digital magazine febbraio 2010 Lightspeed Champion Costruzioni in Sincrono Barn Owl N.64 DâM Funk Field Music Gun Club 3-D parte terza —Waste Lands Agent Side Grinder // Get Well Soon // The Please Million Young // Bologna Violenta // Dataschock 64 Sentireascoltare n. La casa editrice Odoya e SentireAscoltare presentano: Turn On PJ HARVEY Musica.Maschere.Vita Un libro di Stefano Solventi La sua musica è una sferzata misteriosa e misteriosamente liberatoria. Un’ossessione blues sbocciata nella culla del Dorset, cresciuta tra inquietudini adolescenziali e una incontenibile brama di mondo. Quando infine è esplosa, lo ha fatto col piglio travolgente dei predestinati. Dei suoi primi quaranta anni, Polly Jean Harvey ne ha dedicati venti a tracciare una parabola fatta di musica, maschere e vita. 240 pagine Volume illustrato euro 15,00 p. 4 Agent Side Grinder 5 Get Well Soon 6 The Please 7 Million Young Tune In 8 Bologna Violenta 12 Dam Funk 10 Dataschock 15 Field Music Drop Out 18 Barn Owl 26 Lightspeed Champion Recensioni CONCEPT ALBUM Adam Green, Claudio Rocchetti, Magnetic Fields, Richard Skelton... Rearview Mirror Un libro di Daniele Follero Introduzione Franco Fabbri Nata sull’onda della rivoluzione musicale di fine anni Sessanta, la pratica del concept album ha accompagnato la maturità del rock, scrivendo un capitolo importantissimo nella storia della popular music. I dischi “a tema” continuano ancora oggi a rappresentare un affascinante mezzo espressivo, anche negli ambienti del pop da classifica. I recenti concept album dei Green Day sono la testimonianza più lampante di un filo rosso che, partendo da Frank Sinatra, tiene insieme Sgt. Pepper’s dei Beatles, Tommy degli Who, The Dark Side of the Moon e The Wall dei Pink Floyd, le storie d’amore di Claudio Baglioni arrivando fino ai Dream Theater e al brit-pop. 226 pagine Volume illustrato 32 euro 15,00 42 Gun Club, Frank Zappa, Morphine, Matt Elliott... Rubriche 78 Gimme Some Inches 80 Re-boot 94 Giant Steps 95 Classic Album 96 La Sera della Prima Direttore: Edoardo Bridda Direttore Responsabile: Antonello Comunale Ufficio Stampa: Teresa Greco www.odoya.it www.sentireascoltare.com Coordinamento: Gaspare Caliri Progetto Grafico e Impaginazione: Nicolas Campagnari Redazione: Gaspare Caliri, Nicolas Campagnari, Antonello Comunale, Teresa Greco, Stefano Pifferi, Stefano Solventi. Hanno collaborato: Leonardo Amico, Gianni Avella, Luca Barachetti, Salvatore Borrelli, Marco Braggion, Luca Colnaghi, Gabriele Marino, Francesca Marongiu, Andrea Napoli, Massimo Padalino, Giulio Pasquali, Aldo In tutte le librerie Romanelli, Costanza Salvi, Giancarlo Turra, Fabrizio Zampighi. Guida In 2 spirituale: copertina: Adriano Trauber (1966-2004) Lightspeed Champion Get Well Soon —La Neo Wave in chiave svedese— —L’arte del malessere— A detta di alcuni, la risposta europea ai Cold Cave arriva da Stoccolma Un concept orchestrato intorno al dominio sulle passioni, una liricità estrema e tanto chamber pop per il ritorno di Konstantin Gropper “R I n giro per il web può capitare di leggere di come Agent Side Grinder sia la controparte svedese dei Cold Cave e, con i dovuti distinguo, è tutto sommato vero. L’annosa competizione USA-Europa non sembra perdere smalto e il gruppo di Stoccolma, come il quartetto di Philadelphia, è alfiere del rinato interesse per le sonorità wave, post-punk ed early industrial, non senza alcune differenze. Mentre il gruppo di Wesley Eisold, dopo un inizio tanto oscuro quanto fulmineo, ha svoltato in direzione pop, guadagnandosi un contratto con Matador, oltre che l’interesse delle testate musicali internazionali, gli svedesi di Kristoffer Grip sono rimasti accasati presso l’olandese Enfant Terrible, label guida della scena electro e minimal synth europea. Il che, se non li ha resi celebri, non ha impedito loro di sfornare ottimi lavori. Nel 2008, per l’etichetta di Utrecht pubblicano un esordio che getta sul piatto tutti i dadi: basso secco e corposo, elettronica groovy, una voce in pieno stile wave che cita tanto Peter Murphy quanto Jim Morrison. I brani sono cavalcate di media lunghezza che insistono su 4 trame robotiche dallo spiccato sapore proto industriale. Asse che ritroviamo sostanzialmente immutato a poco più di un anno di distanza nei due nuovi ellepì. Il primo, meno diretto e maggiormente elaborato, Irish Recording Tape a proseguiree sulle coordinate del debutto e il secondo, la vera sorpresa, The Transatlantic Tape Project. Il nome deriva dall’effettivo scambio di master tape avvenuto per tutto il 2009 tra la Svezia e gli Stati Uniti, dove per un anno ha soggiornato uno dei membri e consta di sette sorprendenti episodi strumentali dai nomi cifrati. Una sorta di musica elettronica da camera. Proprio per la natura ambientale della musica (ottima come colonna sonora per un film di David Lynch) il gruppo sta lavorando alla realizzazione di una parte visiva che, nel prossimo futuro, darà vita ad una performance che speriamo tocchi anche il suolo italiano. Andrea Napoli Turn On Turn On Agent Side Grinder est now, weary head you’ll get well soon”, dell’arte del malessere e del rimettersi in sesto: sin dall’incipit dell’esordio pubblicato nel 2008 (Rest Now, Weary Head) si intuisce la ragion d’essere di Get Well Soon. Dietro al moniker troviamo il multistrumentista tedesco Konstantin Gropper, due album all’attivo, il secondo dei quali, Vexations, in uscita su City Slang a fine gennaio. Strano connubio il suo tra classica e pop, malinconia e statement filosofico-esistenziali, senza ovvie classificazioni. I consueti studi classici alle spalle, cominciati da bambino con il violoncello, mentre in casa si respira un ambiente favorevole, complice il padre insegnante di musica, fino all’affrancamento da adolescente dalla classica e la formazione di band influenzate da punk e grunge. Insomma il tipico percorso indie che fa sì che il Nostro, dopo la scuola, si dedichi completamente alla musica, prima solo elettronica. Segue la nascita della creatura Get Well Soon a inizi 2000 e l’apprendistato tra live e l’uscita di 4 EP, fino all’esordio, Rest Now, Weary Head. Pop, elettronica, folk e classica amalgamati con gusto estetico impeccabile e sensibilità indie, tra tentazioni klezmer tipicamente Beirut, malinconie assortite di marca Leonard Cohen e Thom Yorke, un’impronta DIY e un’atmosfera che risente della classica ma senza essere preponderante nell’economia generale. Il disco ha successo in Europa e Gropper si imbarca in un tour con una band assemblata all’uopo. In contemporanea la composizione di colonne sonore per film (l’ultimo Palermo Shooting di Wim Wenders). Il secondo album, Vexations (da un pezzo al piano di Eric Satie che fa da leitmotiv) cambia d’atmosfera; c’è il ripiegamento da “quiete dopo la tempesta”, una riflessione sul bisogno umano di socialità e insieme di isolamento. Un concept sullo stoicismo e il dominio sulle passioni, da Seneca a Sartre, con una struttura elaborata; è stato concepito in un paio di mesi, come rivela l’autore e poi registrato con un quartetto d’archi e una sezione fiati, per un risultato che lo ha soddisfatto interamente (“il disco suona come volevo e non come un’accumulazione di inadeguatezze”). I soliti ingredienti sono spinti di più verso un pop orchestrale compatto che procede per accumulazione, senza risultare barocco. Una liricità estrema lo pervade mentre concettualmente vengono sviluppati i temi sui quali Gropper si è concentrato, in una sorta di “lyric patchwork” che termina con un senso di speranza e calma. Beirut, Cohen, Ennio Morricone e tanta musica da film dentro. Una bella conferma. Teresa Greco 5 C onverrete che con un nome così andarci prevenuti è legittimo, se non scontato. Il carrozzone indiefichetto è lì, dietro l’angolo e di gruppi che iniziano col The (e magari finiscono con la -s) se ne hanno piene le scatole da un bel po’. E invece, come al solito, a giudicare il regalo dalla scatola ci si sbaglia eccome. The Please, trio e moltitudine lombardo, è infatti una piacevole sorpresa. Nascosti dietro una cortina di originali nom de plume – pieni zeppi di bislacchi riferimenti a musicisti, scrittori, artisti in generale – troviamo Mattia Airoldi aka Louis Lenmar Moons, Luca Piazza aka O.J. Plaza e Marco Gilioli aka William Thelonious Coleridge IV, allegramente impegnati a scambiarsi voci, chitarre, basso, organo, glockenspiel, theremin, grandpiano, tastiere e chi più ne ha più ne metta. Considerando che ad accompagnarli c’è una altrettanto sterminata messe di ospiti – a violino, violoncello, tromba, trombone, batterie e percussioni – anch’essi tutti rigorosamente sotto pseudonimo, capirete che orchestrazione e respiro ampio sono prerogativa del progetto. Roba che si ripropone anche in sede live, dove The Please muta pelle a seconda delle situazioni contingenti, come ci dice Mattia Airoldi: Ci giostriamo dalla formazione base in tre (" lo zoccolo duro") fino a quella completa in nove, passando anche per fasi intermedie (quattro o cinque elementi). 