENALE
Relatore
Prof. Ferrando Mantovani
ANNO ACCADEMICO 2005/2006
Tesi di laurea
Federica Salton
Ai miei genitori
- INDICE PREMESSA............................................................................................................. 1
CAPITOLO I
CENNI STORICI E DI DIRITTO COMPARATO
§1. L' EUTANASIA NELLE DIVERSE RELIGIONI...........................................................5
§2. L’ EUTANASIA NELLA STORIA.......................................................................... 17
§3. L’EUTANASIA NEGLI ORDINAMENTI GIURIDICI STRANIERI................................. 31
CAPITOLO II
LA DISPONIBILITÀ DEL CORPO UMANO
§4. IL PRINCIPIO UTILITARISTICO DELL’UOMO....................................................... 48
§5. IL PRINCIPIO PERSONALISTICO DELL’UOMO. .................................................... 51
§6. L’EUTANASIA COLLETTIVISTICA E L’EUTANASIA INDIVIDUALISTICA................... 59
CAPITOLO III
LE FORME EUTANASICHE E IL DIRITTO PENALE
§7. L’EUTANASIA PURA: UN “AIUTO NEL MORIRE”. ................................................ 66
§8. L’EUTANASIA ATTIVA: UN AIUTO “A MORIRE”.................................................. 73
§9. L’EUTANASIA PASSIVA CONSENSUALE.............................................................. 80
§10. L’EUTANASIA PASSIVA NON CONSENSUALE. ................................................... 91
§11. IL TRATTAMENTO PENALE DELL’EUTANASIA DE IURE CONDITO..................... 108
CAPITOLO IV
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE E DE IURE CONDENDO
§12. PROPOSTE DE IURE CONDENDO. ................................................................. 118
§13. CONCLUSIONI............................................................................................ 126
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................... 132
“Attristandomi io ascolto; e per più volte
io sono quasi innamorato della benigna Morte
e l’ho chiamata con soavi nomi in tante ripensate rime,
ché portasse ne l’aria il mio respiro queto;
ora più che mai parmi ricco il morire,
finire ne l’ora della mezzanotte senza duolo”
John Keats
“I polmoni sono le nostre ali interne.
Con il cuore nel mezzo esse ci sollevano.
Quando i loro piumati respiri sono feriti
il nostro volo precipita. Oh aiutateci voi,
che foste iniziati ai pericoli che ci minacciano,
a mantenerci in volo ancora un po’”
Olof Lagercrantz
PREMESSA
Il dibattito sull’eutanasia ha coinvolto ampi settori di indagine, da quello
giuridico, a quello filosofico, da quello teologico a quello medico, fino a
comprendere sempre più ampi settori dell’opinione pubblica, assumendo i
connotati di una questione che né riesce a trovare una soluzione, né è capace di
trovare un accordo unanime sul significato, sulla portata e sui sotto-problemi
che tale pratica porta con sé.
La solidarietà, l’autonomia e la stessa dignità umana depongono sia a favore che
contro l’eutanasia: così, ad esempio, l’angelo della morte che aiuta a morire i
malati terminali può apparire come un benefattore o come uno spietato
criminale; il senso di solidarietà può giustificare sia le richieste di morte che
andare contro di esse, configurando un dovere di intervento ad oltranza in
ragione della tutela della vita umana. Il principio di dignità viene preso a
fondamento sia da chi tende a legittimare le pratiche eutanasiche sia, nella
situazione opposta, da chi afferma che la dignità si manifesta nell’accettazione
della morte come fatto naturale. La ragione di questo paradosso dipende
dall’essere, la problematica dell’eutanasia, eccezionale, in quanto ogni
situazione eutanasica è tipicamente situazione non ordinaria ma di eccezione,
in quanto ciascuna è dotata di un profilo individuale, non analogabile a nessun
altro profilo1.
Il dibattito sull’eutanasia si è fortemente incentivato in epoche recenti a
seguito di numerosi fatti controversi che non hanno lasciato insensibile
l’opinione pubblica; per citare qualche esempio che viene riportato dalla
stampa, possiamo ricordare il “Dottore Morte”, il Dr. Jack Kevorkian, che ha
ideato e messo a punto una macchina che consente all’aspirante suicida di
V. D’Agostino, Non è di una legge che abbiamo bisogno, in Il diritto di morire bene, a cura di
Semplici, Bologna, 2002, 28.
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1
iniettarsi nel circolo venoso dell’anestetico e, successivamente, una sostanza
venefica o un’overdose di oppiacei. O pensiamo ai giudizi della Corte Suprema
degli Usa a proposito della sospensione dei trattamenti di sostegno vitale a
pazienti in stato vegetativo persistente (mi riferisco al recente caso di Terri
Schiavo); all’approvazione in Olanda della legge che depenalizza l’eutanasia,
così come era accaduto anche nel Territorio del Nord in Australia.
Scopo di questo lavoro è quello di delineare una panoramica della situazione
attuale in merito a questo problema, senza tacere che il tema si presenta
lacerante per la sensibilità di molti per la difficoltà di accettare la fine di una
vita.
In questa analisi prenderemo le mosse, innanzitutto, dall’analisi del significato
della vita, della morte e della sofferenza nelle più importanti religioni; con uno
sguardo più attento alla religione cattolica per la innegabile influenza che
questo pensiero svolge nella nostra visione dell’esistenza, e alla posizione delle
Chiese Riformate d’Olanda, che hanno costituito la base ideologica dell’attuale
disciplina eutanasica in Olanda, alla quale verrà dedicata un’attenta analisi,
tenendo conto anche dei movimenti che negli anni precedenti la hanno, in
qualche modo, auspicata.
Passeremo ad analizzare e a definire il termine di origine ellenica
ευτανασια nelle varie fasi storiche, dal suo significato originario di dolce
morte fino all’elaborazioni e costruzioni giuridiche del Ferri sull’omicidiosuicidio, del codice Zanardelli e del nostro attuale codice.
Il secondo capitolo sarà dedicato alla tematica degli atti dispositivi del proprio
corpo: la questione riguarda la collocazione giuridica di questi atti, e in
particolare la valutazione di quelli che appaiono contrastare con l’istinto di
conservazione di se stessi, perché autolesionisti, cioè svantaggiosi nei confronti
dello stesso disponente. La legge penale prevede la possibilità che una persona,
nel caso in cui non sia più in grado di disporre autonomamente della propria
2
vita, possa disporne tramite altri, senza che ciò interferisca con il divieto di
uccidere?
Il terzo capitolo riguarderà l’analisi dettagliata della pratica eutanasica, da
quella indiretta a quella attiva a quella passiva; avremo modo di verificare
come il contesto medico sia diventato l’ambito privilegiato per l’applicazione
della definizione e della pratica dell’eutanasia, in particolare avuto riguardo
alla possibilità di attivare o sospendere trattamenti clinici o addirittura
intervenire attivamente per concludere una vita. Tutto ciò alla luce dei
progressi raggiunti dalle tecnologie mediche e dell’importanza data al concetto
di autonomia dell’individuo: infatti, da una parte si è realizzata la possibilità di
salvare vite umane; ma dall’altra si assiste all’insorgere di casi limite in cui
individui, collegati a macchine per la rianimazione, continuano a vivere per
mezzo e grazie tale supporto artificiale, spesso senza poter mai riacquistare lo
stato di coscienza o la possibilità di una vita di relazione, e ovviamente senza
poter esprimere una volontà di rifiuto o accettazione dei trattamenti. Il ricorso
a mezzi invasivi ha suscitato polemiche e dubbi circa la sua liceità: queste
situazioni sconvolgono le categorie tradizionali del diritto e dell’etica,
mettendo in moto istanze di positivizzazione legislativa e soprattutto affidando
alla giurisprudenza il compito di individuare soluzioni tra l’attuale rigidità
legislativa e il caso specifico e principi in ordine ai comportamenti
professionali e scelte personali.
Casi clinici spinosi, come quello di Eluano Englaro, assegnano un forte
impegno al giurista in ordine alle questioni di vita o di morte; sospenderle
l’alimentazione e l’idratazione artificiale, trovandosi in una condizione di stato
vegetativo persistente, equivale a consentire che possa morire. Ma ciò equivale,
anche, all’astenersi dal proseguire un normale standard di assistenza, che non è
lecito interrompere, soprattutto quando manchi una espressa volontà in
proposito.
3
La presa di posizione della Cassazione dimostra come, anche in Italia, la
tematica si affacci anche nella prassi giurisprudenziale italiana, uscendo fuori
dalle sole discussioni teoriche e accademiche.
Attualmente il tema dell’eutanasia è al centro di un acceso dibattito e oggetto
di numerose iniziative parlamentari: dal progetto di legge Fortuna del 1984 a
cui è seguito nel 1992 il disegno di legge sulla delega legislativa al Governo per
l’emanazione del nuovo codice penale del 1991, che prevede l’introduzione di
una circostanza attenuante applicabile sia all’omicidio comune che all’omicidio
del consenziente nei casi in cui la vittima si trovi in una condizione di malattia
irreversibile. E ancora il disegno di legge in tema di consenso informato del
paziente e di direttive anticipate, presentato al Senato il 29 giugno 2000, che
vuole riconoscere dignità alle “direttive anticipate”del paziente.
Infine, vedremo le varie proposte de iure condendo, tra le quali quella di chi
avanza la possibilità di una legalizzazione dell’eutanasia attiva consensuale,
tenendo presente, tuttavia, che le aree di chi è favorevole e di chi è contrario al
cambiamento delle norme esistenti in materia non coincidono con l’area di chi
valuta moralmente lecita l’eutanasia e di chi la ritiene immorale.
In conclusione cercherò di dare una risposta: esistono alternative praticabili
oppure si è costretti a discutere ancora su un tema, le cui possibili attuali
soluzioni non soddisfano nessuna delle parti in causa?
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CAPITOLO I
CENNI STORICI E DI DIRITTO COMPARATO
Sommario: 1. L’eutanasia nelle diverse religioni. – 2. L’eutanasia nella storia. – 3. L’eutanasia
negli ordinamenti giuridici stranieri.
§1. L' EUTANASIA NELLE DIVERSE RELIGIONI.
Il problema dell'eutanasia, particolarmente sentito negli ultimi anni, stenta ad
imporsi come questione essenzialmente giuridica.
È, infatti, la dimensione etica e religiosa a farla da padrona, ad impedire che si
giunga ad una legge nazionale condivisa dai più.
In particolare, l'apporto religioso costituisce un dato pregiuridico di notevole
rilevanza in materia di eutanasia1. Sono per lo più i convincimenti religiosi, in
materie come questa in cui l'opinione pubblica è particolarmente coinvolta, a
costituire i parametri in cui affondano le loro radici le posizioni giuridiche.
Possiamo subito rilevare come ci sia una tendenziale concordanza tra ebraismo,
islamismo e religione cattolica in ordine alla considerazione del bene della vita
come bene supremo e come bene garantito nella sua assoluta indisponibilità.
Così l'Halakah, cioè la tradizione giuridica ebraica, è contraria all'eutanasia;
l'ebraismo fonda la sua cultura sull'Antico Testamento (la Bibbia ebraica, che è
anche il testo sacro dal quale attinge la sua fede il cristianesimo) e sulla
tradizione dell'insegnamento dei rabbini, maestri interpreti della scrittura. Per
quanto riguarda i problemi etici nuovi, come l'eutanasia, la loro soluzione
spetta ai rabbini, i quali, sviluppando il principio biblico assoluto che prescrive
di non uccidere e che impone a chiunque il rispetto della vita umana,
affermano che la vita è affidata da Dio all'uomo, il quale non può liberamente
“Al giurista viene riservato uno spazio residuo, di cristallizzazione normativa di opzioni
assunte sul diverso piano dei valori, alla cui fedele traduzione in formule giuridiche egli
dovrebbe dedicare tutte le sue energie”, F. D'Agostino, L' eutanasia come problema giuridico,
in Arch. giur., 1987, 27.
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decidere non solo della vita altrui, ma neppure della propria2. Quindi, la vita e
la morte sono nelle mani di Dio3; ma ciò non significa che l'ebraismo sia
insensibile alla sofferenza. I farmaci antidolorifici sono permessi, anche se
possono affrettare la morte, purché non siano dati proprio a tale scopo.
Il medico ha il diritto e il dovere di curare, ma curare non significa prolungare
le sofferenze perché come è proibito accelerare la morte di un uomo, così è
proibito ritardarla con mezzi artificiali 4. Il medico, se è convinto che il suo
paziente sia goses, che cioè sia nella fase finale dell'agonia per cui la morte può
sopravvenire entro tre giorni, può sospendere le cure rianimatorie.
Per quanto riguarda la religione islamica, che come l'ebraismo non ha
un'autorità centrale che possa esprimere pareri su temi che non sono discussi
nei testi sacri e quindi imporre una soluzione unitaria, si deve anzitutto
considerare come la problematica relativa all'eutanasia non sia ancora entrata a
far parte del dibattito etico, giuridico, religioso.
Secondo il rabbino R. Di Segni non esistono indicazioni chiare e specifiche sull'eutanasia
nella Bibbia, ma episodi da cui si può trarre insegnamento. Un caso è quello della morte del re
Saul in una battaglia contro i filistei. Saul accerchiato dai nemici, nel terrore di essere catturato
e di dover sopportare atroci sofferenze, chiede al suo scudiero di ucciderlo. Lo scudiero si
rifiuta, e Saul si trafigge da sé con la sua spada, ma senza riuscire nell'intento suicida. Allora
chiede ad un giovane amalecita di ucciderlo, e questo lo esaudisce. L'amalecita va a raccontarlo
al re David, e il re lo condanna. Da questo episodio emergono delle linee tendenziali: il tentato
suicidio commesso da Saul è comprensibile e giustificabile. Ma non è consentito aderire alla
richiesta suicida del re, e, infatti, l'amalecita che lo fa viene punito. V. U. Veronesi, Il diritto di
morire; la libertà del laico di fronte alla sofferenza, Mondadori, 2005, 33.
3
“Solo il Creatore, che concede il dono della vita, può toglierla all'uomo, anche quando essa
diventa un peso anziché una benedizione”, A. M. Rabello, Diritto ebraico, in Encicl. Giur., XI,
Roma, Treccani, 1995, 17.
4
Il rabbino Elio Toaff, intervenuto nella prima giornata di un convegno nazionale organizzato
dall'Ordine degli avvocati e dall'Associazione Magistrati di Rieti, che si è tenuto a Rieti nelle
giornate 23-26 ottobre 1986, afferma che “è proibita qualsiasi azione tendente ad affrettare la
fine di un moribondo, anche se è in preda a forti sofferenze, e anche se egli stesso chiede di
morire. Così “è proibito prolungare artificialmente la vita”; v. più ampiamente E. Toaff,
Ebraismo religione di vita, in Atti del Convegno giuridico, Vivere, un diritto o un dovere?
Problematiche dell’eutanasia, Rieti 23-26 ottobre 1986, Rieti, 1987, 39.
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Tuttavia la Sharia, cioè la legge religiosa dell'Islam, ritiene illecita l'eutanasia in
quanto contraria ai precetti del Corano5.
L'omicidio per misericordia, pur essendo questa uno dei fondamenti della
religione islamica, non rientra in tale cultura.
Anche per l'islamismo l'uomo non può disporre della propria vita, poiché solo
Dio ha il potere di accordala e di toglierla 6. La vita umana in sé è un valore; il
concetto di vita senza valore o non degna di essere vissuta è alieno all'Islam.
Nel 1985 la prima Conferenza internazionale di medicina islamica, che si
svolse a Kuwait City, stilò un Codice islamico di etica medica in cui si
affermava, in tema di eutanasia, che questa si fonda su una visione atea della
vita, una visione che ritiene che dopo la vita segua il nulla; pertanto l'Islam
rifiuta di uccidere un essere umano per dispensarlo dal patire atroci sofferenze,
in quanto, oggi, non esiste dolore umano che non possa essere alleviato dalla
medicina palliativa o dalla neurochirurgia.
Come per il cristianesimo, anche per la religione islamica la sofferenza ha un
valore positivo7; anzi, alcune correnti minoritarie e conservatrici includono gli
antidolorifici, come la morfina o addirittura gli antidepressivi, nel numero
delle sostanze che, alterando l'intelletto, sono proibite dall'Islam, alla pari
dell'alcool e delle droghe.
Del resto gli islamici affermano che nella loro società nessuno viene
abbandonato; la comunità dei credenti ha il dovere di rendere dignitosa e
umanamente accettabile l'ultima fase della vita tramite il conforto e il calore
umano. E, qualora il medico accerti che le funzioni vitali non possano essere
Il Corano proclama la santità della vita umana. La Sura 6: 151, infatti, afferma: “[...] E, tranne
che per giustizia, non uccidete nessuno di coloro che Allah ha reso sacri [...]”. E “[...]Chiunque
uccida un uomo [...] sarà come avesse ucciso l'umanità intera”, Sura 5: 32.
6
Corano, Sura 3: 145 “Nessuno muore se non con il permesso di Allah”. Nella Sura 31: 156 “[...]
E' Allah che dà la vita e la morte [...]”.
7
Corano, Sura 31: 17 “ [...] E sopporta con pazienza quello che ti succede [...]”. Nell'Islam è
prioritario cercare il trattamento medico della malattia dal momento che il Profeta ha
affermato che per ogni malattia Dio ha creato la cura.
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7
restaurate, è inutile mantenere il paziente in uno stato vegetativo tramite
l’impiego di macchinari.
Ma le due confessioni che hanno affrontato in modo organico, seppur
antitetico, il problema dell'eutanasia, sono rappresentate dal cattolicesimo e
dalla Chiesa Valdese italiana.
La Chiesa cattolica, custode della legge divina scritta da Dio, ha da sempre
dichiarato l'immoralità radicale dell'eutanasia, in quanto è una violazione della
legge divina “non uccidere”8.
Tale condanna è stata ribadita, con una chiara presa di posizione da parte della
Chiesa cattolica, nel documento Dichiarazione sull'eutanasia, elaborata dalla
Sacra Congregazione per la Dottrina della fede, firmato dall'allora cardinale
Joseph Ratzinger il 5 maggio 1980, e approvato dal Papa Giovanni Paolo II.
Tale testo intende dare delle risposte, in materia di eutanasia, alle numerose
domande provenienti da vescovi e sacerdoti, da medici e da membri del
personale ospedaliero, soprattutto avuto riguardo al fatto che, con i progressi
della medicina, sono stati messi in luce aspetti nuovi dell'eutanasia.
Lo sviluppo tecnologico in ambito medico, infatti, ha portato con sé un
notevole aumento delle possibilità di guarigione e di prolungamento della vita,
ma che talvolta sollevano problemi di carattere etico.
Ecco dunque che questo atto tenta di indicare delle linee guida per orientare i
fedeli a proposito di questo problema.
Si ribadisce il carattere sacro della vita, della quale non si può disporre e anzi,
in quanto dono dell'amore di Dio, l'uomo è chiamato a conservarla e a farla
fruttificare. La vita umana è sacra dal suo inizio al suo epilogo.
“Qualunque siano i motivi e i mezzi, l'eutanasia diretta consiste nel mettere fine alla vita di
persone handicappate, ammalate o prossime alla morte. Essa è moralmente inaccettabile. Così
un'azione oppure un'omissione che, da sé o intenzionalmente, provoca la morte allo scopo di
porre fine al dolore, costituisce un'uccisione gravemente contraria alla dignità della persona
umana e al rispetto di Dio [...]”, v. Catechismo della Chiesa Cattolica, 1992, § 2277.
8
8
Dio solo è padrone della vita umana, non l'uomo né rispetto alla propria vita,
né rispetto alla vita degli altri9. Il suicidio al pari dell'omicidio è inaccettabile10.
L'uomo, infatti, deve conformare la propria vita al disegno misterioso e divino
che Dio ha in mente per ciascuno di noi; intervenendo autonomamente nel
processo vitale, l'uomo attenta al disegno di Dio.
Ma qual è il significato cristiano della morte?
La morte cristiana è il momento dell'unione definitiva con Cristo, poiché essa
segna solo la fine dell'esistenza della condizione corporale11, si muore per
vivere la vita eterna. Con la morte l'uomo scopre il suo nulla dinanzi al
Creatore, il suo essere figlio e servo di Dio e guarda alla morte come un evento
di salvezza in vista dell'eternità dell'anima; il cristiano può morire la sola morte
che il Signore ha voluto per lui.
Quindi la Dichiarazione, dopo aver definito l'eutanasia come un'azione o
un'omissione che di natura sua, o nelle intenzioni, procura la morte, al fine di
eliminare ogni dolore, ribadisce che in nessun caso può essere autorizzata
l'uccisione di un essere umano innocente, feto o embrione, bambino o adulto,
L'uomo, secondo la morale naturale e cristiana, è solo usufruttuario del suo corpo e della sua
esistenza; in tal senso v. Pio XII, Discorso ai partecipanti all’IX Congresso della Società italiana
di Anestesiologia, 24 febbraio 1957, in “AAS”, 49. Mentre se si ammette che l'uomo è
l'indiscusso padrone della vita umana, non si comprende perché l'uomo non possa disporne col
suicidio; non si comprende perché la società non possa eliminare con la “dolce morte” la vita
umana inutile. Ma affermando che solo Dio è padrone della vita umana, questa è intoccabile
quali che siano le sue condizioni, la sua forma; in questo senso v. Sorge, Eutanasia e diritto di
morire con dignità, in La Civiltà Cattolica, IV, 1983, 313.
10
“Tutto ciò che è contro la vita stessa, come ogni specie di omicidio, il genocidio, l'aborto,
l'eutanasia e lo stesso suicidio volontario [...] sono cose veramente vergognose” , Concilio
Vaticano II, Gaudium et Spes, 27. Anche il Papa Paolo IV, nella lettera che il cardinale
Segretario di Stato a Suo nome ha inviato il 3 ottobre 1970 al segretario generale della
Federazione Internazionale delle Associazioni mediche Cattoliche riunite a Washington per un
congresso su “la protezione della vita”, ha affermato che “ogni vita umana deve essere
assolutamente rispettata: come l'aborto, così l'eutanasia è un omicidio”, in Civiltà Cattolica, IV,
1970, 275.
11
La Dichiarazione enuncia le parole di San Paolo “Sia che viviamo, viviamo per il Signore; sia
che moriamo, moriamo per il Signore. Quindi, sia che viviamo, sia che moriamo siamo del
Signore”, in Rom., 14, 8.
9
9
vecchio, ammalato, incurabile o agonizzante, in quanto si tratta di un'offesa
alla dignità della persona umana, di un crimine contro la vita.
I sostenitori dell'eutanasia negano questo dominio assoluto di Dio sulla vita
umana, in quanto è l'uomo che decide, in piena autonomia, della propria
morte. Nella visione laica l'uomo non è figlio, ma diventa padre di se stesso, e
spetta a lui costruirsi una scala di valori etici che deve rispettare; la vita umana
è sacra in sé in quanto ogni persona è unica e irripetibile12.
In questa visione rientra anche il concetto di libera disponibilità della propria
vita13.
La diffusione dell'atteggiamento a favore dell'eutanasia risiede proprio nella
diffusione di quelle concezioni materialistiche della vita che negano l'esistenza
ultraterrena. La vita in tale ottica può essere vissuta solo in quanto ricca di
soddisfazioni e priva di dolore e sofferenza, altrimenti non vale la pena di
Secondo Bobbio, in AA.VV., Manifesto laico, a cura di Marzo E.-Corrado O., ed. Laterza,
Roma-Bari, 1999, 127, lo spirito laico non è una nuova cultura ma è una condizione per la
convivenza di tutte le possibili culture. In ciò, il termite “laicità” può distinguersi da “laicismo”
quale “atteggiamento d’intransigente difesa dei pretesi valori laici contrapposti a quelli religiosi
e di intolleranza verso le fedi e le istituzioni religiose. […] Il laicismo rischia di diventare una
Chiesa contrapposta alle altre Chiese. […] Quando la cultura laica si trasforma in laicismo,
viene meno la sua ispirazione fondamentale, che è quella della non chiusura in un sistema di
idee e di principi definiti una volta per sempre”. La laicità esprime un metodo non un
contenuto. Ciò che distingue, sostiene sempre Bobbio, un’etica religiosa da un’etica laica non
sono i precetti, ma il modo stesso di giustificarli, ovvero la “meta-etica”. Prendiamo il divieto di
uccidere: esso è un principio comune ma che secondo l’etica religiosa è giustificato in quanto
comandamento divino, mentre secondo l’etica laica la giustificazione sta nella ragione. La
laicità è la capacità di distinguere ciò che è dimostrabile razionalmente da ciò che è invece
oggetto di fede. Ocone, in AA.VV., Manifesto laico, cit., 114, riporta il ragionamento per cui il
rapporto fra laico e cattolico non è un rapporto di opposizione: laico è “colui che a tutti dà la
possibilità di esprimersi (anche a chi crede nella verità rivelata) , ma solo nella misura in cui ad
altri non venga tolto questo diritto”. Per concludere “il rispetto laico della ragione non è
garantito a priori né dalla fede né dal suo rifiuto”
13
Così U. Veronesi, Il diritto di morire. La libertà del laico di fronte alla sofferenza,
Mondadori, 2005, 80: “Il principio assoluto di non disponibilità della propria vita da parte degli
esseri umani è, secondo me, un principio crudele che sequestra la libertà individuale [...].
Diceva I. Montanelli -Non capisco come sia legittimo per un uomo pianificare o decidere della
propria vita, ma non sia legittimo decidere della propria morte!-”.
12
10
essere vissuta. Infatti, il principio su cui si fonda l'eutanasia è quello per cui è
preferibile morire che soffrire14.
Ma secondo l'insegnamento cristiano il dolore e la sofferenza non sono mai
inutili, anzi hanno un significato importantissimo in quanto rendono partecipe
l'uomo della passione di Cristo. La sofferenza ha un particolare valore salvifico
per il fatto che nell'uomo agonizzante rivive il mistero di Cristo che soffre per
la redenzione dei peccati dell'umanità15.
Ciò nonostante, la Chiesa non pretende un eroico atteggiamento del malato nel
dover affrontare la sofferenza16, ma ammette l'uso di medicinali in grado di
lenire o sopprimere il dolore, anche se da questo uso possa derivarne quale
effetto secondario torpore o minore lucidità; e per quanto riguarda coloro che
non sono in grado di esprimersi, si potrà presumere il loro desiderio di
prendere tali calmanti. E l'uso dei narcotici è lecito anche quando ha, come
effetto secondario, quello della abbreviazione della vita, purché come ricordò il
Papa Pio XII, si tratti di un effetto non voluto17.
Nel 1974 quaranta personalità della cultura e della scienza, tra le quali i premi Nobel J.
Modot, L. Pauling e G. Thompson, elaborarono il Manifesto a favore dell’eutanasia, pubblicato
sulla rivista The Humanist nel luglio 1974 in cui, tra l'altro, si afferma che “la sofferenza inutile
è un male che dovrebbe essere evitato nelle società civilizzate. Poiché ogni individuo ha il
diritto di vivere con dignità, ha anche il diritto di morire con dignità”. Il 9 dicembre 2000 la
Pontificia Accademia per la vita pubblicava il documento Il rispetto della dignità del morente,
in Oss. Rom., 11-12 dicembre 2000, nel quale si afferma che la giustificazione dell'eutanasia è
costituita da due idee di fondo; l'una è data dal principio di autonomia del soggetto, il quale
avrebbe pertanto il diritto di disporre in modo assoluto della propria vita; l'altra è data
dall'insopportabilità e inutilità del dolore che talvolta accompagna la morte. Ma, afferma il
documento, il dolore è oggi un dolore sopportabile grazie ai progressi della medicina e
soprattutto grazie all'assistenza umana e spirituale. V. De Rosa, Eutanasia anche in Italia?, in
Civiltà Cattolica, I, 2001, 299: “[...] a coloro che sono cristiani dobbiamo ricordare che la
sofferenza, per quanto grave possa essere, non è mai inutile e senza senso: [...] essa diventa
strumento di redenzione e di salvezza [...] ”.
15
San Paolo dice: “adimpleo ea quae desunt passionem Christi in carne mea” (trad. It.
“completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo”), in Col. 1, 24.
16
Il Vangelo ci dice, infatti, che “Gesù insegnava nelle loro sinagoghe […] guarendo fra il
popolo ogni malattia e infermità. […] così si condussero a lui malati di ogni genere: sofferenti
d’infermità e dolori vari, indemoniati e paralitici, ed egli li guarì”, Matteo 4, 23.
17
Papa Pio XII ad un gruppo di medici che gli chiedevano se “la soppressione del dolore e della
coscienza per mezzo dei narcotici [...] è permessa dalla religione e dalla morale, al medico e al
14
11
Infine la Chiesa cattolica si è pronunciata anche riguardo ai fondamentali
problemi sollevati dal progresso delle tecniche rianimatorie, ritenendo lecito
sia accontentarsi dei normali mezzi che la medicina offre, sia, con il consenso
del paziente, ricorrere ai mezzi di terapia più avanzati.
In merito la Dichiarazione ritiene che, in ragione dei continui sviluppi
tecnologici che mutano mezzi considerati straordinari in mezzi divenuti
ordinari e quindi obbligatori, sia preferibile sostituire al distinguo tra mezzi
ordinari e mezzi straordinari18, la distinzione tra “mezzi proporzionati” e
“mezzi sproporzionati”.
Con questa nuova contrapposizione, introducendo un elemento discrezionale
volto a consentire la possibilità di astenersi dall'esecuzione di interventi
sproporzionati, si ha riguardo al risultato terapeutico derivante dalla tecnica
medico-chirurgica utilizzata e non ad una sua qualificazione ex ante.
In ogni caso tali mezzi devono essere valutati mettendo a confronto il tipo di
terapia, il grado di difficoltà e il rischio che essa comporta, le spese necessarie,
le possibilità di applicazione, con il risultato che ci si può aspettare, tenuto
conto delle condizioni dell'ammalato e delle sue forze fisiche e morali.
Dopo l'affermazione che, comunque, nell'imminenza di una morte inevitabile
nonostante
i
mezzi
usati
è
lecito
rinunciare
a
trattamenti
che
prolungherebbero la vita in modo tale da renderla penosa e precaria senza
tuttavia interrompere le cure normali, si ribadisce che la morte è un evento
naturale che deve essere accettato con serenità e dignità umana e cristiana; i
medici devono prestare le cure necessarie al sofferente.
paziente, anche all'avvicinarsi della morte e se si prevede che l'uso dei narcotici abbrevierà la
vita”, rispose “se non esistono altri mezzi e se, nelle date circostanze, ciò non impedisce
l'adempimento di altri doveri religiosi e morali: Sì”. V. Pio XII, Discorso del 24 febbraio 1957,
cit., 147.
18
Distinzione operata da Pio XII già nel 1957 il quale vi individuava il limite al dovere del
medico di fare sempre e comunque tutto quanto in suo potere per prolungare la vita (c.d.
vitalismo medico). V. Pio XII, Discorso del 24 febbraio 1957, cit., 49.
12
Ma l'ammalato prima che paziente è un uomo, che deve essere confortato,
accudito, accompagnato amorevolmente in quella che è un'esperienza unica e
irripetibile per ogni essere umano. Coloro che chiedono di morire, il più delle
volte, sono coloro che vengono abbandonati in un letto d'ospedale, oppressi
dall'idea di costituire un peso per la famiglia e impauriti dall'ignoto verso cui si
accingono ad andare incontro. Quello di cui gli anziani, i malati terminali, le
persone sofferenti hanno realmente bisogno per non essere costretti a chiedere
l'eutanasia è di vivere in un clima di serenità, di avere comprensione, affetto,
cura19.
In conclusione, l'opposizione dei cattolici a una possibile legalizzazione
dell'eutanasia si fonda su principi non soltanto di carattere religioso, ma anche
di carattere naturale e civile, attinenti al rispetto della vita e della dignità
dell'uomo che lo Stato deve tutelare e non distruggere; la sacralità della vita è
una verità fondamentale, ma non perché derivante esclusivamente da un
principio divino, ma in quanto derivante da una visione che pone al centro
l'uomo e i suoi diritti, aventi una portata non solo cattolica, ma universale.
Differente la soluzione che viene data al problema dell'eutanasia dalla Chiesa
Valdese e Metodista20.
Queste hanno un'unica autorità centrale, il Sinodo, rappresentativo delle
chiese locali, che ha autorità ecclesiastica in materia di dottrina, giurisdizione
Prestare un tale servizio agli uomini è un servizio prestato al Signore stesso, il quale ha detto:
“Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo dei miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a
me”, Mt, 25, 40.
20
Queste Chiese, che costituiscono oggi l'unico movimento di riforma religiosa inserito nel
quadro dell'odierno cristianesimo, si dicono valdesi da Valdo (XII-XIII sec. d.C.) mercante di
Lione che vendette i suoi beni e si dedicò alla predicazione del Vangelo, collaborando alla
rinnovazione della Chiesa. La testimonianza del movimento si incentrava su due aspetti del
cristianesimo: la fedeltà al Vangelo (per questo vengono definite anche “evangeliche”), che
deve essere preso alla lettera rinunciando al potere politico, all'uso della forza e alle alleanze
con le potenze del mondo, e la povertà della Chiesa. Come tutti i movimenti ereticali fu
oggetto di repressione da parte del potere civile e religioso. Quando sorse in Europa la riforma
protestante i valdesi vi aderirono nel 1532 organizzandosi in una comunità alternativa a quella
di Roma, con predicatori locali per il culto e la celebrazione dei sacramenti. V. più ampiamente
www.chiesavaldese.org. Ult. visita: 1 giugno 2006.
19
13
ed emanazione delle leggi interne. L'amministrazione della Chiesa è posta nelle
mani della Tavola Valdese, organo collegiale di nomina sinodale.
La presenza di questo culto in Italia ha costretto spesso le autorità statali e le
gerarchie ecclesiastiche ad effettuare un confronto dialettico su specifici
problemi di notevole rilevanza sul piano dell'opinione pubblica21.
Sullo specifico problema dell'eutanasia e della bioetica, la Chiesa Valdese
Italiana si è espressa con più documenti approvati da un apposito Gruppo di
lavoro sui problemi etici posti dalla scienza, istituito nel 1992, composto da
teologi, scienziati e operatori sanitari e nominato dalla Tavola Valdese.
In particolare è del 1998 il documento che affronta specificatamente le
problematiche relative alla liceità o meno delle pratiche eutanasiche22.
La Chiesa Valdese non nega il valore cristiano della vita come dono di Dio, ma
è possibilista verso l'uomo; una vita ridotta allo stato larvale non ha più i
caratteri del dono divino, ma è frutto del maligno perché Dio fa solo doni
buoni ai suoi figli. In questo contesto l'eutanasia non è la negazione di Dio, non
è violazione della legge divina, come invece vuole la tradizione cattolica, ma
una lotta contro il male che non deriva dal dono che Dio ci ha dato con la
vita23.
“Le Chiese non pretendono di imporre una propria visione scientifica e tuttavia rivendicano
la possibilità di intervenire nella discussione pubblica dei problemi a partire dagli interessi e
dai bisogni delle persone coinvolte. L'intenzione è quella di fare chiarezza sui problemi,
promuovere l'informazione e di conseguenza far crescere la consapevolezza e diffondere il
senso di responsabilità nella società tenendo conto sia delle acquisizioni scientifiche sia della
salvaguardia dei diritti delle persone più vulnerabili”, v. I problemi etici posti dalla scienza, in
Protestantesimo, 55, 2000, 315.
22
Documento Eutanasia e suicidio assistito, in Protestantesimo, 53, 1998, 49.
23
“[...] Non ci sono forse momenti o situazioni in cui la vita umana diventa sub-umana così da
essere irriconoscibile come dono di Dio? No, questa non è più la vita che Dio ci ha dato perché
Dio fa doni buoni ai suoi figli, ma questo non è un dono buono, non viene da Lui, ma dalle
fibre del male e della distruzione.[...] Ma allora dire sì all'eutanasia non significa dire no a Dio,
ma semplicemente no al furore devastante e cieco e assurdo del male”, v. P. Ricca, Vivere: un
diritto o un dovere? Problematiche dell’eutanasia, in La legge olandese e commenti, Torino,
2002, 41.
21
14
Invero, come afferma il documento del 1998, è necessario operare una
distinzione tra vita biologica, rappresentata dall'insieme delle funzioni
biochimiche cellulari, dalla riproduzione cellulare, dal funzionamento dei vari
organi, e vita biografica, rappresentata invece dall’insieme delle esperienze,
delle relazioni con altre persone, delle gioie, dei dolori e delle sofferenze, degli
sforzi per rendere degna e umana la vita.
Quando cessa la vita biografica, perché in presenza di uno stato vegetativo
permanente o di una malattia terminale, ecco che allora deve essere presa in
considerazione l'eventualità di porre fine anche alla vita biologica, purché sia
rispettato il diritto del malato di scegliere di non soffrire più, quando la terapia
non è più in grado di alleviare le sofferenze, dal momento che la sofferenza
non ha quel valore salvifico e di redenzione proprio della morale cattolica, ma
viene visto e valutato come un qualcosa di intrinsecamente personale, secondo
una visione antropocentrica, propria di Max Weber e che pervade l'etica
protestante, per cui l'uomo domina la vita, ma domina anche la morte24.
L'eutanasia e il suicidio assistito, pertanto, sono leciti, in quanto espressione di
libertà dell'individuo, il quale solo è responsabile della propria vita.
Naturalmente queste pratiche eutanasiche devono avvenire in un contesto di
regole precise e di validi controlli, in presenza dei quali il medico non
commette un crimine, non viola alcuna legge divina ma compie un gesto
umano e di rispetto.
Il documento del 1998 tra l'altro sottolinea come in presenza di uno stato
vegetativo persistente la sospensione delle terapie, ritenuta eticamente
accettabile in molte sentenze specie dei paesi anglosassoni, molto spesso non
porta immediatamente la morte, specie quando la terapia che viene interrotta
riguarda la nutrizione e l' idratazione. In tal caso la morte avviene in modo
Questo principio di libertà di scelta del malato dinanzi ad una sofferenza ritenuta dal malato
stesso inutile e disumana, oltre che nel documento base del 1998, viene ribadito nel documento
I problemi etici posti dalla scienza cit..
24
15
sicuramente doloroso; ma allora, si chiedono i valdesi, non sarebbe forse più
umano accelerare la morte con un'iniezione di farmaci mortali, piuttosto che
lasciar morire una persona tra stenti e dolore?
Con l’affermazione di una qualche forma di liceità dell’eutanasia e del suicidio
assistito, la dichiarazione si occupa anche di smontare uno degli argomenti
spesso addotti dagli oppositori delle pratiche eutanasiche per frenare l’avanzata
dei possibilisti, vale a dire quello del “pendio scivoloso” (slippery slope), in
pratica lo scivolamento verso altre forme di accelerazione della morte anche in
presenza di persone inconsapevoli e non consenzienti.
A sostegno di questa teoria viene riportata l’esperienza del nazismo,
considerata la prova dello scivolamento dall’eutanasia volontaria a quella
involontaria. Ma addurre questo argomento per opporsi all’eutanasia è poco
fondato storicamente trattandosi di due fenomeni diversi in quanto lo
sterminio dei deboli, vecchi e in generale degli individui non adatti alla società
ariana è avvenuto al di fuori di ogni legalità, violando il codice penale tedesco.
Infatti, nella Germania hitleriana non si hanno testimonianze di casi di
eutanasia volontaria richiesta da malati terminali.
E infine, un'ultima eccezione nell'ambito della tradizione cristiana in materia
di eutanasia e di sacralità della vita è rappresentata dalla posizione delle Chiese
Riformate d'Olanda25.
Sulla base di una dichiarazione del novembre 1999, le chiese chiedono al
governo olandese una disciplina relativa agli interventi per interrompere la
vita, riaffermando che la vita è un dono di Dio e proprio per questo sorge la
Per “riformate” si intendono le chiese “hervormd”, “gereformeerd” e “luterana”, come
specifica la Dichiarazione delle chiese riformate olandesi sull’eutanasia, in Eutanasia. La legge
olandese e commenti, cit., 71.
25
16
necessità di proteggere la vita, di ridurre e combattere la sofferenza al fine di
garantire a ognuno un avvenire degno26.
Il documento ammette la liceità morale dell’eutanasia, ma afferma
l’opportunità di una legislazione che fissi dei criteri soggettivi e oggettivi ben
definiti in presenza dei quali è possibile chiedere l’eutanasia, al fine di evitare
che si arrivi a una prassi sempre più disposta a ricorrere a questo mezzo.
Queste ultime posizioni hanno costituito la base dell’attuale legislazione
olandese in materia di eutanasia.
§2. L’ EUTANASIA NELLA STORIA.
Il problema dell’eutanasia è assai complesso in quanto pone in relazione tra
loro una molteplicità di saperi, come la filosofia, la religione, la medicina, la
scienza giuridica.
Si prospetta pertanto necessario l’impiego di una terminologia comune attorno
al vocabolo di origine ellenica “ευϑανασια”27, composto da ευ (buona, dolce) e
da ϑανατοσ (morte), dal momento che, attorno al significato di questo
termine, sono venuti raggruppandosi fenomeni diversi od opposti, sia per
finalità obbiettive, sia per i moventi soggettivi.
Attraverso un excursus delle epoche passate è possibile verificare come questo
termine sia stato utilizzato e sia mutato secondo i diversi contesti storici,
religiosi28 e filosofici in cui è stato impiegato.
Si dice nella dichiarazione “proprio perché consideriamo la vita un dono poniamo degli
interrogativi su interventi per interrompere la vita o per evitare la nascita”, in Dichiarazione
delle chiese riformate olandesi sull’eutanasia, cit., 72.
27
Va tenuto presente che anche gli autori latini facevano uso del termine greco per la
mancanza del corrispondente latino. Nella lingua latina, tra l’altro è assente anche un termine
per indicare il suicidio; gli scrittori si servivano di perifrasi, scegliendole in base all’accezione
cui intendevano dare risalto.
28
Ricordiamo che nella cultura cristiana il concetto di “buona morte” corrisponde a quello di
“morte santa”, riferendosi al modo in cui ciascuno ha vissuto il suo rapporto con Dio nella vita
terrena e si accinge a viverlo nella vita eterna; a dimostrazione di ciò possiamo rilevare che la
26
17
Nell’antichità classica si ha un uso quanto mai eterogeneo del termine
eutanasia, venendo utilizzato ora per indicare una morte eroica sul campo di
battaglia29, ora una morte rapida e priva di dolore fisico, ora una morte dolce e
tranquilla30.
Nelle sue prime apparizioni, dunque, l’eutanasia non aveva nulla a che vedere
con l’idea di morte volontariamente procurata, anche da parte del medico.