6 Million Young —Piaceri nichilisti— —Passionate music dreamer— Pop raffinato, sensibilità crepuscolare ed eleganti sermoni nichilisti orchestrati da un trio di ventenni lombardi, coi piedi ben piantati in terra d'Albione. Due EP e a breve un nuovo album. Mike Diaz è il nuovo uomo del glo-fi Classico l’apprendistato nell’underground rock a botta di demo e concerti, mentre è roba di questi giorni l’esordio ufficiale maturo e dal doppio titolo, enigmatico il primo, programmatico il secondo. E’ltica – Sermon Your Nihilism, mette in scena un concentrato di raffinata eleganza rock alla maniera di Tindersticks e Nick Cave, capace di richiamare il Lou Reed solista più sentimentale come degli Arcade Fire meno banali, schizzi di americana e aperture verso un pop orchestrato e variopinto. Questo nonostante tra le influenze dichiarate del gruppo ci siano esperienze diverse come Beatles, Sigur Rós e Motorpsycho. Musica umbratile e chiaroscurale, romantica e ricercata, fuori tempo e insieme classica, quella di The Please, in cui orchestrazioni e respiro ampio si manifestano sia per i riferimenti che per gli arrangiamenti. Ben piantati nella terra d’Albione, i primi, equilibrati e sofisticati i secondi. Dopotutto l’album è da subito pretenzioso, in quanto concept incentrato – sempre nelle parole del cantante – sulla fine del mondo (che noi ci aspettiamo nel 2012, già da tempi non sospetti) e sulla rinascita. Se questa è la rinascita, allora speriamo che sto mondo finisca presto. Stefano Pifferi P Turn On the please ochi mesi fa Mike Diaz partiva con l'avventura glo senza rendersene troppo conto. Aveva reso disponibile sul myspace, un eppì (Sunndreamm EP) in free downloading aspettando cosa sarebbe successo. Di lì appresso la gente "ha iniziato a fare paragoni " e a snocciolare le etichette che tutti sappiamo: dreamwave, chillwave e appunto glo fi, le solite perle del rosario che la blogosfera sta tutt'ora mandando a memoria. A quel punto non ha potuto che accettare il fatto: cresciuto a pane DNTEL e Radio Dept. nella sua Coral Springs, tra tastierine e sequencer è approdato alle stesse epifanie '80 dei colleghi in un mix di chilling e dancing. Il nuovo Be So True EP declina perfettamente quel “beach-going da set notturno ” che Washed Out, amico e mentore, (gli) ha indicato. Diaz non fa mistero dell'influenza di Ernest Young, i due si sono conosciuti di persona l'estate scorsa scoprendo di avere tantissimo in comune; cosa che non ci sorprende affatto vista l'età, il contesto d'origine (la provincia), il setting familiare e il metodo compositivo viene di conseguenza: “Quando mi metto a scrivere un pezzo scavo intorno ai suoni finché non trovo qualcosa che mi piace. C’è sicuramente qualcosa di nostalgico nei synth Casio. Durante i Novanta i miei genitori ascoltavano (e ascoltano) Michael Jacskon, Bowie e i Queen in rotazione continua. Penso di aver vissuto gli '80 attraverso loro”. Dunque ancora fonti sonore mai vissute che finiscono nell'archeologia di un'osmosi/playback, caratteristiche più volte analizzate, comune denominatore di una nostalgia '00 attualizzata alle istanze dancefloor. Inevitabile che nella nostra chiacchierata gli chiedessimo di Ibiza. “Non ci sono mai stato. Ci andrò sicuro perché mi piace scrivere musica con cui la gente si può muovere. Quando si parla di dance la gente pensa il più delle volte ai Justice. Eppure tutto il mondo chill è altrettanto importante per la dance. Diciamo che sono per sonorità à la ‘I Want To Rock With You’ di Michael Jackson e mi piace sperimentare con strutture che non necessariamente riconducono al 4 in cassa dritta. Prendi gli Animal Collective la gente impazzisce quando mettono ‘Fireworks’”. Gli Animal Collective sono sicuramente dei catalizzatori generazionali, eppure con un classe '88 come Diaz c'è già un piccolo scarto a profilarsi all'orizzonte. Il nuovo album sarà pronto probabilmente tra Aprile e Giugno; nel frattempo qualche remix e un tour sulla costa Est degli Stati Uniti. “Il mio passaporto è nella cassetta della posta e se tutto andrà bene tornerò in città molto tardi quest’anno”. Buon viaggio Mike. Marco Braggion 7 Turn On Bologna Violenta —Grindcore necrologico— Il b-movie sonoro di Nicola Manzan E qualcuno ora ha anche vergato il necrologio. Sardonico, angosciante, deleterio per le nostre orecchie. Ma non più di quanto lo sia stato il soggetto della cui morte Nicola Manzan aka Bologna Violenta dà il triste annuncio: il caro vecchio occidente la cui deficienza (morale, estetica, semplicemente umana) viene sbeffeggiata in ventitré cluster grindcore che inframezzate da brevi testi recitati diventano il radiodramma cinematico di un'apocalisse senza trionfo. Il Nuovissimo Mondo 8 (sottotitolo: Dramma in XXIII atti sulla sorte del mondo e sul declino del genere umano) continua dunque l'innamoramento verso il cinema italiano “minore” del polistrumentista emiliano, passione che già dall'acronimo sceltosi per le sue esperienze in solitaria espone un immaginario preciso da cui attingere: «Nel 2005 stavo attraversando un periodo non proprio felice: arrivato a Bologna da un paio d'anni mi ero ritrovato con tutti i sogni infranti e soprattutto sempre più lontano dagli obiettivi che mi ero proposto di raggiungere. Ad un certo punto mi è venuta voglia di fare un disco estremo, volevo sentire della musica che non avesse i difetti che hanno anche i dischi migliori, che fosse insomma “perfetta” per i miei gusti e che soprattutto mi desse il coraggio di andare al lavoro ogni mattina alle 4.30. Visto che di b-movies ne ho sempre visti parecchi (mi ha sempre appassionato ciò che è fuori dalla “normalità”), ho pensato che fosse una cosa simpatica omaggiare sia la città di Bologna che un certo modo di fare cinema in Italia, ormai passato, che però secondo me è legato a doppio filo con certa musica più o meno estrema. Così, giorno dopo giorno è nato il primo disco, con ventisei tracce da ventisei secondi l’una». Uscito sotterraneamente nel 2006 per la SK records, il debutto di Bologna Violenta (con titolo identico alla ragione sociale) getta le basi ad una poetica di bordo capace di destrutturare i due poli entro cui si muove (da una parte l'immaginario b-movie italiano di registi come Umberto Lenzi e Ruggero Deodato o di compositori come Riz Ortolani e Franco Micalizzi, dall'altra il grind alla Naked City) e di convogliare il tutto verso composizioni brevilinee e stilettanti, trapanature uditive che passo dopo passo (tre ep e la partecipazione a varie compilation dopo l'esordio) si fanno corrosive penetrazioni della coscienza. Così nell'ultimo lavoro uscito per l'etichetta Bar La Muerte di Bruno Dorella, che prende a prestito la poetica dei mondo-movies come “Mondo Cane” e la mischia ad un grind di volta in volta sporcato (da folk, lounge, techno): «La prima volta che vidi Mondo Cane fu parecchi anni fa, lo davano in tv di notte. Quello che mi è piaciuto dei mondo-movies è che ad un certo punto sorge spontanea la domanda se noi “civilissimi occidentali” siamo davvero più evoluti di altri