Platone, che non ha mai utilizzato la parola “ευϑανασια”, è stato considerato
il più antico teorizzatore del concetto di eutanasia; nel libro III della Πολιτεια,
affermava che, nell’ottica della costruzione dello Stato ideale, gli individui
fisicamente e psichicamente deboli (come i vecchi, i deformi, i malati cronici)
dovevano essere lasciati morire, abbandonati a se stessi, al fine utilitaristico di
migliorare la specie e di liberare la società dal peso del loro mantenimento e
della loro assistenza.
Quindi si ha l’affermazione di quella particolare forma di eutanasia, insieme
eugenica ed economica, consistente nell’eliminazione indolore degli individui
deformi o tarati, fisicamente o psicologicamente, per migliorare la specie e
garantire la purezza e salute della razza, e dei malati inguaribili, degli invalidi,
festa di quanti vengono dichiarati santi si celebra per l’appunto nel giorno della loro morte, in
quanto dies natalis della vita eterna.
29
Nell’Iliade le parole pronunciate da Ettore prima di affrontare Achille nel combattimento
finale e decisivo “Non fuggo più, figlio di Pèleo, da te io che finora tre volte ho girato la rocca
immensa di Priamo fuggendo l’assalto. Ora sento che devo affrontarti sia che vincere io possa o
vinto cadere”, sottolineano la solennità e la nobiltà del gesto estremo di accettare una fine
inevitabile, ma eroica; in Iliade, XXII, vv. 137-141.
30
Svetonio (I sec. d.C.) è il primo a conferire alla locuzione “dolce morte” una connotazione
intimistica; infatti, nel descrivere la morte di Augusto, sottolinea come questa sia avvenuta,
proprio com’era nel desiderio di Augusto, in modo non violento, ma naturale, sereno,
confortata dall’affetto dei propri cari. Qui non è solo la mancanza di dolore e sofferenza a
rendere buona la morte, ma anche il fatto che il morente si trovi nella propria casa, circondato
dalla presenza delle persone amate. È una concezione del “morire bene” che si avvicina al
pensiero moderno e che fornirà lo spunto alla creazione della concettualizzazione baconiana.
V. più approfonditamente Luchetti, Masini, Mattioli, Spunti per un’indagine sull’eutanasia nel
mondo antico, in Eutanasia e diritto. Confronto tra discipline (a cura di Canestrari, Cimbalo,
Pappalardo), Torino, 2003, 29.
18
dei vecchi, per alleggerire la società dal peso dei soggetti economicamente
inutili.
Per Platone, questo modo di agire, sarebbe ammissibile non sulla base della
sofferenza del morente o su una sua volontà, ma soltanto sulla base di
motivazioni utilitaristiche.
Tuttavia, per evitare similitudini con le pratiche eutanasiche naziste, che
hanno cercato una giustificazione al loro operato nel pensiero platonico, è utile
precisare che la forma di eutanasia ipotizzata da Platone non si sostanzia in un
intervento attivo sull’inadatto a vivere, ma semplicemente in un abbandonare
l’individuo a se stesso, in un lasciar morire.
Del resto nel mondo antico era presente comunque, anche al di fuori del
pensiero platonico, l’idea del lasciar morire e dell’uccidere per finalità
economiche e eugeniche; pensiamo alla particolare usanza, attestata dalle fonti
romane (Varrone e Cicerone), della Roma arcaica consistente nell’uccisione per
depontazione degli ultrasessagenari (anche se forse più leggenda che realtà)31.
Ippocrate, quasi coevo a Platone (V sec. a.C.), nel suo famoso giuramento,
enuncia regole generali che il medico deve seguire nei confronti dei suoi
pazienti. Tra le norme che devono essere rispettate dal medico nel suo rapporto
con il malato c’è quella che riguarda il divieto di somministrare o consigliare
l’uso di veleni32. Tale divieto si pone in contrasto con la morale e la prassi
comuni; infatti, dal giuramento di Ippocrate traspare in modo chiaro e assoluto
Presso le popolazioni egiziane, greche e romane era in uso anche l’esposizione dei neonati
deformi; anzi, secondo Plutarco, Licurgo avrebbe, con una legge, disposto l’esposizione
obbligatoria dei neonati deformi. Una disposizione più mite si ebbe a Tebe dove i genitori che
volevano disfarsi dei neonati deformi dovevano consegnarli alle autorità che li vendevano; in
proposito v. Volterra, Esposizione dei nati. Diritto greco e romano, in Noviss. Dig. It., VI, !957,
878.
32
“Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale, né suggerirò un
tale consiglio; similmente a nessuna donna io darò un medicinale abortivo”; e ancora “ in
qualunque casa andrò io vi entrerò per il sollievo dei malati, e mi asterrò da ogni offesa e danno
volontario, e fra l’altro da ogni azione corruttrice sul corpo delle donne e degli uomini, liberi e
schiavi”, in Luchetti, Masini, Mattioli, Spunti per un’indagine sull’eutanasia nel mondo antico,
cit., 32.
31
19
l’affermazione della dignità e del valore umano, laddove invece nel pensiero
platonico si privilegia il ruolo della comunità nella quale l’individuo vive, in
quanto l’individuo è funzionale alla società stessa.
In epoca più risalente (I sec. d.C.), il grande filosofo stoico Seneca, convinto
assertore del diritto dell’uomo di scegliere la morte e forse il massimo fautore
del suicidio nell’antichità, afferma che ognuno è libero di preferire di
concludere la propria vita quando lo ritenga opportuno, tuttavia non sulla base
di motivazioni egoistiche, ma solo se dal rimanere in vita non deriva alcuna
utilità per la società; il destino indica all’uomo saggio, per il quale la vita e la
morte sono indifferenti, che è giunto il momento di morire, dando all’uomo
stesso la possibilità di allontanarsi dalla vita con dignità.
Quindi, il parametro di scelta tra la vita e la morte (a differenza che per
Platone) è soggettivo, è frutto di una precisa volontà razionale, è una libertà
fondamentale, centrale all’esistenza umana.
La libertà di fare scelte nella vita, secondo Seneca, consiste almeno nella libertà
di decidere quando e come uscire dalla vita.
Per gli stoici, per i quali l’ars vivendi non riguardava solo il giusto modo di
vivere, ma anche la libertà di scegliere la morte per proteggere tale modo di
vivere, la scelta di morire è da condannare solo se è compiuta per motivi
irrazionali, come la paura di morire o la stanchezza della vita.
In conclusione, nell’antichità classica greco-romana, l’eutanasia è stata
giustificata perché in questa realtà storica erano le esigenze e i diritti della
πολισ ad avere il primato su quelle dei singoli cives, per cui la vita dei singoli
aveva un significato soltanto se funzionale alla vita della società stessa.
Il concetto di morte con finalità altruistiche è relativamente moderno;
cominciò ad affermarsi quanto si riconobbe il valore della vita umana33.
Così nell’India antica era in uso la pratica di annegare nel sacro Gange gli inguaribili per
troncarne le sofferenze e propiziarne le anime ad una vita migliore.
33
20
Fu in età medievale34 che venne affermato il valore della vita umana e il suo
carattere sacro, soprattutto per il confermarsi della cultura ebraico-cristiana.
Senza soffermarmi sulla posizione cristiana in tema di eutanasia della quale ho
già parlato precedentemente, mi limito ad accennare all’interpretazione
estensiva che S. Agostino, la cui influenza sul pensiero cristiano medievale è
stata di notevole portata, attribuisce al quinto comandamento “non uccidere”;
tale ordine, non specifica di non uccidere il prossimo, ed è proprio per questa
portata generale che, per Agostino, questo precetto può estendersi anche alla
forma “non uccidere te stesso”.
Così anche Tommaso d’Aquino nella Summa Theologiae, ponendosi sulle linee
tracciate da Agostino, condanna in modo duro il suicidio35.
Nel Rinascimento l’influsso della Chiesa cattolica è ancora forte nel
condannare ogni forma di anticipazione della morte; tuttavia è proprio da
questo momento che inizia a proporsi il tema dell’eutanasia nella sua accezione
moderna.
Tommaso Moro, filosofo anglosassone del XVI secolo, nell’ipotizzare la sua
società ideale nell’isola di Utopia, sembra ammettere sia l’eutanasia pietosa, nel
suo significato di morte procurata ad un ammalato inguaribile per liberarlo
dalla sofferenza, sia l’eutanasia nel suo significato eugenico ed economico,
quando il malato senza più speranze diviene un peso per gli altri36.
Nel medioevo il pugnale in uso per dare il colpo di grazia al cavaliere ferito non a caso si
chiamava “misericordia”.
35
L’Aquinate afferma che il suicidio è illecito, sia dal punto di vista della legge morale naturale,
sia da quello della legge divina positiva, per tre motivi: “primo, perché per natura ogni essere
ama se stesso; e ciò implica la tendenza innata a conservare se stessi e a resistere per quanto
possibile a quanto potrebbe distruggerci. […] Secondo, perché la parte è essenzialmente
qualche cosa del tutto. Ora, ciascun uomo è parte della società; e quindi è essenzialmente della
collettività. Perciò uccidendosi fa un torto alla società. Terzo, la vita è un dono divino, che
rimane in potere di Colui il quale “fa vivere e fa morire”. Perciò chi priva se stesso della vita
pecca contro Dio”, in Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II-II, qu. 64, art. 5.
36
“I malati vengono curati con ogni premura […]. Ed anche agli incurabili si crea sollievo
mediante un’assistenza assidua, confortandoli con la conversazione e con ogni altro mezzo. Se
però il male non è solo inguaribile, ma reca sofferenze atroci, allora sacerdoti e magistrati,
34
21
Tuttavia, pur avendo questo pensatore posto per la prima volta il problema
morale dell’eutanasia, non ha mai utilizzato questo termine.
È con il filosofo inglese Francesco Bacone (XVII) che viene coniato per la
prima volta il termine eutanasia in relazione all’assistenza sanitaria, ai fini
altruistici e all’uso dei mezzi indolore.
Bacone attribuisce all’espressione “buona morte”, non più solo un significato di
morte senza sofferenza pur se naturale, ma quello di morte procurata a chi sia
affetto da malattia incurabile e dolorosa e quindi prossimo alla fine; purché
però tale gesto sia compiuto per compassione (per finalità altruistiche) e si
sostanzi in un’attività terapeutica indolore unicamente di competenza dei
medici; il filosofo inglese per la prima volta collega la parola eutanasia con
l’attività del medico, laddove, in particolare, nel suo De Digitate et eugmentis
scientiarum (1561-1626), nel distinguere tra eutanasia exterior (terminare la
vita senza dolori) e eutanasia interior (intesa come educazione e preparazione
spirituale alla morte) ritiene che sia proprio uno dei compiti specifici del
medico, quando la malattia risulta inguaribile, preoccuparsi della eutanasia
exterior37.
Ma Bacone omette di indicare quali sono gli atti che il medico può lecitamente
porre in essere. Ed è proprio su questo punto che ruoteranno i dibattiti del
XVIII-XIX secolo.
considerata la condizione d’inutilità del paziente, il peso che rappresenta per gli altri e la pena
per se stesso, costretto a sopravvivere in pratica alla sua stessa morte, lo esortano a non
prolungare oltre i suoi tormenti e ad accettare la fine. Anzi, a liberarsi fiduciosamente da solo
di quella vita divenuta penosa come galera o supplizio, oppure a farsene liberare
volontariamente dagli altri. Darebbe in tal modo una prova di saggezza, visto che la morte
verrebbe a por fine non a una condizione di benessere ma di tormento, ed anche a una
dimostrazione d’animo pio e religioso, poiché si atterrebbe ai consigli dei sacerdoti, interpreti
del volere divino”, in T. Moro, Utopia, Bari, 1982, 97.
37
“Il compito del medico non è solo quello di ristabilire la salute, ma anche quello di calmare i
dolori e le sofferenze legati alle malattie; e di poter procurare al malato, quando non c’è più
speranza, una morte dolce e tranquilla, questa eutanasia è una parte non trascurabile della
felicità. […] Ora questa ricerca la chiamiamo eutanasia esteriore, che distinguiamo da
quell’altra eutanasia che si riferisce alla preparazione dell’anima”, in Veronesi, Il diritto di
morire, cit., 29.
22
Questi precedenti contengono quegli elementi che qualificheranno il
contenuto dell’espressione, caratterizzandosi, nell’epoca moderna come una
modalità in cui si realizza un trattamento medico nel momento in cui si ha il
convincimento dell’inadeguatezza delle cure; l’eutanasia, nel nuovo contesto,
riguarda soggetti prossimi alla morte, affetti da una patologia di cui è
diagnosticata l’inguaribilità, e trattamenti caratterizzati per l’uso di mezzi
indolori, connotati dalle finalità di porre fine ad un’inutile e tormentosa
agonia.
Alla fine del 1800 s’inizierà a parlare di volontà del paziente, di scelta di vivere,
del desiderio del paziente di anteporre al bene indisponibile della vita la
liberazione dalla sofferenza38.
In Italia, nel 1883, Enrico Ferri, in una monografia sull’omicidio-suicidio, ha
sviluppato una elaborata teoria sul “diritto a morire”, anticipando gli attuali
dibattiti sull’eutanasia e mettendo in discussione il brocardo cattolico
dell’indisponibilità della vita39.
I lavori preparatori del codice Zanardelli sono in fermento ed emerge la
tendenza a non punire il suicidio, né nella forma consumata né in quella
tentata, ma a prevedere la punibilità a titolo di speciale reato dell’istigazione o
aiuto al suicidio e di lasciare alla disciplina dell’omicidio l’uccisione del
consenziente40.
Secondo quanto afferma M.B. Magro, il passo definitivo verso il concetto attuale di eutanasia
è stato compiuto dal giornalista Lionel Tollemache che ha associato il termine a situazioni di
malattia inguaribile e dolorosa in cui sarebbe permesso ai medici, con il consenso del
moribondo, somministrare un anestetico tale da provocare la morte. Cfr. M.B. Magro,
Eutanasia e diritto penale, Torino, 2001, 96.
39
Egli scriveva: “Pare a me, che il diritto alla vita sia rinunciabile o abdicabile, per parte di
colui che ne è il soggetto, e che l’uomo, cioè, come ha diritto di vivere così abbia il diritto di
morire. […] Che il suicidio sia un’azione immorale od un atto irreligioso è questione che non
tocca la sociologia giuridica, la quale studia i fatti umani nel solo aspetto giuridico e sociale. Ed
allora, io ripeto che l’uomo ha diritto di disporre della sua vita”, in E. Ferri, L’omicidiosuicidio, Torino, IV ed., 1895, 19.
40
Le leggi passate sono sempre state piuttosto dure con i suicidi; le costituzioni piemontesi del
1770 e quelle modenesi del 1771 imponevano che il corpo del suicida venisse appeso alla forca.
38
23
Il Ferri, con la sua teoria sul “diritto a morire”, interviene su questa (per lui)
inadeguata regolamentazione.
L’illustre positivista si propone di dimostrare da un lato la sussistenza di un
diritto a morire41 e quindi se sussiste un diritto dell’uomo di disporre della
propria vita, dall’altro se il consenso del paziente alla propria uccisione abbia
efficacia scriminante.
Riguardo al primo punto l’autore elabora innanzitutto una “teoria sui diritti
sulla propria persona”; la vita, dichiara, è un insieme di fatti che implicano la
messa a disposizione del proprio corpo, così nella scelta di un mestiere
pericoloso (es. domatore di belve), o in imprese dettate da spirito d’avventura.
Altre sanzioni potevano consistere nella privazione della sepoltura ecclesiastica. Quanto al
suicidio tentato, molti giureconsulti lo consideravano come omicidio tentato. Con
l’Illuminismo il suicidio, tentato o consumato, viene escluso dal novero dei delitti; Beccaria
giustifica l’esclusione, non in base al riconoscimento del diritto di morire, ma in base alla
ragione, utilitaristica, della impossibilità di una efficace repressione. Nel codice francese del
1810, seguito in toto dai codici preunitari napoletano (1819) e parmense (1820), non si puniva
il suicidio, e neppure era prevista l’uccisione del consenziente (punita pertanto come un vero
omicidio) e l’aiuto al suicidio. Tuttavia residui di repressione sopravvivono nel codice albertino
del 1839 che prevedeva, in caso di suicidio consumato, l’invalidità del testamento e la
privazione degli onori funebri e in caso di suicidio rimasto allo stato di tentativo la misura
specialpreventiva della custodia del suicida mancato. Il codice toscano del 1853 non puniva il
suicidio, tentato o consumato, ma si occupava della partecipazione al suicidio, punendola con
la casa di forza da tre a sette anni (art. 314). Il più autorevole criminalista esponente della
scuola classica, Carrara, riteneva che la vita non rientrasse tra i beni disponibili dell’individuo;
mentre, il criminalista italiano Pessina, notevole sostenitore del “dovere di vivere”, affermava
che il tentato suicidio, pur in assenza di una qualsiasi disposizione legislativa (dato che il
codice sardo del 1859 non disponeva più nulla in materia), dovesse considerarsi come vero e
proprio tentato omicidio. Anche nella letteratura il suicidio è stato oggetto di visione negativa:
Dante, nel settimo cerchio dell’Inferno, colloca coloro che hanno avuto “in sé man violenta”:
“Uomini fummo, e or siam fatti sterpi”. E per loro, Dante prevede una grossa pena: il giorno del
Giudizio i suicidi andranno a prendere i loro corpi, ma non se ne rivestiranno perché da essi si
sono separati volontariamente. Li trascineranno nella selva e li appenderanno ciascuno al
proprio albero: “Come l’altre verrem per nostre spoglie, ma non però ch’alcuna sen rivesta, ché
non è giusto aver ciò ch’om si toglie”.
41
Ferri fa riferimento al “suicidio indiretto” nelle due forme principali dell’uccisione del
consenziente e della partecipazione al suicidio; “il caso di suicidio indiretto su cui verte la
questione assume alla sua volta due forme principali: 1° di uccisione del consenziente; 2° di
partecipazione al suicidio; ciascuna delle quali ha poi diverse manifestazioni psicologiche”, in
Ferri, L’omicidio-suicidio, Torino, V ed., 1925, 458
24
Questi atti sono indubbiamente leciti tanto dal punto di vista giuridico che
morale, e dipendono dal potere che ciascuno di noi ha sul proprio corpo.
Ammessi questi diritti sulla propria persona (jura in se ipsum), che sono una
conquista storica42, è necessario risolvere il problema giuridico della
responsabilità penale di chi compie un atto di omicidio-suicidio.
L’illustre positivista ritiene, quindi, di dover risolvere il problema riguardo alla
alienabilità o rinunziabilità dei diritti sulla propria persona, partendo dalla
distinzione tradizionale avanzata dai criminalisti fra diritti alienabili e non
alienabili, derivata dall’altra fra diritti innati (che sarebbero intangibili e
inalienabili, e tra questi ci sarebbe il diritto alla vita) e diritti acquisiti.
Ma per l’autore non esistono diritti solo innati o solo acquisiti, essendo tutto
legato al divenire storico e all’evoluzione della società; così i diritti acquisiti
possono avere la loro radice nella natura stessa dell’uomo, così i diritti innati
possono aver vita quando la società, in un dato tempo e luogo, li riconosce43. E
questo vale anche per il diritto alla vita, il quale, seppur venga garantito prima
di ogni altro diritto, tuttavia non esiste in alcuni stadi più infimi
dell’evoluzione umana44, e ciò dimostra, pertanto, che la distinzione tra diritti
innati e diritti acquisiti è relativa e pertanto tra essi non sussiste alcuna
Il Ferri afferma “Questa realtà di vita moderna è, naturalmente, il risultato di una precedente
evoluzione sociale, per cui i diritti sulla propria persona sono una conquista storica, da quando,
nel regime giuridico della schiavitù, il corpo dello schiavo e quindi il potere di disporre di esso
non spettava ad esso, ma al suo padrone. Ma ciò non toglie che, nella civiltà moderna,
l’evoluzione giuridica e sociale ha conferito ad ogni uomo sul proprio corpo una serie di poteri,
di disponibilità, di facoltà, di diritti, che possono riassumersi ed esprimersi nel concetto ampio
di indipendenza e di libertà personale”, in Ferri, L’omicidio-suicidio, cit., 460-461.
43
Viene riportato nella monografia di Ferri l’esempio del diritto di libertà personale che è
innato negli uomini e come tale esistente anche nella schiavitù; ma questo “non infirma il fatto
che anche i diritti innati non sono diritti se non quando l’individuo, giunto ad una data fase di
evoluzione, abbia la forza di farli valere e quando, in conseguenza la società li riconosca e li
sancisca”, in Ferri, L’omicidio-suicidio, cit., 479.
44
“Siccome, come nota Darwin, la necessità della lotta per l’esistenza impone ad ogni tribù di
indebolirsi il meno possibile di fronte alle tribù nemiche, così è che l’omicidio diviene presto
un reato, quando sia commesso contro un membro della propria tribù, mentre non lo è, ed è
anzi azione meritoria, se commesso, anche in tempo di pace, contro un membro di un’altra
tribù”, in Ferri, L’omicidio-suicidio, cit., 479.
42
25
differenza assoluta per quel che riguarda i loro caratteri di intangibilità e di
inalienabilità.
Per concludere, ogni diritto è, in un senso intangibile e inalienabile, ed in un
altro senso è tangibile e alienabile; salvo, tuttavia, il limite della necessità
dell’esistenza sociale.
Il Ferri, poi, critica le due principali obiezioni che vengono mosse contro la
disponibilità della vita.
La prima obiezione si fonda sull’idea che ogni uomo ha un fine supremo da
raggiungere che gli viene imposto dalla legge morale e la vita costituisce lo
strumento tramite il quale raggiungere, appunto, questo fine. Pertanto, gli
uomini hanno l’obbligo di rispettare questo diritto di vita altrui, e hanno
l’obbligo di conservare il proprio. Ma secondo Ferri questo rilievo può valere
solo da un punto di vista religioso e non da un punto di vista giuridico.
La seconda obiezione si basa sul rilievo che non solo il titolare del bene della
vita ha diritto alla sua stessa vita, ma anche i membri della sua famiglia e lo
Stato, importando, pertanto, un “dovere di vivere”45; Ferri replica considerando
che l’individuo e la società non sono in rapporto si soggezione, ma in un
rapporto di necessaria coesistenza. Pertanto l’individuo ha dei doveri verso la
società in cui vive soltanto finché è in vita, ma quando rinuncia a questa,
recide ogni legame con la società stessa, in quanto l’uomo, per il solo fatto di
vivere in società, acquista dei diritti e dei doveri; al contrario, per il solo fatto
di non vivere più in società non ha più diritti né doveri. E la società non può
imporgli di rimanere, perché se permette l’emigrazione (riferendosi a un
argomento del Beccaria tramite il quale parificava la condizione giuridica del
Su questo punto il Ferri richiama quanto, a favore della teoria del dovere di vivere, afferma il
Carrara in Programma. Parte Speciale, IX ed., vol. V, Firenze, 1911, § 2886, 610, a proposito
del duello.
45
26
suicida con quella dell’emigrante), vuol dire che i membri della società sono
liberi di andarsene46.
Quindi, e per concludere, sulla questione relativa al riconoscimento di un
diritto di morire, Ferri dichiara che il diritto alla vita è rinunciabile da parte di
chi ne è soggetto e che l’uomo come ha diritto di vivere così ha diritto di
morire; anche perché, argomenta, se il diritto alla vita è annullabile, in certe
circostanze, sia da parte dello Stato (pena capitale), che da parte del privato
(legittima difesa, stato di necessità), allora non si capirebbe per quale ragione il
soggetto stesso non possa rinunciare a questo diritto.
Passiamo al secondo punto da esaminare, e cioè se il consenso alla propria
uccisione abbia efficacia scriminante.
Il Ferri ammette che, una volta dimostrata la disponibilità del bene della vita,
allora il consenso, secondo la pura logica, dovrebbe scriminare; tuttavia, la
scuola positiva afferma che il delitto è innanzitutto un fatto umano e sociale,
pertanto per conoscere il delitto è necessario prima studiare il delitto
nell’uomo delinquente e nell’ambiente sociale in cui esso vive e opera, e poi
definire il delitto anche giuridicamente, ma mai come “entità giuridica”
scollegata dal suo autore47.
Applicando questo metodo, si potrà risolvere il problema del consenso alla
propria uccisione, analizzando l’autore di un fatto consentito da altri; in altre
Il positivista Grispigni si pone in una linea critica riguardo al riconoscimento del diritto a
morire così come ricostruito dal Ferri. L’uomo, infatti, non sarebbe libero di uscire dalla società
quando vuole, anche perché quando l’uomo si uccide vive ancora in società e dunque non si
sarebbe privato di quei doveri. Ma, anche da questo autore, l’irrinunciabilità alla vita non viene
riconosciuta come un principio assoluto: “come in un momento storico può essere ritenuta
indifferente […] la conservazione della vita dei cittadini, così in un altro momento storico […]
può essere ritenuta necessaria per lo Stato la conservazione della vita dei cittadini”, in
Grispigni, Il consenso dell’offeso, Roma, 1924, 681.
47
L’autore traccia una differenza, su questo punto, tra la scuola classica e la scuola positiva:
“mentre per la scuola classica il delinquente resta sempre in seconda linea, nella penombra
[…], per la scuola positiva il delinquente, invece, sta sempre in prima linea”, in Ferri,
L’omicidio-suicidio, cit., 502.
46
27
parole, non si deve porre l’attenzione su chi presta il proprio consenso, ma
soltanto su colui che ha ucciso o ha aiutato a morire.
Il consenso del richiedente non è sufficiente, in quanto è necessario guardare i
motivi che hanno determinato colui che ha ucciso o aiutato il suicida48.
Date queste premesse l’autore conclude che l’uomo ha la disponibilità della
propria vita, quindi può consentire alla propria uccisione; chi uccide altri
dietro suo consenso non è giuridicamente responsabile solo se oltre che dal
consenso della vittima è determinato all’azione da un motivo morale, legittimo,
sociale, mentre è giuridicamente responsabile se questo motivo è immorale,
antigiuridico, antisociale49.
Se chi agisce dietro consenso o richiesta del suicida è determinato da motivi
illegittimi, allora commetterà un “omicidio fraudolento”, e pertanto sarà
punibile a norma dell’art. 370 del codice penale Zanardelli50.
Se, invece, è mosso da motivi legittimi (pietà, affetto, solidarietà umana), allora
l’autore dell’atto non incorrerà in nessuna responsabilità penale per la presenza
dei due requisiti del consenso e dei motivi51.
“[…] E questi motivi – cioè il carattere di pericolosità o non pericolosità nell’uomo che ha
compiuto quell’azione – non cambiano di valore morale e penale a seconda che il consenso alla
propria uccisione si ritenga giuridicamente valido oppure no”, in Ferri, L’omicidio-suicidio,
cit., 504.
49
Per i criminalisti della scuola classica invece il problema si risolve in questo modo: “o il
paziente non può dare un consenso valido, perché, ad esempio, esso sia in istato di minorità o
di demenza, oppure sia coatto o tratto in errore e allora il consenso è nullo giuridicamente e
quindi l’atto è un vero omicidio; oppure il paziente poteva pur dare e diede un consenso che
aveva i requisiti del consenso valido nei soli contratti, ed allora subentra la ragione della non
rinunciabilità del diritto alla vita e l’atto è ancora un vero omicidio”, in Ferri, L’omicidiosuicidio, cit., 508.
50
Nella stesura del codice Zanardelli la scuola classica ebbe il sopravvento; infatti, nel codice
del 1889 non fu previsto l’omicidio del consenziente, che pertanto restava punibile come
omicidio comune, mentre venne disciplinato l’aiuto al suicidio. L’art. 370 disponeva:
“Chiunque determina altri al suicidio o gli presta aiuto è punito, ove il suicidio sia avvenuto,
con la reclusione da tre a nove anni”, v. A. Cadoppi, Una polemica FIN DE SIÈCLE sul “dovere di
vivere”: Enrico Ferri e la teoria dell’”omicidio-suicidio”, in AA.VV., Vivere: diritto o dovere?
Riflessioni sull’eutanasia, a cura di Luigi Stortoni, Trento, 1992, 134.
51
Il Ferri passa poi ad analizzare nel suo lavoro alcuni casi: tra questi il caso del conte F.
arrestato per omicidio, il quale, successivamente, in carcere si uccise dopo che la moglie, a
seguito di un colloquio, gli aveva lasciato un anello contenente acido prussico, suggerendogli di
48
28
Le critiche a questa teorizzazione del diritto a morire non mancarono né da
parte dei classici, né da parte degli stessi positivisti, tuttavia tutta questa
costruzione apre una breccia nel pensiero della penalistica italiana del tempo;
soprattutto la giurisprudenza venne in sostanza a dar ragione al Ferri nelle sue
interpretazioni del codice del 1889.
Alle soglie del codice Rocco anche il positivista Grispigni, che pur aveva
criticato parte della teoria ferriana, elabora de jure condendo una nuova
versione dell’art. 370 del codice Zanardelli prevedendo anche la disciplina
dell’omicidio del consenziente52.
uccidersi per evitare a sé e ai figli l’ignominia del pubblico dibattimento e della condanna.
Ebbene, per l’autore, contro tale donna non si sarebbe dovuto procedere penalmente perché
aveva agito per motivi legittimi, di pietà e di onore familiare. V. Ferri, L’omicidio-suicidio, cit.,
528 ss.
52
Così, per il Grispigni, dovrebbe essere la nuova versione dell’art. 370: “ Chiunque determina
altri al suicidio o gli presta aiuto, ovvero ne cagiona la morte dietro espressa ed insistente
richiesta, è punito, ove la morte avvenga, con la reclusione da tre a nove anni. Se l’agente sia
stato indotto al fatto dalla pietà che a lui ispiravano le condizioni fisiche o morali della persona
la pena sarà ridotta alla metà e sostituita la detenzione alla reclusione.; ed in casi
particolarmente meritevoli d’indulgenza il giudice potrà esentare da ogni pena”, in Grispigni, Il
consenso dell’offeso, cit., 689. L’A. auspicò la differenziazione dell’omicidio del consenziente
dall’omicidio comune, l’introduzione di una fattispecie unica in cui omicidio del consenziente
e istigazione al suicidio trovano spazio e di una specifica fattispecie sull’eutanasia che affida al
giudice il compito di autorizzarla. Infatti, proponeva di considerare lecita la condotta
eutanasica in presenza: 1) della domanda al tribunale civile da parte malato, 2) la nomina fatta
dal tribunale di tre medici che portassero a termine una perizia positiva accertante
l’inguaribilità del soggetto, 3) di una decisione motivata del tribunale, con l’intervento del
pubblico ministero, nella quale si tenesse conto del danno che avrebbe potuto arrecare alla
famiglia la morte del malato. Proponeva di evitare di applicare la pena nelle ipotesi in cui si
fosse verificata una sorta di stato di necessità a favore dell’agente derivante dalla pressione
psicologica e di conflitto interiore, tale da individuare nella morte l’unico rimedio ad un’agonia
ormai inevitabile. Lo stesso per Del Vecchio, L’eutanasia e l’uccisione del consenziente, in La
scuola positiva, I, 1926, 165 ss, che affermava che gli elementi costitutivi del “diritto di
uccidere” dovevano ridursi a 1) invito, perché “senza di esso si potrebbe facilmente sopprimere
tutti gli incurabili degenti in case di pena, di salute, in manicomi o nosocomi”; 2) prova “per
testi o per iscritto a seconda della contingenza in cui viene a trovarsi il malato”; 3) referto
medico “sia orale che scritto che giustifichi l’atto posto in essere dall’agente”. La tesi fu
osteggiata da coloro che rilevavano la sproporzione del danno arrecato rispetto al danno
minacciato, in situazioni in cui si elimina il dolore uccidendo il sofferente. Negava il valore
psicologico e giuridico del consenso e del motivo di pietà Morselli, L’uccisione pietosa, Torino,
1923.
29
Nei lavori preparatori del codice Rocco si ha l’assoluta negazione di ogni jus in
se ipsum53; l’impunità dell’eutanasia fu sempre esclusa, essendo venuto in
discussione solo il motivo di pietà come ragione per considerare meno grave
l’omicidio. Tuttavia, la proposta che l’omicidio per pietà dovesse essere punito
più lievemente dell’omicidio comune, anche indipendentemente dal consenso
del sofferente, fu respinta54.
Il Progetto ha seguito una linea di equilibrio, nel senso che non ha voluto
disciplinare una causa di esclusione del reato per il caso dell’eutanasia, ma ha
riconosciuto l’autonoma ipotesi di reato di omicidio del consenziente e ha
mantenuto la figura dell’istigazione o aiuto al suicidio sulla falsariga dell’art.
370 del codice Zanardelli55, riconoscendo per la prima volta la differenza
strutturale tra le due ipotesi e la differenziazione tra atti di disposizione manu
propriae e manu alius e dimostrando come il legislatore, da un lato, abbia
voluto tener fermi i dogmi della scuola classica, e, dall’altro, abbia tenuto conto
delle proposte dei positivisti.
Ma della disciplina contenuta nel codice Rocco parlerò in seguito.
Nella Relazione Ministeriale sul Progetto del codice penale si legge: “Il principio
dell’indisponibilità del bene della vita non può far disconoscere l’influenza, veramente
notevole, che il consenso della vittima esercita nell’apprezzamento del dolo in genere e della
personalità del colpevole”, volendo intendere con ciò che, nonostante il rifiuto delle prese di
posizione di Grispigni e di Del Vecchio, si riconobbe spazio al valore autonomo del consenso
della vittima.
54
La Relazione Ministeriale sul progetto del codice penale, II, pag. 374, “Io non credo che possa
accedersi ai voti di coloro che vorrebbero riconoscere la legittimità della morte cagionata per
troncare un’agonia, ancorché atroce e certamente mortale, non potendo al fallace giudizio
degli uomini essere attribuita la facoltà di distruggere, con la vita, l’ultima speranza che
permane fintanto che vi sia un debole segno di esistenza”; v. Manzini, Trattato di diritto
penale, VIII, 105.
55
Ma con un ambito di applicazione più ampio; infatti, accanto alle due tipologie previste dal
previdente art. 370, viene prevista anche la condotta tendente a “rafforzare l’altrui proposito di
suicidio”. E ancora, se il codice Zanardelli richiedeva come requisito indefettibile che il
suicidio fosse avvenuto, l’art. 580 pone come sufficiente che dal tentativo di suicidio sia
derivata una lesione personale grave o gravissima.
53
30
§3. L’EUTANASIA NEGLI ORDINAMENTI GIURIDICI STRANIERI.
L’Olanda per quanto riguarda il problema dell’eutanasia56 rappresenta un caso
di notevole interesse, innanzitutto, perché è il primo paese al mondo ad aver
legalizzato tale fenomeno con una legge del 2001, ma ancor più perché ha, nel
corso dell’ultimo trentennio, prodotto una pratica assai diffusa di atti eutanasici
e suicidi medicalmente assistiti sui quali la giurisprudenza è intervenuta
formando importanti precedenti giurisprudenziali57.
La pratica eutanasica, infatti, in Olanda, ha da sempre incontrato numerosi
consensi sia nell’opinione pubblica (oggi decisamente schierata a favore della
possibilità di sopprimere i pazienti che chiedono di essere liberati dalle
sofferenze o di essere assistiti al suicidio), sia negli ambienti medici, tanto da
indurre la giurisprudenza a decisioni clementi nei confronti del medico autore
dell’anticipazione della vita.
Fra il 1852 e il 1988 i casi decisi e di cui si dà notizia in letteratura sono
ventuno; ma il primo caso storico in tema di eutanasia attiva volontaria nei
Paesi Bassi è stato il caso Postma58, al quale si fa convenzionalmente risalire
l’inizio del dibattito sull’eutanasia in Olanda.
La riflessione sull’Olanda riguarda le fattispecie di eutanasia attiva consensuale e suicidio
assistito, non presentando problemi l’eutanasia passiva consensuale. Infatti, all’art. 2 della
Costituzione olandese è espresso, accanto all’inviolabilità del corpo umano, il principio che il
trattamento medico può essere avviato solo con il consenso del paziente, riconoscendo
pertanto la eutanasia passiva.
57
Secondo il codice penale olandese, è reato togliere la vita a una persona anche se la stessa ne
ha fatto esplicita richiesta; infatti ai sensi dell’art. 293 c.p., sotto cui ricadono i casi di eutanasia
attiva, si afferma che “Chiunque cagioni la morte di un uomo su sua esplicita e seria richiesta è
punito con la reclusione della durata massima di 12 anni o un’ammenda di quinta categoria”.
Così com’è reato aiutare in qualsiasi modo una persona a procurarsi il suicidio; ai sensi dell’art.
294 c.p. infatti si afferma che “Chiunque determini intenzionalmente altri al suicidio, o ne
agevoli l’esecuzione o gliene fornisca gli strumenti è punito, se il suicidio avviene, con la
reclusione della durata massima di 3 anni o con un’ammenda di quinta categoria”.
58
È il caso della dottoressa Gertrude Postma, la quale nel 1971 con un’iniezione mortale di
morfina aveva procurato la morte della madre settantottenne, che in seguito ad un’emorragia
cerebrale era divenuta parzialmente paralitica, sorda, nell’impossibilità di parlare
correttamente e che in più occasioni aveva chiesto alla figlia di porre fine alla sua vita. Nel
1973 il Tribunale di Leeuwaarden ritenne la dottoressa responsabile di omicidio del
56
31
In questa stessa sentenza la Corte, nell’affrontare la questione, enunciò per la
prima volta i requisiti di liceità dell’eutanasia, ritenendo che deve trattarsi di
malato incurabile per malattia o infortunio, che patisce sofferenze
insopportabili secondo una sua valutazione soggettiva e chiede esplicitamente
l’eutanasia, la quale deve essere praticata da un medico.
In presenza di queste
condizioni, affermò la Corte, la dolce morte può
considerarsi ammissibile in quanto il medico agisce in uno stato di forza
maggiore59; infatti, quando il medico si trova di fronte a un dolore
insopportabile e irrimediabile, al quale può porre termine solo con l’eutanasia o
con l’aiuto al suicidio, sorge per lui un conflitto di doveri tra preservare la vita
e ridurre al minimo la sofferenza.
Quindi, se il medico ha come unica e ultima possibilità per porre termine al
dolore del suo paziente l’eutanasia, se la pratica, non è punibile.
Nel 1982 venne istituita dal governo olandese una Commissione sull’eutanasia
composta da quindici membri che si pronunciò a favore della liberalizzazione
dell’eutanasia; influenzata, infatti, da un sentenza del 1984 (il caso Alkmaar60),
nel 1985 propose di introdurre nel codice penale una specifica ipotesi di non
consenziente ai sensi dell’art. 293 c.p., respingendo la tesi che il medico avesse agito sotto
l’impulso di forza maggiore intesa come “stato di necessità psichico”, cioè come caso di
coscienza. Nonostante ciò la condanna fu irrisoria, concretandosi in una settimana di
reclusione con la condizionale; questo caso è riportato da V. Vinciguerra-Ricci Ascoli, Il diritto
giurisprudenziale olandese in tema di eutanasia attiva e di suicidio assistito, in Sistema penale
in transizione e ruolo del diritto giurisprudenziale, a cura di Fiandaca, Padova, 1997, 88-89.
59
Il principio è contenuto nell’art. 40 c.p.: “Ogni persona che è stata costretta da forza
maggiore a commettere un reato non ne è penalmente responsabile”. Questo articolo ha avuto
una grande rilevanza, in quanto le corti hanno fatto riferimento a questo per motivare le lievi
pene erogate ai medici che agivano violando gli articoli 293 e 294.
60
Una signora novantacinquenne, in gravi condizioni, aveva espresso in un living will (c.d.
testamento biologico) la sua richiesta di anticipazione della morte. Il medico curante,
consultato un altro medico, aveva praticato l’eutanasia. La Corte suprema affermò che il
comportamento del medico era giustificato alla luce dell’art. 40 c.p., cioè dallo stato di
necessità e pertanto lo proscioglieva dall’accusa di cui all’art. 293.
32
punibilità per il reato di eutanasia, quando questo fosse compiuto da un medico
e in presenza delle condizioni indicate precedentemente61.
Ma, contrasti all’interno del parlamento olandese non permisero alcuna
modifica del codice.
Nel 1990 fu istituita una nuova commissione, composta da tre giuristi e tre
medici (Commissione Remmelink, dal nome del presidente della commissione
ministeriale che l’aveva promossa) investita del compito di avviare un’indagine
sociologica senza precedenti sulle c.d.
MDEL
(Medical decisions concerning the
End of Life); scopo della ricerca era, infatti, sia quello di individuare i casi di
eutanasia, sia e soprattutto quello di documentare con quale frequenza
venivano assunte, nella pratica clinica, decisioni mediche di eutanasia attiva, di
suicidio assistito e di eutanasia involontaria 62.
Nel 1995, a seguito della legge del 1994 che ha istituzionalizzato la pratica
eutanasica, fu promossa un’indagine simile alla prima che condusse al rapporto
van der Mass; scopo era quello di rilevare un’eventuale variazione nella
frequenza delle pratiche eutanasiche63.
Un dato, che traspare dai due rapporti e che suscitò scalpore, fu quello
riguardante l’interruzione della vita senza esplicita richiesta del paziente; in
I punti salienti del rapporto di questa Commissione, così come riportati da M. Aramini,
L’eutanasia. Commento giuridico-etico della nuova legge olandese, Giuffrè Editore, Milano,
2003, 28, sono: “a) si consiglia di regolare la materia per legge, evitando che sia la giurisdizione
a dare orientamenti in materia; b) si consiglia di non punire i medici che aderendo alle ultime
volontà dei loro pazienti li hanno aiutati a morire, se ciò è avvenuto nel rispetto di alcune
regole prestabilite”.
62
Circa quattrocento medici scelti a caso sono stati intervistati a proposito della loro attività sui
malati terminali. Le conclusioni del rapporto rendevano evidente che sono i medici di famiglia
che ricevono il maggior numero di richieste. I casi di eutanasia attiva volontaria incidevano
con una percentuale dell’1,7-1,9 sul totale delle morti. Più raro era il suicidio medicalmente
assistito, causa solo dello 0,2% dei decessi. Scalpore destò la percentuale abbastanza elevata,
intorno allo 0,7, della interruzione della vita senza esplicita richiesta del paziente; per dati più
approfonditi v. M. Aramini, L’eutanasia. Commento giuridico-etico della nuova legge olandese,
cit., 29.
63
Questa inchiesta ha dimostrato che delle 135.546 morti registrate in un anno, il 2,4% è
costituito dai casi di eutanasia attiva volontaria, 0,4% dai casi di assistenza al suicidio, 0,7% da
quelli in cui si è posto fine alla vita del paziente senza sua esplicita richiesta.
61
33
questo si vennero a concretizzare i timori di coloro che, contrari all’eutanasia,
sostenevano che con la legalizzazione dell’eutanasia volontaria si sarebbe
potuti incorrere nel pericolo di uno slippery slope64; ma tale ipotesi di eutanasia
è stata giustificata dal fatto che la sofferenza dei pazienti può divenire talmente
insopportabile da indurre ogni buon dottore a salvare il suo paziente anche
quando non vi è esplicita richiesta65.