popoli. Questa domanda viene fatta nascere attraverso l’uso di tematiche shockanti e la creazione di contrasti forzati mescolando realtà, ricostruzione e finzione, tutte caratteristiche adatte al disco che volevo fare, in cui ci fosse una visione diversa del mondo odierno, che non è solo quello della tv, quello che i media ci vogliono far credere, pieno di lustrini e convenzionale buonismo». E accanto a ciò anche una riflessione antropologica che supera ogni barriera pur di concentrarsi sul crollo: «A livello concettuale mi sono avvalso poi dell’aiuto della dottoressa Emanuela Masia che con i suoi studi antropologici e la sua passione per i mondo-movies è riuscita a rendere più chiaro il mio pensiero sull’uomo e a dare una forma più solida al concept del disco, che in sostanza vuole raccontare la realtà dell’essere umano occidentale, che ritengo più o meno sull’orlo di un baratro che si è “costruito” da solo». Tuttavia Nicola Manzan non è solo Bologna Violenta ma anche un musicista, violinista in primis, che disco altrui dopo disco altrui si è guadagnato un saldo riconoscimento nel micromondo indipendente italiano e non solo (Baustelle, Alessandro Grazian, Non Voglio Che Clara, addirittura Ligabue, e ultimo solo in ordine cronologico l'ingresso nella line-up de Il Teatro degli Orrori). «Negli ultimi anni ho lavorato molto come musicista per altri artisti, portandomi a casa una certa esperienza di studio. Non è sempre facile, non sempre mi piacciono i pezzi su cui devo registrare, ma spesso la componente umana va a colmare certe differenze di gusto». Come ad esempio nell'incontro con un altro musicista di lusso, leggi alla voce PJ Harvey: «Un’esperienza che ricordo sempre con grande piacere è stata la registrazione dei violini nel disco di Giovanni Ferrario Headquarter Delirium, mi sono ritrovato a lavorare con un artista che non mi chiedeva solo “note fatte bene, a tempo e intonate”, ma pretendeva che ci fosse una forte dose di “sentimento” in quel che suonavo. E’ una richiesta abbastanza comune (e giusta) da parte degli artisti, ma in questo caso ho sentito che qualcosa si è davvero smosso nel mio animo». E se quello di Bologna Violenta è un punto di vista atipico sulla modernità in necrosi, quello di Nicola Manzan lo è sull'indipendenza nostrana in continua ricerca di sbocchi: «Mi sono fatto l’idea che in Italia ci siano molte realtà che funzionano bene, dei gruppi molto validi, delle etichette che lavorano tanto, ma spesso quello che manca è una visione realistica di come stanno le cose, ovvero che non ci sono soldi, che non si può mirare esclusivamente al successo (anche se pochi hanno il coraggio di ammettere che puntano a quello), che spesso le cose più semplici sono le più efficaci, e che le idee che vengono dal cuore sono più importanti delle idee dei produttori o dei manager». Punto di vista frutto di tante esperienze, e quindi inevitabile. Sperando che non sia questo il soggetto del prossimo necrologio. Luca Barachetti 9 Turn On Datashock —Intemperanze sciamaniche— La risposta europea al sottobosco dronico californiano T edesca, vieppiù francese, Saarlouis, tristemente nota per le contese che succedettero alla grande guerra, è una cittadina che di gente insolita ne ha ospitata: Bill Kouligas dei Family Battle Snake, Britney Gould dei Caldera Lakes, Lucas Crane dei Time Life e Wooden wand & the Vanishing Voice, Black to Comm... Tutti a pellegrinare dentro e fuori il quartier-generale di un oscuro collettivo di droners (o freak psichedelici) chiamato Datashock, improvvisatori più o meno involontari i cui vestiti potranno anche ricordare il sottobosco americano (Skaters, Emeralds, Pocahaunted) ma siamo lontani da quelle spiagge. Per Datashock piut10 tosto il primo paragone (e discrimine) è la terra, anzi, il carbone. Il sottosuolo minerario è il perfetto setting per una risposta black al blue statunitense: suoni che si dipanano in dedali mentali, stratificazioni vocali su griglie multidimensionali, circuit-bent e surfate scurissime da saletta B-Movie, orbite accanto a buchi neri. Punto fermo in uno stream prodotto da macchine analogiche e strumenti scordati sembra essere l'artigianato attorno a lavori che, da sempre, vanno letteralmente a ruba. "La R è la mia lettera preferita. Il cd-R ci permette di dare un nome ad un disco e dipingerlo direttamente; il CD dargli un nome e firmare un contratto ma preferiamo i vinili e le cassette. Le etichette ideali sono quelle gestite con amore che rispondono alle mail molto velocemente. Ai Datashock piace bere birra, mangiare cibo gratuito; siamo sempre nervosi prima dei live set così beviamo di più. E' pura beatitudine quando la nostra ballerina si schianta sul palco nei picchi dei nostri set". Pascal Hector, membro attivo dal 2004 e portavoce della band, nei set dei tedeschi è l'unico punto fermo di un crocevia chimico fatto dei fragorosi shock acusmatici di Acidulle o delle temperie sacrali del più solare di Unitled Symbol, un portale quest'ultimo di fragranze smeraldo, arabeschi invernali e cianfrusaglierie meccani- che. "Ogni suono dovrebbe avere un rumore ed ogni rumore un suono dentro. Non c'è differenza. La similitudine tra questi due mondi mi viene spesso in treno o quando sento gli echin ella doccia. Ci piacciono le urla della gente o i droni delle macchine nelle strade innevate, Fleetwood mac, Funkadelic, Talk talk, Eddie Murphy, i Jesus & Mary Chain". Nella carrellata iniziale citavamo, Black to Comm, ovvero Marc Richter. Richter utilizza software per rendere sarcastici ed innaturali i propri suoni, i Datashock invece possiedono quel piglio manifatturiero da bottega alchemica. L'accostamento non sarà immediato, eppure le due realtà dialogano divinamente: hanno prodotto un disco assieme su Ikuissus e Alphabet 1968 del primo sembra un'elaborazione compressa (e in versione digitale) di un set dei secondi. Tra le altre collaborazioni da segnalare c'è sicuramente il sorprendente incontro tra il collettivo, Aidan Baker e Leah Buckareff (ovvero i Nadja) nel 12" su Meudiademorte. 93 copie hand made dove la messinscena sufi, l'iterazione ripetitiva e la carica nervosa spingono su versanti di cui di drone c'è pochissimo. Basta prendere un disco a caso, Rambo Wikinger, per capire quanto i Datashock siano distanti dalle modalità dei Sunn O))). E' forest-drone: una via non troppo dissimile da un ipotetico incontro tra Svarte Greiner, le musiche di INLAND EMPIRE e gruppi della scena finlandese quali ES o Kemialliset Ystävät. Ritualismo ed ancora ritualismo, musica macabra (o per funerali), musica comunque intesa come allucinazione timbrica, lugubre e densa di colori, oceani, deliri. "La foresta spaventa al buio ma è fantastica da percorrere in estate, vorrei saperne di più su come trovare i funghi allucinogeni. Mi eccitò osservare una volpe morta nella foresta". Da queste parti gli strumenti non contano, conta la coralità psicoacustica: "Usiamo alcune loopstations, pedali, anche cheap, poiché non abbiamo denaro. Non sono comparabili con l'Apollo della Nasa ma ci permettono di andare sullo spazio lo stesso!". E' come una processione laico-liturgica, la loro musica massimalista, spregiudicata e libera come nelle due traccie di Pox ice cream, una piccola istantanea che cattura quel rito sciamanico e soprannaturale che sono i Datashock. Salvatore Borrelli 11 P Tune-In Dâm-Funk —I've been standing strong for the FUNK all along— Il debutto del guru boogie-funk è un disco visionario e dissennato. Ce lo siamo fatti raccontare dall'uomo... via Facebook. Testo: Gabriele Marino 12 er Damon Riddick il 2009 è stato un anno importante: quello del debutto solista sulla lunga distanza e di flirt veloci - ma assai significativi - con due dei nomi "giusti". Debutto sulla lunghissima distanza, un progetto esagerato, un album composto da cinque dodici pollici, usciti prima come release digitali (a partire da luglio) e poi fisicamente riversati su doppio cd (a novembre) e quintuplo vinile in cofanetto (da gennaio 2010; prezzo per soli collezionisti, 50 