Nel 1993 il parlamento olandese approvava una legge66 (che ha modificato la
legge mortuaria) che esplicitamente prevedeva la non punibilità dei medici che
avessero praticato l’eutanasia alla presenza dei seguenti criteri: a) il paziente ha
avanzato la richiesta di eutanasia volontaria, ponderata, persistente, esplicita;
b) il medico ha con il paziente una relazione sufficientemente stretta da
permettergli di valutare se la richiesta è volontaria e ponderata; c) secondo la
prevalente opinione medica, la sofferenza del paziente è insopportabile e senza
prospettive di miglioramento; d) il medico e il paziente hanno discusso le
alternative all’eutanasia; e) il medico ha consultato almeno un altro medico con
Per A. Ronzia, questo pericolo appare, almeno per il momento, scongiurato nella realtà
olandese, perché, se da una parte è stata in ogni modo registrata una tendenza forse eccessiva
nel riconoscere la sussistenza di insopportabili sofferenze, dall’altra è possibile affermare che il
sistema sanitario olandese non sembra influenzato da considerazioni economiche; la presenza
di un forte sistema welfare, infatti, scongiurerebbe l’ipotesi che in Olanda si possa chiedere
l’eutanasia per preoccupazioni di tipo economico, anche se rimane sempre il rischio di
manipolazioni esterne e alla volontà del paziente. In questo senso v. A. Ronzia, Olanda: la
scelta della legalizzazione, in Il diritto di morire bene, a cura di S. Semplici, Società editrice il
Mulino, Bologna, 2002, 118.
65
In questo senso v. H.M. Kuitert, L’eutanasia in Olanda: una pratica e la sua giustificazione, in
Bioetica, 1993, 317-325, il quale, tra l’altro, afferma che “il dottore ippocratico è colui che
invece che concentrarsi sul benessere del paziente vivo, si concentra su quello del paziente
che sta morendo. Il buon dottore salva il suo paziente da una brutta fine”.
66
La legge fu approvata il 30 novembre 1993 dalla Camera Alta ed entrò in vigore il primo
giugno 1994 con 37 voti a favore e 34 contrari, mentre il voto precedente della Camera Bassa
aveva registrato una forte maggioranza a favore. Questa legge fu anticipata da un accordo che
nel 1990 la KNMG (Royal Dutch Medical Association) stipulò con il Ministero della Giustizia,
con il quale già si stabiliva una procedura per la pratica dell’eutanasia e del suicidio assistito; in
seguito a questo accordo era improbabile che un medico che avesse ottemperato alle condizioni
previste venisse perseguito penalmente, in quanto le linee guida erano quelle stabilite dai
tribunali per poter invocare lo stato di necessità.
64
34
un punto di vista indipendente; f) l’eutanasia è stata eseguita in accordo con la
buona pratica medica.
Questa riforma non legalizzava l’eutanasia, lasciando immutato il codice
penale, ma predisponeva la base giuridica per una procedura amministrativa di
azione e di autodenuncia da parte del medico curante che, se rispettata, poteva
consentire che non si procedesse penalmente nei suoi confronti.
Infatti, l’art. 10 della Legge sulla sepoltura e sulla Cremazione (modificato dalla
legge del 1993) prevedeva che il medico che aveva interrotto la vita di un
paziente o prestato assistenza al suicidio dovesse immediatamente notificarlo al
coroner locale (cioè all’ufficiale di polizia che svolge indagini sui casi di morte
violenta), dopo aver compilato un questionario preconfezionato allegato alla
legge. A seguito di ciò, il coroner, dopo aver compiuto indagini circa la
sussistenza dei requisiti richiesti e fatta a sua volta una relazione, doveva
inoltrare questo rapporto e quello del medico al pubblico ministero
(Procuratore della Regina) per la valutazione e la decisione di aprire o meno un
procedimento penale a carico del medico67.
In conclusione, la legge di depenalizzazione ha lasciato l’illegalità
dell’eutanasia, ma ha tollerato legalmente la sua pratica, supportata dalla
dottrina giuridica olandese che ha consentito che alcune pratiche, anche se
non avallate dal diritto scritto, vengano tollerate dai magistrati68.
Il 1° aprile 2002 entra in vigore la legge intitolata “Procedure di controllo
dell’interruzione della vita su richiesta e dell’aiuto al suicidio e modifica del
È da tener presente, infatti, che in Olanda, a differenza di quanto è previsto nel nostro paese,
vige non il criterio dell’obbligatorietà dell’azione penale, bensì quello della opportunità
dell’azione penale, per cui il PM, per ragioni di interesse pubblico, può rinunciare a perseguire
penalmente il reato.
68
“In tal modo la pratica prende corpo e si sviluppa proprio grazie al diffuso atteggiamento di
tolleranza. Quando si è formato un consenso intorno a una certa pratica, si approva una legge
che disciplini quest’ultima nei termini nei quali si è sviluppata. Esattamente questo è stato
l’itinerario seguito in materia di eutanasia”, in M. Aramini, L’eutanasia. Commento giuridico
della nuova legge olandese, cit., 38.
67
35
Codice Penale e della Legge sulla sepoltura e sulla cremazione”69; questa legge
pone fine a un percorso iniziato nel 1993 con la “sperimentazione”70,
prevedendo espressamente la non punibilità del medico che ha agito in
conformità alla legge stessa attraverso, questa volta, una modifica delle norme
del codice penale71; resta, tuttavia, reato l’aver compiuto le medesime azioni
(interruzione della vita su richiesta e suicidio assistito) senza il rispetto delle
prescrizioni legislative o da parte di persona che non sia il medico curante di
fiducia del paziente72.
Le motivazioni della legge sono di varia natura: una prima, di ordine generale,
consiste nel desiderio di combattere il dolore. Infatti, secondo l’opinione che
prevale in Olanda, il dolore e il desiderio di una morte dignitosa sono i motivi
principali di coloro che chiedono l’eutanasia.
Una seconda ragione, di ordine giuridico-sociale, consiste nell’assicurare ai
medici che praticano l’eutanasia e il suicidio assistito la non punibilità, dato
che tali pratiche vengono effettuate e sono ormai divenute una prassi
consolidata e condivisa dalla popolazione olandese e dalla classe medica. Per
tale motivo il problema vero non è mai stato se introdurre l’eutanasia, ma se e
come la perseguibilità dell’eutanasia dovesse essere limitata.
Testo approvato dalla Camera del Parlamento olandese con 104 voti favorevoli e 40 contrari
il 18 novembre 2000 e dal Senato con 46 voti favorevoli e 18 contrari il 10 aprile 2001. Tra le
reazioni istituzionali vanno segnalate quella dell’Unione Europea e la condanna del Vaticano.
70
In questo senso v. G. Cimbalo, Eutanasia nella recente legislazione di Danimarca, Olanda,
Belgio, in Eutanasia e diritto. Confronto tra discipline, a cura di S. Canestrari, G. Cimbalo, G.
Pappalardo, G. Giappichelli Editore-Torino, 2003, 150.
71
L’art. 20 della legge che legalizza l’eutanasia modifica sia l’art. 293 c.p. che sancisce che
“L’azione penale di cui al primo paragrafo (omicidio su richiesta) non costituisce reato se è
compiuta dal medico” che rispetti le norme prescritte dalla legge stessa; sia l’art. 294 c.p. che
puniva congiuntamente istigazione e aiuto al suicidio, scindendolo adesso di modo che il primo
comma continua a punire in modo invariato l’istigazione al suicidio, mentre il secondo comma,
che punisce l’aiuto al suicidio, si chiude ora con la clausola per cui “si applica il secondo
comma dell’art. 293 mutatis mutandis”.
72
Importante principio, infatti, è quello per cui il medico che pratica l’eutanasia deve essere
legato al paziente da un rapporto di fiducia; in definitiva, dunque, deve essere il medico
curante, cioè colui che meglio di altri può conoscere la ponderatezza e la libertà della richiesta
di morte del suo assistito; ciò anche al fine di evitare il cosiddetto “turismo eutanasico”, cioè
quei viaggi finalizzati ad ottenere pratiche eutanasiche.
69
36
Questa legge in sostanza dichiara non punibile il medico che si è attenuto ai
criteri di accuratezza previsti dall’art. 2 della legge stessa73 e che ha comunicato
il decesso e le sue “cause non naturali” al necroscopo comunale; il medico
necroscopo redige un referto in cui effettua un primo controllo circa la
sussistenza dei requisiti e invia la propria e la relazione del medico a una delle
cinque Commissioni regionali di Controllo74. Queste hanno il compito di
esprimere un giudizio sul caso, controllandone gli aspetti giuridici, medici,
etici.
Se la Commissione ritiene che l’estinzione della vita del paziente abbia
soddisfatto i criteri di diligenza posti a carico del medico, il caso viene
immediatamente archiviato, senza che venga coinvolto il PM75.
Se, invece, la Commissione valuta negativamente il comportamento del
medico, poiché questi non si è attenuto ai parametri di diligenza richiesti dalla
legge, il rapporto viene inviato al PM che avvia l’azione penale. In tal caso sarà
compito del giudice, poi, di valutare se nel caso specifico sussistano gli estremi
della forza maggiore (art. 40 c.p.76).
Ai sensi dell’art. 2 comma 1 della nuova legge, perché il medico non sia punibile, deve: “a)
aver accertato che la richiesta del paziente sia spontanea e attentamente ponderata; b) aver
accertato che il paziente patisca sofferenze insopportabili e senza speranza di miglioramento
per il paziente; c) abbia informato il paziente della situazione in cui si trova e delle prospettive
che ne derivano; d) abbia maturato, insieme al paziente, la convinzione che non esiste
alcun’altra soluzione ragionevole per la situazione in cui il paziente medesimo si era venuto a
trovare; e) abbia consultato almeno un altro medico indipendente che abbia a sua volta visitato
il paziente e abbia espresso un parere per iscritto circa il rispetto dei criteri di diligenza,
prudenza e perizia di cui alle precedenti lettere da a) a d); f) abbia praticato l’interruzione della
vita o dato assistenza al suicidio secondo le regole di una buona pratica clinica”.
74
Nel 1998 furono istituite cinque Commissioni regionali di Controllo composte da un medico,
un giurista, che la presiede e un esperto di questioni etiche nominati congiuntamente dal
Ministro della Giustizia e dal Ministro della Sanità.
75
Ciò non significa che le Commissioni abbiano preso la funzione del PM. Infatti, il PM può
comunque intraprendere l’azione penale d’ufficio nel caso in cui sospetti che si siano verificate
delle irregolarità, ma dovrà consultare il Ministro di Giustizia.
76
Giova precisare che, a seguito della modifica dell’art. 293 e 294, l’art. 40 probabilmente
continuerà ad essere invocato in casi particolari, quali le eutanasie praticate su soggetti che non
ne hanno fatto richiesta.
73
37
Dunque il PM non è più investito di ogni caso di eutanasia, ma sono portati alla
sua attenzione e al suo giudizio solo i casi nei quali la Commissione,
preliminarmente, abbia ritenuto di accertare il mancato rispetto dei criteri di
diligenza prescritti dalla legge da parte del medico.
La situazione olandese è dunque abbastanza paradossale, poiché il codice
penale continua a punire l’omicidio comune, l’omicidio del consenziente e la
partecipazione al suicidio, ma assicura la non punibilità qualora siano rispettati
i criteri indicati dall’associazione medica olandese.
La nuova legge non modifica le condizioni in base alle quali l’estinzione della
vita su richiesta e il suicidio assistito da parte del medico erano già tollerati
precedentemente, infatti i requisiti sono gli stessi; la novità consiste
nell’ampiezza della loro formulazione e nel riconoscimento di un valore
vincolante al controllo amministrativo da parte del medico e delle
Commissioni.
La legge non fa propria un’opzione, disponibilità/indisponibilità della vita, a
scapito di un’altra; la disciplina legislativa si limita a porre le condizioni di
legalità della pratica, a prescindere da un’indagine circa le intenzioni del
medico, dirette ad uccidere o meno; non è rilevante neppure che la volontà del
medico sia quella di rispettare l’autonomia del paziente o che la sua
motivazione sia quello di liberarlo da insopportabili sofferenze.
Quello che conta è che sia rispettato il procedimento che garantisce che
l’intervento avvenga solo a seguito di una decisione autonoma del paziente,
senza entrare nel merito di questa decisione né nelle sue motivazioni77.
In questo senso M.B. Magro, che afferma tra l’altro che “questa soluzione ricalca la struttura
della esimente fatta propria dalla legge sull’interruzione della gravidanza […]. Il modello affida
nelle mani di due soggetti la decisione circa la valutazione e il bilanciamento degli interessi in
gioco: il paziente, direttamente coinvolto ed il medico (sottoposto al controllo della
Commissione regionale), in qualità di soggetto estraneo dotato di qualità tecniche. Entrambi
nel rispetto delle procedure, e non il diritto, individuano quale sia l’interesse prevalente”, in
M.B. Magro, Eutanasia e diritto penale, Torino, 2001, 252-253. E’ questo, secondo l’autrice, il
cosiddetto “modello di giustificazione procedurale”, in cui, cioè, manca una diretta valutazione
77
38
Assunto il principio di autonomia personale come fondamento etico
dell’eutanasia, segue che il consenso del paziente è un elemento determinante
per la realizzazione della figura di eutanasia 78: tale consenso si evince dalla
richiesta “volontaria e ben ponderata” (art. 2, 1.a), deve essere “informato” (art.
2, 1.c), esprimere la convinzione del paziente che l’eutanasia sia l’unica
soluzione adeguata alla propria condizione (art. 2, 1.d).
Ma, sul consenso, che dovrebbe essere l’elemento centrale dell’intera
disciplina, non si dice altro; parte della dottrina ritiene che sarebbe stato
necessario introdurre una qualche forma pubblica di raccolta del consenso, in
modo da dare qualche garanzia in relazione alle eutanasie non volontarie che
comunque si praticano; mentre con la nuova legge il consenso è affidato
esclusivamente alla comunicazione con il medico, con la conseguenza di
affidare a lui solo anche il peso della valutazione della validità del consenso79.
Il potere del medico risulta pertanto notevolmente ampliato, anche se i medici
non hanno l’obbligo di accogliere le richieste di eutanasia: il principio giuridico
che fonda questo non obbligo deriva dal fatto che la legge, introducendo una
fattispecie propria, deroga soltanto alla norma del codice penale (art. 293) e
non attribuisce al paziente il diritto all’eutanasia.
Tornando alla richiesta del paziente, la legge olandese disciplina anche l’ipotesi
in cui questa provenga da minori: i pazienti tra i 12 ei 16 anni possono fare
da parte del legislatore circa il bilanciamento degli interessi in gioco, ma vengono definiti gli
ambiti oggettivi entro i quali l’individuo può esplicare la propria autonomia decisionale.
L’ordinamento giuridico accetta la decisione responsabile dei soggetti direttamente coinvolti
senza chiedersi quali siano le ragioni, verificando solo il rispetto della procedura.
78
La legge, tra l’altro, non richiede che il paziente richiedente sia giunto ad una sicura fase
terminale.
79
Secondo Henk Ten Have “questa è la ragione per cui chiamiamo ideologico il consenso
esistente oggi in Olanda, in quanto si usa la prima considerazione (l’autonomia del paziente)
per nascondere la seconda (sollievo dalle sofferenze). Dal punto di vista medico, la
considerazione che sembra essere più importante è la seconda: questa è il motivo principale per
effettuare l’eutanasia in pazienti incompetenti che a giudizio del medico soffrono in maniera
insopportabile. Conseguenza paradossale del dibattito sull’eutanasia è che alla fine i medici
hanno il controllo finale sulla giustificazione morale dell’eutanasia attiva”, v. H.T. Have,
L’eutanasia in Olanda: critiche e riserve, in Bioetica, 1993, 326-327.
39
richiesta di eutanasia, ma è richiesto il consenso dei genitori o del tutore. I
pazienti tra i 16 e i 18 anni possono decidere, in linea di principio,
autonomamente, ma i genitori devono pure essere coinvolti nel processo
decisionale. Anche in questi casi deve trattarsi di sofferenze insopportabili e
senza prospettive di miglioramento80.
È necessario precisare che il concetto di sofferenze insopportabili comprende
anche quello di sofferenze psichiche; pertanto anche quando la richiesta
proviene da pazienti affetti da tali forme di malattia, il medico può intervenire.
Ma è difficile giudicare obiettivamente se una richiesta di eutanasia sia
ponderata e libera quando il paziente ha una malattia psichica e le sofferenze
non sono provocate primariamente da un’affezione fisica. In tal caso il medico
deve interpellare due esperti indipendenti, di cui almeno uno psichiatra, che
devono esaminare personalmente il paziente81.
Se a legittimare l’eutanasia in Olanda sono anche queste sofferenze di natura
non fisica, ma piuttosto esistenziale, si comprende perché nel 2001 il Ministro
della sanità Helse Borse si dichiarò favorevole alla somministrazione di “pillole
del suicidio”. Giustamente, a mio avviso, parte della dottrina rileva come colui
che è intenzionato a uccidersi non ha bisogno di trovare in commercio pillole
per suicidarsi; dietro al fenomeno del suicidio ci sono dinamiche psicologiche
La mancanza di prospettive di miglioramento viene accertata in base alle vigenti conoscenze
mediche. Difficile, invece, è determinare oggettivamente, l’insopportabilità.
81
Nel 1994 uno psichiatra, il dottor Chabot, appartenente all’associazione per l’eutanasia
volontaria, accolse la richiesta di un paziente che non si trovava in uno stato di malattia
terminale o in una grave patologia fisica, ma in una grave forma di depressione, e prescrisse dei
farmaci mortali. Lo psichiatra fece appello alla forza maggiore, trovandosi in una situazione di
conflitto tra il dovere di proteggere la vita e quello di lenire le sofferenze. La Corte accolse tale
richiamo nel caso specifico di assistenza al suicidio, affermando che in tali casi è necessaria una
particolare cautela nella diagnosi di incurabilità del medico curante. Il caso giunse alla
Suprema Corte che ritenne rilevante l’inosservanza della condizione che richiede la
consultazione di un altro medico esterno. La sentenza fu dunque di colpevolezza per aiuto al
suicidio, anche se la pena non venne eseguita per altre cause.
80
40
complesse per cui chi chiede di morire semplicemente chiede di vivere, chiede
di essere aiutato a vivere diversamente82.
Se la richiesta, poi, proviene da pazienti affetti da demenza (la cui causa più
frequente è il morbo di Alzheimer) si dovrà vedere caso per caso il decorso
della malattia per determinare se, secondo parere medico, si è in presenza di
sofferenze insopportabili e senza prospettive di miglioramento; infatti, secondo
la legge, la demenza e altre malattie, non sono ragione sufficiente per
l’interruzione della vita su richiesta o assistenza al suicidio. Tuttavia per alcune
persone la prospettiva di perdere la personalità e le condizioni umane di vita,
sono una ragione determinante per farne menzione nella dichiarazione di
volontà.
Un’ultima, importante, precisazione riguarda le dichiarazioni di volontà:
infatti, la legge (art. 2, 2) riconosce, oltre alla dichiarazione di volontà orale,
anche quella scritta (cd. “direttive anticipate”).
Il riconoscimento della dichiarazione scritta è importante soprattutto in caso di
decisione del medico per l’eutanasia quando il paziente non può più esprimere
oralmente la sua richiesta. Il medico deve prendere in seria considerazione tale
dichiarazione, a meno che ritenga il paziente incapace di intendere e di volere
al momento della stesura; in tal ultimo caso la dichiarazione non è valida.
Ritengo opportuno esprimere alcune considerazioni conclusive sulla scelta di
legalizzare l’eutanasia in Olanda e sugli effetti che possono derivarne.
Innanzitutto, parte della dottrina ritiene che questa scelta di decriminalizzare
l’attività eutanasica, da un punto di vista culturale generale, può considerarsi il
riflesso della “secolarizzazione” delle società occidentali, la quale sta
cancellando la concezione trascendente-religiosa della vita; gli ordinamenti
Così D’Agostino, Non è di una legge che abbiamo bisogno, in il diritto di morire bene,
Bologna, 2002, 35, il quale conclude dicendo che “vendere in farmacia pillole letali è un modo
subdolo per invitare gli anziani a non gravare, col peso di tutte le loro necessità, sulla famiglia
o sull’assistenza pubblica”.
82
41
giuridici tendevano a rinforzare con proprie sanzioni questi divieti che la
religione imprimeva. Ma la secolarizzazione della nostra cultura toglie forza ad
essi e il diritto si sta lentamente adeguando ai nuovi modi di sentire e di
pensare.
Da un punto di vista costituzionale-giuridico, la legge olandese, può
considerarsi una manifestazione delle frequenti ipotesi di “ritirata” dello Stato
dal suo antico ruolo: quello di difensore dei valori morali. Lo Stato si ritrae, in
questo come in altri casi, su posizioni di “neutralità etica”, lasciando ai singoli
di decidere in libertà quali siano i valori morali da perseguire nelle loro azioni;
in particolare, rispetto al campo della vita intima dell’individuo, ha di certo
influito il declino della fede religiosa tradizionale83.
Le
conseguenze
pratiche
che
possono
derivare
dalla
legalizzazione
dell’eutanasia sono: primariamente l’affievolirsi dell’attenzione al trattamento
della sofferenza; secondariamente, ancor più grave ed esteso è l’effetto per cui
una volta introdotta la possibilità dell’interruzione anticipata della vita si possa
avere una sorta di inversione dell’onere della prova della dignità e del valore
della vita umana. Infatti, il paziente dovrebbe giustificare la propria scelta di
non richiedere l’eutanasia; e chiedere a qualcuno di giustificare il suo desiderio
di vivere costituisce violazione della dignità umana84.
Ma il maggior pericolo connesso alla legalizzazione dell’eutanasia è costituito
dalla conseguenza di aprire una breccia al divieto di uccidere, da cui, pertanto,
si scivolerebbe in un allargamento delle situazioni ammissibili così da farne
Per queste considerazioni v. G. Bagnetti, La legge olandese su eutanasia e suicidio assistito, in
Corriere Giuridico, 2001, 705. Contra M. Aramini, L’eutanasia. Commento giuridico-etico
della nuova legge olandese, cit., 84, il quale, invece, sostiene che “i sostenitori della neutralità
etica della legge ritengono che il rispetto dell’autonomia individuale (per cui ciascuno è giudice
della propria dignità e decide circa il momento della propria morte) sia la sola soluzione
ammissibile in uno Stato pluralista e laico. In realtà le cose stanno diversamente, in quanto con
l’inserimento dell’eutanasia nell’ordinamento giuridico, il legislatore ha avallato la contestabile
e contestata nozione di “qualità della vita” e la impone a tutti”.
84
V. in questo senso M. Aramini, L’eutanasia. Commento giuridico-etico della nuova a legge
olandese, cit., 83.
83
42
una pratica generalizzata. Si tratta del pericolo del “pendio scivoloso”, quindi di
un’evoluzione o uno slittamento dall’insistenza sul principio del rispetto
dell’autonoma decisione del paziente al dovere di eliminare un gravissimo stato
di sofferenza85. La pratica in Olanda, quindi, si troverebbe già su quel “pendio
scivoloso” che dalle eutanasie volontarie porta necessariamente a quella senza
richiesta.
Storicamente, però, il primo atto con cui un ordinamento giuridico ha,
esplicitamente, legalizzato l’eutanasia attiva volontaria e l’aiuto al suicidio è il
Rights of the Terminally Ill Act (conosciuto anche come Roti) approvato nello
stato australiano del Territorio del Nord86.
Si tratta di un intervento inaspettato poiché non ha riscosso la stessa notorietà
con cui un simile problema è stato accolto in Olanda; tuttavia è stata proprio
l’esperienza olandese del 1993 a fornire lo spunto per l’elaborazione, nel
Territorio del Nord australiano, di una proposta di legge che superasse, nelle
intenzioni dei proponenti, le lacune della disciplina olandese. Si intendeva
intervenire, con norme certe e precise, per regolamentare un fenomeno, quale
quello dell’eutanasia attiva, di fatto già praticato.
Il disegno di legge, proposto dall’allora Primo Ministro Marshall Perron, viene
approvato il 16 giugno 1995 con 13 voti a favore e 12 contrari e entra in vigore
il 1° luglio 1996.
Si tratta di un documento che ha una vita breve; alla sua entrata in vigore
scoppia la reazione degli oppositori87 e dei capi aborigeni, che vi leggono una
In questo senso M.B. Magro, Eutanasia e diritto penale, cit., 232; ma anche M. Aramini,
L’eutanasia. Commento giuridico-etico della nuova legge olandese, cit., 90 , per il quale “[…]
difficile composizione tra principio di autonomia personale, che dovrebbe essere il cardine
della legge, e potere discrezionale dei medici. Tale potere medico, sembra essere così
penetrante da mettere in discussione lo stesso principio di autonomia”.
86
Il Territorio del Nord è un’area vasta ma poco popolata dell’Australia del Nord, che occupa
un sesto del continente, ma con una popolazione che non supera le 200.000 persone.
87
La società australiana vede una forte e significativa presenza delle confessioni religiose,
dotate di una forte capacità di penetrazione negli ambienti politici. La religione dominante è
quella protestante, seguita da quella cattolica.
85
43
violazione al tradizionale diritto aborigeno 88, l’opinione pubblica si mobilita89.
Il 24 marzo 1997 il Parlamento Federale australiano ha abrogato la legge e ha
approvato l’Euthanasia Bill of Laws, in base al quale l’atto è stato dichiarato
costituzionalmente illegittimo poiché non fa parte della competenza dei
parlamenti statali legiferare in materia di diritti fondamentali dell’individuo90 e
ha ripristinato la disciplina previgente, tornando a punire, pertanto, il suicidio
medicalmente assistito e l’eutanasia attiva volontaria, proibendo, così, ai medici
di porre fine alla vita dei pazienti in qualunque maniera.
Le ragioni che hanno indotto il Parlamento Federale ad abrogare la legge del
Territorio del Nord sono state innanzitutto il pericolo di slippery slope, e
quindi il rischio di scivolare verso l’eutanasia non volontaria o addirittura verso
quella involontaria, che configura omicidio.
Inoltre, questa legge non prevede vincoli di residenza locale, cioè non era
diretta ai soli cittadini del territorio, ma poteva essere utilizzata da tutti gli
australiani91; il Parlamento del Territorio del Nord aveva approvato una legge
generale riguardante tutti i cittadini australiani, andando ben al di là dei suoi
poteri.
Molte sono state le resistenze e le paure che la popolazione aborigena ha manifestato contro
il provvedimento; gli aborigeni, infatti, affetti da gravi malattie (le più diffuse: diabete, asma,
disturbi cardiaci) sono spesso considerati malati terminali e ciò, con il nuovo atto, avrebbe
potuto indurre i sanitari a ricorrere con più facilità a cure che avrebbero portato alla morte.
Inoltre per gli aborigeni, aiutare una persona a morire contrasta con le loro credenze culturali e
religiose che attribuiscono un ruolo centrale al rispetto della natura e dei suoi ritmi; la
sopportazione del dolore rappresenta in alcuni casi e cerimonie un mezzo per dimostrare forza
e virilità, pertanto non è ammessa nessuna fuga dal dolore se esso è voluta dalla natura.
89
Ci sono le associazioni a sfavore che sostengono gruppi religiosi, e SAVES, un’associazione
dell’Australia Meridionale che sostiene, invece, il suicidio medicalmente assistito.
90
Il Territorio del Nord, infatti, non è uno Stato a pieno titolo, è appunto un “Territorio” non
dotato dunque di piena autonomia legislativa e la vigenza delle sue leggi è, per previsione
costituzionale, passibile di abrogazione da parte del Parlamento Federale.
91
A differenza di quanto avviene in Olanda, che si preoccupa di escludere dall’accesso alle
pratiche eutanasiche gli stranieri per evitare il “turismo della morte”, la legge del Territorio del
Nord ammette alla procedura eutanasica anche lo straniero, a condizione che questo possieda
almeno il domicilio e che la sua volontà di morire sia raccolta e confermata da interpreti
qualificati; questo perché la legge in esame considerava l’eutanasia come un trattamento
medico, curativo e quindi disponibile per tutti.
88
44
Il Parlamento Federale ha, infine, motivato la sua decisione affermando che la
legge era contraria agli interessi degli aborigeni. Ad avviso di molti la legge
offendeva i diritti umani, pertanto, abrogandola, il Parlamento avrebbe dato
l’esempio agli altri Stati, dal momento che dopo il provvedimento abrogativo
nessun territorio avrebbe avuto il potere di legalizzare l’eutanasia.
Passando ad analizzare il contenuto di questo documento diciamo, per prima
cosa, che viene a legalizzare sia il suicidio medicalmente assistito che
l’eutanasia volontaria attiva per i malati terminali capaci di intendere e di
volere. Condizione imprescindibile è l’inefficacia della medicina palliativa, in
altre parole il malato doveva aver preso in considerazione tutte le possibilità
offerte dai servizi di cure palliative.
I pazienti dovevano avere un’età superiore ai 18 anni, essere sani di mente,
soffrire di una malattia incurabile e dolorosa, essere avvisati di tutti i
trattamenti sanitari disponibili, avere formulato la richiesta (che deve essere
libera, volontaria e ponderata e che può essere validamente espressa solo dopo
essere stato informato circa la natura della malattia, il suo decorso e i
trattamenti medici disponibili, incluse le cure palliative, il trattamento
psichiatrico e le misure straordinarie atte a tenere in vita un paziente) al
proprio medico curante, ad un secondo medico qualificato nei trattamenti ai
malati terminali, e ad uno psichiatra
che confermasse lo stato di salute
mentale, la piena capacità di giudizio e l’immunità da depressione,
clinicamente trattabile, dovuta alla malattia92.
Più precisamente, l’art. 4 del Roti dispone che “un paziente, che nel corso di una malattia
terminale, prova dolore, sofferenza e/o angoscia in misura per lui inaccettabile, può richiedere
al proprio medico curante di assisterlo per porre fine alla propria vita”; a proposito si è
obbiettato che non era espressamente previsto che il motivo per richiedere la morte dovesse
essere la malattia terminale. Pertanto un paziente affetto da una malattia terminale, il cui
dolore, sofferenza e/o angoscia fossero derivati da una causa completamente diversa (es. un
divorzio, un lutto) sarebbe rientrato nella fattispecie. Così, ancora, un paziente poteva rientrare
nella disciplina del suicidio assistito e dell’eutanasia attiva, nel caso in cui lo psichiatra avesse
ritenuto che la depressione fosse non trattabile o che fosse originata da una causa non correlata
alla malattia (es. un divorzio). Inoltre la legge non richiedeva che lo psichiatra accertasse che il
92
45
Il paziente, quindi, formulava la sua richiesta nel “certificato di richiesta” (vale
a dire un certificato, riportato nella Modulistica allegata alla legge, completato,
firmato e autenticato da testimoni).
Il medico poteva ottemperare alla richiesta o rifiutarla quando la sua coscienza
gli imponesse di agire in modo difforme dalla richiesta avanzata dal malato;
veniva così assicurata l’obiezione di coscienza del medico.
La richiesta poteva essere revocata in qualsiasi momento e in qualsiasi modo
dal paziente e il medico doveva distruggere il certificato di richiesta.
Da ultimo la legge afferma che il comportamento del medico tenuto
conformemente alle norme in essa contenute è considerato un trattamento
sanitario e, pertanto, non costituisce reato né tentativo o cospirazione al reato,
né concorso, istigazione, concorso morale o favoreggiamento del reato (art. 16
del Roti). E quindi nessuno potrà essere oggetto di azione civile o penale o
disciplinare per quanto eseguito in buona fede e senza negligenza, né per aver
presenziato al momento nel quale il paziente assume la sostanza prescrittagli o
fornitagli come risultato dell’assistenza prestata per portare a termine la
propria vita. (art. 20 del Roti).
In totale, durante la vigenza della legge, quattro pazienti sono stati assistiti, e
uno dopo l’abrogazione93.
In conclusione, a seguito dell’abrogazione della legge, l’eutanasia attiva è
considerata reato; il medico che la pratica può essere perseguito per omicidio o
per assassinio, in applicazione delle norme contenute nei differenti codici
penali in vigore negli Stati e nei Territori.
paziente non fosse affetto da una malattia mentale diversa dalla depressione. V. F. Botti, Una
legge contestata: l’eutanasia in Australia, in Eutanasia e diritto. Confronto tra discipline, a cura
di S. Canestrari, G. Cimbalo, G. Pappalardo, G. Giappichelli Editore, Torino, 2003, 193.
93
Il dottore che lega il suo nome alle prime morti assistite legali è Philip Nitschke che mette a
punto la prima macchina capace di dare la dolce morte su richiesta del paziente. Il processo
mortale è attivato da un computer che chiede tre volte al paziente se è intenzionato a morire.
In caso affermativo, cento millilitri di Nembutal liquido vengono iniettati tramite un ago nel
braccio del paziente che cade nel sonno e muore nel giro di cinque minuti.
46
Il suicidio e il tentativo di suicidio non costituiscono più dei crimini in
Australia, ma tutti i codici penali in vigore condannano l’aiuto al suicidio94.
Complessivamente i parlamenti australiani hanno, negli ultimi anni, presentato
diversi progetti di legge nessuno dei quali ha, tuttavia, riscosso successo; come
ad esempio nell’Australia Occidentale o nella Tasmania, dove, nel 1996 una
commissione di cinque parlamentari ha sondato il terreno per una possibile
legalizzazione dell’eutanasia.
Nel 1998 il presidente di questa commissione ha rilasciato l’unanime resoconto
finale contro le legalizzazione, commentando: “Sarebbe impossibile elaborare
una legge che includesse tutte le possibili forme di tutela nei confronti dei
vulnerabili, dei deboli e disabili […]. Introdurre una legge apposita per
autorizzare l’eutanasia significherebbe travalicare i confini morali di una
società”.
L’art. 26 del codice penale del Territorio del Nord afferma che “una persona non può
permettere né autorizzare un’altra persona a ucciderla”. E ancora “una persona che procura ad
un’altra la possibilità di uccidersi, che la consiglia sul modo di uccidersi, che l’incita a farlo o la
aiuta ad uccidersi è colpevole di un crimine punibile con l’ergastolo”.
94
47
CAPITOLO II
LA DISPONIBILITÀ DEL CORPO UMANO
Sommario: 4. Il principio utilitaristico dell’uomo. – 5. Il principio personalistico dell’uomo. – 6.
L’eutanasia collettivistica e l’eutanasia individualistica.
§4. IL PRINCIPIO UTILITARISTICO DELL’UOMO.
Il problema della disponibilità del corpo umano può essere analizzato e risolto
alla luce delle due contrapposte concezioni fondamentali dell’uomo: la
concezione utilitaristica e la concezione personalistica, alle quali dobbiamo
guardare come costanti.
In particolare, la questione dell’eutanasia costituisce l’occasione per esporre i
grandi principi giuridici a tutela della persona umana e i limiti di disponibilità
della stessa, contro i crescenti pericoli, scientifici e non, dell’era moderna.
Per la concezione utilitaristica, l’uomo è inteso come uomo-cosa, uomo-massa,
uomo-mezzo e come tale strumentalizzabile per finalità extrapersonali,
collettivistico-maggioritarie, individualistico-egoistiche.
E ciò tanto che si tratti sia dell’utilitarismo statuale-collettivistico, proprio degli
stati totalitari e della Ragion di Stato, per cui si ha un totale disconoscimento
della personalità umana di fronte alla irrinunciabile prerogativa dello Stato di
investire, in modo esclusivo ed assorbente, ogni aspetto dell’esistenza dei
sudditi; sia dell’utilitarismo maggioritario, di tipo anglosassone-benthemiano 1,
della maggiore felicità per il maggior numero, anche a discapito di pochi: non
c’è un totale assorbimento dell’individuo né un disconoscimento della persona
umana, tuttavia si ammette che questa sia sacrificata per la maggior felicità dei
In base a questa dottrina, formulata da Bentham, non è possibile distinguere il bene ed il male
in senso assoluto, poiché l’unico criterio è dato da ciò che piace alla maggior parte delle
persone. Conseguenza è che diventa “giusto” ciò che decide la maggioranza delle persone. In
base a questo pensiero filosofico, la coscienza, il senso morale, la giustizia, sono concetti fittizi;
ciò che conta è quello che piace alla maggior parte delle persone in un determinato paese.
1
48
più; sia dell’utilitarismo individualistico-edonistico della maggior felicità del
singolo, proprio di un soggettivismo illimitato, che della volontà individuale fa
la “somma norma”. Per il raggiungimento di questa felicità, tale concezione,
ammette la strumentalizzazione dell’uomo da parte dell’uomo.
Corollario di questa concezione utilitaristica è il principio della disponibilità
dell’essere umano.
Il limite logico di questo principio è costituito: secondo l’utilitarismo statuale-
collettivistico, dall’utilità pubblica, collettiva o sociale, dell’uso strumentale
dell’uomo. Ciò comporta, da un lato, la più ampia disponibilità pubblica
dell’uomo, fino alla cosiddetta “nazionalizzazione” dell’essere umano2,
dall’altro il dovere di curarsi per poter adempiere i propri doveri verso la
collettività e lo Stato; secondo l’utilitarismo maggioritario, il limite è dato dalla
maggior felicità per il maggior numero 3. Infine, secondo l’utilitarismo
individualistico-edonistico, il limite logico è costituito dal consenso del
soggetto, in nome del quale viene legittimata la moderna politica della totale
liberalizzazione:
dell’aborto,
della
droga,
della
sterilizzazione
anche
irreversibile, del suicidio, del transessualismo, della locazione del grembo
materno, dell’eutanasia pietosa, sia passiva che attiva4.
In nome di tale utilità pubblica è stata scriminata la delinquenza di Stato delle dittature della
nostra epoca: si pensi ai delitti di oppressione politica, ai genocidi, alle sperimentazioni su larga
scala, alla eutanasia eugenica ed economica, alla sterilizzazione coatta, all’aborto demografico,
ecc., degradate a strumento della Ragion di Stato soprattutto nell’ultimo conflitto mondiale.
Ma ancor prima, si pensi alle sperimentazioni umane, effettuate nell’antichità e nel
Rinascimento.
3
In nome di questa maggior felicità sono state e vengono compiute sperimentazioni sui
cosiddetti “soggetti predisposti”, cioè condannati a morte, detenuti, vecchi e malati di mente,
pazienti non paganti, persone di colore.
4
Se è “bene” ciò che assicura il massimo di felicità individuale, ne deriva che l’unico criterio di
distinzione tra bene e male è il consenso del singolo; basta che il soggetto consenta e questi ha
la piena disponibilità del suo corpo.
2
49
In tali prospettive utilitaristiche, viene invocato il cosiddetto “spazio libero dal
diritto”5; il problema che ci si pone è, cioè, quello di stabilire se la scienza
giuridica sia o meno legittimata ad occuparsi dell’eutanasia.
Da più parti, infatti, viene invocato il dominio, su questa delicata materia, della
religione e della filosofia, ritenendosi che solo queste due discipline possono
portare ad affermare se la vita umana sia o non sia priva di valore o se valga o
meno la pena di essere vissuta; e, in ogni caso, si tratterebbe di un problema di
libertà, trattandosi di vicende private che, nei limiti in cui determinano un
coinvolgimento del medico, possono sollevare esclusivamente delle questioni
di etica professionale.
L’eutanasia sarebbe un qualcosa di troppo importante perché se ne occupino i
giuristi.
Ma contro questo tentativo di espropriazione è stato obiettato6 che creare uno
“spazio libero dal diritto” è assurdo, tanto nella motivazione, poiché l’idea che
qualcuno, medico o filosofo che sia, possa liberamente decidere se e quando
una vita sia degna di essere vissuta o se sia preferibile per il malato una morte
immediata o sofferente, significa scuotere alla radice l’idea stessa del diritto, nel
suo compito irrinunciabile di controllo delle azioni lesive di beni giuridici,
comprese quelle dei medici e dei filosofi; quanto nei risultati, poiché dar vita
ad uno “spazio libero dal diritto” per i malati che si trovano in certe situazioni,
La concezione che prospetta uno “spazio libero dal diritto” (la creazione di un Rechtsfreier
Raum, come dicono i tedeschi) venne sviluppata proprio a proposito di questioni che pongono
irrisolvibili questioni di coscienza, per le quali l’ordinamento giuridico non è in grado di
stabilire in generale qual è la decisione giusta. L’incapacità del diritto a fornire una soluzione
unica conduce ad un modello di giustificazione procedurale, in cui manca una diretta
valutazione da parte del legislatore circa il bilanciamento degli interessi in gioco, ma vengono
definiti gli ambiti oggettivi entro i quali l’individuo può esplicare la propria autonomia
decisionale. Il modello di giustificazione procedurale è stato fatto proprio dalla recente
esperienza pratica e legislativa olandese. V. più ampiamente Magro M.B., Eutanasia e diritto
penale: pluralismo, tutela dell’autonomia individuale ed esigenze di controllo sociale, in
Dignità nel morire, a cura di Manconi, Dameno, Milano, 2003, 73-74.
6
V. in questo senso F. Stella, Il problema giuridico dell’eutanasia: l’interruzione e l’abbandono
delle cure mediche, in RIML, 1984, 1009.
5
50
significherebbe porre determinati gruppi di persone fuori dell’ordinamento
giuridico, negando loro quella tutela che nei moderni ordinamenti spetta ad
ogni uomo, in ragione di principi non religiosi, bensì laici.
Si può aggiungere, ancora, che elevare la coscienza medica o filosofica a fonte
del lecito e dell’illecito significa dimenticare l’inderogabile principio della
riserva di legge in materia di diritti fondamentali della vita e della salute e
l’esperienza storica degli arbitri e misfatti che vengono compiuti quando ci si
allontana dalla fonte giuridica obiettiva; ciò non significa che debba sottrarsi al
medico ogni scelta discrezionale, ma resta una sua discrezionalità tecnica,
circoscritta, cioè, alle possibili scelte mediche fissate dalla migliore scienza ed
esperienza del momento storico. Inoltre, fondamento dell’eutanasia, non può
essere il diritto di libertà del soggetto sul proprio corpo, perché altrimenti
coerenza vorrebbe che il diritto alla morte venisse affermato come diritto
generale, prima ancora che dei malati terminali o dei sofferenti, di tutti gli
uomini, compresi sani e giovani7.
§5. IL PRINCIPIO PERSONALISTICO DELL’UOMO.
Per la concezione personalistica, invece, l’uomo è inteso come uomo-valore,
uomo-persona, uomo-fine, e pertanto, come tale, non strumentalizzabile in
funzione di alcun interesse extrapersonale, pubblico o privato.
Viene affermato il primato dell’uomo come valore etico in sé, in quanto, questa
concezione personalistica, costituisce il punto d’incontro di ogni umanesimo,
metafisico e non metafisico, laico e religioso, che riconosce nell’uomo
un’intrinseca dignità che ne fa un valore in sé8.