bigliettoni). Collaborazioni che lo hanno proposto coolissimo outsider della scena indie (il remix di Summertime Clothes per i "veterani" Animal Collective) e di quella elettronica (la co-produzione di Tell Me What You Want From Me sul primo long della nuova sensazione Hudson Mohawke). Già da qualche anno però la musica di Dam - da sempre accasato alla Stones Throw del funkfreak Peanut Butter Wolf, e dove sennò - si è inserita nel filone delle musiche post-hiphop più interessanti dei Duemila (e si veda la sua Kill Dat nel megamixone preparato da 2tall e compagni): mosca bianca tra le musiche ritmiche d'oggi, e orgogliosa di questa alterità, priva com'è di campioni e rigorosamente analogica (tutta synth e drum machine, zero laptop). Segnali tecnici questi di un'estetica radicale e rigorosa, assai lontana dal meticciato post-moderno in cui ci troviamo immersi, e che possiamo benissimo etichettare - fuori dal semplice gioco di parole - come "modernariato modernista". Un'estetica tanto preziosa quanto fragile. Il primo volume del progetto Toeachizown, LAtrik, lo avevamo accolto per quello che era: l'esaltante esposizione di una visione più unica che rara, la (ri)scoperta di un suono primitivamente futurista (nel senso in cui questo ossimoro è applicabile alla prima techno detroitiana). Rimandiamo alla rece di quel primo mini per inquadrare musicalmente le coordinate della "cosa" Dam-Funk in tutto il suo splendore. Le successive uscite ci hanno tutte deluso, quali più (il buco nero di ripetitività del quarto, Hood), quali meno (le gemme sparse tra secondo, terzo e quinto volume, Fly, Life e Sky rispettivamente).Vogliamo fare le pulci a Dam perché la sua è una musica veramente aliena, e che merita attenzione, capace di regalare - a chi ha le orecchie per sentirla e ascoltarla - momenti di goduria puri come diamanti grezzi. Lui però non deve perdersi (più...) in un bicchiere d'acqua, non deve disperdere la freschezza della formula, non deve banalizzare la propria visione. L'estrema rigidità produttiva e compositiva - autoimposta - del boogie-funk così inteso (leggi anche: l'autismo-nerdismo old skool del signor Riddick) deve essere accompagnata da ispirazione melodica e gestione controllatissima delle stutture, ma questo è avvenuto soltanto per un pugno di tracce (magiche, con un grip al quale non si sfugge), mentre nelle tante altre l'uomo ha pensato bene di stendere tappeti sonori per i suoi sdilinquimenti synth, slow-trax per club rallentati da alcol e ganja. Del resto è vero anche che la musica di Dam non è per tutti: bisogna "starci dentro" per apprezzarne il tiro. E' un trip, ma i trip, per quanto belli, intensi o particolari possano essere, è bene che durino per un tempo limitato. Fuor di metafora, speriamo che Dam sforni dischi su dischi, esplorando ancora questo suono tutto suo, ma speriamo anche che lui abbia la lucidità di prendersi tutto il tempo necessario per confezionarli e cesellarli a dovere: che abbassi il livello di megalomania insomma. Il rischio, altrimenti, è quello di sprecare un talento per certi versi unico, animato dalla passione bruciante - da vero invasato - di chi vive con un unico scopo al mondo: il funk. Non glielo perdoneremmo. L' intervista ... via Facebook Sul più celebre dei social network, Dam-Funk non ha solo una fan page dedicata, ma anche la propria pagina personale, da "comune mortale". Lo abbiamo "aggiunto", spiegandogli che anche in Sicilia conosciamo e apprezziamo il suo suono, e lui ci ha "accettato".Volevamo approfittarne e così l'abbiamo subito buttata sull'intervista veloce via chat. Nessuna risposta. Gli abbiamo inviato allora una manciata di domande, così per rompere il ghiaccio (e forse rompendo non solo quello...). Avevamo provato a contattare altri artisti ST in passato, venendo sempre sistematicamente "rassicurati" sul fatto che non ci sarebbe stato troppo da attendere per le risposte, semplicemente perché non sarebbero mai arrivate: «gli artisti non rilasciano interviste» (tutti come influenzati dal morbo Madlib-iano). Il nostro gesto insomma era tutto fuorché animato da una qualche speranza concreta. Ma passano due settimane e ci vediamo costretti a ringraziare l'effetto anti-by-pass facebookiano per un feedback davvero inaspettato, noi comunque - già di nostro - perfettamente "integrati", e adesso più che mai. Ecco allora la nostra intervista all'uomo via Effe-bì. La tua è una musica profondamente notturna, soundtrack perfetta per un club nello spazio a metà strada tra passato e futuro black. E' orgogliosamente fuori dal mucchio, radicale, appassionata. E ascoltandola si è subito in grado di dire "Questo è Dam". Merito del tuo suono, di una elettronica analogica figlia degli anni Ottanta. Non pensi però che questo stile tanto particolare (solo synth e drum machine) possa un giorno risultare inadeguato, limitante? Grazie per la descrizione che fai della mia musica. Per quanto riguarda la domanda... No, non credo che le mie siano scelte limitanti, semplicemente perché sono anni che le porto avanti. Il mondo ha cominciato solo adesso 13 a conoscere il mio suono, ma è un suono che è nato a Pasadena (California) quando ero ancora un ragazzino. Non è una questione di "moda", come per tanti altri tizi saltati sul carrozzone di questi tempi. E' tutta la vita che io porto avanti il FUNK. Non è una moda per me: lo è per i tanti produttori che lo stanno scoprendo solo adesso e che, "probabilmente", scopriranno qualcos'altro di qui a un paio d'anni. Questo suono per me è vero e reale, e lo sarà sempre. Com'è stare nella crew Stones Throw? Peanut Butter Wolf ama alla follia il tuo stile nu-funkOttanta... E' un vero piacere e un onore. PBW è il motivo principale per cui ho deciso di unirmi alla ST. Io e lui siamo prima di ogni altra cosa due amici e due maniaci del vinile. Lui ha sempre condiviso con me questa "visione". E io apprezzo davvero tanto quello che sta facendo per il funk in questi tempi di grande creatività musicale. Dimmi i tuoi cinque dischi da isola deserta. Così su due piedi, direi: Prince - 17 Days; Slave con Steve Arrington - Just a Touch of Love; Todd Rundgren - Hideaway; Junie Morrison - Super Spirit; Prefab Sprout - Bearpark. Che roba metti nei tuoi dj-set? "Merda funk" Ottanta? Remixi o editi mai live? Mi piace condividere con gli altri rarità Boogie-Funk, di quelle che spaccano, di quelle che oggi come oggi non ti capiterà mai di sentire in un club o a un party. Non remixo né edito live, ogni tanto mi metto a cantare sulle strumentali di certi pezzi, se sono nel giusto mood. Nessun trick né altre merdate. Quello che mi interessa è fare decollare la festa. Non mi interessa altro. Che artisti ti piacciono oggi? Gente come i Sa-Ra ti interessa? I Sa-Ra sono fighi, ma io adesso sono completamente buttato su cose come: Nite Jewel, FunkinEven, Theo Parrish, SFV Acid, Nicky B (aka Nibby), GOSUB, Hawthorne Headhunters (con I Ced, Proh Mic, Black Spade & Coultrain), JimiJames, RED, e tutti quei suoni nuovi e progressivi che cercano di mantenere intatto il senso del Funk. Puoi dirmi qualcosa del tuo feat su Butter di Hudson Mohawke? E' stato divertente. Mi piace lavorare con alcune di que14 ste "giovani leve". Auguro tutto il bene del mondo a quanti riescono a diventare "dei nomi" semplicemente decidendo di condividere la loro creatività col resto del mondo. Il tuo è un debutto esagerato per dimensioni e ambizione. Quando hai avuto chiaro in mente il concept che ci sta dietro? Quando hai finito i pezzi? Come hai lavorato? E adesso, che farai? Per realizzare Toeachizown ci sono voluti quasi due anni di lavoro. Ne sono molto orgoglioso. E' proprio il tipo di disco che io e i miei amici - con cui sono cresciuto nella zona ovest di Pasadena - volevamo sentire quando andavamo in giro. Ecco, io l'ho fatto questo disco, per la gioia di tutti. Spero che col passare del tempo (degli anni, se necessario), anche il resto del mondo riesca a "entrarci dentro". Il disco è così com'è perché io l'ho voluto così: pezzi lunghi, strumentali, voci strafatte, canzoni vere e proprie sparse qui e lì, strumenti analogici, canzoni suonate tutte d'un fiato e non semplicemente tagliate, ricucite, campionate, rivoltate. Non è neppure un disco "retrò": io non faccio roba retrò, altri artisti fanno retrò! La mia è una continuazione dello stile funk che si è estinto precocemente a causa dell'emersione e del dominio dell'hip-hop, pompato dalle major, dagli Ottanta fino ad oggi. E' un disco che cerca di colmare la distanza tra vecchio e nuovo, e spero che se ne accorgano tutti. Il mio prossimo progetto è un album che ST pubblicherà col titolo di Adolescent Funk, sarà una raccolta di registrazioni casalinghe realizzate su musicassetta quando ero un ragazzo. Wolf ha sentito alcune di queste cose, nastri che io avevo chiuso dentro vecchie scatole di scarpe, ma che mi ero sempre portato appresso nei miei spostamenti nei dintorni di L.A., e ha deciso che le avrebbe pubblicate. Perché no, ho detto io! Inoltre ci sono nuove collaborazioni con Nite Jewel (il progetto si chiamerà Nite-Funk) e la produzione del nuovo EP di Steve Arrington (degli Slave), che uscirà sempre su ST nel 2010. Il 2009 è stato un anno molto positivo per la mia musica, per il Modern-Funk, e in generale per tutte le musiche funk-based. Non vedo l'ora che cominci questo 2010, sperando che sia un buon anno di musica per tutti noi. Tune-In —Pop Fields Forever Field music Il segreto del pop è entrare in testa e restarci il più a lungo possibile fresco e arguto. Dall’Inghilterra , i fratelli Brewis offrono un personale contributo alla causa Testo: Giancarlo Turra U na volta, prima del crossover culturale spinto e della globalizzazione, eravamo sicuri dell’esistenza di un retaggio sonoro. Una tradizione storica che grossomodo i gruppi seguivano da questa e da quella parte dell’Atlantico. Qualcosa di più sottile della contrapposizione ottusa - assai diffusa in Italia... - tra britannici e americani, tra rock e pop, sostanza e apparenza. Non che vi fossero anche queste componenti in gioco, beninteso, solo che ci è sempre parso un modo riduttivo e semplicistico di sistemare la faccenda. Il retaggio, allora, finiva per diventare un appoggiarsi a dei modelli perché da qualche parte si deve pur trovare un punto di partenza. Così siamo caduti un pò tutti, prima o poi, nello stereotipo in base al quale in Inghilterra c’è la cultura del pop e della canzone come comunicatore sociale; dall’altra parte dell’Oceano, invece, trovi solidità delle radici e concretezza, chi il rock and roll lo ha inventato partendo da blues e country. Fin qui tutto bene, non fosse che i Beatles si nutrivano a Stax e Motown, a Buddy Holly e cabaret. E quello amalgamarono in qualcosa di unico che s’è fatto a sua vol15 ta esemplare. La casistica è infinita, anche sulla direttrice inversa: evidente l’influenza dell’ugola dandy droide di Bryan Ferry su David Byrne e Tom Verlaine; i Byrds elettrificarono il folk in tutta risposta all’invasione del beat britannico… Potremmo andare avanti all’infinito nel mostrare che la musica rock più significativa s’è sviluppata reagendo a qualcosa di precedente o già esistente, nondimeno tenendone conto. Nei Fall senti il garage-punk e il kraut-rock, laddove certi titoli escogitati da Mark E. Smith paiono uscire da un LP dei Van Der Graaf Generator. In questo eterno presente caotico e senza più riferimenti precisi, poi, le cose sono ancor più confuse e i cinque decenni di storia sonora a disposizione si affastellano nella mente di chi compone canzoni. Tra un clone dei Talking Heads e uno dei Gang Of Four, talvolta salta fuori anche qualcosa di significativo, che attrae l’attenzione senza mezzucci e che resta nell’aria per più di un ascolto di prammatica. Gente che i clichè li straccia e ricompone, gente come i Field Music, capaci di far coabitare - con arguzia e abiti spesso sottratti a un Andy Partridge meno astioso - strutture di stampo “progressivo” con una melodia dritta al punto e compatta. In una scena come quella albionica, più di altre legata alla “sensazione del momento”, i fratelli Brewis vivono da amabili mosche bianche: “Il nostro primo amore musicale furono i Led Zeppelin, ma mentre crescevo mi rendevo conto che mi vergognavo di ciò che mi piaceva. C’erano elementi che criticavo, come l’autoindulgenza e il sessismo, tuttavia sarebbe stato un errore ignorarne i pregi. Quando cominciai a scrivere in me c’era la convinzione di oppormi alla mitologia rock, ai suoi clichè. Anche se, a dirla tutta, mi piacciono i luoghi comuni: se li inserisci in un contest differente possono essere una gran cosa. Gruppi come i Roxy Music li hanno trasformati in qualcos’altro”. Idee chiare, ancor più se si pensa a una vicenda breve ma ricca e eloquente di questi ragazzi poco pretenziosi. Ben più che il solito rock emulativo di fattura anche buona, il loro. Una forma inquadrabile ma pure sfuggente quanto più è personale, e non sono queste forse prerogative da grande gruppo? E’ in provincia, a Sunderland, che la faccenda inizia, dentro al cuore di un centro medio come fu la Swindon che tenne in incubazione giustappunto gli XTC. Non si tratta di un caso fortuito, semmai dell’effetto benefico di uno sguardo colmo di sardonica rivalsa e distacco creativo, che osserva le mode dall’esterno e le interpreta. Lì, nel 2004, il progetto prende corpo attorno a David e Peter Brewis - al tempo anche nei valenti compaesani Futureheads - e Andrew Moore, tastierista elegante quanto misurato. Un paio di singoli fungono da antipasto al disco d’esordio pubblicato nell’agosto dell’anno seguente, ovvero in 16 piena “nuova wave” parte terza, dalla quale si prendono le distanze per guardare più in là. In Field Music (Memphis Industries; 7,4/10) respiri l’aria delle grandi altezze, dell’orizzonte prog che ha spezzato le gambe ai più e ne esce indenne. Sapienza di scegliere i giusti referenti, ovvero più Canterbury che Genesis o Gentle Giant; un “minimalismo complesso” che consente di rimanere indenni al tempo invece d’incrinarsi per le troppe rughe. Composizioni deliziose come la brevissima Shorter Shorter (direbbe il suo in Skylarking…) e l’articolata If Only The Moon Were Up (nervosismi al te delle cinque), il valzer qui svolazzante e là fratturato Luck is A Fine Thing e la soffice It’s Not The Only Way To Feel Happy brillano e attraversano i decenni a volo radente per comprenderne il significato. E’ music hall kinksiano attraverso la lente grigio fumo di Drums And Wires, corde secche e una pronuncia leggermente e fieramente “local”, una ritmica impastata che disturba ugole e arrangiamenti angelici (Tell Me Keep Me); sono le memorie Steely Dan nel cassetto del giovane Paddy MacAloon ma senza eccessi di saccarosio (Pieces). Un gioco eccitante di contropiedi e mistificazione, nel quale fai bene a non distrarti, metti che ti perdi qualcosa di importante come un jazz bucolico (Got To Get The Nerve) o un’armonia magistrale (Like When You Meet Someone Else). Manna che fa il paio con la raccolta di lati B e outtakes Write Your Own History (Memphis Industries, 2006; 7,0/10), tuttavia il progresso si chiama Tones Of Town (Memphis Industries, 2007; 7,8/10), una dozzina di mattoni lego assemblati con perizia ancor più pronunciata e dove sparisce il poco fiatone notato al debutto. Incastri strumentali di rara perfezione e un piglio più aggressivo (Give It Lose It Take It: Joe Jackson in gita nei ’70; Working To Work: la cartolina spedita al ritorno), singoli perfetti in un mondo parallelo (A House Is Not A Home) e aperture magiche per grazia e sorpresa (In Context, Sit Tight). Il brano omonimo ancheggia e sferza e Kingston ferma l’orologio a centoquindici secondi d’incanto; Place Yourself è il pezzo che Colin Moulding e Ray Davies non caveranno più dal cilindro, A Gap Has Appeared gestisce una sensazionale sfoglia di melanconica innodia col polso dei consumati songwriters. Splendore che preannunciava l’ascesa all’olimpo degli ascoltatori più avveduti - troppo sottili per le "masse indie", i ragazzi... - e invece la formazione si trovava