V. per queste ultime osservazioni F. Mantovani, Diritto penale. Parte speciale, I, Delitti
contro la persona, Padova , 2005, 72.
8
“Un umanesimo-comune punto d’incontro, che va riscoperto e valorizzato per rintracciare i
comuni principi, anche legislativi, a tutela della persona umana contro certi incombenti
7
51
Secondo questa visione “bene personale” e “bene comune” coincidono, poiché
il rispetto e il sostegno della persona costituiscono il fine della società
personalistica9.
Corollario della concezione personalistica è il principio, opposto al precedente,
dell’indisponibilità dell’essere umano, che comporta una distinzione,
desumibile anche dagli art. 579 e 580 c.p.: da un lato la disponibilità del
proprio corpo manu propria, giuridicamente lecita e tollerata10, dall’altro la
disponibilità manu alius, cioè da parte di altri soggetti, pubblici o privati, che è
giuridicamente illecita, sia senza il consenso, sia, in certi casi, anche col
consenso del soggetto.
Sulla base di tale distinzione viene giuridicamente consentito l’autosacrificio,
cioè il sacrificio della propria vita per un fine non personale (es.: tentare di
pericoli di dissolvimento dell’idea stessa di uomo”, v. Mantovani F., Aspetti giuridici
dell’eutanasia, in RIDPP, 1988, 451.
9
“Il principio della persona umana come valore primario[…] implica il più ampio
riconoscimento e tutela della persona umana nei suoi fondamentali diritti e libertà, primo fra
tutti quello della vita, della integrità fisica e della libertà personale, e il conseguente divieto,
per chiunque, di strumentalizzare la persona umana in funzione di finalità egoistiche o di
utilità superiori o assorbenti”, v. Mantovani F., I trapianti e la sperimentazione umana nel
diritto italiano e straniero, Padova, 1974, 35.
10
Nel nostro attuale ordinamento, il suicidio può ricondursi alla categoria del “giuridicamente
tollerato”, in quanto costituisce sì un disvalore, ma tuttavia non viene punito; né nel caso di
suicidio riuscito, per l’elementare principio della mors omnia solvit, ma neppure nel caso di
suicidio mancato, sia per ragioni di opportunità, sia perché la vita non può essere imposta
coattivamente, sia, infine, perché esso non importa una relatio ad alteros, in quanto gli effetti
dell’atto suicidarlo si esauriscono nella sfera personale del suicida. In questo senso v. più
dettagliatamente F. Mantovani, Diritto penale. Parte speciale, I, Delitti contro la persona, cit.,
117. Per la distinzione tra atti leciti, tollerati e illeciti v. Mantovani, Diritto penale. Parte
speciale, I, Delitti contro la persona, cit., 117 che afferma che gli atti tollerati sono espressione
di un disvalore giuridico, non perseguibili, per ragioni di mera opportunità, solo se commessi di
mano propria, mentre, dato il disvalore in essi insito, ne viene perseguita sia l’esecuzione per
mano altrui, sia la partecipazione a essi, sia ogni attività volta a favorirli (un esempio di atto
tollerato oltre al suicidio è la prostituzione). Contra Stortoni, Riflessioni in tema di eutanasia,
in Eutanasia e diritto. Confronto tra discipline, a cura di Canestrari, Cimbalo, Pappalardo,
Torino, 2003, 89, per il quale deve ammettersi la liceità del suicidio; infatti, l’A. afferma che
“[…] l’esistenza del diritto al suicidio debba essere affermata quale diritto inviolabile dell’uomo
riconosciuto e garantito dall’ordinamento giuridico ai sensi dell’art. 2 della Carta
Costituzionale e non da esso concesso”. Diversi ordinamenti del passato hanno conosciuto
incriminazione del suicidio: ad esempio la Gran Bretagna è uno degli ultimi paesi d’Europa ad
avere abolito l’incriminazione del suicidio tentato con il Suicide act del 1961.
52
salvare altri dal fuoco, portare a termine una gravidanza rischiosa per la madre,
uccidersi per non tradire sotto tortura i compagni, offrirsi per la fucilazione al
posto di altri ostaggi)11.
Mentre viene perseguito l’eterosacrificio, cioè il sacrificio operato per mano
altrui (es.: sperimentazione su terzi).
Non viene, neppure, imposto il dovere giuridico di curarsi, ma riconosciuto il
cosiddetto “diritto di non curarsi”, di lasciarsi morire, indicando con ciò, non
un diritto al suicidio, bensì il riconoscimento della incoercibilità del vivere.
Infatti, negare questo diritto e affermare, al contrario, il dovere giuridico di
curarsi rappresenterebbe un impossessamento ideologico e fisico dell’essere
umano e porterebbe ad un sistema di imposizioni, di controlli, di divieti che
possono coinvolgere fino a limiti estremi l’intero modo di vivere dei soggetti
(alimentazione, abbigliamento, lavoro, fumo)12.
Tale diritto è il correlato del principio del consenso, perché dire che il medico
non può intervenire senza il consenso del paziente non è che riconoscere a
questi il potere di rifiutare le cure13.
L’autosacrificio deve essere un atto libero (privo di vizi della volontà), spontaneo (non
derivante da istigazione o sollecitazioni esterne, ma da motivazioni interne), consumato per
mano propria (quindi né per mano né con l’aiuto di altri), ricorrendo, in caso contrario, i reati
di cui agli artt. 579 e 580. Sono invece vietati quegli atti dispositivi manu propria ma di
pregiudizio per gli altri interessi (es.: le procurate lesioni al fine di frodare l’assicurazione); v.
più ampiamente Mantovani, Diritto penale. Parte speciale, I, Delitti contro la persona, cit., 47.
12
Lo Stato non può tutelare come valore positivo la scelta del singolo di sopprimere se stesso;
ma non può neanche privare il singolo della sua libertà di non curarsi o di lasciarsi morire.
Abbiamo una situazione particolare, per cui il singolo gode di una libertà, ma al tempo stesso
non può pretendere che la sua scelta di suicidarsi sia considerata come un valore. Il curarsi è
giuridicamente non un dovere, semmai un onere al fine di beneficiare di certi benefici
assistenziali, previdenziali, assicurativi.
13
Secondo il principio personalistico, infatti, vanno respinte le opposte pretese estremistiche:
da un lato, quella soggettivistica del diritto di suicidarsi, la quale, “nel rifiuto dell’essenza
dualistica (soggettiva-oggettiva, individuale-sociale, umana-divina) e nell’atto supremo
dell’autoannientamento fisico, opera un vano tentativo di un’affermazione assoluta del
soggettivo sull’oggettivo, dell’individuale sul sociale, dell’umano sul divino, che non ha davanti
a sé nient’altro che il vuoto della morte”; dall’altro quella oggettivistica dell’obbligo di curarsi,
di essere sano. V. Mantovani, Il problema della disponibilità del corpo umano, in Vivere:
diritto o dovere? Riflessioni sull’eutanasia, a cura di L. Stortoni, Trento, 1992, 43-44.
11
53
La Costituzione italiana, elaborata nel 1947 dopo gli orrori di cui si erano rese
responsabili le dottrine totalitarie dell’inizio del secolo, ha fatto una precisa
scelta a favore della dottrina personalistica e della tutela dell’uomo.
Infatti, tale principio della indisponibilità della persona umana manu alius ha
come corollari quattro principi, che, a loro volta, costituiscono dei limiti alla
liceità degli interventi sull’essere umano14: da un lato, ci sono i limiti oggettivi
che comprendono il principio della salvaguardia della vita, integrità fisica e
salute del soggetto (art. 32 Cost., art. 5 c.c.), il principio della salvaguardia della
dignità della persona umana (artt. 3/1, 27/3, 32, 41 Cost.), il principio della
eguaglianza e pari dignità dei soggetti umani (art. 3 Cost.), dall’altro ci sono i
limiti soggettivi che comprendono il principio del consenso informato del
soggetto (art. 13 Cost., art. 1 l. n. 180/1978 e art. 33 l. n. 833/1978) e il diritto di
trascurarsi, di non curarsi, di essere ammalati, di lasciarsi morire.
Muovendo dal principio della salvaguardia della vita, integrità fisica e salute
del soggetto, esso è desumibile dall’art. 32 Cost. e comunque dall’intero
contesto della Costituzione, costituendo, tra l’altro, tali beni, il presupposto-
base per l’esercizio di tutti gli altri diritti costituzionalmente riconosciuti.
Questo principio impone l’imperativo che ogni intervento (medico, chirurgico,
genetico) è lecito in quanto utile o non dannoso per gli anzidetti beni15.
La materia degli atti di disposizione del proprio corpo non si esaurisce nelle disposizioni del
diritto penale poste a tutela della vita, ma coinvolge generali principi costituzionali e norme di
diritto privato. Tuttavia la materia degli atti di disposizione del proprio corpo sembra essere
dominato da una certa “relatività” dei principi e dei valori costituzionali, nel senso della
mancanza di principi costituzionali chiari ed univoci, in assoluto validi per ogni ipotesi che
riguarda gli atti di disposizione del proprio corpo; in questo senso v. Romboli, La libertà di
disporre del proprio corpo, in Vivere: diritto o dovere? Riflessioni sull’eutanasia, cit., 15; nello
stesso senso Magro, Eutanasia e diritto penale, Torino, 2001, 43. Per Tonini, Gli atti di
disposizione del proprio corpo, in Nozioni di diritto penale, a cura di Flora-Tonini, Milano,
1997, 442 “le disposizioni vigenti non giungono a regolare tutti i possibili tipi di atti di
disposizione del corpo umano; restano così alcuni “vuoti di tutela” che necessitano di un futuro
intervento del legislatore”.
15
Art. 32 Cost. “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e
interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere
obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non
14
54
Per quanto riguarda il principio della salvaguardia della dignità umana questo
si oppone a tutta una serie di atti dispositivi del corpo umano per mano altrui
che, pur non comportando la perdita della vita o un danno consistente e
irreparabile alla salute, tuttavia sono offensivi della dignità umana del soggetto.
La dignità rappresenta un elemento che continua a sussistere anche quando il
soggetto sia privo di coscienza, in quanto riguarda l’uomo nella sua totalità,
poiché, appunto, uomo; il soggetto ha una dignità inviolabile in ogni momento
della sua esistenza. Non è esplicitamente previsto nella Costituzione, ma è
ricavabile da tutta una serie di disposizioni che in qualche modo riconoscono
questo valore, sia nella carta costituzionale stessa, sia nella Convenzione di
Oviedo (art. 1), sia nella Carta europea dei diritti (art. 1)16.
Altro fondamentale principio è quello della uguaglianza giuridica e pari dignità
delle persone; assunta la persona umana come valore in sé, nessuna
discriminazione tra soggetti può essere consentita in ragione di particolari
può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Questo articolo
conferma, dunque, che la scelta di sottoporsi alle cure altro non è che un diritto di libertà della
persona. Da qui, l’impossibilità di praticare una cura contro la volontà espressa del paziente,
anche quando l’omissione della cura o la sua sospensione porti alla morte; tale disposizione da
un lato prevede, come deroga, la possibilità di una imposizione legislativa di trattamenti
sanitari obbligatori, ma dall’altro ribadisce, a contrario, il principio stesso del libero consenso.
Art. 5 c.c. “Gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una
diminuzione permanente della integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari alla legge,
all’ordine pubblico o al buon costume”. Ciò importa pertanto la liceità di tutta una serie di atti
dispositivi del corpo se compiuti entro limiti prefissati: come la sperimentazione terapeutica, in
quanto sussista il tentativo di cura o migliore cura, l’attività terapeutica, se nel bilanciamento
benefici-rischi i primi prevalgono sui secondi, la chirurgia estetica pura, scriminata nei limiti
dell’art. 5 c.c., il prelievo da vivente a scopo di trapianto se ed in quanto non comporti una
menomazione permanente, il prelievo da cadavere se ed in quanto il soggetto sia realmente
morto, ecc.; v. più dettagliatamente Mantovani, Diritto penale. Parte speciale. Delitti contro la
persona, cit., 49 ss.
16
L’affermazione di tale principio comporta la illiceità di una serie di atti dispositivi
concernenti ad esempio il trapianto di cervello, la conservazione in vita della testa isolata dal
corpo, l’ibernazione, la gestazione extramaterna dell’embrione umano, cioè nell’utero di
animali, nel corpo maschile, nell’incubatrice meccanica, la gestazione umana di embrione
animale, la clonazione, la selezione genetica, la produzione di ibridi uomo-animale; v.
Mantovani, Il problema della disponibilità del corpo umanano, in Vivere: diritto o dovere?
Riflessioni sull’eutanasia, cit., 50 ss; Mantovani, I trapianti e la sperimentazione umana nel
diritto italiano e straniero, cit., 115 ss.
55
qualifiche o condizioni personali o sociali17; tale principio è riconosciuto dalla
Costituzione, dalla Convenzione di Oviedo (art. 1), dalla Carta europea (artt.
20, 21).
E infine, ultimo corollario del principio della indisponibilità della persona
umana, è il principio del consenso; esso è riconosciuto a livello costituzionale
(artt. 13, 32/2 Cost.), della legge ordinaria (artt. 1 L. psichiatrica n. 480/78; 33
L. sanitaria n. 833/78; 3 L. sul prelievo di sangue n. 147/90; 5 L. sull’AIDS n.
135/90), sui documenti internazionali ( Convenzione di Oviedo, Carta europea
dei diritti) e della Corte Costituzionale (nn. 242/2002) ed è espressione del più
generale principio di libertà di decidere anche a proposito degli atti incidenti
sul proprio corpo.
Tutti questi limiti, oggettivi e soggettivi, sono ugualmente essenziali e
fondamentali; infatti, senza il consenso, l’intervento sul corpo altrui è illecito,
anche se operato nell’interesse dello stesso, con conseguenti responsabilità
giuridiche del medico, anche penali (ricorrendone gli estremi, per i reati di
violenza privata, sequestro di persona, procurata capacità di intendere e di
volere)18.
Oltre che dall’art. 3 Cost., questo principio è desumibile dall’art. 2 Cost. per il quale “La
Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”, tra i quali rientrano
primariamente i diritti alla vita e all’integrità fisica. Dato che questi diritti sono riconosciuti e
garantiti come inviolabili nei confronti dell’uomo come tale, ogni discriminazione di
riconoscimento e di tutela inciderebbe sulla loro inviolabilità e sarebbe, pertanto,
costituzionalmente illegittima; in questo senso Mantovani, I trapianti e la sperimentazione
umana nel diritto italiano e straniero, cit., 126. Tale principio si oppone agli atti dispositivi del
corpo umano concernenti: le discriminazioni in materia di sperimentazioni e prelievi a scopo
di trapianto a danno dei cosiddetti “soggetti esposti”, le discriminazioni nelle “scelte tragiche”,
cioè nei confronti dei soggetti destinatari dei mezzi terapeutici quando la richiesta sia superiore
alla disponibilità, le discriminazioni in materia di morte, con l’adozione, cioè, di concetti
diversi di morte e di parametri di accertamento diversi a seconda della destinazione del
cadavere (es. sepoltura, prelievo a scopo di trapianto), v. più dettagliatamente Mantovani, Il
problema della disponibilità del corpo umano, in Vivere: diritto o dovere? Riflessioni
sull’eutanasia, cit., 54 ss.
18
“[…] Sicché contro l’utilitarismo collettivistico o maggioritario il principio del consenso sta a
respingere il dovere di curarsi e a sancire il divieto degli interventi extraconsensuali”, v.
Mantovani, Il problema della disponibilità del corpo umano, in Vivere: diritto o dovere?
Riflessioni sull’eutanasia, cit., 44.
17
56
L’affermazione del principio del consenso sta ad esprimere una nuova
ideologia, un significato etico-culturale, circa il rapporto medico-paziente,
giacché ha determinato il passaggio dalla tradizionale e ippocratica concezione
paternalistica dei doveri del medico, benefattore e onnidecidente, alla più
moderna concezione personalistica dei diritti del paziente; il paziente si pone al
centro del rapporto con il medico in quanto portatore e titolare di
fondamentali diritti, primi fra tutti quello alla salute e all’autodeterminazione
in ordine agli interventi sul proprio corpo, cosicché i poteri e i doveri di
intervento sull’essere umano trovano il loro legittimo fondamento nel
sottostante consenso del paziente19.
Il principio del consenso agli interventi altrui sul proprio corpo è il naturale
corollario del principio della libertà personale; la Costituzione italiana,
garantendo all’art. 13 l’inviolabilità della libertà personale, nel suo duplice
Sulla rilevanza del consenso al trattamento medico-chirurgico, v. sentenza 13/90 della Corte
d’Assise di I grado di Firenze nel processo a carico di Carlo Massimo in Il Foro Italiano, 1991,
II, 236. Il caso era questo: nel corso di un intervento, un chirurgo di Firenze muta radicalmente
il tipo di operazione, senza che vi sia alcuna nuova situazione di emergenza o di immediato
pericolo. Il nuovo intervento è molto più invasivo dato che comporta l’amputazione
perineoaddominale del retto e l’applicazione di un ano artificiale. Esso viene effettuato senza il
consenso della paziente e anzi “contro la sua espressa volontà”. La donna aveva dato il consenso
esclusivamente all’intervento di esportazione di polipi rettali, molto più lieve e non demolitivi.
Dopo circa due mesi la paziente muore. I giudici della Corte d’Assise di Firenze, con una
decisione che non ha precedenti, confermata poi fino in Cassazione, condannano il chirurgo
per omicidio preterintenzionale. I giudici hanno considerato il paziente come un soggetto
portatore di diritti fondamentali alla libertà personale e alla salute, arrivando ad affermare :
“[…] nel diritto di ciascuno di disporre , lui e lui solo, della propria salute e integrità personale,
pur nei limiti previsti dall’ordinamento, non può che essere ricompreso il diritto di rifiutare le
cure mediche, lasciando che la malattia segua il suo corso anche fino alle estreme conseguenze:
il che a ragione non può essere considerato il riconoscimento di un diritto positivo al suicidio,
ma è invece la riaffermazione che la salute non è un bene che possa essere imposto
coattivamente al soggetto interessato dal volere o, peggio, dall’arbitrio altrui, ma deve fondarsi
esclusivamente sulla volontà dell’avente diritto”; e in un altro passo si legge “doveva essere
lasciato alla libera scelta della paziente se trascorrere i non moltissimi giorni di una vita ormai
non lontana dalla fine in maniera fisicamente e psicologicamente dignitosa”. Questa decisione
rappresenta un riconoscimento pieno del principio di autonomia e quindi di
autodeterminazione nel rapporto medico-paziente. V. infra § 9.
19
57
contenuto fisico e psichico, materiale e morale20, ha riconosciuto il duplice
principio: della esclusività sul proprio essere fisico e psichico, col conseguente
divieto di ogni attività di terzi sullo stesso contro o senza la volontà del
soggetto, e della necessità del libero consenso del soggetto ad ogni attività che i
terzi intendono effettuare sull’essere fisico e psichico del soggetto stesso.
Inoltre, il principio del consenso esprime, anche, un significato giuridico e
pratico-operativo, poiché sta ad indicare che il fondamento primario dei
poteri-doveri del medico risiede nel consenso del soggetto; ma, nonostante il
consenso, l’intervento resta comunque illecito quando viene a mancare il
rispetto degli altri limiti oggettivi21.
Il solo consenso, dunque, non è sufficiente, perché, oltre certi limiti, il valore
della persona umana deve essere tutelato anche contro gli atti di disposizione
del soggetto stesso.
Uno dei pericoli della nostra epoca è proprio quello della “strumentalizzazione”
del consenso per legittimare gravi attentati alla inviolabilità, fisica e morale,
della persona e alla sua dignità22.
Quindi, da una parte, esaltare il momento del consenso può diventare un alibi
per un’ampia libertà d’azione sul soggetto e per scaricare sul soggetto stesso
tutta la responsabilità dell’attività medica. Ma, dall’altra parte, va detto che non
basta far leva sulla serietà degli interventi volti a proteggere la salute
Infatti, è pacifico ormai in dottrina che con tale affermazione si è voluto vietare tanto la
coercizione fisica, tanto quella che tende ad annientare il pensiero e la volontà.
21
“[…] Sicché contro l’utilitarismo individualistico-edonistico liberalizzatore, che tende ad
attribuire al consenso una tendenzialmente illimitata efficacia scriminante, il principio
personalistico sta ad indicare che ogni intervento resta illecito quando super i limiti oggettivi
della salvaguardia della vita, integrità fisica, salute, dignità, eguaglianza, del soggetto”, v.
Mantovani, Il problema della disponibilità del corpo umano, in Vivere: diritto o dovere?
Riflessioni sull’eutanasia, cit., 45.
22
L’Accademia svizzera delle scienze mediche, preso atto dell’esistenza di un tale pericolo, nel
1970, nel fissare le direttive per la ricerca scientifica sull’uomo, ha rilevato che “Il consenso
liberamente reso e giuridicamente valido, fondato sulla previa informazione, non diminuisce la
responsabilità civile o penale del ricercatore”; v. Mantovani, I trapianti e la sperimentazione
umana nel diritto italiano e straniero, cit., 79.
20
58
individuale e la vita per svalutare l’importanza del consenso liberamente
prestato o per prescindere da esso.
Il consenso deve essere vissuto, sia dal medico che dal paziente, come un
momento dialogico, un perdurante dialogo che non si esaurisce in un unico e
fugace incontro consensuale.
In definitiva, è alla luce dei principi personalistici della tutela della vita, del
consenso e della dignità umana che va risolto il problema giuridico
dell’eutanasia.
§6. L’EUTANASIA COLLETTIVISTICA E L’EUTANASIA INDIVIDUALISTICA.
Attorno al significato etimologico di eutanasia si sono venuti a raggruppare
fenomeni diversi od opposti per finalità obiettive e motivi soggettivi
riconducibili alla summa divisio tra eutanasia collettivistica e eutanasia
individualistica.
L’eutanasia collettivistica, che trova la propria legittimazione sulla base del
principio utilitaristico-collettivistico, è quella che viene posta in essere per un
fine di utilità pubblico-collettiva, non consensualmente e su larga scala. Essa
comprende, innanzitutto, l’eutanasia eugenica, consistente nella soppressione
indolore degli individui deformi o tarati, fisicamente o psicologicamente, per
migliorare la razza23.
Una variante dell’eutanasia eugenica è quella che D’Agostino chiama “eutanasia precoce”,
cioè la soppressione di neonati gravemente deformi. A proposito è da ritenere l’illiceità di tale
forma eutanasica; tuttavia, in molti casi i neonati deformi vengono mantenuti in vita solo
grazie a particolari forme di accanimento terapeutico a volte di carattere strettamente
sperimentale. In tali casi l’eutanasia passiva nei loro confronti potrebbe essere lecita. V.
D’Agostino F., Diritto e eutanasia, in Bioetica, 1999, 102. Favorevoli all’eutanasia neonatale,
che può essere definita anche “infanticidio selettivo”, sembrano essere alcuni medici:
soprattutto più per ragioni di ordine professionale che etico. Infatti, per molti è inutile e
dannoso curare e permettere la sopravvivenza di neonati affetti da gravi patologie (come la
spina bifida) che difficilmente e raramente possono raggiungere l’età adulta. Giusti,
L’eutanasia. Diritto di vivere. Diritto di morire, Padova, 1982., 66, rileva come l’eutanasia
passiva neonatale sia relativamente diffusa in certi reparti pediatrici, tanto che ne è, appunto,
23
59
L’esperienza del secolo XX ha segnato, proprio sotto questo nome, una delle
pagine più tragiche della storia dell’umanità; è il caso della realizzazione da
parte del governo nazista di un programma eutanasico (Euthanasieprogramm)
che tra il 1939 e il 1941 condusse alla eliminazione, nelle camere a gas, di oltre
70.000 infermi di mente (tra cui 5000 bambini) su una popolazione di poco più
di 70 milioni24; ma fra questi morti solo pochissimi erano persone malate che
potremmo definire “spente”.
Una sottospecie della eutanasia eugenica può essere considerata l’eutanasia
economica, consistente nella eliminazione indolore dei malati incurabili, dei
vecchi, degli invalidi per alleggerire la società dal peso dei soggetti
economicamente inutili (le c.d. “bocche inutili da sfamare”)25.
auspicata la legalizzazione. Contra Fletcher, cit. da Giusti, L’eutanasia. Diritto di vivere, diritto
di morire, cit., 65, il quale, pur essendo favorevole all’aborto selettivo e all’eutanasia, ritiene
che l’eutanasia neonatale debba essere disapprovata in quanto “il neonato è già capace di vita
autonoma, la sua accettazione da parte dei genitori è già avvenuta, e infine perché esistono o
esisteranno possibilità terapeutiche”.
24
Nessuna iniziativa di legge era mai stata presa in questo senso; persino il progetto nazista di
codice penale del 1936 assunse in materia eutanasica una posizione nettamente negativa.
Pertanto il programma hitleriano sulla eliminazione dei malati mentali rappresenta un vero e
proprio novum nella storia del diritto tedesco. Un precedente non trascurabile è costituito
dalla dichiarazione del ministro della giustizia di allora, Gunter, all’entrata in vigore del primo
testo nazionale sulla legislazione eugenetica nel 1933, circa la possibilità di un’iniziativa dello
Stato di eliminare, attraverso organi ufficiali, i malati mentali inguaribili. Ma, questo progetto
non fu poi accompagnato da alcuna iniziativa legislativa. A dare inizio al processo di eutanasia
(denominata, poi, Operazione T4) fu un ordine scritto e segreto di Adolf Hitler retro-datato al
1° settembre 1939. La procedura può essere riassunta in questi passaggi fondamentali: a tutti i
responsabili di ospedali psichiatrici venivano inviati questionari miranti a censire la capacità
lavorativa dei soggetti inabili; sulla base dell’analisi di tali questionari e senza visitare il malato
una commissione di esperti decideva quali dovessero essere soppressi. Tali persone venivano
poi prelevate dagli ospedali e trasportate con pullman dai finestrini oscurati nei centri di
eliminazione, scelti in genere lontano dai luoghi di cura per depistare i parenti delle vittime,
dove erano predisposte delle camere a gas mascherate da docce e si procedeva all’uccisione. Ai
perenti veniva, poi, inviata una lettera standard che annunciava la morte per una causa
qualsiasi. Si avvertiva che per ragioni sanitarie il cadavere era stato cremato. Tutte queste
operazioni dovevano svolgersi nel più assoluto segreto. Nelle camere a gas dei centri di
eutanasia sono state uccise molte persone in grado di lavorare e pienamente consapevoli della
propria vita, accanto ad altre con disturbi mentali più o meno gravi. V. Porzio, Eutanasia, in
Enc.dir., XVI, 1967, 110 e Ricciardi von Platen, Il nazismo e l’eutanasia dei malati di mente,
Firenze, 2000.
25
Tra i sostenitori dell’eutanasia si sono schierate anche persone d’alto valore intellettuale,
come il Binding (seguito, poi, dalla tragica esperienza nazista), il quale brutalmente afferma
60
Ancora, nell’ambito dell’eutanasia collettivistica si hanno: l’eutanasia
criminale, consistente nell’indolore eliminazione dei soggetti socialmente
pericolosi (es.: pena di morte per i delinquenti); l’eutanasia sperimentale, che
consiste
nel
sacrificio
della
vita
di
alcuni
soggetti
per
effettuare
sperimentazioni per il progresso medico e scientifico; l’eutanasia profilattica,
consistente nella soppressione indolore dei soggetti affetti da malattie
epidemiche, l’eutanasia solidaristica, consistente nel sacrificio di soggetti favore
della vita o salute di altri (es.: per prelevare organi a scopo di trapianto).
L’eutanasia collettivistica non è un qualcosa di remoto e appartenente alla
storia del nostro recente passato, ma fa parte anche di attuali mentalità
utilitaristiche disposte ad ammettere sia l’eutanasia solidaristica, anticipando
concettualmente il momento della morte alla mera decorticazione26 o
subordinando l’accertamento della morte a parametri privi di certezza
scientifica, al fine di favorire i trapianti da cadavere; sia l’eutanasia economica,
al fine di liberare la comunità e i parenti dai gravosi oneri umani ed economici
dei malati che, pur in condizioni disumane, combattono con la morte27.
L’eutanasia individualistica (o pietosa), è l’uccisione indolore che “viene posta
in essere per un sentimento di pietà nei confronti del particolare stato in cui
versa la vittima”28.
che in caso di errore nella pratica eutanasica il tutto si ridurrebbe ad “un uomo di meno”, la
vita del quale sarebbe stata, comunque, senza valore qualora fosse sopravvissuto alla sua
malattia.
26
La morte corticale (che è propria dei soggetti in stato vegetativo persistente) è quella limitata
alle regioni cerebrali superiori che presiedono alla vita intellettiva e sensitiva, quindi di
relazione, mentre rimangono spontaneamente le funzioni vegetative cardiocircolatorie,
dipendenti dalle strutture del tronco encefalico ancora integre; v. più dettagliatamente
Mantovani, Diritto penale, parte speciale. I delitti contro la persona, cit., 36.
27
Ciò trova conferma nella proposta di legge n. 2405/1984, fondata su una fictio iuris di
consenso e nella proposta di legge francese del 1988 relativa all’eutanasia attiva dei nati
handicappati, dato il loro costo sociale e l’indegnità della loro vita; proposta sulla quale hanno
decisamente reagito i genitori i figli handicappati.
28
La definizione è di Mantovani, Problemi giuridici dell’eutanasia, in Arch. giur., 1970, 37. Per
Giusti G., L’eutanasia. Diritto di vivere. Diritto di morire, Padova, 1982, 13, la parola eutanasia,
nel linguaggio comune, indica “la morte data a chi sia affetto da malattia inguaribile e dolorosa
61
È il motivo di pietà che vale a distinguere questa forma di eutanasia da quella
collettivistica.
Se, infatti, le istanze eutanasiche collettivistiche si sono sempre caratterizzate
per la loro ispirazione utilitaristica collettivo-statuale, per cui l’eutanasia ha un
movente eteronomo al soggetto, dettato da una utilità pubblica alla quale il
singolo è sacrificato, l’eutanasia pietosa si caratterizza per un movente
altruistico rivolto al paziente; l’eutanasia come “delitto d’amore”.
L’eutanasia pietosa ha carattere individuale e può essere consensuale e non
consensuale a seconda che il soggetto abbia fatto o meno richiesta in merito.
Essa comprende:
a) l’eutanasia pietosa passiva (o paraeutanasia o per omissione o letting die della
cultura anglosassone) con ciò intendendosi l’omissione o l’interruzione del
trattamento terapeutico.
Tratto distintivo rispetto alla ipotesi successiva è la natura omissiva del
comportamento, che rende possibile qualificare come causa della morte
direttamente la malattia, anziché la condotta umana 29;
b) l’eutanasia pietosa attiva (o per commissione o mercy killing), consistente
nel cagionare la morte del paziente mediante un comportamento attivo.
Presupposti fattuali sono: la condizione dell’infermo – uno stato di sofferenza
insopportabile, di solito incidente sulla fase terminale di una malattia mortale –
e la motivazione della condotta, la pietà nei confronti della vittima.
Sulla base di tale distinzione30, tra l’altro la più comune in dottrina, l’eutanasia
può essere definita sia come un’uccisione indolore, sia come “la mancata
prevenzione della morte da cause naturali nel corso di malattie terminali”31 .
e prossimo alla fine, per abbreviarne le sofferenze: il movente sarebbe dunque ispirato al
sentimento altruistico di compassione e di umana solidarietà, e ne resterebbero escluse tutte le
altre forme, i cui moventi sono di altro genere”.
29
Giusti, L’eutanasia, diritto di vivere, diritto di morire, cit., 19, afferma che la prassi di
dimettere i pazienti senza più speranza dall’ospedale per consentire loro di morire nella propria
casa o per non peggiorare le statistiche dell’ospedale, rappresenterebbe un’applicazione
concreta dell’eutanasia passiva, consensuale o non consensuale.
62
È sul terreno della causalità che si coglie la caratterizzazione tra eutanasia
attiva e eutanasia passiva; la differenziazione tra atti e omissioni evidenzia una
diversa qualificazione morale e giuridica della condotta del medico, relativa al
diverso apporto causale nella produzione dell’evento.
Infatti, nella forma passiva l’omissione del medico si inserisce in un processo
causale già messosi in atto autonomamente e che conduce alla morte, quindi la
morte è la conseguenza di una malattia di cui il medico non ha impedito
l’evolversi, mentre nella forma attiva la condotta medica è il fattore causale
unico, o concorrente con altri, dell’evento mortale, e quindi la morte è
conseguenza della sua azione32.
Su tale distinzione cfr. le Direttive concernenti l’eutanasia, approvate dall’Accademia
svizzera delle Scienze Mediche il 5 novembre 1976, in RIML, 1981, 72. Inoltre, a questa
ricostruzione delle ipotesi eutanasiche in relazione alla condotta posta in essere dal medico,
corrisponde specularmene un’altra distinzione che prende in considerazione i possibili
contenuti della volontà del paziente: al diritto di essere lasciati morire corrisponde una
condotta omissiva, al diritto a morire corrisponde, in linea di massima, una condotta
commissiva del medico. Critico nei confronti della tradizionale distinzione tra eutanasia attiva
e passiva, Rachels, Uccidere. Lasciar morire e il valore della vita, in Bioetica, 1993, 271, che,
oltre a negare questa distinzione, afferma che, se valutata sotto il profilo delle conseguenze per
il paziente, è più umana l’eutanasia cagionata attivamente che quella causata per mezzo di una
condotta omissiva.
31
In questo senso v. Giusti, L’eutanasia. Diritto di vivere. Diritto di morire, cit., 15 ss.
32
In particolare, nell’ambito dell’eutanasia attiva si dovrebbero ricondurre le situazioni in cui
la morte del paziente è da ricollegare causalmente, in concorso con un processo patologico in
atto, ad una condotta materiale del medico che si attiva a favore del suo paziente. Tali
possibilità di intervento non escludono, in via di principio, una collaborazione da parte dello
stesso paziente che, ad esempio, assume da sé il farmaco che potrà cagionare la morte (c.d.
suicidio assistito). Nell’ambito dell’eutanasia passiva, invece, si riconduce la condotta
puramente omissiva del medico, cioè non impeditiva di una catena causale in atto che
autonomamente cagiona la morte, come ad esempio quando non venga intrapresa la cura di
processi patologici insorgenti, permettendo che la malattia faccia il suo corso e porti alla morte,
o qualora non siano attivate tutte le terapie di rianimazione e di sostentamento artificiale della
vita. Invero, nell’ambito dell’eutanasia passiva si annoverano anche condotte che non sono
omissive in senso naturalistico, ma vengono comunque assimilate ad esse: sono tali, ad
esempio, l’azione commissiva del medico che interrompe una terapia, già intrapresa, di
sostentamento artificiale della vita o che appare ormai sproporzionata ed assolutamente
inadeguata a contribuire ad un miglioramento della salute. In tali casi si sarebbe indotti a
ritenere che l’interruzione di un processo causale di salvataggio sia la condicio sine qua non
della morte, se non si ricorresse all’espediente di assimilare l’azione all’omissione e di ricorrere
ai criteri che limitano il dovere giuridico del medico di impedire l’evento, in modo da
30
63
Il progresso tecnologico in ambito medico, infatti, specie quello relativo ai
trattamenti di fine di vita, ha reso sempre più difficile tracciare una netta linea
di demarcazione tra l’agire e l’omettere: nella nostra attuale realtà, il medico ha
sempre la possibilità di effettuare una prestazione sanitaria e anche il semplice
astenersi dal fare richiede comunque un fare qualcosa (distaccare dai
respiratori artificiali, togliere il sondino nasogastrico e l’alimentazione e
idratazioni artificiali).
A
questa
classificazione
possiamo
affiancare
quella
che
prende
in
considerazione, accanto all’eutanasia attiva e passiva, l’eutanasia pura (o
indiretta) che consiste nella morte naturale resa, tuttavia, indolore per effetto
di sostanze antidolorifiche, che attenuano le sofferenze del morente senza,
però, provocare o anticipare in modo rilevante la morte33.
Altra parte della dottrina34, invece, distingue in due grandi categorie varie
ipotesi eutanasiche: l’eutanasia impropria, comprendente sei ipotesi e
l’eutanasia propria, comprendente una sola ipotesi.
Prima ipotesi di eutanasia impropria è quella che deriva dal rifiuto, libero e
consapevole, da parte del paziente di sottoporsi alle cure.
Seconda ipotesi, affine alla precedente sotto alcuni profili ma radicalmente
diversa sotto un altro profilo che è quello decisivo, è quella dell’eutanasia
passiva propriamente detta, quella in cui si lascia morire un malato
sospendendogli le cure necessarie alla sopravvivenza.
Solitamente essa viene praticata nei confronti dei malati terminali che non
sono in grado di pronunciarsi sul proseguimento della terapia.
Come terza ipotesi di eutanasia impropria si ha quella particolare pratica
consistente nella sospensione dell’accanimento terapeutico; quarta ipotesi è
escludere la responsabilità penale del medico. V. Magro, Eutanasia e diritto penale, cit., 135. V.
infra §.9.
33
V. Cornacchia, Euthanasia. Il diritto penale di fronte alle scelte di fin di vita, in Teoria del
diritto e dello Stato, 2002, 2.
34
In particolare v. D’Agostino, Diritto e eutanasia, cit., 98 ss.
64
quella dell’eutanasia lenitiva (o eutanasia indiretta o pura), causata dall’uso di
farmaci somministrata per alleviare i dolori intollerabili dei malati terminali;
quinta ipotesi che viene fatta rientrare, da questa dottrina, nell’ambito
dell’eutanasia impropria è l’eutanasia eugenica.
Come ultima forma di eutanasia impropria viene considerata l’eutanasia attiva
su paziente non consenziente.
L’unica ipotesi di eutanasia propria è costituita dall’eutanasia attiva su soggetto
consenziente, sulla quale sola si incentra il vero dibattito attuale sulla
eventuale legalizzazione della “buona morte”35.
“È come se, ponendo sul tappeto il tema dell’eutanasia “propria”, la società in cui viviamo si
sia prefissa di rimuovere, dopo quello della sessualità, l’ultimo grande tabù collettivo, il tabù
che grava su quella dimensione privatissima che è la morte. Nell’eutanasia propria entra in
gioco la volontà di riappropriarsi della morte, prevedendola, gestendola razionalmente,
organizzandola amministrativamente”, v. D’Agostino, Diritto e eutanasia, in Bioetica, 1999,
105. Per l’A., infatti, si può parlare di eutanasia “se e solo se un medico pone termine alla vita
di un paziente terminale dietro sua richiesta”, v. D’Agostino, Non è di una legge che abbiamo
bisogno, in Il diritto di morire bene, a cura di Semplici, Bologna, 2002, 32.
35
65
CAPITOLO III
LE FORME EUTANASICHE E IL DIRITTO PENALE
Sommario: 7. L’eutanasia pura: un “aiuto nel morire”. – 8. L’eutanasia attiva: un “aiuto a
morire”. – 9. L’eutanasia passiva consensuale. – 10. L’eutanasia passiva non consensuale. – 11. Il
trattamento penale dell’eutanasia de iure condito.
§7. L’EUTANASIA PURA: UN “AIUTO NEL MORIRE”.
Con il termine “eutanasia pura” o “eutanasia indiretta” si vuole indicare la
sottoposizione del paziente a terapie destinate a lenire la sofferenza nei
confronti di moribondi o di soggetti malati.
La dottrina ritiene, in questi casi, che si tratti di azioni del tutto lecite e, anzi,
considera questi casi come facenti parte dell’ambito della pratica medica.
Pertanto, trattandosi di trattamenti aventi esclusiva finalità curativa, non
presentano problemi in quanto, però, ci si limiti ad alleviare la sofferenza senza
provocare la morte o abbreviare la vita.
Più delicata è la problematica riguardante le terapie operate con l’uso di
sostanze analgesiche con proprietà abbrevianti la vita (ed è in questi casi che
più propriamente si parla di “eutanasia indiretta”).
È questa una zona limite tra il lecito e l’illecito dai confini sfumati: una linea di
demarcazione viene tracciata, dalla dottrina tedesca, contrapponendo l’attività
di chi aiuta “nel” morire (Hilfe bei Sterben), ed è il caso in cui il medico pone
in essere un’attività finalizzata primariamente ad alleviare le sofferenze del
malato, nonostante sia a conoscenza anche del suo possibile effetto letale, a
quella di chi aiuta “a” morire (Hilfe zum Sterben)1, quando l’azione del medico
è tesa primariamente all’uccisione del paziente, anche se sostenuta da
Questa distinzione è condivisa da Porzio, Eutanasia, in Enciclopedia del diritto, XVI, 1967,
105; da Mantovani, Eutanasia, in Digesto, IV, 1990, 425; da D’Agostino, L’eutanasia come
problema giuridico, in Arch. giur., 1987, 37.
1
66
motivazioni pietistiche e altruistiche; questa ultima attività è chiaramente
illecita e va fatta confluire nell’ipotesi dell’eutanasia attiva.
Sulla base di tale distinzione ne consegue che l’uso di tutti gli analgesici è lecito
tutte le volte in cui è diretto a rendere tollerabile e indolore la vita dell’uomo,
mentre è illecito quando è direttamente diretto a farla cessare2.
Si parla, a proposito dell’eutanasia indiretta, di “terapia del dolore” o “medicina
palliativa” con ciò, appunto, intendendosi quegli interventi che, non potendo
avere come fine la guarigione del paziente, cercano di aiutarlo a sopportare i
dolori connessi alla sua patologia3.
Tale approccio palliativo alla malattia si è sviluppato a partire dagli anni ’70 in
Gran Bretagna e trova, oggi, nel nostro paese un riconoscimento tramite la l. 8
febbraio 2001, n. 12 “Norme per agevolare l’impiego dei farmaci analgesici
oppiacei nella terapia del dolore4.
La nascita della medicina palliativa si deve all’Hospice Movement; la parola
hospice è intraducibile in italiano e indica un reparto o addirittura una casa
Porzio, Eutanasia, in Enciclopedia del diritto, cit., 105, richiama la ricostruzione effettuata da
Binding che affermava trattarsi in questi casi “di una pura sostituzione delle cause di morte
dolorose – radicate nella malattia – con altre cause indolori” e la sua conclusione per cui “non
dovrebbe mai parlarsi di omicidio ma di trattamento curativo, dal momento che lo spazio di
tempo tra il trapasso quale conseguenza naturale della malattia, e la morte quale effetto dei
mezzi sopravvenuti, non potrebbe essere preso in considerazione se non da parte di un limitato
pedante”.
3
Per Eusebi, Omissione dell’intervento terapeutico ed eutanasia, in Arch. pen., 1985, 520 “non
è anticipando il momento in cui viene meno la tutela della vita che si rispetta la dignità umana,
ma facendo tutto il possibile affinché la vita residua che si è in grado di assicurare possa essere
vissuta in condizioni relativamente valide”.