sull’orlo dello scioglimento. In un’intervista alla BBC dell’aprile 2007 dichiarano di volersi dividere una volta completati gli impegni promozionali, tra l’altro rifiutando (saggiamente) un tour di supporto ai populisti Snow Patrol. La frase era nondimeno sibillina: “In sostanza ci va di fare cose che non sono classificabili come 'il gruppo indie Field Music'. Per un po’ non saremo una band, ma non ci fermiamo perché, con un conto in banca intestato con quel nominativo, andremo avanti come una società. E’ ora di andare a fare un po’ di lavoro vero”. Viene subito in mente la concezione lydoniana, i PiL azienda e non complesso pop: questo è un agire consapevolmente al di là delle barriere. L’ipotesi di una separazione rientra in tutta fretta a favore della provvidenziale pausa di riflessione; quella che nel rapporto solido riporta la voglia di stare assieme e in quello traballante rappresenta l’ultima goccia. David Brewis pubblica Sea From Shore (Memphis Industries, 2008; 6,7/10) con l'alias School of Language e il fratellino replica tramite il progetto The Week That Was (Memphis Industries, 2008; 6,5/10), entrambe diversificazioni del prodotto che, nel discreto risultato complessivo, non esaltano né offrono epifanie circa la chimica interna ai Field Music. Avranno valore in retrospettiva, raccontandosi ora d’aria utile a un ensemble sovraccarico di riguadagnare il sorriso: “L’intervallo ci ha dato tempo di capire cosa volevamo fare e il modo migliore per farlo. Volevamo una chance lontana dai Field Music e dalle attese che avevano creato, non volevamo allontanarci l’uno dall’altro. Eravamo al punto dove avremmo potuto aumentare il nostro successo: c’erano attese e pressioni, perciò ci ha fatto bene distanziarci e ripensare la band. Tornare per fare ciò che davvero volevamo”. Disastro scappato con orgoglio e chiarezza di vedute, per una volta nessuno schianto nel passaggio dall’indipendenza al livello superiore. Anzi, il passaggio non c'è proprio e così si porta a casa intatta la pelle. cora che permette di spazzare via le nuvole grigie con stile, affidato ai venti brani del corposo Measure. Qualcosa che, per comodità ma azzeccandoci, etichetti come il loro English Settlement per la mescolanza tra acustico ed elettrico, la varietà di atmosfere e una riconoscibilità autoriale che non viene mai meno. Andatosene Moore, i Brewis reagiscono con maturità, spostando l’asse sugli intrecci di chitarre (persino del fraseggiare blues, seppur alterato) e intarsiando con archi lievi e qualche tastiera un suono trasversale. Atemporale, anche, e generato da un’eccitazione programmatica salda eppure mai prevaricatrice: “Desideravamo ridefinire l’album doppio come qualcosa di molto vario. Abbiamo preso in considerazione le maniere per uscire dalle restrizioni, e la via migliore era fare qualcosa di voluminoso. Gli altri dischi posseggono la coerenza e le preoccupazioni di quando scrivi canzoni a stretto contatto; con Measure, invece, ci siamo sentiti più liberi e credo che si avverta”. Una bolla pop a lento rilascio, i Field Music, in cui scorgi il riassunto degli “anni zero”: ironia e passione, intelligenza e critica, distacco e certezze. C’è tutto quello che occorre per iniziare un nuovo decennio, casomai non lo si fosse capito. 17 Barn Owl —Waste Lands Drop Out Jon Porras e Evan Caminiti, gli ultimi sopravvisuti nelle terre desolate d'America. Musiche per la fine dei tempi. Testo: Antonello Comunale C e lo stanno dicendo in tanti, da Cormac McCarthy a Roland Emmerich. L’apocalisse è dietro l’angolo e se state aspettando il 2012 per sincronizzarvi con la fine di tutte le cose, bisogna non farsi cogliere impreparati e avere la presenza di mettere sul piatto la soundtrack giusta. I Barn Owl sono la palestra perfetta per stirare i tendini delle ansie e delle paure più arcane. Il sound ideale per mettere in scena il teatrino trascendentale con l’umanità al posto delle marionette, li dove diventiamo tutti leggenda in mezzo al caos e il videogame post-Richard Matheson si rivela per il diletto metafisico che è sempre stato. I Barn Owl in tutto questo ci sguazzano come due teenager vergini in un sexy-shop di Amsterdam. “Da che ho memoria ho sempre avuto un serie ricorrente di sogni (incubi?) apocalittici che mi hanno fatto compagnia divenendo una parte molto intima di me”, mi dice Evan Caminiti, in un misto tra il serio e il faceto che fa bene al cuore. Al giorno d’oggi c’è una tale quantità di musica da “fine dei tempi” che nemmeno ci si fa più attenzione. Ci stiamo vaccinando giorno dopo giorno e arriveremo puntuali all’appuntamento con un’idea già ben chiara in testa di 18 19 di andare dietro al tipo di suono che potrebbe evocare una certa immagine o un determinato umore. Quando capita cosi vado avanti per ore e ore incessantemente. Poi certo, quando componiamo una piece dei Barn Owl abbiamo un buon livello di improvvisazione da cui tracciamo le linee principali”. Jon la spiega in maniera più asciutta, del resto lui è il recluso della situazione laddove Evan gioca un po’ la parte dell’uomo deputato alle pubbliche relazioni: “Non c’è una regola precisa. Alcune idee nascono così buone che tutto viene creato in maniera quasi automatica, altre volte ci giriamo talmente tanto attorno che riusciamo a quadrare solo dopo molto tempo. Penso che la cosa principale nel nostro modo di produrre musica stia nel fatto che due menti diverse si coalizzano, o per meglio dire, entrano in connessione per raggiungere un unico obiettivo. Questa è la chiave dei Barn Owl”. L’alchimia tra i due è fondamentale, come del resto avviene in tutte le formazioni a forte grado di democrazia tra le parti, per cui ad un certo punto uno influenza l’altro e viceversa, in un costante processo di scambio e ricerca. “Ci siamo sempre influenzati a vicenda, scambiandoci musica, idee e opinioni. La cosa divertente è vedere come siamo poi passati attraverso diverse fasi. Ricordo un periodo in cui ero molto dentro al vecchio blues e ascoltavo e riascoltavo incessantemente gli album di Mississippi John Hurt, mentre poi l’anno seguente mi sono interessato molto al black metal andando alla ricerca del materiale più strano che potessi trovare. E in tutto questo pellegrinaggio cultural-musicale, abbiamo sempre continuato a suonare e a desiderare sempre lo stesso sound, sempre alla stessa maniera, entrambi”. Ma a questo punto com’è il suono dei Barn Owl? D alle cosa sia la fine. Quando erano gli anni ’90, potevi star li a notare come NIN e derivati giocassero con l’estremo e lo portassero nel mondo svuotato e plastificato della musica popolare, perché altrimenti ti toccava scendere negli antri metal e venire a patti con la solita sequela di satanismi da fumetto, che non spostano più nemmeno un capello, al punto che il vecchio Eddie degli Iron Maiden ormai lo fanno in serie, come bambolotto della notte per i bimbi del nuovo millennio. I Barn Owl tutto questo lo sanno. Si muovono sul solco tracciato da Dylan Carlson andando alla ricerca dell’om perfetto, quello che evocherà i quattro cavalieri e finalmente la faremo finita. Paragonati agli altri grandi doom-droners di questi anni, i Sunn O))), il duo di San Francisco ne esce fuori a testa più che alta. Porras e Caminiti si dedicano alla sceneggiatura laddove O’Malley e soci, con il passare del tempo, si sono concentrati sempre di più sulla scenografia. Evan Caminiti è un ragazzotto della Bay Area dal fascino sui generis, cresciuto a pane e metal che si trova ad un certo punto a frequentare la 20 classe di American Indian Science alla San Francisco State University insieme ad un altro sbandato e sbarbato geek di nome Jon Porras. Stesso profilo e visione d’insieme: sguardo perso, capello lungo, barba incolta, quattro stracci addosso messi su giusto per un primordiale senso del pudore, una comune passione per i Sabbath e il metal in generale. Due nerd in piena regola, che a vederli da lontano li si potrebbe scambiare persino per fratelli, un equivoco in cui spesso si cade come sentenzia lo stesso Evan: “Ci incontrammo in una classe mentre frequentavamo l’Università a San Francisco, subito dopo esserci trasferiti qui. Cominciammo a collaborare in maniera quasi istintiva perché le nostre idee semplicemente collimavano alla perfezione. Anche da un punto di vista estetico, con i capelli lunghi e tutto il resto ci trovammo in sintonia al punto che spesso la gente vedendoci insieme ci scambiava per fratelli”. Il passo dalla pacca sulle spalle alla costituzione dei Barn Owl in entità musicale effettiva è breve. Ai tempi del college entrambi militavano in metal bands senza arte né parte, ma in qualche modo questo comune idioma delle origini ha codificato un certo umore nella musica dei due: “L’approccio metal all’inizio è stato importante per prendere confidenza con il lato tecnico della musica. Sai com’è, con tutto quell’attenzione che in genere si pone sulle scale e quant’altro. Poi abbiamo in qualche modo lasciato tutto alle spalle quando abbiamo preso confidenza con noi stessi e tra di noi si è creato come un linguaggio istintivo. Il fatto che adorassimo Black Sabbath e Earth è stata come una sorta di collante da cui si è generato tutto il resto”. E qui sta il punto. Come compone musica una band che ora come ora si colloca nel miglior solco del drone revival anni 2000? Non tutto nasce dall’improvvisazione come ci spiega Evan “Hmmm, beh, è abbastanza difficile da spiegare. Un certo tipo di suono comincia a ronzarmi in testa come fosse un’idea che nasce dal nulla, ma altre volte posso strimpellare la chitarra per ore, mettendo insieme pezzo su pezzo gradualmente. Spesso comincio a suonare cercando nostre bocche una luce infinita I due esordiscono nel 2007 sull’etichetta di cdr Foxglove, dalla quale poi Brad Rose erigerà la Digitalis Industries. Disco di debutto, senza titolo, limitato a 100 copie, zero liner notes. Tutto secondo i dettami non scritti della weird culture anni 2000. A farla da padrone è la tradizione americana, nella fattispecie del vecchio blues scarnificato e elettrificato dei 12 minuti di The Buffalo Queen: fingerpicking febbrile ma non iper-tecnico, distorsione intesa come fondale desolato, finale epico dove si arriva a lambire la solistica metal, per poi virare tutto in un drone apocalittico. Tutto quello che c’è da sapere sulle diverse gradazioni che la musica dei Barn Owl può assumere, sta già tutto qui. Il resto del disco infatti gioca di rimandi. C’è il blues delle origini che salta fuori dalle note di Red River Raag, il doom western di Snow Swamp, il raga psichedelico su fingerpicking e ululati alla luna di The Twirling Tusks Of The Mouth Of God. La faccenda è già sufficientemente chiara, se ne accorgono in pochi, ovviamente, ma non finisce l’anno che i due mandano in stampa Bridge To The Clouds, prima per conto proprio poi per i tipi della Not Not Fun. A tutti gli effetti il secondo album, un vero e proprio sequel dell’omonimo. Un altro parto post blues, dove il mito americano viene riletto in un misto tra devozione e rivolta. Diamond Cloud è una ballata country a tutti gli effetti, ma calata in una tenebra lo-fi che la scarnifica fino ai limiti, così come molto lo-fi è lo psych-blues di Absent Afternoon che avrebbe fatto la gioia 21 di Matt Valentine. Molto più alieno per la musica dei due, il drone ambient di Golden Forest su cui la chitarra si innesta come corredo senza prendere il sopravvento. La svolta della maturità arriva quindi nel 2008 con un disco tanto denso e pesante quanto avvincente. è il turno di From Our Mouths A Perpetual Light che viene dato alle stampe prima in vinile per Not Not Fun e poi in comodo cd da Digitalis. Un bel passo in avanti nella musica dei due, che lasciano il solco blues in sottofondo portando in superficie tutto il nerbo doom. Il disco della svolta dei Barn Owl nasce nel nulla sulle coordinate atemporali di Voice Of The Other, congegno oscuro e opprimente, che cala subito un velo di tenebra al suono di una distorsione che tende fino allo spasimo le note, inscenando un drone apocalittico come se ne sentono pochi. La maestria dei due qui si cimenta anche nella resa panoramica d’ambiente, con le wastelands di Lotus Cloud, The Stones Speak Through The Fire, The White Mountain Filled With Light. Passo claudicante e malfermo, distorsioni sparse a mò di pioggia acida che cala sul solco di una Monument Valley perduta per sempre. Non mancano gli accenti psichedelici delle orientaleggianti frasi di chitarra di Road To Bardo, Mouths Of Light e Teonanacatl con zibaldone di echi abissali tramutati in lunghissimi Om tibetani che sembrano arrivare direttamente dall’aldilà. L’apoteosi la si raggiunge con la wilderness desolata di The Last Parade, esempio perfetto di apocalyptic rock evocato sulle vestigia del vecchio classico suono americano. Da qui in avanti, Jon e Evan, giocano di fino limando la formula e giovandosi di un fan base che ha ormai il suo nutrito numero di adepti. L’immediatamente successivo Raft Of Serpents, edito per Root Strata, snocciola altrettanti corridori dro22 ner-doom da manuale: Eternal Tower è praticamente un'unica nota di chitarra, rimodulata di continuo per mimare una passeggiata nel deserto più disperato, da qui anche gli accenti twang del finale, con un Evan Caminiti sempre più padrone del proprio linguaggio chitarristico. Non mancano i passaggi esotici e spesso si va a collidere con certa trance californiana più dispersa (Savage Republic, Red Temple Spirits, Drowning Pool). Nel frattempo i due si tolgono anche lo sfizio di condividere uno split Lp con il veterano Tom Carter, pubblicato nel 2008 da Blackest Rainbow, in cui non sfigurano affatto e per una volta tanto suonano assai più eterei e meno abrasivi del maestro texano. è quindi il turno della consacrazione definitiva che avviene con il disco del 2009 su Root Strata, The Conjurer. Sorta di seguito non dichiarato di Hex degli Earth, l’album si cala devotamente in un panorama desertico da anto- logia del suono americano, al punto che la chitarra non può che mimare il taglio western di un twang da anfetamina, come sentenzia senza imbarazzo lo stesso Evan: “Quando stavo scrivendo le parti di chitarra di The Conjurer stavo fancendo un bel po’ di riflessione sui deserti e gli spazi desolati, i panorami vasti, e così ho pensato che le immagini che avevo in testa sarebbero state veicolate meglio da un sound western twang fuso con l’umore lento e oppressivo del doom. è il suono del vento attraverso le praterie, dei passi infinitamente lenti attraverso la sabbia… è veramente una questione visiva per me. Per altro, in termini di ispirazione musicale ricordo che stavo ascoltando molto Sandy Bull, Popol Vuh e i raga di Pandit Pran Nath e Ali Akbar Khan. In più il drumming sperso di Chad Collins ha contribuito non poco a creare tutto questo immaginario, perché di solito noi suoniamo come un duo e l’aggiunta di un terzo elemento ritmico ha cambiato un bel po’ la nostra musica”. Tutto chiaro. The Conjurer è come la versione live dei Barn Owl, impegnati nella creazione di un viaggio narrativo-visivo, a mo’ di soundtrack immaginaria. L’ispirazione dei due “è alquanto ovvia, perché abbiamo una ossessione per il deserto. C’è qualcosa in quello spazio, la sua vastità, il fatto di realizzare di essere così piccoli nello schema dell’universo, che è davvero intrigante e finanche spirituale. In aggiunta, è così diverso dall’ambiente cittadino in cui spendiamo la maggior parte del tempo. è come un paradiso salvifico, un deserto in cui puoi rifoggiarti nella tua mente, un posto che risuona e dove la musica ti può portare senza che il tuo corpo si muova”. Quanto alla resa dal vivo del duo californiano, un documento limitato a 250 copie ed intitolato Transfiguration appare come bonus sfizio a corredo del tour di metà anno, riproponendo un concerto tenuto a Vancouver, l’anno precedente. I due hanno così il primo documento live a tutti gli effetti, in cui quello che prevale è il taglio distorto della chitarra in un lunghissimo mantra di 21 minuti e passa. Il deser to parla al tramonto