4
Questa legge contiene specifiche disposizioni circa la prescrizione di oppioidi in relazione ai
ricettari, all’approvvigionamento, al trasporto, alla conservazione di detti prodotti, in vista,
soprattutto, anche dell’assistenza domiciliare di pazienti affetti da dolori insopportabili. Le
statistiche circa il ricorso alla morfina nel nostro paese, nel trattamento dei terminali
sofferenti, attestano la diffusione di radicati e ingiustificati preconcetti, presso la classe medica,
in ordine all’uso di tale prodotto. Mentre all’estero viene riconosciuta piena dignità tecnicoscientifica alle cure palliative, in Italia il perseguimento di tale obiettivo ha incontrato sinora
forti ostacoli; e ciò perché si è tralasciato di effettuare degli investimenti per l’allestimento di
ospedali specializzati, sia perché, fino alla legge del 2001, si aveva un eccesso di intralci
burocratici alla disciplina dell’uso degli oppiacei. V. più dettagliatamente Cendon, I malati
terminali e i loro diritti, Milano, 2003, 78 ss.
2
67
dove i malati terminali trovano le cure palliative e un ambiente
completamente diverso da un ospedale, dove amici e parenti possono restare il
tempo che vogliono, non ci sono orari di visita, costituisce, cioè, una struttura
pensata per dare un ambiente premuroso in risposta ai bisogni fisici ed emotivi
del malato terminale. L’assistenza in hospice è incentrata sul paziente e non
sulla malattia, si prefigge di dare sollievo al dolore e conforto alla sofferenza,
anziché curare la patologia e di far vivere bene l’ultimo momento della vita di
un uomo; infatti, se il principale diritto dei morenti è il sollievo dalla
sofferenza, è da tener presente anche che chi sta morendo ha diritto a
assistenza e cura nell’ambiente desiderato5.
La nascita degli hospices è stata il risultato di una ricerca finalizzata a scoprire
un modo di morire alternativo e diverso dalla morte in ambienti “asettici” e
lontano dalla famiglia come gli ospedali6.
Tornando all’analisi delle problematiche connesse all’eutanasia indiretta,
quando, quindi, la vita del paziente viene abbreviata, non intenzionalmente, da
parte del medico tramite la somministrazione di forti analgesici, innanzitutto
rileviamo che essa presuppone concettualmente la sua differenza con la forma
diretta di eutanasia, identica sotto il profilo oggettivo, ma in cui
l’acceleramento della morte è l’obiettivo principale perseguito.
In Gran Bretagna, portabandiera del movimento degli hospice, non vengono curati solo gli
aspetti tecnici della malattia, ma anche gli aspetti emotivi, sociali, spirituali e psicologici del
paziente. Si fa molto anche per i familiari; non vengono aiutati solo durante la malattia del loro
caro, ma vengono sostenuti anche dopo la sua morte. Invece, in Italia intorno al morente c’è un
grande vuoto organizzativo e assistenziale e solo da poco si sono cominciati ad aprire degli
hospice. Il primo hospice, realizzato nel 1991, opera nell’area milanese; secondo gli ultimi dati
della società italiana di cure palliative al 31 dicembre 2000 esistevano in Italia 43 hospice.
Recente l’apertura presso l’ospedale Sacco di Milano del primo hospice italiano per l’assistenza
ai malati di AIDS in fase terminale.
6
Il concetto per comprendere l’operato degli hospice è quello di total pain, espressione che
indica non solo la sofferenza fisica, ma anche quella psicologica e spirituale. Il paziente, quindi,
oltre a ricevere le usuali somministrazioni di antidolorifici, vive in un contesto in cui ogni
membro dell’hospice (personale medico-sanitario, volontari, religiosi, assistenti sociali) svolge
una funzione terapeutica e psico-terapeutica.
5
68
La morte, nell’eutanasia diretta, non è un effetto secondario e collaterale della
terapia del dolore, bensì è la finalità dell’agente per consentire un trapasso
indolore.
Nell’eutanasia indiretta lo scopo è, invece, quello di rimuovere la sofferenza,
non di uccidere, anche se l’eliminazione del dolore può comportare, quale
effetto secondario, ancorché previsto, la morte.
Pertanto, ciò che differenzia le due forme è l’intenzione con la quale l’atto è
compiuto: calmare la sofferenza, a rischio di indurre la morte; indurre la
morte, per porre fine alla sofferenza7.
Proprio per questo, questa forma pseudo-eutanasica, in cui la palliazione
produce il duplice effetto di alleviare i dolori del paziente e in qualche modo di
accelerarne il decesso, pur qualificata da molti come eutanasica, in realtà non
lo sarebbe: l’effetto secondario, non intenzionale, del decesso è un effetto,
eticamente lecito, di un atto altamente etico, quale quello di operare per il
bene del malato8; è un effetto secondario, probabile o possibile, ma comunque
non voluto.
È stata applicata, in proposito, la cosiddetta “teoria del doppio effetto”; si tratta
di un principio formulato in modo compiuto verso il XVII-XVIII secolo in
relazione a problemi non direttamente connessi con la medicina.
Il duplice effetto sta ad indicare che quando un’azione, definibile buona in
relazione al suo oggetto, può raggiungere un effetto buono solo con il rischio di
“Questa sottile distinzione che prende in considerazione la connotazione psicologica
dell’agire del medico, evidenzia come, nel caso di somministrazioni di dosi più massicce di
analgesici, anche se il medico prevede che la vita del paziente potrà essere abbreviata,
l’accettazione del rischio che la terapia possa comportare quell’effetto non implica, anzi se ne
differenzia, l’accettazione della morte (eutanasia attiva diretta), come mezzo deliberato per
porre fine alle sofferenze”, v. Magro, Eutanasia e diritto penale, Torino, 2001, 167. Nello stesso
senso D’Agostino, Non è di una legge che abbiamo bisogno, in Il diritto di morire bene, a cura
di Semplici, Bologna, 2002, 31, per il quale il medico che pratica la palliazione “vuole
intervenire sul paziente per placarne i dolori e quindi non ha alcuna finalità letale”, mentre il
medico che pratica l’eutanasia “vuole raggiungere nella maniera più rapida la sedazione totale,
cioè la morte del paziente”.
8
In questo senso D’Agostino, Non è di una legge che abbiamo bisogno, cit., 31.
7
69
provocare un evento negativo secondario ma inevitabile, l’atto è lecito e può
essere realizzato. Tale teoria si fonda sulla distinzione tra ciò che una persona
intende conseguire con una azione e ciò che produce come effetto collaterale
di un’azione intenzionale; tende a scandagliare la situazione psicologica
dell’agente9.
Sull’eutanasia indiretta si sono espressi in senso favorevole esponenti del
pensiero religioso10 e del pensiero laico: i casi riconducibili a questa forma
eutanasica vanno considerati penalmente irrilevanti tout court in quanto la
condotta di somministrazione dei farmaci antidolorifici costituisce un dovere
giuridico del sanitario, sussistendo l’obbligo per il medico di alleviare dolori
insopportabili del paziente. Infatti, scopo della medicina non è solo quello di
guarire o di procrastinare la morte, ma anche quello di alleviare le sofferenze
del malato11; quindi la terapia del dolore è lecita sic et sempliciter in quanto
conforme a tale dovere.
Tradizionalmente, v. Cendon, I malati terminali e i loro diritti, cit., 68, la teoria del doppio
effetto si ritiene soddisfatta nel caso in cui ricorrano cinque requisiti. 1) l’atto è
raccomandabile; 2) ci si propone solo il risultato positivo di sollevare dalle sofferenze, e non
quello negativo di uccidere; 3) la finalità benefica non viene perseguita per mezzo di quella
cattiva (non si riduce la sofferenza accelerando la morte del paziente); 4) mancano alternative
per il raggiungimento del sollievo dalla sofferenza; 5) esiste una ragione proporzionalmente
valida per correre il rischio del verificarsi dell’effetto negativo. Essa viene applicata anche nel
caso del c.d. “aborto terapeutico”, laddove la morte del feto, non voluta anche se prevedibile, è
dovuta a interventi o terapie effettuate per salvare la vita della gestante.
10
Lo stesso Pio XII riconosceva lecita la medicina palliativa; v. più ampiamente §2.
11
L’art. 37 del codice di deontologia medica (1998) afferma che “in caso di malattia a prognosi
sicuramente infausta o pervenuta alla fase terminale, il medico deve limitare la sua opera
all’assistenza morale e alla terapia atta a risparmiare inutili sofferenze, fornendo al malato i
trattamenti appropriati a tutela, per quanto possibile, della qualità della vita”. La
Raccomandazione relativa ai diritti dei malati e dei morenti, approvata dal Consiglio d’Europa,
gennaio 1976 afferma che “[…] la professione medica è al servizio dell’uomo, per la protezione
della salute, per il trattamento delle malattie e delle ferite, per l’alleviamento delle sofferenze,
nel rispetto della vita umana e della persona umana e convinta che il prolungamento della vita
non debba essere in sé lo scopo esclusivo della pratica medica, che deve mirare altrettanto ad
alleviare le sofferenze. Considerando che il medico deve sforzarsi di placare le sofferenze e che
non ha diritto, neppure nei casi che sembrano disperati, di affrettare intenzionalmente il
processo naturale della morte […]”. E infine, la Guida europea di etica e comportamento
professionale dei medici, approvata dalla Conferenza Internazionale degli Ordini dei Medici e
degli organismi di attribuzioni similari della CEE, dicembre 1982, afferma che “[…] così il
9
70
Manca il dolo tipico del delitto d’omicidio, poiché il medico, nonostante agisca
con coscienza e volontà nella somministrazione degli analgesici, non vuole
l’evento mortale, causalmente riconducibile all’azione del farmaco e quindi
conseguenza della sua condotta, ma, nonostante ciò, tale evento rappresenta un
rischio che il medico conosce e prende in considerazione. Quindi, se
accompagnata dal consenso del paziente, non acquista alcuna rilevanza penale
la condotta del medico, configurandosi, appunto, come un’attività doverosa,
rientrando tra i suoi compiti e doveri anche quello di lenire le sofferenze,
essendo esclusiva la finalità curativa di tale trattamento medico12.
Parte
della
dottrina,
tuttavia,
ritiene
che,
considerando
lecita
la
somministrazione di analgesici che importano un’anticipazione della morte,
non si tiene conto che la nozione di dolo non si limita al dolo intenzionale (che
nell’ipotesi dell’eutanasia indiretta deve essere escluso), ma si estende anche al
dolo eventuale, per cui la volontà non si dirige direttamente verso l’evento
mortale, ma tuttavia l’agente lo accetta come conseguenza accessoria,
eventuale, della propria condotta, per cui andrebbero imputati al medico anche
i risultati pur non voluti ma comunque previsti dallo stesso13; il medico
informato circa gli effetti della terapia e che comunque la somministra,
accettando il rischio di morte, agisce con dolo eventuale.
medico non può procedere all’eutanasia. Deve sforzarsi di placare le sofferenze del suo malato,
ma non ha il diritto di provocarne deliberatamente la morte […]”.
12
Per Cornacchia, Euthanasia. Il diritto penale di fronte alle scelte di fin di vita, in Teoria dir. e
Stato, 2002, 3, 374, soddisfatti i requisiti di proporzione tra mezzo e gravità del dolore e
malattia e necessità dei palliativi, non rileva il livello di probabilità dell’effetto secondario
letale, la terapia è lecita anche se la morte è sicura; nessun valore assume l’intenzione di
alleviare il dolore e non di procurare la morte, dato che si tratta di attività lecita già sul piano
oggettivo.
13
Infatti contra la liceità dell’eutanasia indiretta Stella, Il problema giuridico dell’eutanasia:
l’interruzione e l’abbandono delle cure mediche, in RIML, 1984, 1015, per il quale “il
comportamento del medico, volto a lenire il dolore, è un comportamento che certamente
sfocia in una forma di effettiva eutanasia attiva, nel c.d. colpo di grazia al malato, essendo fuori
discussione sia il rapporto di causalità che il dolo (eventuale)”.
71
Sulla base di tali rilievi, dunque, è stata spostata l’attenzione su indici oggettivi
sui quali fondare un accertamento della direzione della volontà, restringendo,
così, la portata dell’elemento psicologico. Secondo questo orientamento della
dottrina, infatti, sorge il problema circa la soluzione della questione relativa al
conflitto tra dovere di lenire le sofferenze e dovere di non uccidere con un
comportamento attivo.
Un criterio di soluzione sembra potersi ravvisare facendo ricorso alla “teoria
del rischio consentito”, per cui se il rischio si trasforma in un elevato grado di
probabilità o nella certezza dell’accelerazione della morte, qualora da parte del
medico vi sia tale consapevolezza, allora, la morte, qualora si verifichi,
dovrebbe essere imputata a titolo di dolo14.
Mentre, se il rischio di morte dovesse mantenersi al di sotto della soglia
tollerabile, allora non ci sarebbe illiceità, dal momento che il medico agirebbe
sulla base di un rischio considerato lecito dall’ordinamento.
Per concludere, in materia di eutanasia indiretta, un cenno meritano altre due
questioni: quella relativa al consenso e quella riguardante il caso in cui dalla
terapia antidolorifica consegua l’annebbiamento delle facoltà mentali del
malato.
Quanto alla prima questione, secondo la dottrina maggioritaria, questa
legittimazione della terapia del dolore fa sì che essa possa o debba essere
praticata dal medico non solo in caso di consenso informato del paziente,
dovendo questi essere messo a conoscenza dei rischi della terapia antidolorifica
(annebbiamento delle facoltà mentali, accorciamento della vita), ma anche in
assenza di suo esplicito dissenso e quindi anche quando il malato non è in
A questo proposito Stella, Il problema giuridico dell’eutanasia: l’interruzione e l’abbandono
delle cure mediche, cit., 1015, afferma l’opportunità, per esonerare il medico che agisce col
consenso del paziente da conseguenze sanzionatorie, una norma specifica di esclusione della
colpevolezza, pur mantenendo ferma l’antigiuridicità del fatto, “legata per l’appunto
all’irrisolvibile conflitto tra il dovere di alleviare le più gravi sofferenze ed il dovere di non
abbreviare la vita”.
14
72
grado di manifestare la sua volontà; e ciò semplicemente per il fatto che la
condotta, proprio perché conforme ai doveri giuridici propri della professione
medica, va considerata normale15.
Anche riguardo alla seconda questione la dottrina è divisa: una parte ritiene
che la condotta medica sia lecita anche nel caso in cui la terapia del dolore
produca l’annebbiamento delle facoltà mentali fino alla perdita della
coscienza16;
mentre
un’altra
afferma
che
è
inaccettabile
privare
deliberatamente e definitivamente il malato delle facoltà mentali; secondo
questo orientamento, togliere per sempre la coscienza è qualcosa che si
avvicina all’eutanasia, mentre potrebbero ammettersi, in casi gravi, parentesi di
incoscienza. La terapia del dolore dovrebbe, infatti, mirare a far sì che la
percezione della sofferenza non esaurisca del tutto la consapevolezza del
morente, relegandolo altrimenti in una disperata solitudine17.
Tuttavia, possiamo dire che questo problema può risolversi sulla base del
consenso: infatti, se c’è il consenso la condotta medica è comunque lecita,
mentre se tale consenso non c’è la condotta è illecita perché il malato viene
privato della possibilità di vivere coscientemente l’esperienza della propria
morte.
§8. L’EUTANASIA ATTIVA: UN AIUTO “A MORIRE”.
Se le terapie ad esclusivo fine antidolorifico, ancorché anticipatrici della morte,
sono considerate sia dall’ordinamento giuridico che dal sentimento religioso
V. Stortoni, Riflessioni in tema di eutanasia, in Eutanasia e diritto. Confronto tra discipline, a
cura di Canestrari, Cimbalo, Pappalardo, Torino, 2003, 92 e Cornacchia, Euthanasia. Il diritto
penale di fronte alle scelte di fin di vita, cit. Secondo Cornacchia, op. cit., in caso di dissenso
del paziente al trattamento antidolorifico, la somministrazione di farmaci palliativi che
comportano l’esito mortale configura non omicidio doloso, bensì violenza privata o lesione
personale (ad es. quando viene praticata un’iniezione), fatta salva l’eventuale responsabilità –
preterintenzionale (ex artt. 584 o 586 c.p.) – per l’evento morte.
16
Così Cornacchia, Euthanasia. Il diritto penale di fronte alle scelte di fin di vita, cit.
17
Così Eusebi, Omissione dell’intervento terapeutico ed eutanasia, cit.
15
73
lecite, sono indubbiamente da considerarsi illeciti i trattamenti o comunque le
azioni dirette ad estinguere la vita di un individuo.
L’eutanasia attiva, cioè la morte provocata per mezzo di un comportamento
attivo per eliminare le sofferenze di una persona colpita da un male incurabile
ed insopportabile, è, dunque, quella forma di eutanasia che aiuta “a” morire.
A. L’eutanasia
attiva
non
consensuale18,
sia
collettivistica,
sia
individualistico-pietosa, è illecita, poiché contrasta coi principi costituzionali
della salvaguardia della vita, del consenso, della dignità umana. Tali principi
sottendono il “diritto alla propria morte”, ovverosia il diritto di vivere e
accettare l’ineluttabile momento, unico e irripetibile dell’esistenza umana,
della morte19.
Questa è la forma più grave di eutanasia e, come, tale, deve essere perseguita
più severamente, anche se può avere, essa stessa, delle attenuanti psicologiche,
umane e sociali. Gran parte degli episodi eutanasici, che si verificano nella
realtà e di cui si occupa la stampa, sono riconducibili proprio a questa categoria
e sono tali da riscuotere comprensione e solidarietà da parte dell’opinione
pubblica giustificando, appunto, l’evento col motivo di pietà per le sofferenze
della vittima. Ma è proprio questa forma di eutanasia che mostra una
dimensione di violenza, di sopraffazione da parte di chi è più forte su chi è più
debole, anche se filtrata dal movente della pietà20.
Giuridicamente è non consenziente sia colui che nega il suo consenso, sia colui che non può
prestarlo perché impossibilitato fisicamente ( per esempio poiché privo di coscienza). V.
D’Agostino, Diritto e eutanasia, in Bioetica, 1999, 19, per il quale non è possibile presumere il
consenso all’eutanasia di un malato terminale, dato che la volontà presumibile è quella di
essere curato, non di essere ucciso.
19
L’eutanasia attiva è plurioffensiva in quanto viola il rispetto del vivere il proprio morire e
priva della esperienza del proprio dolore e della propria irripetibile morte. V. Mantovani,
Diritto penale. Parte speciale. Delitti contro la persona, Padova, 2005, 72.
20
Per queste osservazioni v. D’Agostino, L’eutanasia come problema giuridico, in Arch. giur.,
1987, 39 ss., secondo il quale, tra l’altro, è probabilmente per tali ragioni che solo pochi codici
penali – in sostanza solo quello norvegese e polacco – prevedono la pietà come attenuante
dell’omicidio.
18
74
B. L’eutanasia attiva consensuale rappresenta, in un certo senso, la forma
“tipica” di eutanasia21, quella che D’Agostino qualifica come forma eutanasica
“propria” e che pone in rilievo come, tramite di essa, venga a mutare
nell’attuale realtà contemporanea il momento del vivere la morte.
Non può certamente dubitarsi circa la sua illiceità, poiché contrasta col
principio della tutela della vita e supera i limiti, già visti, della disponibilità del
proprio corpo per mano altrui attraverso il consenso22.
Né può essere presa in considerazione la circostanza che di lì a pochi giorni il
paziente sarebbe comunque deceduto a seguito del processo patologico ormai
inguaribile in quanto, per il diritto penale, ogni singolo istante della vita
umana, anche dei soggetti prossimi alla morte, ha un valore infinito; in caso
contrario, cioè accettare che si possa sopprimere una vita seppur nella sua fase
ultima e ridotta ad uno stato di sofferenza, significherebbe individuare una
categoria di “destinati alla morte”, collocando alcune tipologie di persone al di
fuori dell’ordinamento giuridico23.
A favore della liceità della eutanasia attiva vengono invocati:
a) la pietà verso il malato incurabile e sofferente o incapace di una vita
sociale integrale;
b) l’autodeterminazione circa la propria vita;
c) il diritto di libertà sul proprio corpo; un vero e proprio diritto al suicidio
manu propria o al suicidio assistito (manu aliena), per l’asserita identità con
Contra Porzio, Eutanasia, in Enciclopedia del diritto, XVI, 1967, 109: secondo l’A., infatti, ciò
che caratterizza l’eutanasia non sarebbe tanto il consenso del paziente moribondo, quanto
piuttosto e soprattutto il motivo di pietà che anima e muove l’agente; per cui, è sempre
eutanasia la morte procurata anche in mancanza di una richiesta espressa del paziente, purché
a fondamento dell’azione ci sia, senza dubbio, il movente di pietà.
22
V. §.5.
23
In questo senso Grasso, Riflessioni in tema di eutanasia, in Quaderni della giustizia, 1986, II,
69.
21
75
questo di quello, e desumibile dal fatto che la nostra Costituzione tutela la vita
umana come diritto e non come dovere24.
Coloro che sostengono la illiceità dell’eutanasia attiva, fondano il loro
convincimento, oltre che nella violazione dei principi sopraindicati, su tre
tipologie di considerazioni25.
Innanzitutto, considerazioni di principio (morali e giuridici), rappresentate
dalla irrinunciabilità del principio della intangibilità umana: è lo stesso divieto
generale di uccidere che uscirebbe scosso dal riconoscimento della liceità
dell’eutanasia. Infrangere il tabù del non uccidere porterebbe alla sovversione
dell’ordinamento giuridico stesso con conseguenze terribili per la comunità
degli uomini, in cui troverebbero terreno fertile delitti analoghi a quelli
perpetrati durante il regime nazista (talvolta, infatti, tale argomento viene
chiamato argumentum ad Hitlerum).
Poi, considerazioni di ordine pratico, rappresentate:
a) dalla eventuale incontenibilità dell’eutanasia pietosa una volta aperta
una breccia al principio dell’intangibilità della vita. Ciò che deve far temere è
V. supra §.5. Qualora si ritenesse che il suicidio è un diritto ne deriverebbe: la liceità di tutte
le attività istigatrici e ausiliatrici del suicidio; la liceità del suicidio per mano altrui, ossia
l’omicidio del consenziente; la liceità dell’uccisione, da parte di medico e non medico, e sulla
base del semplice consenso del soggetto, di un’infinità di persone, malate e sane, anziane e
giovani, desiderose di porre fine alla propria vita, ma senza il coraggio o la possibilità di farlo
personalmente; la vanificata esigenza pratica, in nome dell’affermazione del diritto alla morte,
dell’accertamento della validità del consenso: difficile, se non impossibile, nella maggioranza
dei casi date le condizioni psichiche in cui versano normalmente gli aspiranti al suicidio;
l’inviolabilità e la garanzia costituzionale (art. 2 Cost.) di tale diritto, azionabile come pretesa
verso lo Stato, obbligato ad apprestare gli strumenti – in nome del principio di eguaglianza –
per l’uccisione di chi non è in grado di farlo di persona; la punibilità dell’intervento di
salvataggio come violenza privata e l’applicabilità della legittima difesa, a favore dell’aspirante
suicida che reagisce contro chi tenta di impedire il suicidio. Si vede, quindi, come il
riconoscimento del suicidio come un diritto, porta ad una serie di conseguenze, ad una assoluta
autodisponibilità della vita, che nessun ordinamento, non nichilista, potrebbe legittimare.
Anche il diritto al suicidio, più che un’esigenza scaturente dal basso, è la teorizzazione
ideologica di chi sta bene. Per queste osservazioni critiche al riconoscimento di un diritto al
suicidio v. Mantovani, Diritto penale. Parte speciale. Delitti contro la persona, cit., 119.
25
Per tale impostazione v. Mantovani, Diritto penale. Parte speciale. Delitti contro la persona,
cit., 73.
24
76
che, attraverso il presupposto del motivo pietoso, si arrivi ad affermare la
liceità penale di fattispecie precedentemente sanzionate, attraverso i cosiddetti
“passi successivi”.
A tal proposito bisogna ulteriormente distinguere: il caso in cui i passi
successivi configurano qualcosa di totalmente nuovo, poiché in tale ipotesi il
legislatore si troverebbe di fronte ad una valutazione del tutto nuova; dal caso
in cui i passi successivi sono già compresi nel passo precedente, ossia nella
fattispecie che si tratterebbe di legittimare26.
È proprio questo secondo caso che si verifica nel caso in esame, poiché non è
difficile passare dall’uccisione pietosa di malati terminali a quella di malati di
mente, di deformi, del vecchio, dell’handicappato. E col rischio di rendere
difficoltoso distinguere il comune omicidio dall’eutanasia;
b) dalla relatività delle diagnosi di incurabilità del male e della prognosi
della morte imminente. Infatti, è necessario prendere in considerazione i
continui progressi della medicina che, oggi, possono consentire di vincere
malattie considerate prima mortali;
c) dalla possibile sopravvenienza di nuovi trattamenti medico-chirurgici
che rendono curabili malattie prima incurabili o sopportabili malattie prima
insopportabili. È qui che trova spazio la “terapia del dolore” oggi divenuta
abbastanza efficace a seguito degli imponenti progressi della medicina. La
richiesta di essere uccisi per motivi di pietà si avvia a diventare anacronistica;
d) dal soggettivismo del limite della insopportabilità del dolore27;
Per queste osservazioni v. Orrù, La tutela della dignità umana del morente, in Vivere: diritto
o dovere? Riflessioni sull’eutanasia, a cura di Stortoni, Trento, 1992, 100 e Stella, Il problema
giuridico dell’eutanasia: l’interruzione e l’abbandono delle cure mediche, in RIML, 1984, 1013.
27
Fino a pochi anni fa, si riteneva che le sensazioni dolorose risultassero dalla trasmissione di
messaggi di avvertimento, attraverso i nervi che collegano la pelle, i muscoli e gli organi
interni al midollo spinale. Di lì tutto passava ad una regione del cervello che si pensava
incarnasse le sede della sofferenza. Per lenire il dolore, pertanto, oltre a far ricorso alla
morfina, si interrompevano i centri di trasmissione del dolore stesso, intervenendo ad esempio
chirurgicamente sui nervi periferici. Con il tempo si è acquisita la consapevolezza che il dolore
è un’esperienza soggettiva; la percezione del dolore e la sua intensità sono influenzate da
26
77
e) dalla difficoltà di accertare la definitività o meno e la serietà della
volontà di morire e la libertà e validità del consenso prestato. Infatti, dietro la
richiesta di morire, può sempre nascondersi, per il principio di conservazione,
una tenace volontà e voglia di vivere. Il malato che invoca la propria morte, ma
non attua propositi suicidi, dimostra una mancanza di determinazione della
propria volontà alla morte, e dunque non vuole la propria morte28. Chi è dotato
di esprit fort, cioè di una volontà eutanasica attuale, certa, lucida e
consapevole, tale da progettare la propria morte per mano altrui, dovrebbe, del
pari, averla per progettarla di mano propria;
f) dalla difficoltà di distinguere tra il movente altruistico della pietà e
invece un sottostante movente egoistico opportunistico29.
E, infine, considerazioni di opportunità, collegate:
a) all’intorbidimento della identità e della credibilità professionale e
morale del medico, al quale viene attribuito il tradizionale e principale dovere
di curare il malato, in piena coerenza col principio di Ippocrate: primum non
nocere. Infatti, l’eventuale possibilità per il medico di somministrare sostanze
mortali che possano abbreviare la vita del malato, potrebbe provocare tra i
aspetti esterni alla patologia stessa. Oggi è ormai noto che non esistono vie e centri specifici del
dolore; certe sofferenze, talvolta, non costituiscono neppure forme di reazione a stimoli interni
o esterni, ma sopravvengono in modo spontaneo, senza altra causa che esse stesse.
28
Così Guadagno, Il problema giuridico dell’eutanasia, in Critica penale e medicina legale,
1962, 133.
29
Per Mantovani, Eutanasia, in Digesto, IV, 1990, 427, esistono a tal proposito “sospetti sulla
autenticità di una così grande e improvvisa esplosione di umana pietà, che appare tra l’altro
anacronistica in una umanità sempre più disumanizzata e monodimensionale, sensibile alla
propria libertà più che al dovere e al servizio, al diritto proprio più che al diritto dell’altro, e
che delega agli spersonalizzati servizi sociali quella solidarietà che è incapace di prestare in
proprio”. Inoltre, secondo Manzini, Omicidio del consenziente, in Trattato di diritto penale
italiano, VIII, 104, l’uccisione, seppur motivata dalla pietà, è “negazione della pietà”. Questa è,
comunque, una falsa pietà, “tanto più che quando si ama veramente una persona malata, la
speranza non viene mai a mancare del tutto”. E si può aggiungere: “Del resto, lo stesso
prevalere del cosiddetto motivo di pietà sulla naturale avversione alla soppressione del proprio
simile, sui legami di affetto verso il proprio congiunto, rivela una personalità sanguinaria o,
perlomeno, proclive al delitto”, v. Id., Eutanasia, in Novissimo Digesto Italiano, XI, 1957, 884.
78
pazienti una sfiducia di fondo, confondendo tra loro il dovere di curarli e la
possibilità di ricorrere al “colpo di grazia”;
b) alla fuga dal pubblico ospedale dei malati, dal momento che, sulla base
del consenso presunto, potrebbero essere attuate pratiche eutanasiche.
Verrebbe, pertanto, a crearsi una situazione discriminatoria tra pazienti poveri,
costretti ad usufruire delle strutture sanitarie pubbliche, e perciò eutanasiabili,
e invece pazienti ricchi, non eutanasiabili in quanto in grado di potersi
avvalere delle strutture di cura a carattere privato.
Per concludere merita un cenno quanto D’Agostino30 afferma riguardo ad un
altro motivo di illiceità dell’eutanasia propria: essa, infatti, altererebbe in modo
inaccettabile la struttura relazionale del diritto.
L’eutanasia comporta, infatti, il coinvolgimento di due soggetti, il paziente e
l’agente/operatore, colui che dà e colui che riceve questo mandato.
Ma qual è il valore da attribuire a questo mandato? Se esso fosse sindacabile da
parte dell’operatore, allora il paziente potrebbe vedere disattese le sue
richieste, se fosse insindacabile, allora l’agente dovrebbe intervenire anche
quando ritiene che non sussistano quelle circostanze che avevano indotto il
malato a chiedere l’eutanasia.
Quindi, le decisioni dei due soggetti non necessariamente coincidono e allora
delle due l’una: o il malato è dominus della coscienza dell’agente, o l’agente è
dominus della vita del soggetto. È questa una situazione ontologicamente e
moralmente inaccettabile poiché viene a spezzarsi la relazione inter-soggettiva.
E, D’Agostino si chiede come possa una legge che legalizzi l’eutanasia
riconoscere l’eutanasia come diritto e nello stesso tempo eliminare le ambiguità
che si ricollegano al suo esercizio: a fronte del diritto all’eutanasia,
In realtà richiamando Cotta, Aborto ed eutanasia: un confronto tra discipline, in Rivista di
filosofia, 1983, 22.
30
79
l’ordinamento giuridico dovrebbe rendere altri soggetti destinatari di un
corrispondente dovere di uccidere.
Ma, qualunque cosa possa dirsi a proposito della liceità o meno dell’eutanasia,
“resta come punto fermo per ogni futura legislazione – un punto veramente
nevralgico – l’impossibilità di trasformare il “diritto alla propria morte” in
“diritto all’omicidio”31.
§9. L’EUTANASIA PASSIVA CONSENSUALE.
Nell’ambito dell’eutanasia passiva, una responsabilità del medico per aver
omesso di praticare le cure o per non averle continuate, cure necessarie ad
impedire o a posticipare la morte del paziente, potrà ravvisarsi nella misura in
cui sussista in capo al medico un obbligo giuridico di praticare o continuare le
cure, quindi un obbligo d’impedimento dell’evento, secondo il generale
principio contenuto nell’art. 40, secondo comma, del codice penale (per cui
non impedire l’evento che si ha l’obbligo giuridico d’impedire equivale a
cagionarlo)32.
A questo proposito, è fondamentale il ruolo che svolge il consenso del paziente,
dovendosi, anche qui distinguere l’eutanasia passiva nella sua forma
consensuale o non consensuale.
L’eutanasia passiva consensuale o volontaria, trattandosi, in realtà, di un
“rifiuto delle cure” da parte del paziente, è, forse, l’ipotesi meno controversa
essendole riconosciuta una certa autonoma rilevanza in vista della massima
espansione del diritto all’autodeterminazione del paziente.
L’affermazione è di Stella, Il problema giuridico dell’eutanasia: l’interruzione e l’abbandono
delle cure mediche, cit., 1012.
32
Art. 40 c.p.: “Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se
l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l’esistenza del reato, non è conseguenza della sua
azione od omissione. Non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire,
equivale a cagionarlo”.
31
80
È in base al diritto del soggetto, costituzionalmente garantito (art. 32 com. 2
Cost.) di non curarsi e di lasciarsi morire che il rifiuto delle cure deve
considerarsi lecito33.
Infatti, in ragione del principio personalistico del consenso, ogni intervento sul
soggetto deve fondarsi su questo e, appunto per questo, ne deriva che a) il
dovere del medico di curare postula e trova fondamento sul preventivo
consenso del soggetto; b) che il paziente può rifiutare le cure; c) che, in caso di
rifiuto delle cure, cessa l’obbligo giuridico del medico di curare e sorge il
dovere di rispettare la volontà del paziente; deve pertanto riconoscersi un
diritto insopprimibile della persona alla libera determinazione nei confronti
dell’aggressione medica a fini diagnostici e terapeutici34.
Trattandosi di un rifiuto delle cure da parte del paziente, viene suggerito di
abbandonare l’equivoca espressione di eutanasia passiva consensuale35.
Un caso particolare è costituito dal rifiuto delle cure per motivazioni religiose,
in particolare il rifiuto dei testimoni di Geova delle emotrasfusioni36.
La cronaca riporta il c.d. “caso della signora Maria”, avvenuto agli inizi del 2004 relativo al
rifiuto da parte di un’anziana donna dell’intervento salvavita di amputazione di un arto. Il
diritto al rifiuto delle cure fu avvalorato dal ministro della salute Sirchia. La donna morì
qualche mese dopo a casa sua nel rispetto della sua decisione. V. Immacolato-BoccardoManconi-Ratti, Nello stato vegetativo permanente i trattamenti di sostegno vitale possono
essere rifiutati? Un punto di vista medico-legale, in Bioetica, 2005, 107.
34
“Diversamente argomentando si degraderebbe la medicina al rango di potenziale e
rischiosissimo strumento di sopraffazione dell’individuo, del suo atteggiarsi e del suo dissentire,
in una parola della sua libertà”, v. Barni-Dell’Osso-Martini, Aspetti medico-legali e riflessi
deontologici del diritto di morire, in RIML, 1981, 29.
35
Così Mantovani, Eutanasia, in Digesto, IV, 1990, 427 e D’Agostino, Non è di una legge che
abbiamo bisogno, in Il diritto di morire, a cura di Semplici, Bologna, 2002, 28, per il quale “un
paziente che rifiuti di farsi curare, anche quando sa che il rifiuto delle cure lo porterà a morte,
non può essere identificato come un paziente che chiede e ottiene l’eutanasia”.
36
Questo problema da parte di certa giurisprudenza è stato risolto nel senso dell’imposizione,
ma rispetto al quale è necessario distinguere: se il soggetto dissenziente è capace, il suo rifiuto
andrà rispettato, poiché non vi è alcuna norma legislativa che preveda l’obbligatorietà del
trattamento e poiché vale il principio dell’autodeterminazione. Se, invece, il paziente è
materialmente incapace di prestare il consenso perché incosciente, può farsi leva sul consenso
presumibile; il dilemma per il medico sorge allorquando il soggetto porta con sé una
dichiarazione scritta di rifiuto. In tal caso sembra prevalente il dovere del medico di
intervenire (in dubio pro vita), anche perché il dissenso non è attuale e perché si può
33
81
È stata, tuttavia, sollevata la questione circa una possibile affinità tra eutanasia
attiva ed eutanasia passiva tutte le volte in cui, questa ultima, si realizza
materialmente con un agire attivo e non con un’omissione pura, e
precisamente, con un’interruzione attiva delle cure cui segue l’evento mortale:
infatti, che differenza c’è tra chi inietta un farmaco mortale e il
comportamento di chi stacca dal malato il respiratore artificiale?
Guardando al risultato non pare esserci differenza alcuna: sia l’iniezione sia
l’interruzione della respirazione artificiale conducono alla morte.
E, parimenti, guardando al comportamento, è indubbia una qualche
similitudine: è attivo il comportamento di chi stacca il respiratore così come il
comportamento di chi pratica l’iniezione.
Sembrerebbe, pertanto, logico ammettere un’identica valutazione penale di
entrambe le forme eutanasiche, quella attiva e quella passiva: in entrambi i casi
si avrebbe un’attiva causazione della morte che dovrebbe indurre il legislatore
ad un identico giudizio di illiceità.
Ma, ammettendo questa ricostruzione, si dovrebbe anche sostenere
l’inesistenza di limiti allo sforzo medico, all’uso di tecniche rianimatorie,
neppure in presenza di un valido consenso informato del paziente alla
interruzione delle terapie. La conclusione sarebbe costituita da una sorta di
illimitato “accanimento terapeutico”, la cui violazione darebbe vita ad una vera
e propria ipotesi di omicidio.
presumere che l’istinto di conservazione, nella media dei casi, tenda a prevalere di fronte
all’incombenza della morte. Se il dissenso alla trasfusione proviene dal genitore (è l’ipotesi del
minorenne che più di frequente interviene nella pratica), il problema diventa più complesso
venendo a confronto il dovere giuridico del genitore di curare e far curare la salute dei figli e il
dovere di educare anche nella religione da essi professata. La risposta è unanime: i genitori
sono liberi di decidere per se stessi, ma non possono avere questa libertà rispetto ai figli, nei
confronti dei quali prevale il dovere di mantenere prima ancora che di istruire ed educare,
affinché possano diventare maturi e, quando tali, siano in grado di effettuare le loro scelte. V.
più ampiamente Portigliatti-Barbos, Il diritto di rifiutare le cure, in Digesto delle discipline
penalistiche, IV, 1990, 33 e Mantovani, Diritto penale. Parte speciale. I delitti contro la
persona, Padova, 2005, 65.
82
Dunque, anche in questo caso, la soluzione va cercata sul terreno delle regole
dell’omissione: bisogna, cioè, chiedersi se il medico abbia o non abbia omesso
di praticare le cure che era tenuto a praticare.
Innanzitutto, appare ragionevole sostenere l’opinione che ritiene riconducibili
al concetto di omissione di cure mediche anche comportamenti che si
concretano in un’azione attiva37 (es. l’interruzione della respirazione
artificiale); quindi, se anche queste pratiche attive sono definibili come
comportamenti medici omissivi, allora ben si comprende come siano in gioco
le regole che disciplinano non le azioni attive, ma le omissioni.
Ora, il nostro sistema non solo non vieta, ma riconosce il “diritto di non
curarsi”, espressione del divieto di trattamenti sanitari obbligatori, come visto,
sancito dall’art. 32, comma II, Costituzione.
E, una volta acquisito che il paziente ha diritto di non curarsi e di lasciarsi
morire, per il medico sorge il dovere di rispettarne la volontà, non sussistendo
più l’obbligo giuridico di intervento, l’obbligo di cura, ma anzi sorgendo il
dovere di rispettare la contraria volontà del paziente, e quindi l’obbligo di
Il problema dell’interruzione delle terapie si colloca nell’ambito del tema relativo
all’interruzione di un processo causale di salvataggio, in cui il processo mortale deve essere
attribuito all’interruzione di un’attività precedentemente iniziata. La produzione dell’evento
mortale suole essere ricondotta nell’ambito della causalità omissiva poiché l’evento, appunto, si
è prodotto senza aver innescato un processo attivo, ma a seguito di un autonomo processo
patologico. Pertanto, sebbene sotto il profilo fattuale la condotta si configuri come un
comportamento attivo, si è affermata l’idea che questa condotta, sul piano normativo assume il
significato di un’omissione. È stata elaborata dalla letteratura giuridica tedesca, a proposito, la
figura giuridica del reato omissivo mediante commissione. Punto centrale è che non c’è alcuna
differenza tra l’interruzione di terapie già intraprese e rinuncia ab initio a somministrarle,
giacché il medico in entrambi i casi non ha instaurato il processo causale che porta alla morte
del paziente, ma subentra in un processo già messosi in moto autonomamente. Così Magro,
Eutanasia e diritto penale, Torino, 2001, 153, che aggiunge “è sul terreno della causalità che si
coglie la caratterizzazione dell’eutanasia passiva: è tale la condotta di chi non impedisce
l’evento morte, la cui causa non è costituita da una condotta umana, è un’omissione, anche
quando la condotta è propriamente attiva. […] L’aspetto che assume rilievo è l’inesistenza degli
obblighi di cura, in presenza del limite costituito da una diretta gestione e tutela del titolare del
bene protetto, che rifiuta la cura”.
37
83
omettere le cure38. Infatti, qualora il paziente, debitamente informato e capace
di prestare un valido consenso (c.d. “competente”), abbia richiesto
l’interruzione delle terapie di sopravvivenza, e pertanto accetta le conseguenze
mortali della sua malattia, si ritiene che questa volontà costituisca un limite
invalicabile oltre il quale lo sforzo medico deve fermarsi39.
Trova applicazione, in questo caso, il principio “voluntas aegroti suprema lex”
(che sostituisce l’altro del “salus aegroti suprema lex”); il desiderio del paziente
di morire in pace deve apparire degno del massimo rispetto ed è tale da
esonerare il terapeuta da ogni intervento e lo solleva da ogni responsabilità. Il
medico, infatti non viene a porre in essere alcuna omissione giuridicamente
rilevante e la morte non è imputabile alla sua omissione40.
Di conseguenza, mentre la volontà del malato non esclude l’illiceità penale
dell’eutanasia attiva, il rifiuto dell’intervento terapeutico da parte del paziente
esclude una responsabilità omissiva del medico41.
Contra Seminara, Riflessioni in tema di suicidio e di eutanasia, in Riv. it. dir. proc. pen.,
1995, 696, secondo il quale di fronte alla richiesta del paziente circa l’interruzione delle terapie
viene, sì, meno l’obbligo giuridico del medico e quindi la sua condotta diviene lecita, ma non
sorge per il sanitario un obbligo di soddisfare il desiderio del paziente, non diventando
l’interruzione doverosa; non sussisterebbe, infatti, per l’A. un diritto per il paziente, ma una
mera libertà di lasciarsi morire, così come il medico resterebbe libero di seguire la sua
coscienza.
39
Ciò trova conferma, anche, all’art. 31 del codice di deontologia medica (1998) “[…] In ogni
caso, in presenza di esplicito rifiuto del paziente capace di intendere e di volere, il medico deve
desistere da qualsiasi atto diagnostico e curativo, non essendo consentito alcun trattamento
medico contro la volontà del paziente, ove non ricorrano le condizioni di cui al successivo art.
33 [trattamento sanitario obbligatorio]”.
40
Contro questa ricostruzione, si ha un non trascurabile orientamento, più rigoristico, che
interpreta diversamente l’art. 32, II comma Cost. e arriva ad affermare che il paziente non può
rifiutare le cure vitali, tale rifiuto equivalendo ad una richiesta di morte non consentita dal
diritto positivo; quindi la sospensione del trattamento o l’omissione delle cure costituirebbe un
comportamento, pur omissivo, ma penalmente rilevante. V. Eusebi, Omissione dell’intervento
terapeutico ed eutanasia, in Arch. pen., 1985, 525.
41
Per Mantovani, Diritto penale. Parte speciale. I delitti contro la persona, cit., 75, la
identificazione dei due casi viene invocata per affermare la liceità della eutanasia attiva. Ma la
tesi non regge; infatti, la distinzione tra eutanasia attiva e eutanasia passiva non è messa in crisi
dall’invocato dato dell’interruzione delle cure, su richiesta del malato, mediante un
comportamento attivo (ad es.: distacco del respiratore), dal momento che questo: a) rientra,
stante il principio dell’incoercibilità delle cure (art. 32/2 Cost.), nel rifiuto delle stesse, che
38
84
Ammessa, quindi, la liceità del rifiuto delle cure, si presenta un ulteriore
problema: la volontà di lasciarsi morire, come abbiamo detto, deve manifestarsi
per mezzo di un consenso validamente prestato da parte di un soggetto
competente; tuttavia, questo atto di volontà deve essere caratterizzato da una
serie di requisiti che non sono facilmente riscontrabili in malati gravi e
terminali. Sul piano pratico, pertanto, il rifiuto delle cure si presenta come un
qualcosa di eccezionale. Tale consenso deve essere42:
a) personale, perché nessun soggetto può autorizzare l’altrui sacrificio; né
il rappresentante legale, poiché questi ha titolo esclusivo per consentire agli
interventi a favore e non a danno della salute del rappresentato, né i congiunti
per la ragione che la legge non riconosce loro alcun potere di rappresentanza e
che meri rapporti familiari o di parentela non garantiscono circa la miglior
rappresentanza e tutela degli interessi del malato43;
b) reale, cioè espresso e non presunto;
c) autentico, quindi non apparente ma consapevole, libero non solo dai
tradizionali vizi, ma da ogni forma di coartazione o suggestione del medico o
dei terzi;
d) valido, cioè prestato da soggetto capace per età e per condizioni
psichiche di esprimere validamente la propria volontà;
e) informato, cioè fondato sulla consapevolezza del proprio stato.
Soprattutto al malato terminale la verità dovrebbe essere detta interamente
abbraccia sia la prestazione di nuove cure sia la cessazione di quelle già in atto e converte
l’obbligo di curare nell’obbligo di cessare le cure; b) resta, pertanto, lecito, nonostante l’attuale
incriminazione dell’eutanasia attiva.
42
Per tale impostazione v. Mantovani, Diritto penale. Parte speciale. I delitti contro la persona,
cit., 75.
43
V. Corte d’Appello di Milano, Decreto 31 dicembre 1999 in Foro Italiano, 2000, I, 2021 ss,
che dichiara non accoglibile il ricorso con cui il tutore e padre di un interdetto chiedeva
l’autorizzazione ad interrompere le cure mediche che consentono di protrarre lo stato
vegetativo, nonché l’alimentazione artificiale. Tra l’altro in questa sede la Corte d’Appello di
Milano ha fatto propria la tesi secondo la quale la perdita irreversibile della coscienza
costituisce il limite ad ogni trattamento medico, sollevando, tuttavia, la questione
dell’incertezza dei criteri scientifici di definizione (v. infra).
85
senza togliere, tuttavia, la speranza. Infatti, se il malato conosce la verità può
collaborare con il medico sia al fine della guarigione sia, se questa non è più
possibile, al fine di una serena residua sopravvivenza. “Fino a tempi recenti
dire la verità è stato ritenuto nobile ma utopistico o impossibile dato il
comando ippocratico non nocere”44. Peraltro, solitamente, il medico tace al
moribondo la verità che gli appartiene, così come insegnavano la scuola
ippocratica, le scuole mediche medievali e i grandi clinici del passato45.
Anche la letteratura, con il “si voltò dall’altra parte” del tolstojano Ivan Ilijc di
fronte alla menzogna che contornava il suo trapasso nella solitudine, pur se
contornato dai parenti, è stata presaga di quella congiura del silenzio che è
divenuta la dolorosa regola attuale;
f) attuale o persistente, non essendo sufficiente una qualsivoglia volontà
espressa in un periodo precedente, data la mutabilità di pareri in merito e i
seguenti dubbi del medico circa la fermezza della volontà precedentemente
Citazione da Toscani, Ancora sul dire la verità ai malati, in Bioetica, 2001, 510.
Il consenso, infatti, non può essere dato senza un’adeguata informazione. Il codice di
deontologia medica (1998), che ha sostituito quello del 1989 che su questo punto lasciava al
medico la facoltà di giudicare, nella nuova versione afferma che la verità deve essere detta;
infatti, l’art. 29 dichiara che “il medico ha il dovere di dare al paziente, tenendo conto del suo
livello di cultura e di emotività e delle sue capacità di discernimento, la più serena e idonea
informazione sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive terapeutiche e sulle verosimili
conseguenze della terapia e della mancata terapia. […] Le informazioni riguardanti prognosi
gravi o infauste o tali da poter procurare preoccupazioni e sofferenze particolari al paziente,
devono essere fornite con circospezione […]”. Sul punto, in particolare, v. Mantovani, Il
consenso informato: pratiche consensuali, in RIML, 2000, 11, il quale sostiene che, in caso di
prognosi grave o letale, tra il diritto del malato di sapere e il dovere del medico di tacere
pietatis causa, prevarrebbe il diritto del malato di essere informato, qualora manifesti
un’autentica volontà ferma, ribadita di conoscere la verità, avendo il diritto di programmare la
propria residua vita e la propria morte. Mentre, si dovrebbe avere un’attenuazione del dovere
di informare integralmente negli altri casi; il medico non deve illudere, ma, senza negare la
serietà del male, dovrebbe, comunque, non privare il malato della speranza. Inoltre, anche la
Raccomandazione n. 779/1976 dell’Assemblea del Consiglio d’Europa, relativa ai diritti dei
malati e dei morenti, riconosce che i medici devono prima di tutto rispettare la volontà
dell’interessato circa il trattamento da applicare; si riconosce, altresì, il diritto dei malati alla
dignità e all’integrità, e il diritto all’informazione e alle cure appropriate, v. AA.VV., Il codice
di deontologia medica, a cura di Introna-Colafigli-Tantalo, Milano, 1996, 318.
44
45
86
espressa. In caso di dubbio, il medico deve praticare la cura: in dubio pro vita;
se c’è anche una sola, esile, speranza, non è ammissibile interrompere le cure46.
Un ruolo discusso, ma sempre più emergente, viene assegnato alla valutazione
di eventuali dichiarazioni scritte, manifestazione della volontà di rinuncia alle
terapie, rilasciate nel tempo in cui il soggetto era capace di decidere, per
l’eventualità in cui fossero, nel tempo, sopraggiunte patologie gravi con perdita
di coscienza.
Il testamento biologico o di vita (o living will) 47 nasce come risposta ai timori
riguardo l’accanimento terapeutico soprattutto nei paesi anglosassoni48, ma
Il contrario argomento in dubio contra vitam afferma che un consenso presunto sarebbe
richiesto per l’ammissibilità della continuazione del mantenimento in vita del paziente, mentre
la sospensione dei trattamenti sarebbe lecita ogni volta che non vi siano ragioni di sperare in
una ripresa. V. Cornacchia, Euthanasia. Il diritto penale di fronte alle scelte di fine vita, in
Teoria dir. e Stato, 2002, 3, 374,
47
Il testamento biologico rientra in quelle che prendono il nome di direttive anticipate,
finalizzate ad esprimere in vita le proprie volontà riguardanti il proprio morire. Il movimento
che ne ha auspicato la promozione ha avuto inizio negli Stati Uniti con la legge n. 3060 del
1976, nota come Natural Death Act (legge sulla morte naturale) che per primo riconobbe il
diritto del paziente a disporre per iscritto in ordine alla somministrazione di terapie nel caso di
sopraggiunta incapacità. Fa parte della categoria delle direttive anticipate anche la c.d. procura
sanitaria che contiene la designazione di una o più persone che dovranno decidere dei
trattamenti che il firmatario deve ricevere, nel caso in cui quest’ultimo non sia più in grado di
esprimere la propria volontà. I documenti di questo tipo sono semplici in quanto l’interessato
firma una delega in bianco in cui dichiara di fidarsi e accettare le decisioni del fiduciario. Nei
paesi d’oltre oceano, addirittura, è previsto anche l’istituto del giudizio sostitutivo del terzo
(substitute judgement) per i casi in cui una persona ormai incapace non ha compiuto una scelta
mentre era capace. Come trovare una scelta dove non c’è? I tribunali hanno risposto sulla base
di ciò che il paziente avrebbe scelto, cioè cosa questo paziente avrebbe scelto se fosse stato
capace di valutare la propria situazione, tenendo conto degli interessi, delle preferenze, dello
stile ed ideali di vita del paziente. Si tratta di ricostruire ipoteticamente il consenso del
paziente, ovvero quale sarebbe stata la sua volontà avvalendosi di esternazioni fatte in stato di
capacità sfornite tuttavia dei requisiti propri dei testamenti di vita. V. per tutti Kadish,
Consenso a morire e pazienti incapaci, in Vivere: diritto o dovere. Riflessioni sull’eutanasia, a
cura di Stortoni, Trento, 1992, 189 ss.
48
Nota è la pronuncia sul famoso caso statunitense Cruzan: il problema affrontato fu quello di
chi e sulla base di quali criteri debba prendere le decisioni terapeutiche quando un paziente
non è cosciente e non ci sono possibilità di recupero delle sue facoltà cognitive. Nancy Cruzan,
nel 1983, rimase vittima di un incidente stradale a seguito del quale era precipitata in uno stato
di coma dimostratosi, poi, uno stato vegetativo persistente. I suoi genitori, cinque anni dopo
l’incidente, iniziarono la battaglia affinché alla ragazza venisse riconosciuto il diritto di morire.
Di giudizio in giudizio il caso arrivò alla Corte Suprema degli Stati Uniti che nel giugno del
1990 approvò, con cinque voti a favore e quattro contro, una sentenza che ha precorso i tempi.
46
87
ormai ha trovato spazio anche in tutti i paesi d’Europa, ed anche in Italia49.
Presenta analogie con il testamento ordinario in diritto successorio, trattandosi
nell’un caso di disporre della destinazione dei propri beni dopo la morte,
nell’altro della sorte del proprio corpo infermo in caso di sopravvenuta
incapacità. Ovviamente, non è sostenibile una vera analogia, dal momento che
il testamento di vita non è finalizzato a regolare, post-mortem, una situazione
patrimoniale, ma è un atto tra vivi, destinato a divenire operante, quando colui
Proprio sulla volontà della paziente si fondò la seconda parte della sentenza. I giudici, infatti,
accordarono a tre amici di Nancy di testimoniare. I giovani ricordarono che la ragazza aveva
espresso il desiderio, qualora si fosse trovata nelle condizioni in cui poi realmente venne a
trovarsi, di morire. I giudici ammisero come convincente questa testimonianza. Nancy poteva
morire. Il 15 dicembre 1990 furono rimossi i tubi che l’alimentavano e la idratavano e dopo
pochi giorni la donna morì.
49
Il 22 febbraio 1999 è stata presentata alla Camera dei deputati italiana la proposta di legge
5673 contenente “Disposizioni in materia di consenso informato e dichiarazioni di volontà
anticipate nei trattamenti sanitari”. Successivamente, il 29 giugno 2000, il medesimo testo è
stato proposto al Senato, con il numero 4694. Attualmente, dal 23 maggio 2003, questa
proposta giace al Senato come proposta di legge n. 2279. A giudizio dei proponenti,
precondizione necessaria affinché una persona possa esercitare consapevolmente un atto di
autodeterminazione, libero e consapevole, nei confronti di qualsiasi trattamento è che venga
meno quell’atteggiamento paternalistico proprio della cultura medica italiana (v. supra §.5) e
che “determina la frequente esclusione della persona stessa dalla possibilità di intervenire nei
momenti decisionali cruciali” (relazione alla proposta di legge). Ma cuore normativo della
proposta è costituito dall’art. 2, comma 1, che riconosce a ogni persona capace “il diritto di
prestare o negare il proprio consenso in relazione ai trattamenti sanitari che stiano per essere
eseguiti o che siano prevedibili nello sviluppo della patologia in atto. La dichiarazione di
volontà può essere formulata e restare valida anche per il tempo successivo alla perdita della
capacità naturale. Il rifiuto deve essere rispettato dai sanitari, anche qualora ne derivasse un
pericolo per la salute e per la vita, e li rende esenti da ogni responsabilità”. Inoltre, all’art. 3,
comma 2, è previsto l’istituto della procura sanitaria, che garantisce la facoltà del paziente di
“indicare una persona di fiducia la quale, nel caso in cui sopravvenga uno stato di incapacità
naturale valutato irreversibile allo stato delle conoscenze scientifiche, diviene titolare in sua
vece dei diritti e delle facoltà di cui agli articoli 1 [consenso informato] e 2”. Il disegno di legge
prevede, inoltre, quale onere di forma per il testamento di vita, la scrittura privata autenticata
da pubblico ufficiale. Vinciguerra, Prospettive nella legislazione italiana, in Bioetica, 2, 2001,
88, ritiene, commentando questo disegno di legge, che occorre che questo tipo di dichiarazione
venga circondato da serietà e cautela e, quindi, avere dei protocolli, così come avviene in
Olanda (supra §3). Anche il Codice di deontologia medica del 1998 riconosce le direttive
anticipate all’art. 34: “il medico, se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà in
caso di grave pericolo di vita, non può non tenere conto di quanto precedentemente
manifestato dallo stesso”.
88
che lo ha redatto è ancora vivo, anche se non più capace di formulare
validamente la sua volontà50.
Con tali testamenti biologici, si fornisce al medico un documento tramite il
quale il sanitario può ricostruire la volontà del paziente, in modo che
l’eventuale sospensione o prosecuzione dei trattamenti risulti fondata da un
consenso dello stesso.
Per quanto riguarda la forma con cui questo atto di volontà può essere
manifestato è varia, potendosi avere anche testi standardizzati.
Ma, il nodo centrale di tutta la problematica che ruota intorno ai testamenti di
vita è costituito dalla loro vincolatività, generalmente non riconosciuta, sotto
un duplice profilo: per il medico curante, che può anche disattendere la
volontà del suo paziente, e per l’ordinamento giuridico, che non tiene conto di
tali disposizioni ai fini dell’esenzione della responsabilità del sanitario che vi si
sia adeguato.
Molte sono le ragioni di perplessità e di diffidenza che la dottrina giuridica e
medico-legale maggioritaria avanzano riguardo ai testamenti di vita e alla loro
introduzione nell’ordinamento giuridico italiano51.
Il valore non imperativo per il medico curante trova la sua ragion d’essere nella
non attualità della volontà di colui che redige il testamento nel momento in cui
deve essergli data esecuzione, e nella mutabilità dei pareri in merito52; infatti,
una cosa è una scelta fatta mentre il soggetto si trovava in una situazione di
benessere “quando la non incombenza dell’evento morboso consentiva una
V. Portigliatti-Barbos, Diritto di morire, in Digesto delle discipline penalistiche, cit., 9.
In Europa, hanno dato riconoscimento giuridico al testamento di vita la Danimarca, la
Germania, l’Olanda e il Belgio.
52
Così Mantovani, Diritto penale. Parte speciale. Delitti contro la persona, cit., 75; PortigliattiBarbos, Diritto a morire, in Digesto delle discipline penalistiche, cit.,10; Barni, Sull’alterna”
fortuna” della nozione di eutanasia, in RIML, 1985, 425; Cassano, Un concetto giuridicamente
complesso, in Il diritto di morire bene, a cura di Semplici, Bologna 2002, 101.
50
51
89
valutazione astratta, distaccata dalle reali angosce di una vita che fugge”53, altra
cosa, invece, è una decisione presa da chi prende conoscenza delle sue
condizioni disperate.
Quindi, ciò che conta è l’espressione immediata o la conferma inequivoca di
una libera e responsabile volontà del paziente; in caso contrario non può che
prevalere la potestà del medico.
Un ulteriore rilievo, spesso avanzato nel dibattito sulle dichiarazioni anticipate,
è il loro linguaggio; può essere difficile per un soggetto definire in modo esatto
le situazioni patologiche in relazione alle quali intende fornire la sua volontà
anticipata e questa sua incompetenza medica potrebbe essere motivo di
ambiguità e quindi di dubbi nel momento della sua interpretazione da parte del
medico.
In senso favorevole ad un intervento legislativo finalizzato a dare attuazione
alla Convenzione di Oviedo in materia di testamento di vita54 si è espresso
anche il Comitato Nazionale per la Bioetica, Dichiarazioni anticipative di
trattamento, attraverso un parere datato 18 dicembre 2003 finalizzato a
stimolare e orientare l’attività del legislatore italiano in materia55.
Cito Mantovani, Diritto penale. Parte speciale. Delitti contro la persona, cit., 75. Nello stesso
senso la riflessione di Vinciguerra, Prospettive nella legislazione italiana, cit., 89: “L’esperienza
dimostra che l’uomo nel corso degli anni cambia e spesso cambia profondamente. Talora
cambia anche nelle convinzioni radicali. Ha senso che una dichiarazione rilasciata con la
visione della vita che si ha a 25 anni, possa poi essere applicata a quel soggetto quando ne ha
sessanta?”.
54
Ad introdurre un elemento evolutivo nel sistema normativo italiano, pur del tutto generico,
è stata la Convenzione di Oviedo sui diritti dell’uomo e la biomedicina, approvata dal Consiglio
d’Europa il 4 aprile 1997 e ratificata dall’Italia con legge n. 145 del 28 marzo 2001. Il capitolo II
della convenzione, dedicato al consenso informato nei trattamenti sanitari, introduce due
principi: l’art. 5 ribadisce il principio del consenso informato, l’art. 9 rimanda al tema del
testamento di vita, introducendo, se non il principio del suo pieno valore vincolante, quello
della sua rilevanza. Art. 9 “Saranno prese in considerazione le volontà espresse
precedentemente in relazione all’intervento medico dal paziente che, al momento
dell’intervento, non è in grado di esprimerle”; si tratta di un’affermazione poco impegnativa e
pacata, ma rappresenta un dato su cui il nostro ordinamento dovrà inevitabilmente
confrontarsi.
55
Nel dettaglio, il Comitato, che si è preoccupato di individuare delle forme per garantirne
l’attendibilità, ritiene opportuno: a) che il legislatore intervenga esplicitamente in materia; b)
53
90
§10. L’EUTANASIA PASSIVA NON CONSENSUALE.
Alla luce del principio personalistico, è illecita.
Infatti, in caso di mancanza di una precisa ed espressa determinazione del
paziente, sia in senso negativo che positivo, in ordine alla prosecuzione o
interruzione delle cure, rimane a carico del medico un obbligo giuridico di
prosecuzione nel trattamento, anche se la malattia è incurabile, la morte
imminente e il trattamento può procrastinare la vita solo per un breve periodo.
In tal caso, l’interruzione o l’omissione delle cure da luogo ad un’omissione
penalmente rilevante, e quindi (per giurisprudenza costante) ad una
responsabilità a titolo di omicidio ai sensi dell’art. 40, comma II, in quanto
l’obbligo di garanzia del medico ricomprende, in via primaria, il dovere di
guarire, e in via subordinata, il dovere di mantenere in vita il paziente il più
possibile.
Un problema che si pone in relazione all’eutanasia passiva, è quello della
inutilità della cura, che viene spesso invocato, a favore dell’eutanasia, come
limite al dovere giuridico di curare: cioè l’omissione o l’interruzione della
terapia nelle ipotesi di malattia irreversibile o di morte imminente sarebbe
penalmente irrilevante perché l’inutilità della cura farebbe venir meno
l’obbligo del medico56.
Tuttavia dobbiamo fare una distinzione: infatti, come visto in precedenza,
quando è cosciente, solo il malato, seppur incurabile e comunque prossimo alla
che la legge obblighi il medico a prendere in considerazione le dichiarazioni anticipate,
escludendone espressamente il carattere vincolante, ma imponendogli, sia che le attui, sia che
non le attui, di esplicitare le ragioni della sua decisione; c) che le dichiarazioni anticipate
possano eventualmente indicare i nominativi di uno o più soggetti fiduciari, da coinvolgere
obbligatoriamente, da parte dei medici, nei processi decisionali a carico dei pazienti divenuti
incapaci di intendere e di volere.
56
V. Barni-Dell’Osso-Martini, Aspetti medico-legali e riflessi deontologici sul diritto di morire,
in RIML, 1981, 53: “L’omissione del medico non è delittuosa allorché sussiste il rifiuto del
paziente ovvero il dovere giuridico di curare trova il proprio limite logico ed umano nella
stessa inutilità della cura”.
91
morte, può consentire o meno alla interruzione o alla prosecuzione delle
terapie, solo il malato competente può decidere se la procrastinazione, seppur
brevissima, della sua vita, gli offra una possibilità di realizzare se stesso57 .
Gli aspetti più problematici relativi all’omissione o all’interruzione delle cure,
in caso di inutilità delle stesse, si presentano in relazione alle ipotesi in cui il
paziente non sia capace di decidere autonomamente perché in stato di
incoscienza (o perché infermo di mente)58 e non esista più alcuna speranza di
guarigione59.
Si apre, qui, la strada alla tematica dell’esigenza del rifiuto dell’accanimento
terapeutico (termine introdotto nel linguaggio medico francese agli inizi degli
anni cinquanta, acharnement thérapeutique), invocato a favore dell’eutanasia
passiva60.
V. Stella, Il problema giuridico dell’eutanasia: l’interruzione e l’abbandono delle cure
mediche, in RIML, 1984, 1019.
58
Del resto, per Mantovani, Eutanasia, in Digesto, IV, 1990, 428, si tratterebbe di un falso
problema, in quanto o è dire cosa ovvia che il medico non è più tenuto alla cura, in presenza di
un malato moribondo, giacché già incombe su di lui una morte certa per cui la terapia non
servirebbe a prolungare in modo apprezzabile la sua vita. In tal caso è sufficiente richiamarsi
alla normale deontologia medica per cui in tutti i casi in cui l’omissione o l’interruzione della
cura non è giuridicamente causa o concausa della morte o di una sua apprezzabile
anticipazione verseremmo al di fuori di una ipotesi di eutanasia passiva, mancando il fatto
stesso dell’uccisione. O si tratterebbe di una affermazione pericolosa se il concetto di inutilità
della cura venisse inteso in senso ampio “tale da giustificare un’apprezzabile anticipazione della
morte e, quindi, da comportare il passaggio alla eutanasia passiva”.
59
È con riferimento a queste ipotesi, che sono le più frequenti nella pratica, che i medici hanno
reclamato uno “spazio libero dal diritto”, con la possibilità di decidere secondo il proprio
giudizio discrezionale e la propria coscienza.
60
Il concetto di accanimento terapeutico non ha dei contorni concettuali precisi né di tipo
clinico, né etico, né giuridico. L’espressione è contestata, addirittura, da parte medica in quanto
si ritiene sia espressiva di un giudizio di forte disvalore: infatti, pare sottolineare l’aspetto
dell’aggressione nei confronti della vittima indifesa, escludendo il carattere di impegno
curativo. L’accanimento è espressione di un’ostinazione fine a se stessa. Gli anglosassoni hanno
coniato per questa ipotesi il termine “futilità medica”. D’Agostino, Non è di una legge che
abbiamo bisogno, in Il diritto di morire bene, a cura di Semplici, Bologna, 2002, 29, definisce
l’accanimento terapeutico come “tutte quelle pratiche mediche estreme e di carattere
eccezionale, non proporzionate alla situazione sanitaria reale del paziente, che vengono poste
in essere più per una finalità di carattere narcisisticamente tecnologico che per rispondere ad
un bisogno autentico del paziente stesso”. Secondo l’A., ovviamente, rinunciando
all’accanimento terapeutico, si ha un processo di accelerazione nelle dinamiche che portano
alla morte, come, invece e al contrario, la pratica dello stesso, può garantire un prolungamento
57
92
Tale concetto si è affermato a seguito dell’avvento delle tecniche di
rianimazione che ha portato con sé un’accentuazione della gradualità del
passaggio dalla vita alla morte (la morte non più evento ma processo), avendo
reso possibile una dissociazione, anche se in modo artificioso, dell’indissolubile
tripode dell’attività nervosa, respiratoria, cardiocircolatoria, con la seguente
sottoposizione di malati a tali tecniche per lunghi periodi e senza esito e in
relazione a queste ipotesi si è, appunto, affermato il concetto di accanimento
terapeutico.
Il termine di accanimento terapeutico dovrebbe esprimere un limite nella
pratica clinica che dia conto delle ragioni per le quali dei trattamenti in astratto
somministrabili, non vengono nel caso concreto praticati perché ritenuti
inaccettabili in sé o per il risultato che producono.
In proposito, va affermandosi in parte della dottrina, l’idea che il medico possa
interrompere il trattamento e assumere direttamente una decisione medica di
fine vita già prima della morte encefalica 61, pur in assenza di disposizioni da
della sopravvivenza “materiale” del moribondo. Ma è presente un consenso pressoché unanime
sul fatto che l’accanimento terapeutico “non solo non sia doveroso, ma da condannare
eticamente”. Almeno sotto il profilo deontologico e morale è un illecito, soprattutto quando vi
sia la precisa opposizione del paziente in ordine alla prosecuzione delle cure. Aggiunge l’A. “il
punto fermo è che, quando il paziente viene sottratto all’accanimento terapeutico e muore,
nessuno è legittimato a dire che gli è stata praticata l’eutanasia”. Per Monticelli, Eutanasia,
diritto penale e principio di legalità, in Indice penale, 1998, 478, l’accanimento terapeutico si
verifica quando “vi è sproporzione tra la rilevanza dei mezzi usati e il carattere provvisorio e
limitato del risultato medico previsto: un conto è tentare quando esiste una speranza
ragionevole di guarigione, altro è invece strafare”. Il documento del Comitato Nazionale di
Bioetica, Questioni bioetiche relative alla fine della vita umana, del 14 luglio 1995, in
www.palazzochigi.it/bioetica/pareri.html, definisce l’accanimento terapeutico “un trattamento
di documentata inefficacia in relazione all’obiettivo, a cui si aggiunga la presenza di rischio
elevato e una particolare gravità per il paziente con ulteriore sofferenza, in cui l’eccezionalità
dei mezzi risulti sproporzionata rispetto agli obiettivi”.
61
Ormai, nella realtà medica-scientifica, etica, giuridica è un dato acquisito, che la morte si
verifica con la decerebrazione (morte cerebrale), ovverosia con la cessazione irreversibile e
totale delle funzioni del sistema nervoso centrale (quindi non soltanto del cervello, che è solo
una parte del sistema nervoso centrale, ma anche del tronco encefalico e del cervelletto. In
altre parole è la cessazione irreversibile sia delle funzioni che presiedono alla coscienza e al
pensiero, sia di quelle che coordinano l’organismo nella sua interezza). La morte cerebrale,
descritta per la prima volta nel 1959 da Mollaret e Goulon nel testo “Le coma dèpassé”,
93
parte del paziente, dovendosi astenere da una condotta di ostinazione o
accanimento terapeutico.
Il problema è individuare quale possa essere il criterio in base al quale
giustificare la decisione medica al fine di limitarne l’autonomia62.
definisce la distruzione completa e irreversibile di tutto il contenuto della cavità cranica fino al
segmento cervicale; è la totale necrosi del cervello che segna il passaggio “dall’essere uomo
vivente” alla morte. Il soggetto decerebrato è morto a tutti gli effetti; non c’è più possibilità di
autonoma vita di relazione, ma neppure di autonoma vita vegetativa, al livello delle attività
respiratorie e circolatorie, che possono essere mantenute a sopravvivere in modo artificiale con
l’impiego di macchinari, “in lui il cuore che vive non è più il cuore di un vivo”, v. Mantovani, I
trapianti e la sperimentazione umana nel diritto italiano e straniero, Padova, 1974, 380. E’ alla
luce del principio personalistico, che informa il nostro ordinamento, che deve essere accolta
questa nozione di morte, contro qualunque pretesa utilitaristica connessa all’idea di morte
corticale (supra §6 nota 27) avanzata da operatori di trapianti, che affermano l’inutilità del
decorticato, giacché, incapace di vita di relazione, di significato sociale, diventa appunto
socialmente inutile e passibile di essere utilizzato, in quanto cadavere, per finalità di trapianto.
Terza concezione, minoritaria, è quella di morte cardiaca, che si ha quando sono
irreversibilmente cessate sia le funzioni cerebrali che circolatorie e respiratorie. Sulla base di
questo indirizzo, il soggetto, il cui cuore continua a pulsare, anche se per effetto dell’impiego di
macchinari, è ancora vivo. Con l’avvento delle tecniche rianimatorie, si sono potuti realizzare
tre possibili risultati: a) della reviviscenza integrale dell’individuo a seguito del ripristino della
triplice funzione vitale (cerebrale, respiratoria, circolatoria), b) del fallimento completo della
riviviscenza a livello cerebrale e vegetativo (respiratorio e circolatorio), c) della reviviscenza
artificiale, limitata alla sola funzione vegetativa in modo dipendente dalla macchina,
permanendo i danni a livello del sistema nervoso centrale. È questo il caso che va sotto il nome
di coma dèpassé (=superato), di soggetti decerebrati, “uomini-pianta”, “sempreverdi”, “cadaveri
viventi”. Due ultime, importanti considerazioni: innanzitutto la morte deve essere unica a
prescindere dalla diversa destinazione del cadavere (sepoltura, tavolo anatomico, prelievi a fine
di trapianto). Inoltre, deve essere certa, in quanto la morte è una diagnosi e non una prognosi.
Per tutte queste osservazioni e più ampiamente v. Mantovani, I trapianti e la sperimentazione
umana nel diritto italiano e straniero, cit., 351; Mantovani, Diritto penale. Parte speciale.
Delitti contro la persona, Padova, 2005, 32; Mantovani, Morte, in Enc. Dir., XXVII, 82; v.
Giusti, L’eutanasia. Diritto di vivere, diritto di morire, Padova, 1982, 69 relativamente al
momento della morte; Rimedio A., Problemi etici in merito all’accertamento della morte
cerebrale, in Bioetica, 2006, 66. V. Comitato Nazionale per la Bioetica, Definizione e
accertamento
della
morte
nell’uomo,
15
febbraio
1991,
in
www.palazzochigi.it/bioetica/pareri.html, il quale afferma la non necessità di parlare di morte
clinica, biologica, cardiaca, cerebrale, tronco-encefalica, corticale, perché tutti questi aggettivi
potrebbero far pensare che esistono molte morti e modi diversi di morire. Al contrario “il
momento della morte è uno solo ed è segnato dalla perdita totale ed irreversibile dell’unitarietà
funzionale dell’organismo”.
62
V. Stella, Il problema giuridico dell’eutanasia: l’interruzione e l’abbandono delle cure
mediche, cit., 1021, “non si può proprio aderire ad un giudizio totalmente discrezionale del
medico, di una volontà del medico come unica volontà responsabile e non discutibile, perché
ciò significherebbe attribuire al medico il potere di disporre senza limiti di una persona umana.
Compito del diritto è quello di tracciare dei criteri vincolanti, che possano guidare il giudizio
94
La soluzione alla quale più di frequente si ricorre è quella della volontà
ipotetica o presunta del paziente: ma anche in questo caso avremmo
l’insindacabile apprezzamento del medico, chiamato ad interpretare decisioni
personalissime senza neppure il vincolo di qualche canone di interpretazione.
È necessario, pertanto, fare riferimento a dei criteri oggettivi che prescindano
del tutto dal criterio fondato sulla volontà.
Secondo la teologia moralista classica sarebbe necessario distinguere tra mezzi
ordinari (la cui applicazione è obbligatoria) e mezzi straordinari di cura63;
quindi quando l’utilizzazione della pratica terapeutica viene considerata
straordinaria, allora sarebbe giustificabile l’astensione terapeutica.
Tuttavia questo criterio si è dimostrato eccessivamente subordinato allo stato di
evoluzione della medicina, se pensiamo, ad esempio, che veniva considerata
ordinaria la somministrazione dell’alimentazione artificiale e straordinaria la
respirazione artificiale.
Nel tempo, questa relazione mezzi ordinari-mezzi straordinari è stata sostituita
da quella mezzi di cura proporzionati e mezzi di cura sproporzionati, che fonda
il giudizio di proporzione in rapporto alla situazione concreta in cui si trova il
paziente64.
Ma anche questi criteri, che rappresentano il tentativo di stemperare
l’assolutezza del dovere di preservazione della vita umana, introducono
valutazioni sulla qualità delle condizioni di vita del moribondo, coerenti, tra
del medico, nel rispetto della ineliminabile discrezionalità tecnica”. Nello stesso senso Stortoni,
Riflessioni in tema di eutanasia, in AA.VV., Eutanasia e diritto. Confronto tra discipline,
Torino, 2003, 94, 2, “ […] le incertezze che permangono sul punto e che sono fonte di notevoli
disagi per gli operatori sanitari, rendono quanto mai auspicabile una chiara presa di posizione
normativa”.
63
V. §1.
64
I mezzi proporzionati sono quelli che offrono una speranza di beneficio senza che ne derivi
disagio per il paziente e sono moralmente obbligatori per il medico; i mezzi sproporzionati
sono quelli che procurano solo un prolungamento penoso e precario della vita, senza che
portino speranze di beneficio e sono moralmente elettivi per il medico. V. Magro, Diritto
penale e eutanasia, Torino, 2001, 163.
95
l’altro, alle teorie utilitaristiche, giacché nascondono un giudizio di valore sulla
vita; non sono i mezzi e la loro qualità, ma il loro uso nel caso specifico a
risultare ordinario o meno, proporzionato o meno, qualunque sia il trattamento
in questione. Infatti, la distinzione tra mezzi proporzionati e non deve essere
adattata al caso concreto e quindi privilegiare parametri soggettivi legati alle
condizioni del paziente; il mezzo impiegato diviene straordinario in quanto
straordinarie sono le condizioni del paziente65.
La soluzione maggiormente affermata66, in questo senso, è quella che fa
riferimento alla perdita irreversibile dello stato di coscienza, ovvero della
perdita totale della capacità di comunicare con il mondo esterno. Quando non
c’è più speranza di recuperare la coscienza spirituale, il dovere del medico si
arresta, facendo venire meno i presupposti dell’intervento punitivo, anche
indipendentemente da un preventivo consenso del paziente, non sussistendo
più un interesse al prolungamento di una vita irrimediabilmente compromessa.
La vita artificiale è, sì, equiparata a quella naturale, e pertanto tutelata nello
stesso modo, purché, però, il sostegno artificiale costituisca il mezzo
terapeutico per il ritorno alla vita cosciente, di reazione psichica, di
comunicazione. Tale equiparazione viene meno quando, secondo la miglior
scienza ed esperienza, la coscienza è irreversibile.
Nell’ambito dei modelli di tipo utilitaristico si annovera anche il criterio del “senso della
vita”. Così Magro, Eutanasia e diritto penale, cit., 165, “ non essendo più possibile interpellare
lo stesso individuo circa il significato che egli ancora riconosce alla sua vita futura, tale criterio
rinvia all’individuazione di un’istanza esterna, competente a decidere sulla vita e sulla morte
secondo propri parametri di giudizio.
66
In Italia v. Stella, Il problema giuridico dell’eutanasia: l’interruzione e l’abbandono delle cure
mediche, cit., 1022; l’A. riporta un’osservazione di uno dei più autorevoli esponenti della
dottrina tedesca, A. Eser, “invece di servirci di finzioni che celano la vera sostanza del
problema, dovremmo porci con tutta franchezza la domanda se e fino a che punto la prassi,
seguita dai medici, di rinunciare, nei momenti appena precedenti la morte cerebrale, ad
ulteriori interventi di prolungamento dello stadio fra la vita e la morte, possa essere ritenuta
giuridicamente corretta allorché non sia con sicurezza discernibile il consenso dell’interessato”.
V. anche Falzea, Diritto alla vita, diritto alla morte, in AA.VV., I diritti dell’uomo nell’ambito
della medicina legale, Milano, 131.
65
96
L’obbligo di mantenimento in vita permarrebbe integro, invece, quando il
paziente abbia anche una sola speranza di realizzare la sua personalità, non
essendo divenuta la perdita di coscienza irreversibile. In tal caso l’omissione
degli sforzi diretti a prolungare la vita diventa rilevante per il diritto penale,
alla stregua delle stesse regole che disciplinano l’omesso impedimento
dell’evento lesivo.
Tale ricostruzione, peraltro, lascia un quesito aperto connesso al giudizio di
irreversibilità della perdita di coscienza. La risposta è nelle mani della scienza
medica: sarebbe questa, infatti, a doverci dire se già prima della morte
cerebrale possano esiste criteri sicuri per stabilire se la perdita di coscienza sia o
meno reversibile.
Pregio di tutta questa impostazione è di prescindere da ogni valutazione circa
la dignità di un seppur breve spazio di vita67.
A tutte queste considerazioni, altra parte della dottrina68, tuttavia, replica, e a
mio modo di vedere giustamente, che facendo riferimento al criterio della
coscienza si escluderebbe che le funzioni vegetative vitali siano umane; la
coscienza è, certamente, un qualcosa che caratterizza la vita dell’uomo, ma non
è, altrettanto certamente, l’unico, sicché permane l’obbligo di attivarsi69.
“Non si tratta di decidere se annientare la vita di una persona, per liberarla dalla “zavorra” di
una esistenza giudicata inutile e piena di sofferenza, ma di assicurare il rispetto della dignità
umana […] che risulterebbe indiscutibilmente vulnerata se, sopraggiunta l’irreparabile perdita
di coscienza, l’artificiale mantenimento della vita fisica diventasse fine a se stesso, una mera
manipolazione tecnica, espressione esclusiva dell’abilità medica”, così Stella, Il problema
giuridico dell’eutanasia: l’interruzione e l’abbandono delle cure mediche, cit., 1023.
68
V. Eusebi, Omissione dell’intervento terapeutico e eutanasia, in Arch. pen., 1985, 508 ss.,
Mantovani, I trapianti e la sperimentazione nel diritto italiano e straniero, cit., 351 ss.,
Mantovani, Eutanasia, in Digesto, cit., 428, Mantovani, Diritto penale. Parte speciale. I delitti
contro la persona, cit., 32.
69
“[…] I confini tra l’ancora e il non più recuperabile sono così ristretti, che in pratica possono
essere riconosciuti solo retrospettivamente. Sarebbe disastroso voler da ciò derivare la
legittimazione del potere di rinunciare nel caso di simili pazienti all’utilizzazione di terapie
intensive”, così Menzel, in qualità di medico anestesiologo cit. da Eusebi, Omissione
dell’intervento terapeutico e eutanasia, cit., 511. Inoltre, soggetti in coma da lesione organica
cerebrale, sottoposti a terapia, si possono stabilizzare in una condizione neurologica (es. di
stato vegetativo persistente) caratterizzata da assenza di contatti psicologicamente validi con
67
97
Con tutto ciò si vuole evitare di incorrere nella tentazione di chi intende
risolvere i problemi della eutanasia passiva tramite una trasformazione del
concetto di morte (anticipandola) che assimila taluni irreversibili danni
cerebrali con la morte encefalica e evitare che, con la configurazione della
coscienza quale segno distintivo dell’essere umano, possa prospettarsi la
soppressione di cerebrolesi o di handicappati mentali gravi o soggetti in stato di
coma irreversibile (che consiste in una prognosi di irrecuperabilità delle
funzioni psichiche, con possibilità di vita vegetativa autonoma; pertanto è da
tenere nettamente distinto dalla condizione di morte cerebrale) senza
nemmeno più considerarla un’uccisione, dal momento che la perdita, seppur
irreversibile, della coscienza non fa venire meno nell’uomo la condizione
umana.
Accogliere il criterio per cui il limite all’attività medica è dato dalla
impossibilità di recupero della coscienza spirituale del paziente comporta,
inoltre, una scissione nel concetto stesso di uomo, tra essere umano e persona,
secondo quanto è stato anche sostenuto da alcune correnti del pensiero
filosofico utilitarista che suppongono la possibilità di differenziazione di tutela
giuridica in relazione al fatto che non tutti gli esseri umani hanno lo status di
persone dotate di autonomia.
Rispondente all’idea dell’unità ontologica dell’uomo, che rende insostenibili
pretesi dualismi tra vita psichico-intellettiva e vita sensoriale-vegetativa, è,
invece, il criterio della morte encefalica introdotto nel nostro ordinamento
dall’art. 1 della l. 29 dicembre 1993, n. 578 (“Norme per l’accertamento e la
certificazione della morte”) che ha recepito le conclusioni del Comitato
Nazionale di Bioetica del 1991 e ha ricevuto l’autorevole avallo della Corte
l’ambiente. E tali soggetti, specialmente se giovani, hanno, almeno nei primi anni, qualche
possibilità di recupero di una coscienza elementare.
98
Costituzionale (con sent. N. 414 del 1995 sulla legittimità costituzionale
dell’art. 589 c.p.)70.
Per morte encefalica si intende a) la totalità della cessazione delle funzioni
encefaliche, dai centri superiori a quelli via via inferiori, che presiedono
rispettivamente la vita intellettiva, di relazione, la vita sensitiva e istintiva e la
vita vegetativa della circolazione e della respirazione; b) la irreversibilità della
cessazione, dovendo esistere la certezza scientifica che queste funzioni non
possono più essere in alcun modo ripristinabili, con alcun mezzo conosciuto
dalla scienza ed esperienza del momento storico; c) e infine, l’impossibilità
della prosecuzione autonoma dell’attività respiratoria e circolatoria.
È sulla base del concetto normativo di morte, stabilendo, quindi, se il paziente
è vivo e morto, che è dato risolvere i problemi circa la liceità o meno della
omissione o interruzione del trattamento medico.
Allora sulla base di questa ultima affermazione e sulla base del concetto di
morte encefalica, appare legittimo non iniziare il trattamento rianimatorio nei
casi in cui già ab initio (es. in caso di decapitazione) possa essere esclusa una
reviviscenza del soggetto, a prescindere dal fatto che artificialmente possano
essere ripristinate le funzioni meramente vegetative.
Lo stesso può dirsi in ordine alla interruzione del trattamento rianimatorio:
infatti, se la morte encefalica non è stata ancora accertata, e quindi sussiste
ancora una possibilità di reviviscenza del soggetto, l’obbligo del medico di
continuare nel trattamento rianimatorio permane e in tal caso non vi è alcuna
forma di accanimento terapeutico.
V. anche art. 36 del codice di deontologia medica: “In caso di morte cerebrale il sostegno
vitale dovrà essere mantenuto sino a quando non sia accertata la morte nei modi e nei tempi
stabiliti dalla legge. È ammessa la possibilità di prosecuzione del sostegno vitale anche oltre la
morte accertata secondo le modalità di legge, solo al fine di mantenere in attività organi
destinati a trapianto e per il tempo strettamente necessario”.
70
99
Così, allora, non può parlarsi di accanimento terapeutico nei confronti dei
soggetti decorticati, c.d. stato vegetativo persistente, cioè con perdita completa
della coscienza (la sua prima descrizione clinica risale al 1972).
Il soggetto decorticato è vivo, in quanto non decerebrato, e come tale è un
uomo, è una persona malata, ma non una persona morta, “è cioè lo stesso essere
umano di prima, ma egli è ostacolato nell’esprimere visibilmente e socialmente
la sua persistente dignità a causa di una malattia”71.
Così Cattorini, La proporzionalità delle cure mediche per i pazienti in stato vegetativo
permanente, in RIML, 24-1, 2002, 273. Non è dimostrabile in loro, infatti, un’assenza di
sensazioni e di coscienza di sé e dell’ambiente (hanno infatti risposta mimica al dolore, possono
occasionalmente sorridere, voltare il capo e gli occhi verso suoni o oggetti in movimento,
emettere alcuni gemiti e addirittura versare lacrime). Le funzioni cardiocircolatorie e
respiratorie sono conservate e il paziente non necessita di sostegni strumentali. Non sono in
grado di nutrirsi da soli, ma vengono alimentati e idratati per via artificiale (NIA) attività che
deve essere loro garantita non costituendo trattamento terapeutico, (finalità di arrecare
beneficio al paziente – obiettiva idoneità terapeutica del trattamento sulla base della previa
conoscenza dei prevedibili benefici e rischi del trattamento, e del rapporto di proporzione tra
essi – collegamento funzionale con una malattia e soggettivo con un soggetto malato. V.
Mantovani, I trapianti e la sperimentazione umana nel diritto italiano e straniero, cit., 13), ma
standard minimo di assistenza, sono atti dovuti eticamente, indispensabili per garantire le
condizioni fisiologiche di base per vivere e, perciò, la NIA non costituisce accanimento
terapeutico. Le persone in SVP non necessitano di norma di tecnologie sofisticate: ma hanno
soprattutto bisogno, per vivere, di essere accudite; esse richiedono un’assistenza ad alto
contenuto umano, ma a minimo contenuto tecnologico. Non è dimostrabile una certa
irreversibilità essendosi verificati, infatti, casi di soggetti in tale stato che hanno recuperato,
anche se parzialmente, una vita di relazione. Identificare la morte dell’uomo con la morte
corticale, si obietta, è foriera di imprecisioni e arbitrii giacché “la sfera interna di un soggetto
comprende una gamma di manifestazioni, dalle forme più alte dell’autocoscienza a quelle più
sommesse, quali le emozioni, sensazioni riflesse (fame, sete, ecc.), sentimenti, che non sono
altresì adeguatamente accessibili ad un’osservazione esterna (come comprovano casi clinici di
soggetti ritenuti privi di coscienza, ma in realtà solo incapaci di reazioni percepibili dagli
altri)”, v. Mantovani, Diritto penale. Parte speciale. I delitti contro la persona, cit., 36. V. anche
il discorso di Giovanni Paolo II ai membri della FIAMC (Federazione Internazionale dei
Medici Cattolici), riportato da Defanti C., Stato vegetativo permanente: a proposito del
documento della FIAMC, in Bioetica, 2005, 79. Contra Veronesi, Il diritto di morire,
Mondadori, 2005, 7, “il beneficiato [cioè il soggetto in SVP che viene nutrito e idratato] non
solo non può apprezzare il preparato e i suoi effetti, ma soprattutto non può, e non potrà mai
più, rendersi conto del fatto di essere alimentato. […] Le persone in SVP, così come non
avvertono di essere idratate e alimentate, così non avvertono di non esserlo più. Qualunque
cosa possa sembrarci, la realtà è che non soffrono, perché non sono più capaci nemmeno di
soffrire”. V. anche in questo ultimo senso Gruppo di lavoro su nutrizione e idratazione nei
soggetti in stato di irreversibile perdita della coscienza, in Bioetica, 2001, 303, nominato
dall’allora ministro della sanità Veronesi il 20 ottobre del 2000 con proprio decreto: “[…] allo
stato attuale della legislazione siano possibili decisioni, in ordine all’idratazione e nutrizione
71
100
Proprio perché il paziente in stato vegetativo persistente non è morto,
l’eventuale
sospensione
di
trattamenti
medici,
dell’alimentazione
dell’idratazione artificiale, costituisce tecnica eutanasica passiva72.
e
Al contrario, se la morte encefalica, nel suo connotato di irreversibilità, viene
diagnosticata come certa, allora viene meno l’obbligo di continuare il
trattamento, che risulta essere, pertanto, inutile. Quindi, non soltanto è lecito,
ma anche doveroso interrompere il trattamento73. Ciò almeno per una duplice
ratio: innanzitutto per una ragione giuridica, in quanto, trovandosi dinanzi a
persona morta e quindi a un cadavere, sorge l’obbligo penalmente sanzionato
di sepoltura, pena l’applicazione degli artt. 410-413 c.p. (vilipendio di cadavere,
distruzione, soppressione o sottrazione di cadavere, occultamento di cadavere,
uso illegittimo di cadavere). E poi, per una ragione di principio del rispetto
della dignità della personalità umana contro la degradazione dell’essere umano
artificiali degli individui in stato vegetativo permanente, che portino alla legittima
interruzione di tali trattamenti medici […]”. V. Comitato Nazionale per la Bioetica,
L’alimentazione e l’idratazione di pazienti in stato vegetativo persistente, in Bioetica, 2005, 108
che qualifica la NIA come sostentamento ordinario di base, ma la sua sospensione è da
considerare eticamente e giuridicamente lecita quando si realizzi l’ipotesi di accanimento
terapeutico, e cioè, specifica, quando nell’imminenza della morte “l’organismo non sia più in
grado di assimilare le sostanze fornite: l’unico limite obiettivamente riconoscibile del dovere
etico di nutrire la persona in SVP è la capacità di assimilazione dell’organismo […] o uno stato
di intolleranza clinicamente rilevabile collegato all’alimentazione”.
72
Così D’Agostino, Eutanasia per i soggetti in stato vegetativo persistente, in Bioetica, 2001,
284. Tra l’altro nella pratica si distingue lo stato vegetativo in permanente, ed è la condizione
giudicata irreversibile (quindi comprensiva di prognosi e diagnosi) e in persistente, che è
invece una diagnosi che non implica irreversibilità. Il documento della Multi society task-force
on PVS (un gruppo di studiosi delegato da diverse società scientifiche americane), che ha
proposto dei criteri di irreversibilità, afferma che trascorsi 12 mesi la probabilità di ripresa
delle funzioni superiori è insignificante e pertanto è possibile dichiarare la stato vegetativo
permanente. D’Agostino, op.ult.cit., obietta che oltre a parlare di “probabilità”, che non
implica certezza, il documento usa l’aggettivo “insignificante” che, per l’appunto, non vuol dire
assenza. Schiavone, Riflessioni bioetiche sullo stato vegetativo permanente, in Bioetica, 2001,
288, ribatte che la probabilità è vicina all’impossibilità. Per i problemi legati alla prognosi
dell’irreversibilità nello stato vegetativo permanente v. Consulta di Bioetica, Sullo prognosi
nello stato vegetativo permanente, in Bioetica, 2002, 319, la quale sostiene che la diagnosi di
stato vegetativo permanente (cioè la prognosi di irreversibilità) può essere formulata e può
costituire la base per prendere le necessarie decisioni.
73
A meno che, in questi casi, tali pratiche non siano comunque necessarie per la sopravvivenza
del feto nel grembo materno o si debba procedere a prelievi a fine di trapianto.
101
a uomo-pianta. Di conseguenza, neppure in questo caso può parlarsi di
accanimento terapeutico74.
In conclusione, alla luce delle considerazioni svolte, il problema non è tanto
quello di intervenire mediante una legislazione (non necessaria) dell’eutanasia
passiva, ma piuttosto quello di individuare dei metodi diagnostici precoci al
fine di accertare come certa la irreversibilità della morte encefalica75.
La cronaca riporta casi che hanno generato nell’opinione pubblica e nell’ambiente giuridico
dilemmi non facilmente risolvibili; è di grande attualità la vicenda di Eluana Englaro in
ragione delle somiglianze col caso di Terri Schiavo, che ha fatto sì che tutto il mondo si
mobilitasse interrogandosi sulla liceità della richiesta della sospensione della nutrizione e
idratazione artificiali in soggetti in SVP. Entrambe le giovani donne, che per anni si sono
trovate in questa condizione, hanno manifestato la volontà, per mezzo dei loro tutori (genitori
in un caso, marito nell’altro), di sospensione della NIA. In entrambi i casi si è scatenata una
dura battaglia legale tra i tutori, che chiedono che sia rispettata la volontà delle loro assistite di
sospensione della NIA e chi ritiene che prevalga il dovere dello Stato di tutela della vita su ogni
altro diritto individuale. Questi sono i punti in comune; le vicende seguono poi percorsi
diversi. Nel caso americano, nonostante la battaglia tra gli attori del caso – marito/tutore,
famiglia di Terri, giudici, avvocati, il pressante intervento mediatico e l’intervento del
Presidente Bush, che ha tentato di imporre per legge la supremazia del principio della
“sacralità della vita” su quelli della “qualità della vita” e del “diritto all’autodeterminazione” – il
16 marzo la Corte d’Appello della Florida ha rifiutato di fermare la rimozione del tubo per
l’alimentazione e l’idratazione. La rimozione venne effettuata il 18 marzo; Terri muore il 31
marzo. Nel caso italiano di Eluana Englaro, l’ennesima sentenza, questa volta della Cassazione
(Cassazione – Sezione prima civile – ordinanza 3 marzo-20 aprile 2005 n. 8291) ha rigettato
l’ultimo ricorso del padre/tutore che da dieci anni sta portando avanti la sua battaglia per far
riconoscere il diritto al rifiuto delle cure espresso dalla figlia prima dell’incidente. La
Cassazione ha affermato che “solo quando sarà consolidata nell’ambito medico la tesi del
trattamento terapeutico per le somministrazioni di alimenti con sonda naso-gastrica si
potranno trarre le dovute conseguenze giuridiche”. V. più dettagliatamente ImmacolatoBoccardo-Manconi-Ratti, Nello stato vegetativo permanente i trattamenti di sostegno vitale
possono essere rifiutati? Un punto di vista medico-legale, in Bioetica, 2005, 93. In un’intervista
Veronesi affermò che quello di Eluana è “un problema etico che si dibatte da molto tempo […]
è un problema che deve essere risolto per legge. […] Il tema dell’eutanasia ricorre molto
frequentemente. Io non ho mai avuto occasioni personali, però capisco che in molti casi
l’eutanasia possa essere quasi un atto di carità”. Sempre a proposito del caso Englaro, mons. Elio
Sgreccia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita, su il Giornale (16 giugno 2000)
affermò: “la ragazza non è attaccata a una macchina che la tiene in vita. Respira da sola, il
funzionamento cardiocircolatorio è normale. Non siamo di fronte a un caso di accanimento
terapeutico […] la ragazza non è tenuta in vita artificialmente, vive da sola e non è sottoposta a
terapie che le procurino sofferenza”. Per queste ultime osservazioni, v. De Rosa, Eutanasia
anche in Italia?, in Civiltà Cattolica, 2001, 1, 302.
75
Per l’accertamento della morte, v. Mantovani, Diritto penale. Parte speciale. Delitti contro la
persona, cit., 38; Comitato Nazionale per la Bioetica, Definizione e accertamento della morte,
15 febbraio 1991, cit.
74
102
Sulla base di quanto finora osservato, emergono le ambiguità e pericolosità
della proposta di legge n. 2405 presentata alla Camera dei Deputati il 19
dicembre 1984 dall’onorevole Loris Fortuna, contenente una disciplina
specifica scriminante l’eutanasia passiva76 e intitolata “Norme sulla tutela della
dignità della vita e disciplina della eutanasia passiva”77.
Per quanto riguarda la dichiarazione di intenti contenuta nella relazione al
progetto, si afferma apertamente la proibizione dell’accanimento terapeutico e
conseguentemente la legittimazione dell’eutanasia passiva78.
Viene, inoltre, riconosciuta la piena legittimità giuridica dell’eutanasia attiva
indiretta.
Ma il punto sostanziale della normativa è costituito dalla presunzione del
consenso del paziente alla rinuncia terapeutica79 e quindi una presunzione di
rifiuto ad essere assoggettati a accanimento terapeutico, quando si tratta: a) di
terapie di sostentamento vitale, consistenti ex art. 3 in “ogni mezzo o
intervento medico che utilizzi tecniche meramente rianimative nonché
apparecchiature meccaniche o artificiali per sostenere, riattivare o sostituire
una naturale funzione vitale”; b) di persone in condizioni terminali,
intendendosi per condizioni terminali ex art. 2 “l’incurabile stato patologico,
Essa si ispira al noto “Natural Death Act” emanato nel 1976 dallo Stato federato americano
della California. Questa legge riconosce il diritto dei maggiorenni di poter decidere che non
vengano impiegati o che vengano interrotte le terapie di sostentamento vitale nel caso in cui si
trovino all’estremo della condizione esistenziale, in quanto tale prolungamento potrebbe
mortificare la dignità umana. La legge, in tali ipotesi, esclude ogni responsabilità giuridica del
medico.
77
Per tutto v. Mantovani, Aspetti giuridici dell’eutanasia, in Riv. it. dir. proc. pen., 1988, 464.
nello stesso senso Eusebi, Omissione dell’intervento terapeutico ed eutanasia, cit., 536. Contra
Romboli, Commento all’art. 5, in Scialoja-Branca, Commentario del codice civile, Delle
persone fisiche, Bologna-Roma, 1988, 309.
78
“[…] Il divieto di accanimento terapeutico costituisce l’ultima salvaguardia che
l’ordinamento giuridico appresta ai soggetti che gli appartengono. […] Le ragioni di un siffatto
accanimento raramente possono attribuirsi alla volontà dell’infermo, più spesso sono dovute ad
eccessivi scrupoli professionali o familiari a ad una sorta di sfida prometeica della medicina alla
morte”, v. Relazione alla Proposta di legge n. 2405, in RIML, 1985, 395.
79
L’art. 1 del progetto di legge afferma “I medici sono dispensati dal sottoporre a terapie di
sostentamento vitale qualsiasi persona che versi in condizioni terminali, salvo che la stessa vi
abbia comunque personalmente e consapevolmente consentito”.
76
103
cagionato da lesione o da malattia e dal quale, secondo le cognizioni della
scienza medica, consegue la inevitabilità della morte, il cui momento sarebbe
soltanto ritardato ove si facesse ricorso a terapie di sostentamento vitale”.
Il fatto che questa proposta non sia mai stata approvata dal Parlamento, non
può non significare che non ha trovato nessun punto d’incontro tra le varie
forze politiche. Infatti, attenti studiosi criticano la proposta per la sua
ambiguità, affermando la sua inutilità o inaccettabilità.
È inutile, per la ragione che abbiamo visto sopra, e cioè se per malato in
condizioni terminali si intendono le persone irrimediabilmente decerebrate,
nei confronti delle quali la rianimazione serve solo a mantenere l’artificio di un
respiro e di una circolazione sanguigna non spontanee su un soggetto già
morto.
È inaccettabile nel caso in cui per malati terminali si intendono soggetti
sottoposti a terapia rianimatoria, ma nei confronti dei quali ancora non sia stata
accertata come certa la irreversibilità della morte, come lascia pensare, del
resto, la stessa presentazione di questa proposta (altrimenti, appunto, inutile).
Infatti, essa comporta, innanzitutto, il rischio che si arrechi la morte a persone
che possono riprendersi integralmente, come è comprovato da casi di
riviviscenza anche dopo un lungo periodo di tempo.
Inoltre, fondandosi su una presunzione di consenso all’eutanasia passiva, si
incorre nel pericolo di cadere in una fictio juris, priva sia di fondamento reale,
dal momento che, basandosi la presunzione sull’id quod plerumque accidit,
non tiene conto della realtà concreta che dimostra che la maggioranza dei
malati, in forza anche del principio di conservazione, non vuole essere
abbandonata, ma curata fino al limite dello sforzo terapeutico; sia di
fondamento etico-giuridico, perché, qualora venisse dimostrato che solo un
malato non vuole morire contro la maggioranza portatrice di questo desiderio,
rispetto a questa unica voce la presunzione di volontà di morire non potrebbe
104
mai valere, perché tutto ciò che riguarda la vita e la morte costituisce un diritto
inalienabile della persona.
La proposta di legge prevede, ancora, che a seguito dell’accertamento delle
condizioni terminali80, il medico comunichi a una cerchia di soggetti
(conviventi, parenti, ministri di culto, ex art. 6) i risultati dell’accertamento
affinché questi possano opporsi all’interruzione della terapia (art. 5). Tutto ciò
importa una antinomia legislativa perché, per prima cosa, si presume il
consenso
del
paziente
che
non
abbia
espressamente
dissentito,
e
secondariamente, si ammette l’opposizione di parenti che viene, così, a
contrastare con la presunta volontà del morente a non essere curato.
Si tratterebbe di una finzione di rispetto della volontà, innanzitutto, del
paziente, giacché egli non può dissentire soprattutto perché, dovendo il
dissenso essere informato, si presuppone che il medico renda consapevole il
moribondo della sua situazione senza speranza. Ciò può risultare cosa
difficilmente fattibile tenuto conto del fatto che la maggior parte dei soggetti
non ama conoscere la verità e perché il medico dovrebbe informare il paziente
della situazione terminale solo quando questa è insorta e cioè quando questo
non è più in grado di essere informato e di dissentire. E, in secondo luogo, si
tratterebbe di una finzione di volontà rispetto agli altri oppositori in quanto è
prevista una faticosa burocrazia della morte: infatti, la decisione ultima circa la
interruzione o meno delle tecniche rianimatorie viene fatta gravare sul
presidente del tribunale della circoscrizione del luogo di degenza dell’infermo
(art. 7), con ciò palesando, anche, una finzione di garanzia giurisdizionale,
Art. 4 “L’accertamento delle condizioni terminali viene effettuato da un medico competente
nelle tecniche di rianimazione designato dalla unità sanitaria locale del luogo di degenza
dell’infermo, su concorde parere del primario anestesiologo della stessa unità, direttamente o
su richiesta di altro medico, ove questi abbia in cura l’infermo. L’accertamento delle condizioni
terminali non dispensa il medico che l’abbia in cura dal dovere di assistere l’infermo”.
80
105
facendo gravare su tale organo un problema di vita o di morte che prescinde
dalla giurisdizione81.
Ma che dire, poi, della scelta fatta a proposito dell’attribuzione della
rappresentanza legale di interessi personalissimi e inderogabili dell’individuo a
una cerchia determinata di soggetti82 con ciò contrastando il principio giuridico
che a tali soggetti non può essere assegnata alcuna competenza legale, anche
perché essi non possono essere per ciò solo i migliori tutori degli interessi del
rappresentato.
Tra l’altro, tra i soggetti legittimati a proporre opposizione, colpisce il
riferimento ai ministri del culto cui appartiene presumibilmente l’infermo83.
Infine, questo progetto, importa un onere per il moribondo di precostituirsi
una difesa (es. mediante un atto scritto) contro le possibili future aggressioni
del medico.
Concludo l’analisi di questo progetto di legge con due riflessioni: in primo
luogo, viene invertita la tradizionale e radicata presunzione di doverosità
Innanzitutto gli oppositori devono essere informati solo se “agevolmente reperibili” (art. 5) e
inoltre possono proporre opposizione alla sospensione non oltre dodici ore dalla
comunicazione al presidente del tribunale della circoscrizione del luogo di degenza
dell’infermo, dandone notizia anche al medico dell’unità sanitaria locale. Nel caso in cui al
medico dell’unità sanitaria locale non risulti alcuna opposizione, decorse le dodici ore dalla
comunicazione dispone per iscritto l’interruzione della terapia (art. 7).
82
Questi soggetti ai sensi dell’art. 6 vengono individuati nei “[…] conviventi di età non
inferiore a sedici anni, ovvero, in mancanza di essi, un ministro di culto cui appartiene, anche
presumibilmente, l’infermo. Sono altresì legittimati gli ascendenti ed i discendenti in linea
diretta ed i parenti collaterali, entro il secondo grado, dell’infermo, che siano di età non
inferiore a sedici anni”.
83
Mantovani, Aspetti giuridici dell’eutanasia, cit., 467, lo definisce come una “trovata con
finalità scopertamente accattivante, priva di ogni fondamento razionale e giuridico”. La
relazione al progetto spiega che questo riferimento è stato fatto “in previsione della non rara
ipotesi di terapia su persona che viva o sia sola. E poiché non è sempre possibile stabilire il
culto di appartenenza (si pensi ad un pedone privo di documenti che sia stato investito o versi
in fin di vita) si è fatto ricorso ad un presunzione di appartenenza” e aggiunge “si è tenuto
conto delle ipotesi, non rare, di persone vittime di incidenti stradali o abbandonate ferite
davanti agli ospedali e sprovviste di documenti: la ricerca di parenti sarebbe stata disagevole, se
non addirittura impossibile, e quindi incompatibile con una decisione da prendere con estrema
sollecitudine. D’altra parte, il più facile reperimento di un ministro del culto, assicura
sufficienti condizioni di affidamento”, v. Relazione alla proposta di legge n. 2405, in RIML, cit.,
396.
81
106
dell’opera del medico. Il sanitario non ha più il dovere di apprestare le sue cure
fino all’ultimo; è il paziente o, in sua vece, i conviventi a essere gravato
dall’onere di esternare una volontà contraria a quella di morire. La formula con
cui nel progetto si riconosce al paziente il rispetto alla sua scelta di volere
sopravvivere per mezzo delle terapie di sostentamento sembrerebbe quella di
una gentile concessione, affermando che “la volontà dell’individuo di
sopravvivere mediante terapie di sostentamento, anche se non coincide con
l’ampia visione della legge, rientra nella sfera della sua disponibilità e, come
tale, non va ostacolata”84.
Tutto questo stravolge la portata del principio naturale dell’in dubio pro vita,
in nome dell’altro, nichilistico, dell’in dubio pro morte e attraverso l’espediente
della presunzione del consenso si ha la “nazionalizzazione” dei malati ritenuti
incurabili, così come la legge sui trapianti del 1975 ha “nazionalizzato” il
cadavere85.
In secondo luogo, questa proposta di legge converte l’eutanasia individualistica
pietosa del caso singolo in una collettivistica eutanasia passiva di massa, che
non ha più niente a che vedere né col diritto di non curarsi e di lasciarsi
morire, né con la pietà del singolo caso, ma solo con l’utilità per la collettività e
i congiunti. Si realizza, sotto la copertura dell’eutanasia passiva pietosa,
l’eutanasia utilitaristica, economica e edonistica, dal momento che le sue reali
finalità sono costituite dall’alleggerimento degli ospedali da persone
economicamente inutili e dalla liberazione dei consociati dal peso dei
congiunti ammalati86.
V. Relazione alla proposta di legge n.2405, cit., 395.
“Un nichilismo che appare affondare le radici ultime in una concezione torbida del mondo o,
forse, in quell’inconscio senso collettivo di morte, di prevalenza del Thanatos sull’Eros, che
sembra pervadere la nostra civiltà”, in Mantovani, Aspetti giuridici dell’eutanasia, cit., 468.
86
L’anno precedente alla proposizione della legge, in un sondaggio della M.A.C.N.O. di
Milano, su un campione di 1000 persone, il 56,8% si era dichiarato favorevole all’eutanasia, il
34,5% contrario, l’8,7% incerto. A seguito della proposta, fu effettuato un altro sondaggio a
cura dell’istituto di studi politici (I.S.P.E.S.) su un campione di 2000 adulti abitanti in 118
84
85
107
Ciononostante, per alcuni, questa proposta di legge ha il merito di aver aperto
la strada per una discussione e riflessione sull’eutanasia in sede parlamentare,
avviando un processo che potrebbe portare ad un’iniziativa di riforma della
legislazione87.
§11. IL TRATTAMENTO PENALE DELL’EUTANASIA DE IURE CONDITO.
Nell’ordinamento italiano manca una disciplina specifica dell’eutanasia88,
anche se la fattispecie dell’omicidio del consenziente – che incrimina gli atti di
comuni equamente distribuiti su tutto il territorio italiano. Il risultato fu che il 48% si dichiarò
contrario in modo assoluto; il 24% favorevole; il 19,5% favorevole solo in presenza di casi
disperati; l’8% non rispose. Da una lettura di questi dati possiamo dire che la proposta Fortuna
spaventò gli italiani, riducendo i consensi nei confronti dell’eutanasia.
87
Così Grasso, Riflessioni in tema di eutanasia, in Quaderni della giustizia, 1986, II, 71.
88
Ciò a differenza dell’ordinamento spagnolo che, a seguito della riforma del nuovo codice
penale nel 1995, ha previsto una regolamentazione specifica in materia di eutanasia. Infatti, la
nuova disciplina, modificata, dell’aiuto e istigazione al suicidio contiene alcuni riferimenti
espliciti al fenomeno dell’eutanasia, in particolare all’eutanasia attiva consensuale, prevista
come ipotesi attenuata di cooperazione al suicidio. La norma di riferimento è l’art. 143 comma
4 che dice “Colui che determina o coopera attivamente con atti necessari e diretti alla morte di
un altro soggetto, su richiesta espressa, seria ed inequivoca di questo, nel caso in cui la vittima
soffra di una infermità grave che condurrà necessariamente alla morte, o che produca gravi
patimenti permanenti e difficili da sopportare, sarà punito con la pena diminuita di uno o due
gradi rispetto a quella prevista nei numeri 2 e 3 del presente articolo [aiuto e istigazione al
suicidio]” con l’introduzione di questo comma per la prima volta si è riconosciuta rilevanza
legislativa al fatto che la volontà di morire di una persona sia motivata dal desiderio di porre
fine alle proprie sofferenze, dando risposta, così, a tutti coloro che sostenevano come ingiusta
l’equiparazione che la precedente disciplina poneva tra condotte di aiuto al suicidio avvenute
in un contesto eutanasico e quelle avvenute in assenza, invece, di infermità e sofferenza. La
scelta legislativa, tuttavia, non è andata nel senso di attribuire un’assoluta rilevanza alle
circostanze della sofferenza e dell’infermità in modo da poter escludere la responsabilità del
partecipe, quanto nella direzione di prevedere una riduzione della pena rispetto alle condotte
di cooperazione al suicidio non eutanasiche. Infine, il comma 4 dell’art. 143 regola la sola
ipotesi eutanasia attiva (chiedendo infatti che gli atti eutanasici siano attivi e diretti alla
produzione della morte, con seguente esclusione della tipicità delle condotte di eutanasia attiva
indiretta e di eutanasia passiva) e consensuale (giacché viene considerato elemento essenziale
della fattispecie una richiesta espressa, seria ed inequivoca, della vittima, escludendo, pertanto,
dall’ambito di applicazione della norma l’eutanasia non consentita). V. in particolare Cagli, La
regolamentazione giuridica dell’eutanasia in Spagna ed in Germania, in Eutanasia e diritto.
Confronto tra discipline, Torino, 2003, 96.
108
disposizione della propria vita manu aliena89 – assume un significato
paradigmatico90.
Infatti, affermata l’illiceità giuridica dell’eutanasia, sia attiva che passiva (ad
eccezione dell’ipotesi dell’eutanasia passiva consensuale che si risolve in un
rifiuto delle cure e perciò lecita), essa non può che assumere una rilevanza
penale ed essere prevista come un delitto di omicidio.
Questo, tuttavia, non toglie che l’eutanasia possa essere oggetto di una
valutazione e di un trattamento penale differenziato e più benevolo rispetto
all’omicidio comune; ciò, però, solo in presenza dell’ipotesi di eutanasia
autenticamente pietosa (come delitto di pietà) che deve essere caratterizzata
dall’esistenza, accertata, di specifici requisiti: a) soggettivi, e cioè il movente
determinante, altruistico e non egoistico, della pietà; b) oggettivi, e cioè, in
primis, l’insopportabilità o tormentosità del dolore fisico, per l’inefficacia dei
mezzi antidolorifici; l’imminenza della morte; e, ovviamente, il consenso
informato, espresso91 e valido. L’uccisione contro o in assenza di questo non è
atto di pietà, ma atto di crudeltà e di comodità; c) di carattere esecutivo,
L’esecutore è da considerarsi come un semplice strumento materiale della volontà della
vittima, e, pertanto, l’omicidio del consenziente, può essere assimilato, da un punto di vista
sostanziale, al suicidio. In proposito, Mantovani, Diritto penale. Parte speciale. I delitti contro
la persona, Padova, 2005, afferma che si tratta nella sostanza di un suicidio per mano altrui,
perché “la volontà, anche se non necessariamente l’iniziativa, del fatto materiale risale alla
stessa vittima e perché il consenso deve essere fattore determinante della condotta dell’agente,
in quanto senza di esso l’uccisione non si sarebbe verificata. Altrimenti si ricade nell’omicidio
comune”.
90
Per quanto il termine eutanasia non ricorra nell’ambito dell’art. 579, “non deve tuttavia
credersi che l’argomento sia stato dimenticato dal legislatore, il quale ha in realtà
semplicemente ritenuto che non fosse necessaria alcuna norma particolare per tale ipotesi”,
così Adamo, Il problema giuridico e medico-legale dell’eutanasia, in Arch. pen., 1950, 382. L’A.
riporta la Relazione Ministeriale al codice che, infatti, dice: “Quanto all’eutanasia, non c’è
motivo di distinguere. Se il giudice ritiene che l’infermità, che affliggeva il sofferente, non ha
determinato in lui deficienza psichica (art. 579, n. 2) tale da doversi ritenere invalido il suo
consenso all’uccisione, sarà applicabile, nel concorso delle altre condizioni, la norma speciale
sull’omicidio del consenziente; altrimenti l’uccisore dovrà punirsi come un omicida comune”.
91
Si ammette, in dottrina, l’efficacia anche del consenso tacito, purché inequivoco. Per quanto
riguarda il consenso presunto per la dottrina maggioritaria, e come abbiamo più volte visto,
esso è inammissibile.
89
109
dovendo utilizzare, nell’atto eutanasico, mezzi idonei a rendere il passaggio
dalla vita alla morte indolore, sereno, rapido, poiché una morte dolorosa,
violenta, lenta, contrasta col motivo pietoso.
In mancanza di questi requisiti ricadiamo nell’ambito di un delitto di comodità,
caratterizzato da motivazioni utilitaristiche-egoistiche, di odio, di aggressività.
Modi di esplicazione dell’atto eutanasico, quindi, sono: l’omicidio comune
(senza richiesta o consenso del soggetto); l’omicidio del consenziente; l’aiuto al
suicidio.
Il
trattamento
penale
dell’eutanasia
pietosa
consensuale,
dunque,
è
particolarmente rigoroso, in quanto viene punita o come omicidio comune (art.
575 c.p.) o come omicidio del consenziente (art. 579 c.p.92).
Infatti, la formulazione testuale dell’art. 579 pone notevoli problemi
applicativi: innanzitutto si deve prendere atto del silenzio del legislatore sugli
eventuali motivi di pietà della causazione della morte e sulla condizione di
sofferenza del paziente. Inoltre, un ostacolo, difficile da superare, è costituito
dalla validità del consenso sul quale, appunto, si fonda la fattispecie prevista
dall’art. 579.
Infatti, il terzo comma della disposizione in questione, disconosce
espressamente la validità del consenso quando questo proviene da persona
infradiciottenne, da persona inferma di mente o in condizioni di deficienza
psichica. Com’è evidente, queste sono condizioni che normalmente si
riscontrano nei malati terminali che richiedono la morte, dato che in loro si
ravvisa
un
grave
deterioramento
psicofisico
determinato
dai
dolori
insopportabili o dalla somministrazione di farmaci antidolorifici anestetizzanti.
Art. 579 c.p. “Chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con la
reclusione da sei a quindici anni. Non si applicano le aggravanti indicate nell’art. 61. Si
applicano le disposizioni relative all’omicidio se il fatto è commesso: 1) contro una persona
minore degli anni diciotto; 2) contro una persona inferma di mente, o che si trova in
condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcoliche o
stupefacenti; 3) contro una persona il cui consenso sia stato estorto con violenza, minaccia o
suggestione, ovvero carpito con inganno”.
92
110
Di conseguenza, in tali casi, le ipotesi di eutanasia attiva, integrano gli estremi
dell’omicidio comune doloso93.
Alcuni autori, senza dare rilievo alle reali condizioni della vittima partono da
una presunzione: “è da presumersi che chi consente alla propria uccisione sia
per ciò solo alterata di mente, e quindi incapace di un normale consenso,
giacché il fatto di superare la forza inibitoria del più forte degli istinti, quello
della propria conservazione, fa arguire un grave squilibrio psichico”94.
Altri sostengono che il consenso prestato alla propria uccisione debba
considerarsi per forza di cose invalido e ciò non tanto e non solo a causa delle
condizioni di infermità in cui si trova, ma soprattutto per l’insidiosa opera
istigatrice e persuasiva attuata dall’uccisore per indebolire le resistenze della
vittima ed estorcere il suo consenso95.
Per tutti questi autori, pertanto, “l’uccisione del consenziente non solo non
appare razionalmente meno grave di qualsiasi altro omicidio doloso, ma talora
Caso famoso, in cui la giurisprudenza fu costretta a forzare il dato normativo, è stato quello
di uno zio che, con un colpo di arma da fuoco, uccise per pietà il nipote, che gli era affidato,
affetto da insufficienza mentale grave da idrocefalia congenita. La vicenda descrive un rapporto
di grande affetto e di forti legami affettivi: il nipote era stato abbandonato dalla madre e
l’imputato aveva sacrificato anche il proprio lavoro per dedicarsi al malato. Il giovane chiedeva
di morire espressamente o comunque esprimeva questa grande disperazione. Nonostante le
risultanze di una perizia secondo cui la vittima dell’omicidio era affetta da grave insufficienza
mentale, la Corte affermò la validità di quel consenso, implicito, o tacito, prestato dalla vittima,
in quanto dotata di una capacità intellettiva elementare. Trovò applicazione l’art. 579 c.p. V.
Corte D’Assise di Roma, 10 febbraio 1983, in FI, 1985, II, 489.
94
La citazione è di Manzini, riportata da Guadagno, Il problema giuridico dell’eutanasia, in
Critica penale e medicina legale, 1962, 132, il quale aggiunge “man mano che il malato perde la
speranza di guarigione, comincia a vedere nella morte la liberazione delle sue pene. Il malato
allora, in uno stato di vera e propria esaltazione mentale causata dalla sua infermità pronuncia
frasi con le quali si augura di morire o anche esorta altri ad ucciderlo (- voglio morire – fatemi
morire – non posso più resistere!). Ma in quelle frasi può ravvisarsi quel consenso
inequivocabile e perfettamente valido, richiesto dal legislatore?”.
95
Così Cassiano, L’eutanasia, in Riv. pen., II, 1952, 362, “va pertanto esaminato con
approfondita indagine il comportamento della vittima in ordine alla manifestazione del suo
consenso, affinché questa non sia il risultato di un’accorta attività istigatrice dell’uccisore”. In
merito si è pronunciata la Corte di Cassazione, 24 novembre 1947, in Giustizia penale, II, 1948,
15, per cui “è esclusa l’ipotesi preveduta dall’art. 579 c.p. quando il consenso si vorrebbe
desumere dalle grida di aiuto e di invocazione della morte di chi si trovi in stato di estrema
debolezza per lesioni precedentemente riportare”.
93
111
si presenta anzi come particolarmente odiosa e criminosa, perché l’uccisore
approfitta, quanto meno, della debolezza della vittima”96.
Tuttavia, la dottrina e la giurisprudenza prevalenti, verificando essenzialmente
la condizione concreta in cui si trova il malato, affermano che coloro che sono
prostrati da gravi sofferenze fisiche, possono – non necessariamente devono –
presentare delle situazioni psichiche tali per cui il consenso eventualmente
prestato sarà invalido97.
Per quanto riguarda gli eventuali motivi di pietà abbiamo rilevato come non
siano stati presi in considerazione dal legislatore98. Questi potranno essere
valutati ai fini dell’applicazione dell’attenuante di cui all’art. 62, comma 1, del
c.p.99, ovverosia l’aver agito per motivi di particolare valore morale o sociale100,
Così Manzini cit. da Guadagno, Il problema giuridico dell’eutanasia, cit., 132.
In giurisprudenza v. Corte Di Assise di Trieste, 2 maggio 1988, in FI, 1989, II, 184: “Non
integra gli estremi del reato di omicidio comune aggravato, bensì del reato di omicidio del
consenziente, l’uccisione della propria madre colpita da affezione morbosa inguaribile […]
quando risulti accertato che l’infermità non ha determinato nella vittima una deficienza
psichica tale da renderne invalido il consenso”. La sentenza della Corte di Cassazione, 18
novembre 1954, in Arch. pen., II, 1955, 123, si caratterizza per una posizione di accesa
condanna verso l’eutanasia e per una netta affermazione della vita umana come valore che
trascende la sfera individuale per assumere una dimensione collettiva, ma si conclude per una
trattamento più mite per l’imputato affermando “perché ricorra il reato di cui all’art. 579 è
necessario […] la prova rigorosa che l’infermità del sofferente non abbia determinato in lui una
deficienza psichica tale da rendere invalido il consenso”.
98
Esempi di legislazioni che hanno preso esplicitamente in considerazione il motivo di pietà
fino a farne una circostanza attenuante per l’omicidio volontario sono: il codice norvegese, che
nel §235 comma 2 prevede che, oltre i casi di omicidio del consenziente, la pena prevista per
l’omicidio doloso può essere attenuata se “l’autore per pietà ha privato o ha collaborato a
privare della vita un malato senza speranze”; e il codice polacco che all’art. 227 si limita a
considerare come circostanza attenuante il motivo di pietà senza ulteriori considerazioni. V.
Porzio, Eutanasia, in Enc. Dir., XVI, 1967, 109.
99
“Gli eventuali motivi di pietà, da accertarsi sempre con la massima circospezione e da
valutarsi con una intelligente diffidenza, potranno essere apprezzati all’effetto dell’applicazione
della attenuante generale di cui all’art. 62 com. 1”; così la Relazione del Guardasigilli al codice
Rocco riportata da Adamo, Il problema giuridico e medico-legale dell’eutanasia, cit., 382.
Secondo Virotta, I mostri, gli incurabili e il diritto alla vita, in Arch. pen., 1963, I, 214
“l’attenuante competerà per esempio al padre naturale, al fratello, all’ascendente, ecc., mentre
sarebbe eccessivo riconoscere a chiunque la diminuente. […] Non riteniamo che l’attenuante
competa al medico, il quale in ogni caso ha il dovere di prolungare la vita salvo l’esistenza di
particolari legami col paziente che giustifichino l’omicidio per amore”.
100
Il motivo di particolare valore morale è quello meritevole di particolare approvazione
secondo la coscienza etica umana (es. amore materno); mentre il motivo di particolare valore
96
97
112
e all’art. 62 bis (attenuanti generiche)101. Pertanto, se il motivo di pietà porta ad
uccidere chi non ha efficacemente consentito, non può sussistere il titolo
dell’art. 579 c.p., per mancanza del suo presupposto, ma si applica quello
dell’omicidio doloso comune sia pure con l’attenuante ex art. 62 c.p.
Tuttavia, il richiamo a questa attenuante non mitiga il rigore di questa
disciplina se pensiamo che, da un lato, la giurisprudenza della Cassazione si è
costantemente orientata nel senso di ritenere che ai fini della sussistenza
dell’attenuante di cui all’art. 62 n. 1 c.p. l’azione deve essere determinata da
motivi di spiccata nobiltà ed elevatezza, tali da superare la media dei
sentimenti umani102; dall’altro la stessa attenuante può risultare soccombente,
nel giudizio di bilanciamento, rispetto a quelle aggravanti, che in questi casi
sociale è quello che viene valutato favorevolmente secondo le concezioni e le finalità della
comunità organizzata e che, quindi, è più condizionato dalle contingenze storiche (es.
patriottismo). V. Mantovani, Diritto penale, Padova, 2001, 428.
101
La Cassazione ha affermato che il motivo di pietà, con cui si suole giustificare l’eutanasia,
potrà essere dal giudice apprezzato “soltanto agli effetti della concessione delle attenuanti
generiche e di quella di aver agito per motivi di particolare valore morale o sociale, trattandosi
di un fatto meritevole indubbiamente di speciale considerazione”. Ma aggiunge che “non potrà
mai avere efficacia discriminante sotto il profilo che l’agente non abbia avuto coscienza
dell’antigiuridicità del fatto, spinto dalla volontà di far del bene”. In tal modo la Cassazione ha
preso posizione rispetto al perenne problema del dolo, e cioè se esso abbracci anche la
consapevolezza del disvalore del fatto. E quindi, contro coloro che, fra gli argomenti difensivi
in tema di eutanasia, prospettano il fatto che in tale ipotesi mancherebbe il dolo per mancanza
di coscienza dell’antigiuridicità del fatto, viene obiettato che questa è estranea al concetto di
dolo, concepito dal codice penale esclusivamente in termini di previsione e volontà dell’evento
(art. 43 c.p.). Così Cassazione, 18 novembre 1954, cit.,123; in dottrina v. Cassiano, L’eutanasia,
cit., 363.
102
Infatti, in senso contrario all’applicazione della circostanza attenuante dell’art. 62 si è
espressa la Cass. Pen., Sez. I, 7 aprile 1989, in RIML, 1992, 719, che ha sostenuto che
l’attenuante dei motivi di particolare valore morale o sociale “non può essere concessa in tema
di eutanasia mancando ancora nei confronti di questa quel generale apprezzamento positivo
dal punto di vista etico-morale da parte della società attuale, necessario per la qualificazione
del motivo come di ‘particolare valore morale o sociale’”. Nello stesso senso Corte D’Assise di
Catania, 24 ottobre 1977, in Giurisprudenza di merito, 1978, II, 1210 ss., “per la ricorrenza
dell’attenuante dei motivi di particolare valore morale e sociale non basta che il movente
dell’azione sia suscettibile di una valutazione etica positiva, ma è necessario che l’agente abbia
operato per realizzare lo scopo spiccatamente altruistico e nobile, conforme alla morale ed ai
costumi del tempo e del luogo del reato commesso, sicché non può dar luogo all’attenuante in
questione la necessità di curare una persona della propria famiglia, e quindi, l’esigenza di lenire
le sue sofferenze”.
113
possono consistere nella premeditazione, nei rapporti di parentela, nell’uso,
come strumento di morte, di sostanze venefiche, tutte punibili con l’ergastolo.
Quindi, astrattamente, l’omicidio aggravato potrebbe essere punito con
l’ergastolo.
Non manca, nondimeno, chi ritiene che la pietà agisca in senso opposto nel
senso che il motivo di pietà, col prevalere sulla naturale e originaria avversione
dell’uomo alla soppressione del proprio simile, rivela una personalità
sanguinaria103.
Non è mancato, tuttavia, chi, nel cercare di risolvere il problema alla stregua
degli ordinamenti ordinari offerti dal sistema penale, ha prospettato la
possibilità di applicare la scriminante dello stato di necessità al caso
dell’eutanasia; tale scriminante ricorre quando l’agente si trovi costretto ad
agire dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave
alla persona104. La tendenza della dottrina maggioritaria105 è, ciò nondimeno,
orientata in senso negativo; il fatto, pur venendo commesso per salvare altri dal
pericolo attuale di un danno grave alla persona, non può essere scriminato per
Così Manzini, Trattato di diritto penale, VIII, 90 e Cassiano, L’eutanasia, in Riv. pen., II,
1952, 358.
104
Art. 54 c.p. “Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla
necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un grave danno alla persona, pericolo da
lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato
al pericolo”.
105
V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, cit., 106; Virotta, I mostri, gli incurabili e il
diritto alla vita, 211; Id, L’eutanasia, in Noviss. Dig. It., XI, 1957, 883; Mantovani, I trapianti e
la sperimentazione umana nel diritto italiano e straniero, Padova, 1974, 240 ss. che afferma
l’assoluta estraneità di tale causa di giustificazione al campo dell’attività medico-chirurgica. In
giurisprudenza, Corte D’Assise di Catania, 24 ottobre 1977, cit., “l’eutanasia infrange il nesso di
proporzione […] in quanto pone a confronto due opposte esigenze, entrambe apprezzabili,
quella di lenire le sofferenze altrui e quella di rispettare la vita umana, postulando un giudizio
di valore che, secondo la morale e il costume, non può che dare la prevalenza al rispetto della
vita umana”.
103
114
mancanza dell’altro requisito, cioè quello della proporzione tra il fatto stesso e
il male minacciato, perché non si può salvare una persona uccidendola106.
Alcuni autori, infine, hanno ritenuto quale unica via praticabile de iure
condito il ricorso all’istituto della grazia (cioè un mezzo di estinzione,
riduzione o commutazione della pena individuale, ex art. 174 c.p.) da
concedere all’omicida per pietà dopo la condanna.
Per i sostenitori di questa tesi, questa rappresenterebbe l’unica soluzione
giuridica in grado di compendiare sia le esigenze degli ordinamenti positivi,
mantenendo il giudizio di disvalore sul fatto (la grazia come momento dell’idea
di individualizzazione del giudizio), sia quelle della coscienza dei singoli per un
atto di comprensione verso il soggetto omicida per pietà107.
La critica mossa all’uso della grazia in materia di eutanasia è che, a parte l’an e
il quando della sua concessione, rischierebbe di determinare, proprio per la sua
natura di provvedimento individuale, inaccettabili discriminazioni soggettive
e, pur costituendo un espediente di opportunità nell’attuale realtà legislativa,
eviterebbe il problema, senza affrontarlo e risolverlo108.
Quindi, e per concludere, allo stato attuale, l’eutanasia pietosa costituisce
sempre un delitto di omicidio. Se essa è consensuale sarà applicabile l’art. 579.
Se, invece, il malato non ha manifestato alcuna volontà o se il suo consenso
Per quanto riguarda il ricorso alla scriminante dell’adempimento del dovere (art. 51 c.p.) da
parte del medico che pratichi l’eutanasia, anch’essa è da escludere in quanto dovere del medico
è di curare, non di uccidere.
107
Per tutti v. Porzio, Eutanasia, cit., 113 che afferma “non potendo transigere, anche davanti a
situazioni eccezionali come quelle dell’eutanasia, sui principi, il diritto ha, proprio con
l’istituto della grazia, la possibilità di intervenire senza sacrificare quei principi e senza tradire
la sua funzione che è quella di essere presente, di guardare a tutti i limiti cui la condizione
dell’esistenza umana può spingere l’uomo”.
108
Così Mantovani, Problemi giuridici dell’eutanasia, in Arch. giur., 1970, 12; Stella, Il
problema giuridico dell’eutanasia; l’interruzione e l’abbandono delle cure mediche, in RIML,
1984, 1014 per il quale “pensare di risolvere il problema dell’eutanasia ricorrendo all’istituto
della grazia significa, con tutta evidenza, chiedere troppo a un istituto destinato a scopi ben più
modesti”.
106
115
risulta invalido, l’eutanasia costituisce omicidio comune, eventualmente
attenuato a norma dell’art. 62, comma 1.
Breve attenzione, infine, vorrei rivolgere ad un’altra modalità tramite la quale
si manifesta la pratica eutanasica, ovverosia al suicidio assistito109, che riguarda
quelle ipotesi in cui la morte è causalmente riconducibile al paziente, il quale si
è avvale, nella realizzazione del suo proposito, dell’apporto materiale o
psicologico del medico; queste ipotesi richiamano l’applicazione del delitto di
istigazione o aiuto al suicidio110.
Le ipotesi di eutanasia, riconducibili ora ai delitti di istigazione/aiuto al suicidio
ora a quelli di omicidio del consenziente, si avvicinano fortemente sotto il
profilo della comune spinta motivazionale dell’agente, ma si differenziano
nell’attuazione materiale di questa volontà: nell’istigazione/aiuto al suicidio, la
volontà di morire, oltre che essere espressa è anche realizzata dalla stessa
vittima, mentre nell’omicidio del consenziente, la volontà del morente si
realizza solo per il tramite dell’intervento del terzo111.
Nei rapporti con l’omicidio del consenziente, è la condotta di agevolazione che
sembra segnare una linea di demarcazione tra partecipazione al suicidio e
omicidio con il consenso della vittima; infatti l’agevolazione individua il tipo di
109
10.
Per quanto riguarda la valutazione del suicidio nel nostro sistema penale v. supra §.5 nota
Art. 580 c.p. “Chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito al suicidio,
ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la
reclusione da cinque a dodici anni. Se il suicidio non avviene, è punito con la reclusione da uno
a cinque anni sempre che dal tentativo derivi una lesione personale grave o gravissima”.
Possiamo rilevare, tuttavia, che l’istigazione è, nel nostro paese, quasi inapplicata. In altri paesi
hanno ricevuto eco casi di suicidi di massa su istigazione di capi di sette religiose.
111
In questo senso, Cassazione, 6 febbraio 1998, in Gius. pen., 1998, 449, che ha sostenuto che
in entrambe le fattispecie si punisce un nucleo comune, dato dal cagionare la morte della
vittima, ma questo cagionare si differenzia per il diverso grado di efficienza causale di ciascuna
delle condotte. Per cui, si avrà “omicidio del consenziente, nel caso in cui colui che provoca la
morte si sostituisca in pratica all’aspirante suicida, pur se con il consenso di questi […] mentre
si avrà istigazione o agevolazione al suicidio tutte le volte in cui la vittima abbia conservato il
dominio della propria azione, nonostante la presenza di una condotta estranea di
determinazione o di aiuto alla realizzazione del suo proposito, e lo abbia realizzato, anche
materialmente, di mano propria”.
110
116
partecipazione del terzo estraneo al suicidio altrui, includendo la sola attività di
colui che in qualsiasi modo interviene a facilitare l’esecuzione del proposito
suicida, tuttavia senza prendere materialmente parte alla realizzazione degli
atti esecutivi112.
Avuto riguardo alle situazioni eutanasiche, le condotte maggiormente
ricorrenti si sostanziano nella prescrizione di farmaci, rifornimento di essi o di
qualsiasi altro mezzo idoneo a togliersi la vita (es. fornire la pillola mortale
all’ammalato, o aiutare il malato, che lo richiede, a versarsi e a bere il veleno
contenuto nel bicchiere).
Per tutte queste osservazioni v. Magro, Eutanasia e diritto penale, Torino, 2001, 175. L’A.
specifica, inoltre, che se colui che agevola interviene come partecipe attivo nella fase esecutiva
e da lui dipende la realizzazione dell’evento, si potrebbe avere, nel caso, la configurazione del
reato più grave di omicidio del consenziente, sebbene la morte sia riconducibile causalmente
non soltanto all’agevolatore, ma anche alla stessa vittima.
112
117
CAPITOLO IV
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE E DE IURE CONDENDO
Sommario: 13. Proposte de iure condendo. – 14. Conclusioni.
§12. PROPOSTE DE IURE CONDENDO.
Le discussioni dottrinarie e soprattutto le decisioni giudiziarie hanno posto in
luce l’inadeguatezza dei risultati raggiunti e raggiungibili de iure condito per la
soluzione dei casi di eutanasia, soprattutto di fronte alla constatazione che
queste soluzioni caricano di un’eccessiva responsabilità il solo giudice.
Infatti, nelle sentenze italiane (ma anche straniere)1 trapela spesso il dilemma
del giudice di infliggere una pena che, in relazione a certe situazioni, viene
considerata, dalla coscienza propria e sociale, come esorbitante e iniqua
rispetto all’entità del fatto o di disapplicare in parte la legge attraverso
espedienti (ad esempio ravvisando consensi validi, ignorando aggravanti,
creando situazioni attenuanti) o pervenendo ad assoluzioni che non sono
giustificabili sotto il profilo giuridico e della generalprevenzione.
Si giunge, pertanto, alla conclusione che l’unica soluzione possibile, al fine di
fronteggiare le lacune del diritto penale nei confronti dell’eutanasia quale
fenomeno sempre più emergente, sia quella della sua riforma, tenuto conto del
fatto che l’agente non agisce con lo stesso impeto del lucido omicida, ma agisce
per pietà e misericordia in presenza di una particolare e drammatica situazione.
Ecco, dunque, che si prospettano ipotesi affinché, alla luce di queste
considerazioni, ai fini sanzionatori, il reo possa beneficiare di un trattamento
più benevolo, ritenendo eccessiva una sua equiparazione a chi uccide frigido
pacatoque animo.
Per una casistica delle sentenze italiane e straniere v. Giusti, L’eutanasia. Diritto di vivere.
Diritto di morire, Padova, 1982, 37.
1
118
Vengono, così, avanzate delle proposte de iure condendo come: l’abbassamento
dei minimi di pena previsti per il reato di omicidio comune; la creazione di una
norma speciale ed autonoma che disciplini l’eutanasia pietosa consensuale
come ipotesi di reato specifica; l’eutanasia come circostanza attenuante
specifica del reato di omicidio (comune o del consenziente); la completa non
punibilità, che sancirebbe il diritto dell’uomo a scegliere liberamente e
consapevolmente il tempo e il modo della propria morte.
a) Abbassamento dei minimi di pena per il reato di omicidio2: è la proposta
di riforma meno radicale.
È opportuno rilevare come legislazioni di altri paesi abbiano previsto, per
l’omicidio, pene notevolmente inferiori, nel minimo, rispetto a quelle del
nostro codice penale (es. codice olandese, danese, portoghese, islandese), che
esprimono l’impronta autoritaria di un codice nato sotto l’influsso di una
concezione autoritaria di uno Stato ormai superata e che continua a
sopravvivere in un mutato contesto politico-costituzionale solo a causa
dell’inerzia del legislatore; di conseguenza, in assenza di un’autonoma
disciplina penale dell’eutanasia, tali sistemi potrebbero evitare l’applicazione di
pene eccessive rispetto alla situazione concreta.
Perciò, l’abbassamento dei minimi di pena previsti per l’omicidio (con una
parallela e opportuna modifica della sospensione condizionale della pena)
consentirebbe di mantenere salvi i vantaggi dell’attuale regolamentazione,
eliminandone i gravi inconvenienti.
Infatti, da una parte, rimarrebbe ribadito e salvaguardato il principio
dell’indisponibilità della vita umana: mantenendo ferma l’illiceità penale
dell’eutanasia, la minaccia della pena, nella sua funzione generalpreventiva,
continuerebbe a costituire un ostacolo al diffondersi del fenomeno eutanasico3.
Per tutto v. Mantovani, Problemi giuridici dell’eutanasia, in Arch. giur., 1970, 48.
“Impedendosi che con una qualsiasi deroga si aprano spaventose falle, sulla china delle quali
si rischierebbe, poi, di scivolare verso mostruose realtà”, v. Mantovani, op. cit, 49.
2
3
119
Dall’altra parte, si eviterebbero gli eccessi di assoluzioni ingiustificate o di
punizioni esagerate, non sempre condivise dalla coscienza sociale.
L’idea di fondo di questa proposta è che la carica positiva che i motivi di pietà
possono dare all’eutanasia non è sufficiente a far venir meno il disvalore del
fatto, ma solo a rendere più tenue il giudizio di riprovevolezza dell’autore.
b) Norma speciale e autonoma per il reato di eutanasia4: la dottrina ritiene
che anche questa possibilità, pur mantenendo fermo il carattere antigiuridico
della condotta eutanasica, sia in grado di conciliare la protezione della vita
umana con le esigenze di mitezza della pena in ipotesi particolari.
Più
in
particolare
la
norma
incriminatrice
dovrebbe
prevedere
la
comminazione di pene non elevate e con un minimo edittale basso, così da
consentire al giudice di meglio adeguare la pena concretamente applicabile alle
diverse situazioni concrete fino a consentire l’applicazione, in casi estremi,
della sospensione condizionale della pena e dell’affidamento in prova del reo.
Questa soluzione permetterebbe al legislatore di affrontare e colmare alcune
lacune che impediscono al sistema vigente di disciplinare nuove situazioni che
sono sempre più meritevoli di interesse (e questo può sostenersi per tutte
quelle ipotesi, oltre l’eutanasia, che sono oggetto di bioetica; pensiamo ad
esempio
alla
fecondazione
artificiale).
Quindi
non
più
ricorso
ad
interpretazioni analogiche per affrontare tematiche non espressamente
previste, ma un adeguato intervento sul piano della tipicità, rispettando il
principio di legalità5.
V. Mantovani, Problemi giuridici dell’eutanasia, cit., 47; Stella, Il problema giuridico
dell’eutanasia. L’interruzione e l’abbandono delle cure mediche, in RIML, 1984, 1014;
Monticelli, Eutanasia, diritto penale e principio di legalità, in Indice penale, 1998, 515;
Canestrari, Le diverse tipologia di eutanasia: una legislazione possibile, in RIML, 2003, 5, 751;
Adamo, Il problema giuridico e medico-legale dell’eutanasia, in Arch. pen., 1950, 383; Virotta,
I mostri, gli incurabili e il diritto alla vita, in Arch. pen., I, 216.
5
Per queste ultime osservazioni v. Monticelli, Eutanasia, diritto penale e principio di legalità,
cit., 516.
4
120
Ma da taluno viene sottolineato come questa eventuale scelta, seppur
opportuna in via di principio, in via di fatto risulterebbe una strada ardua da
percorrere, dovendo procedere ad una formulazione legislativa dell’eutanasia
sufficientemente precisa e rigorosa (dovendo, ad esempio, descrivere con
precisione i presupposti fattuali: uso di mezzi indolore, grave stato di
prostrazione, irreversibilità del processo letale, prossimità della morte), tale da
poter evitare ogni possibile processo di dilatazione della fattispecie e di
estensione del regime di favore a vantaggio di categorie affini6.
c) Eutanasia come circostanza attenuante del reato di omicidio: alcuni
autori7, mossi dalla stessa preoccupazione di salvaguardia dei principi e di
mitigazione della pena, hanno previsto questa soluzione, con una riduzione di
pena (fino ad un terzo) notevolmente più consistente di quella oggi effettuabile
sulla base dell’applicazione dell’attenuante dei motivi di particolare valore
morale e sociale, con l’esclusione (come è previsto dall’art. 579 c.p.) o la
possibilità di esclusione delle eventuali aggravanti concorrenti. Questa
proposta risente di quanto enucleato dallo Schema di delega per l’emanazione
di un nuovo codice penale (1992). Infatti, l’art. 59 nn. 1 e 3 del c.d. Progetto
Pagliaro ha previsto una specifica circostanza – pur senza precisarne l’effetto
attenuante – quando il fatto sia commesso “con mezzi indolori e per esclusivo
Così Mantovani, Problemi giuridici dell’eutanasia, cit., 49, il quale, aggiunge: “Tutto ciò nella
fiduciosa – ma forse illusoria – attesa, da più parti prospettata, che la medicina possa vincere, se
non la morte, la malattia, la deformità, almeno definitivamente il dolore. Quel dolore che
costituisce la spinta alla eutanasia pietosa e la vittoria sul quale svuoterebbe di contenuto il
problema giuridico dell’eutanasia per il venir meno del suo stesso oggetto: i fatti della uccisione
pietosa”.
7
V. Guadagno, Il problema giuridico dell’eutanasia, in Critica penale e medicina legale, 1962,
137; Grasso, Riflessioni in tema di eutanasia, in Quad. Giust., 1986, II, 69; Stella, Il problema
giuridico dell’eutanasia, cit., 1014; Mantovani, Aspetti giuridici dell’eutanasia, cit., 463, che,
come per l’ipotesi della configurazione dell’eutanasia come reato autonomo, rileva questo
inconveniente: “La configurazione dell’eutanasia pietosa consensuale come reato autonomo o,
meglio, come attenuante richiede una formulazione legislativa rigorosa, per assicurare che tale
eutanasia resti sempre un problema di “caso concreto” di omicidio e per evitare che finiscano,
fatalmente, per passare, attraverso l’ipotesi privilegiata, fatti estranei alla autentica eutanasia
pietosa: l’eutanasia su larga scala”.
6
121
motivo di pietà verso la persona incapace di prestare un consenso valido, la
quale per ragioni di malattia si trovi in irreversibile condizione di sofferenza
fisica insopportabile o particolarmente grave, quando sia stata constatata
l’impotenza dei trattamenti antalgici”8.
d) Legalizzazione dell’eutanasia attiva consensuale: a sostegno di questa
scelta viene riportato il rilievo e il rispetto da attribuire all’autodeterminazione
dei pazienti che chiedono di morire; e tale argomento assume rilievo nei
confronti di un malato terminale che non è in grado di far cessare da solo la
propria vita9. Quindi, questo indirizzo della dottrina rivendica la necessità di
V. Canestrari, Le diverse tipologie di eutanasia: una legislazione possibile, cit., 751.
Sotto il profilo comparatistico, anche in paesi a noi vicini si sono avviate iniziative di riforma
della legislazione, fallite, volte a legittimare l’eutanasia attiva. Un esempio è costituito dal
Voluntary Euthanasia Bill introdotto alla Camera dei Lords nel 1969 da lord Raglan, il cui
obiettivo era quello di autorizzare i medici a dare l’eutanasia ai pazienti che l’avessero
richiesta. La condizione fondamentale era che il paziente fosse affetto da grave malattia o da un
deterioramento fisico ritenuti incurabili e capaci di arrecare al paziente insopportabili dolori o
di renderlo inetto a una vita razionale. Il morente doveva essere adulto e mentalmente
responsabile e doveva aver firmato, in presenza di due testimoni, una dichiarazione con la
quale chiedeva, trovandosi nelle condizioni dette, di essere soppresso mediante eutanasia, in
tempi e circostanze da lui indicate o, se incapace, a discrezione del medico curante. Nella stessa
dichiarazione il paziente chiedeva che non gli venissero applicate misure rianimatorie per
riportarlo alla coscienza o per prolungargli la vita. Il Bill fu respinto dalla House of Lords con
61 voti contro 40. Altro esempio è dato da ciò che è accaduto nel Cantone di Zurigo nel 1977: i
cittadini promossero referendum popolare per legittimare l’eutanasia attiva in determinate
condizioni: il paziente, in sintesi, doveva essere affetto da malattia incurabile, dolorosa e
sicuramente mortale. Avrebbe dovuto chiedere per iscritto di essere soppresso da parte di un
medico titolare di diploma federale. Questa iniziativa raccolse 203.148 voti favorevoli e
144.822 voti contrari, nel referendum del 25 settembre 1977. Essa, tuttavia, fu respinta
all’unanimità da una commissione nazionale di esperti e successivamente dal Consiglio
Nazionale Federale il 6 marzo 1979. V. Grasso, Riflessioni in tema di eutanasia, cit., 70; l’A.
afferma che: “Se i sistemi penali assumono certi specifici contenuti e non altri, non è per un
capriccio del legislatore, ma perché il detentore del potere normativo avverte la necessità di
apprestare tutela a valori connessi con l’esistenza del sistema sociale, tra i quali il bene della
vita assume – e non può che assumere – un valore primordiale ed irrinunciabile”. È recente, 12
maggio 2006, la proposizione al Parlamento inglese della legge, proposta da Lord Joffe, che
prevede la legalizzazione della morte assistita, sulla scia della vicenda di Diane Pretty, malata
di paralisi progressiva che espresse il desiderio di suicidarsi con l’assistenza materiale del
marito (la donna si rivolse all’autorità giudiziaria; il suo caso approdò alla Corte dei Diritti
dell’Uomo istituita dal Consiglio d’Europa. La donna viene sconfitta anche a Strasburgo, che in
quell’occasione ha riconfermato il principio di inviolabilità della vita umana). Il disegno di
legge, a seguito di un dibattito di sette ore, è stato bocciato dalla Camera dei Lords con 148 voti
contro 100. Più dettagliatamente per il caso Pretty v. Tassinari, Profili penalistici dell’eutanasia
8
9
122
una legge che, con il riconoscere il diritto dell’uomo di scegliere il modo e il
tempo della propria morte, identifichi l’eutanasia consensuale come fatto lecito
e, in quanto tale, differente dall’omicidio10.
La tesi della liceità della eutanasia attiva comporta la rinuncia a una concezione
sacrale della vita per rimarcare l’importanza anche della sua dimensione
qualitativa: “speculare alla rottura del tabù si pone la conclamata astensione del
pubblico dalla sfera delle scelte private dei cittadini”11. Ognuno deve poter
decidere da solo, senza alcuna interferenza da parte dello Stato; le leggi di uno
Stato laico e pluralista non dovrebbero rispecchiare una determinata
concezione etica ormai non più universalmente condivisa, ma costituire uno
strumento di coesione tra le diverse concezioni della vita che convivono
all’interno della società12.
D’altra parte è necessario tener conto anche degli effetti che possono derivare
da una legalizzazione del fenomeno eutanasico13.
Innanzitutto la legalizzazione dell’eutanasia urterebbe con la lettera e lo spirito
della Costituzione italiana nella sua essenza personalistica, e , parimenti, con
negli ordinamenti anglo-americani, in AA.VV, Eutanasia e diritto. Confronto fra discipline, a
cura di Canestrari-Cimbalo-Pappalardo, Torino, 2003, 119.
10
V. Pappalardo, Eutanasia e soppressione dei mostri, in Giust. pen., I, 1972, 270 : “In un
mondo in cui il progresso si accanisce lodevolmente contra la miseria, la fatica ed il dolore, il
divieto dell’eutanasia è un anacronismo crudele. È crudele, nello stesso modo, sapere che una
non-coscienza che si può sopprimere senza danno e senza dolore soggettivo, si avvia, per nostra
colpa, a divenire una coscienza eternamente sofferente, frustrata, priva per sempre di libertà e
di gioia di vivere”; e in epoche passate: Del Vecchio, Morte benefica, Torino, 1928, 88, Ferri,
L’omicidio-suicidio, Torino,V ed., 1925.
11
Così Cornacchia, Euthanasia. Il diritto penale di fronte alle scelte di fin di vita, in Teoria del
diritto e dello Stato, 2002, 2, 404.
12
Così Neri, Eutanasia. Valori, scelte morali, dignità delle persone, ed. Laterza, Roma-Bari,
1995, 132. Rimoli, Laicità, in Encicl. Giur., Treccani, XVIII, Roma, Treccani, 1995, 1, definisce
la laicità dello Stato come “neutralità degli apparati pubblici dinanzi alle istanze emergenti di
tempo in tempo dalla comunità: lo Stato laico si concepisce come quello che opera quale punto
di riferimento di ideologie e culture diverse senza assumerne alcuna come propria, ma
garantendo le condizioni istituzionali del loro conflitto e della composizione di questo: ossia il
dialogo. Lo Stato laico costituisce l’inveramento istituzionale di quella regola laica della
salvaguardia dei diritti di libertà intesa come norma di coesistenza di tutte le filosofie e di tutte
le religioni”.
13
V. §.8.
123
l’art. 2 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo14, che è parte integrante
del nostro ordinamento e che è dotata di un valore, secondo quanto si è
propensi a ritenere, superiore a quello della comune legge ordinaria, cioè di
quel tipo di legge di cui si servirebbe il legislatore che volesse dichiarare
l’impunità dell’eutanasia.
La liberalizzazione dell’eutanasia finirebbe per aprire una breccia nel divieto di
uccidere; sarebbe molto facile che l’eutanasia volontaria si possa trasformare,
prima o poi, in eutanasia non consensuale, tutte le volte in cui si arrivi a
presumere il consenso della vittima. È il rischio dei c.d. “passi successivi”, cioè
della progressiva ed inarrestabile estensione della pratica a situazioni in
principio escluse. Questo rischio provocherebbe, a livello di psicologia
collettiva, effetti disastrosi in termini di perdita di sicurezza, legati alla messa
in discussione del primordiale tabù per l’uomo: il divieto di uccidere un
proprio simile15.
Il percorso su cui si fonda il ragionamento dei “passi successivi” è quello per cui
da una scelta, oltre alle conseguenze volute e desiderate, possono derivare
anche conseguenze non volute e indesiderabili; legalizzare l’eutanasia potrebbe
portare, nel futuro, ad operazioni di massa nei confronti degli individui più
deboli, in funzione di strumento repressivo di annientamento di tutti coloro la
La Convenzione è stata resa esecutiva con l. 4 agosto 1955 n. 848 e entrata in vigore per
l’Italia il 26 ottobre 1955. L’art. 2, rubricato ‘Diritto alla vita’, così dispone: “Il diritto alla vita
di ogni persona è protetto dalla legge. Nessuno può essere intenzionalmente privato della vita,
salvo che in esecuzione di una sentenza capitale pronunciata da un tribunale, nei casi in cui il
delitto sia punito dalla legge con tale pena. […]”.V. supra §.5.
15
Magro, Eutanasia e diritto penale, Torino, 2001, 230, rileva come anche i sostenitori della
legalizzazione dell’eutanasia e, in generale, coloro che sono favorevoli al principio della libera
disponibilità della vita, affermano che, pur essendo l’eutanasia in via di principio perfettamente
lecita moralmente, è opportuno che venga vietata a causa delle “disastrose conseguenze sociali
che si verificherebbero a seguito di una sua legalizzazione. […] Questo argomento, che è di
carattere esclusivamente empirico, giunge alla giustificazione di una assoluta penalizzazione
delle condotte eutanasiche a causa del disastro sociale che la configurazione di eccezioni al
generale divieto di uccidere e di disporre della vita umana comporterebbe”.
14
124
cui vita è ritenuta non degna di essere vissuta, anche senza o, addirittura
contro, la loro volontà.
Altre conseguenze riconducibili a una possibile legalizzazione possono essere
così sintetizzate: in primo luogo, l’indebolimento dell’impegno a fornire
un’adeguata assistenza sanitaria ai morenti, cioè tutte le cure palliative
praticabili. È difficile, infatti, pensare ad una politica sociale che preveda
onerosi costi in una duplice direzione: da una parte, l’attuazione di una legge
che consenta l’eutanasia con rigorose garanzie procedurali fondate su complessi
accertamenti, dall’altra un rafforzamento delle strutture destinate alla cura
delle fasi terminali della vita.
In secondo luogo, l’eventualità che le scelte dei soggetti più deboli, malati
terminali o anziani inabili, possano essere influenzate da parte dei familiari o
della società, al fine di liberarsi dei costi, non solo economici, ma anche umani,
degli infermi; infatti, l’eventuale riconoscimento dell’eutanasia potrebbe
innescare meccanismi psicologici e sociali che avrebbero ricadute proprio sui
diretti interessati.
Infine, ne potrebbe uscire scosso il rapporto fiduciario medico-paziente.
È stato sottolineato, infine, che parlando di eutanasia il problema è se possa
esistere una legge ordinaria dello Stato, con le caratteristiche tipiche della legge
(generalità, astrattezza, formalismo, il carattere inevitabilmente burocratico) in
grado di gestire situazioni ambigue ed estreme come quella eutanasica. La
preoccupazione è che qualsiasi legge eutanasica possa arrivare a dilatare
arbitrariamente il potere dei medici, possa sottrarre la morte al carattere di
tragica eccezionalità che essa possiede fino a farla divenire una procedura
standardizzata16.
Per questa posizione v. D’Agostino, Non è di una legge che abbiamo bisogno, in Il diritto di
morire bene, a cura di Semplici, Bologna, 2002, 37. L’A. sostiene che “Sono convinto che
gestire casi simili attraverso lo strumento tipico del diritto, quello della legge, e in particolare
di una legge permissiva, equivalga a dare una risposta sbagliata a problemi reali. […] I problemi
16
125
In conclusione, il grido d’allarme alla legalizzazione dell’eutanasia lo lancia il
Manzini quando dice: “Quale moltitudine di criminali pietosi balzerebbe fuori
dalle chiudende apprestate dalla legge penale, ove una norma giuridica
dichiarasse lecito o indifferente l’omicidio commesso per motivi di pietà”17 .
§13. CONCLUSIONI.
Nel corso di questo lavoro, abbiamo visto che quello dell’eutanasia è un tema
complesso, nel quale vengono inquadrati numerosi “sotto-problemi”.
In definitiva, possiamo dire che il ricorso alla pratica eutanasica emerge come
conseguenza del modo in cui nella nostra epoca viene concepita la morte.
Se la morte, oggi, costituisce un problema18, è perché nella società attuale non
solo l’exitus, ma l’intero processo che dalla malattia conduce alla morte non ha
più nulla di naturale; si parla, a proposito, di “medicalizzazione” della morte19,
per
indicare
quanto
la
tecnologia
medica
abbia
assorbito
settori
eutanasici sono sempre problemi estremi; ma la legge non è adatta a risolvere simili problemi.
La legge esiste per governare e regolare situazioni ordinarie, non situazioni di eccezione. E le
situazioni eutanasiche sono sempre situazioni di eccezione, perché ciascuna è dotata di un
profilo individuale, irripetibile, non analogabile a nessun altro profilo”.
17
Manzini, Omicidio del consenziente, in Trattato di diritto penale italiano, VIII, 103.
Cassiano, L’eutanasia, in Riv. pen., II, 1952, 364, così aggiunge: “Il potere divino evangelico
nelle sue facoltà sovrumane ridava la vita ai paralitici e ai lebbrosi, la scienza medica moderna,
illuminata dalla fede, si avvia a grandi passi, con le sue instancabili ricerche e con i suoi
apprezzabili risultati, verso un più radicale risanamento fisico dell’umanità. Che la morale e il
diritto, nell’ambito delle loro finalità, fiancheggino codesta opera risanatrice per sbarrare
definitivamente il passo alle funeste e dilaganti conseguenze dell’eutanasia”.
18
Ogni civiltà ha sempre manifestato un diverso atteggiarsi innanzi al mistero della morte. Lo
storico Philippe Ariès, cit. da Veronesi, Il diritto di morire. La libertà del laico di fronte alla
sofferenza, Milano, 2005, 13, ha suddiviso in alcune tipologie il diverso modo di concepire la
morte: nel Medioevo si ha la cosiddetta “morte addomesticata”, perché il terrore dell’ignoto era
esorcizzato da una profonda fede nella resurrezione e la morte veniva accettata con questa
speranza ultraterrena. Più tardi, con l’affermazione dell’individuo si cerca di trovare nella
morte una specie d’innalzamento della singola personalità; il corpo diventa polvere e l’anima
attinge la perfezione. Con il Romanticismo, la morte diventa la morte dell’altro, e l’aldilà
diventa il luogo dove si ricongiungono gli affetti. La fine della vita, nella visione romantica,
viene esaltata come qualcosa di bello e di comunione con la natura.
19
In questo senso, Illich, Nemesi medica. L’espropriazione della salute, Cles, 1977, 222.
126
tradizionalmente affidati a religiosi o a medici di famiglia che si limitavano ad
un’amorevole e caritatevole assistenza del morente; una morte dissociata dai
meccanismi naturali che l’avrebbero provocata a breve termine e che tende a
diventare l’eccezione rispetto a quella artificiale.
Il morire, da evento necessario e ineluttabile, diviene un processo gestibile, una
procedura mediata dall’inserimento delle decisioni di almeno due soggetti, il
titolare del bene della vita e il medico, fino alla possibilità della
programmazione della propria disattivazione; la relazione vita-morte diviene
l’oggetto di una modificazione programmabile.
Si ha un’appropriazione della vita da parte della tecnologia; un accanimento
contro la vita20.
Siamo di fronte a una scienza medica che cura sempre di più, ma guarisce
sempre di meno e i progressi dell’ars medica rendono, oggi, difficilmente
individuabili i confini tra vita e morte.
Così, accanto all’ideologia che valorizza l’uomo-dolore, sofferente, malato,
prende posto, sostituendola, l’ideologia materialistico-edonistica dell’uomo-
piacere, che vive in funzione della massimalizzazione del piacere, del
benessere, della felicità, di una vita all’insegna del di più e del migliore, per cui
la vita deve essere vissuta in quanto realizzatrice di quei canoni di
incontaminazione e perfezione dell’uomo.
In questa ideologia non c’è spazio per il degrado che spesso accompagna la
morte. La morte appartiene a una zona d’ombra, senza speranza e senza luce,
essa viene negata, viene considerata politicamente scorretta, è innominabile;
non si considera la morte quale ineliminabile componente ed esperienza della
“[…] non è possibile (la morte è heideggerianamente l’unica certezza) ma soprattutto che
non è lecito, in quanto costituisce ubris, pensare di ergersi a sovrani del destino della vita e
della morte dell’uomo”, v. Cornacchia, Euthanasia. Il diritto penale di fronte alle scelte di fine
di vita, in Teoria dir. e Stato, 2002, 3, 374..
20
127
vita umana ma, da evento tragico e solenne, viene ridotto a un fatto
sconveniente che bisogna tacere.
Il risultato inevitabile è quello di cercare di controllarla, di decidere di
concludere la propria esistenza senza lasciare spazio al fato.
L’eutanasia rappresenta, in questo modo di vedere la morte, un mezzo per
l’obliterazione: “la grande bugia di un mondo, ove, perduta la ‘pietà per la
morte’, si invoca la ‘morte per pietà’”21.
E in tutto questo scenario, ciò che va realmente preso in considerazione è che
nella nostra società attuale il più grande problema del morente resta quello
dell’isolamento, dell’abbandono, di una tragica solitudine22; queste povere
persone vivono l’ultimo periodo della loro vita in ospedale, tra medici e
infermieri per i quali la morte altro non è che routine. Un tempo si moriva in
comunità, come la famiglia, il convento; la morte, così, continuava la vita,
giacché era la stessa comunità dove si viveva che accompagnava i momenti
critici dell’esistenza, dalla nascita alla morte. Nella realtà attuale il malato
muore in ospedale o nell’hospice e anche il lutto e il dolore incontrano una
specie di riprovazione sociale; tendenzialmente, si vive sempre più soli, e, ciò è
ancora più drammatico, si muore soli, tanto che si suole parlare di una tipica
“solitudine del morente” che affliggerebbe la nostra epoca. Essa è
rappresentata, non tanto e non solo dal fatto che ognuno è chiamato a morire
da solo, quanto dalla mancanza di possibilità di “vivere socialmente” il morire
che permetta di parlare della morte e insieme di parlare con il morente23.
La condivisibile affermazione è di Mantovani, Diritto penale, parte speciale. I delitti contro
la persona, Padova, 2005, 74.
22
L’eutanasia, sostiene Mantovani, è una teorizzazione che proviene dall’alto, da chi, cioè, sta
bene. Esperienze di oncologi e volontari che assistono il malato nella fase terminale
testimoniano che coloro che richiedono la morte sono coloro che si sentono abbandonati nella
fase più tragica della loro vita e che la richiesta altro non è che un accorato appello a non
essere lasciati soli.
23
V. Viafora, Per un’etica dell’accompagnamento, in Bioetica, 1, 1999, 131. L’A. riporta le
parole di Norbert Elias: “Le persone a contatto con i morenti non sono più in grado di
confortarli con la manifestazione del loro affetto e della loro tenerezza e fanno fatica ad
21
128
Conseguenze di questa negazione della morte, di questa solitudine del morente,
sono: da un lato, il c.d. “zelo igienista”, da intendersi come allontanamento del
morente, un porlo dietro le quinte della vita sociale per sottrarlo alla vista dei
vivi; dall’altro, la “volontà di dominio”, la morte è tecnicizzata, la morte è
dominata.
Senza i progressi della tecnologia medica non esisterebbe la morte tecnicizzata,
e probabilmente anche l’eutanasia avrebbe un rilievo minore.
Ma, allora, la risposta alle richieste eutanasiche, più che in una legislazione, sta
nella c.d. “cultura dell’accompagnamento del malato alla morte”, cioè più
solidarietà, compagnia, condivisione della sofferenza che, evitando il senso di
abbandono, fanno venir meno la richiesta eutanasica.
Colui che sta per giungere al momento estremo della sua vita ha bisogno del
medico, sì, affinché provveda a sollevarlo dalle sofferenze fisiche, ma ha
soprattutto bisogno di un amico, di un congiunto, di una persona cara.
Davanti alle dure situazioni che la condizione del morente evoca,
innumerevoli angosce ed emozioni portano a parlare di “vita che non vale più
la pena di essere vissuta” o a considerare certe persone, colpite da forme
estreme di malattia, “non più degli esseri umani”; ma è necessario impossessarsi
di nuovo della particolarità umana del tempo del morire. E ciò, innanzitutto,
attraverso la terapia del dolore, affinché si valorizzi il tempo del morire per
aiutare il malato a viverlo in maniera degna; è questo un obiettivo prioritario
dinanzi al dolore della fase terminale, un dolore che spesso elimina la
possibilità di vivere come una persona per mancanza di forza di relazione. Ma
l’angoscia di morte, l’inquietudine per la separazione che la morte comporta,
l’isolamento in cui ci si può venire a trovare, la percezione umiliante di essere
di peso, sono sofferenze che non possono essere trattate solo a livello medico. È
accarezzarne la mano. […] perché pervasi da una sensazione di imbarazzo suscitata dalla loro
insulsaggine”.
129
necessario capire i bisogni del malato, capire e decodificare le richieste di
essere aiutati a morire: “Le richieste di accelerare la morte non riflettono
abitualmente un persistente desiderio di eutanasia, ma hanno invece altri
importanti significati che esigono un’adeguata interpretazione”24. Per cui, ogni
malato che nella fase terminale arriva a manifestare il desiderio di morire
dovrebbe essere oggetto di ascolto attento, poiché una richiesta di morte
esprime sempre una grande sofferenza: “Aiutatemi a morire” può voler dire
“Eliminate il mio dolore”. Altre volte, questa richiesta, può essere legata alla
sensazione che, in un’epoca che collega il senso della dignità al ruolo e alle
funzioni, la vita non abbia più senso. Altre volte può derivare dalla
preoccupazione di essere di peso, di gravare sulla famiglia. Infine, essa può
esprimere un sentimento di autosvalutazione che colpisce un malato quando,
soprattutto in presenza di certe situazioni degenerative, vede il proprio corpo
alterato e deturpato.
È proprio in nome della dignità del morire e del rispetto per le scelte
individuali che si sta cercando di svuotare e burocratizzare un evento che ha
comunque e solo un significato per il singolo, sia esso ateo, agnostico o
credente: la fine della vita.
Tutto si riduce ad avere speranza finché c’è una vita o al contrario a vedere una
vita finché c’è speranza di una vita degna?
Ciò che l’etica dell’accompagnamento si propone è, dunque, di considerare la
situazione di vulnerabilità in cui viene espressa la richiesta di morte: non sono
le vite umane non più degne di essere vissute, ma sono le condizioni in cui le
nostre scelte sociali costringono a vivere la fase terminale a non essere degne.
Così Viafora, Per un’etica dell’accompagnamento, cit., 140, che riporta quanto è stato
affermato da due medici della Harvard Medical School sulla base della loro esperienza relativa
alla richiesta di morte effettuata da un malato terminale.
24
130
Per concludere, dunque, possiamo arrivare a sostenere che la mancanza di una
legge che disciplini la pratica dell’eutanasia attiva consensuale non scoraggi
quanti in passato hanno aiutato i propri pazienti terminali a togliersi la vita.
La realtà dei fatti probabilmente continuerà a rimanere invariata,
indipendentemente dall’entrata in vigore o meno di una legge che disciplini
l’intera materia: a prescindere da una eventuale soluzione giuridica, infatti, la
morale con le sue regole e norme, è più complessa e articolata di qualsiasi legge
e non è pensabile di ricondurre il discorso morale al solo ragionamento
giuridico.
E allora, alla luce di tutto questo, sembra preferibile, ad un legislatore
“azzeccagarbugli”, un prudenziale “riposo del legislatore”; la risposta
all’eutanasia sta nella maggiore solidarietà umana per una migliore qualità della
vita dell’ammalato, con la quale sola si giunge ad affermare il vero umanesimo.
Il dolore umano chiede amore, non la sbrigativa violenza della morte per
amore.
Ma soprattutto questa risposta sta nella riscoperta della realtà, misteriosa, della
morte: la vera dignità dell’uomo sta nell’affrontare e non fuggire davanti alla
sofferenza e al taedium vitae e nell’accettare coraggiosamente la condizione
umana nella sua inesorabile ineluttabilità.
131
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www.chiesavaldese.org. Ult. Visita: 1 giugno 2006.
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RINGRAZIAMENTI
Desidero ringraziare, innanzitutto, i miei genitori che mi hanno permesso di
realizzare questo progetto e che mi hanno, pazientemente e spesso
silenziosamente, sopportato e supportato in questi lunghi anni. Li ringrazio
anticipatamente anche per quanto ancora mi sopporteranno.
Un affettuoso grazie a Erika e Stefano per essermi stati vicini nei momenti che
hanno accompagnato la preparazione di alcuni esami universitari e non solo.
E, infine, un doveroso ma sincero grazie al mio relatore, Prof. Ferrando
Mantovani, per avermi seguito nella stesura di questo lavoro.