Evan e Jon, quasi da subito decidono di non limitarsi alla sola attività dei Barn Owl. Due personalità così forti vanno quasi istintivamente alla ricerca di una propria valvola di sfogo artistica, che funzioni senza la mediazione di nessuno. Per quanto i due siano accomunati da un’unica visione condivisa, evidentemente, ogni tanto bisogna ritirarsi a coltivare il proprio orticello. Evan parte subito con le proprie trasmissioni soliste, inizialmente con il moniker Ek Caminiti, e poi semplicemente con il proprio nome di battesimo. Buried Light è il primo prodotto musicale in proprio, nel formato di cassetta limitata a 88 copie per Digitalis Limited. Un esperimento di drone ambient abbastanza campato in aria. Il suo forte è la chitarra, infatti quando la imbraccia per arpeggiare sul secondo lato il discorso cambia. L’esperimento ambient lascia il tempo che trova e Evan decide di prendere di petto la questione solista con i due dischi del 2008. Digging Into The Void, su Students Of Decay, che alterna alla perfezione fingerpicking esoterico e rantoli blues in perenne distorsione doom. Un taglio alieno, ma descrittivo, quello della sei corde di Evan, che non fa mistero di allinearsi alla tradizione dei grandi maestri. “Negli ultimi mesi sto ascoltando molto Roy Montgomery. Se parliamo di tecnica e di modo di suonare la chitarra, sono stato influenzato soprattutto da Neil Young e Keiji Haino. Anche John Fahey e Robert Fripp, in particolare le collaborazioni con Brian Eno. Una grande parte di quello che influenza i miei dischi solisti è ovviamente parte del suono dei Barn Owl, ma con l’ultimo disco, Psychic Mud Shrine, ho messo molta più attenzione alla filigrana del suono. Due parole che possono rendere bene quello che cercavo di ottenere con la mia musica sono fatiscenza e luce”. L’ultimo disco, edito da Digitalis, tra i suoi pregi vanta infatti un’inedita attenzione per la profondità del suono. Un sound iper-distorto e stiracchiato che richiama alla mente il disco solista di Alan Sparhawk o certe momenti di Steven R. Smith. Quindi blues ridotti all’osso e deturpati da una distor- 23 sione che si sintonizza in direzione dell’eternità. Jon Porras, invece, decide di nascondersi dietro un moniker campestre per i suoi excursus solitari: Elm, ovvero olmo. Se Evan è il visionario della sei corde che traghetta il sound dei Barn Owl verso i territori più scuri ed opprimenti, Jon invece è il trait d’union tra la tradizione blues e l’estasi metafisica, con una marcata propensione per la panoramica degli spazi aperti. “Gli spazi vasti e aperti sono una vera fonte di ispirazione. Una buona porzione di Nemcatacoa è stata registrata appena siamo tornati da un tour attraverso il southwest. è stata un’esperienza che ha avuto un forte impatto su di me, è stata la prima volta che ho guidato attraverso quella parte del territorio americano e ho potuto vedere direttamente tutto il panorama che ha ispirato così tanto della romantica idea del west. Mentre guidavamo attraverso il New Mexico su fino al Nevada, potevo buttare un occhio alla cartina e vedere che stavamo passando posti chiamati come ‘Devil’s Playground’ ‘Red Rock’ o ‘Black Plateau’ e questo mi ha fatto pensare alle storie dimenticate di quei posti e al perché avessero quei nomi. Ma quando ci penso sono veramente ispirato anche dalla vastità delle zone di costa. Guardare un mare infinito in un giorno grigio può portare gli stessi sentimenti dello stare di fronte alle aperte, aride pianure”. La discografia di Elm diventa quindi una cartina al tornasole per l’estasi più romantica e dark, al punto che lavori come Bxogonoas, Woven Into Light e Nemcatacoa sarebbero la colonna sonora perfetta per un qualunque quadro di Friedriech. Dalle vertiginosi nebulose doom di brani come Dawn Unveils The Golden Thread, Blackened Horizon, Trails Lined With Turquoise And Silk, On Golden Wings alle elegie più desolate e scure, come Long Winter's Howl, Rising Smoke Woods, In the shadow of Red Rock, Elm 24 balla un’ultima danza sulle ceneri della cultura Americana, evocando spiriti e demoni senza tempo. Bxogonoas ad esempio è la parola usata dalla popolazione muisca della Colombia per descrivere il mistero del tempo, mentre Nemcatacoa è una delle divinità azteche della civiltà pre-colombiana. E senza tempo è la qualità di una musica fatta con pochi mezzi: una chitarra, un quattro piste, due pedali e via ad evocare l’infinito. A corredo di un quadro già sufficientemente articolato, tra band madre e progetti solisti, per Jon e Evan si innestano i progetti collaterali. Esperimenti estemporanei o veri e propri progetti paralleli con pari dignità. Tra questi ultimi sicuramente gli Higuma, ovvero Evan e la sua compagna Lisa Mcgee. Un primo disco per Root Strata, intitolato Haze Valley, che si muove lungo le classiche coordinate improvvisate, tra chitarre lisergiche e ugole di sirena.Tutto abbastanza nella norma, salvo il salto di qualità con il nuovissimo Den Of Spirits edito in questi giorni per Digitalis Vinyl, che definisce a tal punto la formula da rivaleggiare con i Barn Owl stessi. Assai meno maturi sono poi i progetti denominati Hanging Thief e Portraits, che sembrano più che altro un divertissement estemporaneo, come in parte rivelano Evan e Jon stessi: “Gli Hanging Thief sono saltati fuori dopo una jam session spontanea mentre stavamo con Brad e Eden Rose a Tulsa. Una cosa del tutto analoga è accaduta per i Portraits, un progetto del tipo ensemble, con Jefre e Maxwell di Root Strata più un po’ di amici di San Francisco. Quando dico ensemble, intendo proprio un grande ensemble. L’ultima volta che abbiamo suonato avevamo qualcosa come 43 archi sul palco in mezzo a noi. Andremo in studio per registrare un disco questo stesso mese”. D roner - doom : L a F in A bsolue D u M onde I Barn Owl eccellono in un territorio assai affollato di questi tempi. Senza mettersi a scomodare tutta la brigata più propriamente metal e il vecchio adagio “Doom Or Be Doomed” di Cathedral e soci, esiste una nutrita folla di formazioni che sul modello di Earth 2, provano a far coesistere musica eterna e riff sabbatthiani. Che ci sia tutto questo “doom” e tutto questo “drone”, in gradazioni ovviamente variabili, nella musica degli anni 2000 è fuori di dubbio, al punto che spesso viene il sospetto che sia anche troppo facile attaccare la spina, buttare giù una nota sostenuta, rinvigorirla per ottenere l’effetto “bordone” con qualche pro-tool ed ecco che le valanghe di cdr più o meno esoterici ci sommergono. Di contro gli Earth di Dylan Carlson partiti con il nuovo corso di Hex sono fermi al passo con un disco scialbo come The Bees Made Honey In The Lion's Skull. Per rintracciare qualcosa di realmente valido in questo campo bisogna scomodare i tipi di Not Not Fun, ovvero i Robedoor di Alex e Britt Brown, che sono partiti dal modello “drone-horror” dei Double Leopards per poi rinvigorire il discorso con tutta un’estetica propria, a forte ascendenza metal, per lo meno in termini di immaginario estetico. O ancora i Nadja di Aidan Baker e gli Jesu di Justin K. Broadrick, due formazioni che assieme ai nipponici Boris rappresentano il momento più classicamente metal del nostro discorso. Si tratta infatti di formazioni dal taglio metal tout cout che provano a muoversi su coordinate laterali e quindi a lavorare di bordoni e drone music. Dei Sunn O))) si è già detto e il discorso lo potremmo chiudere anche qui se non arrivassero i suoni europei del doom-acustico made in Norvegia di Svarte Greiner e soci (Elegi, Xela, Anduin) che coniugano un certo gusto apocalittico con la tradizione classica, l’elettronica e le soundtrack da film. Forse il parto più innovativo da molto tempo a questa parte nel settore delle musiche horror, finito però presto con l’andare troppo dietro al modello originario dei vecchi Current 93. Xela partito dal glitch è arrivato ad una soluzione ibrida che mimava estetica horror e elettronica vintage, salvo poi andare dietro ad un taglio ambient-drone sul modello di Nurse With Wound un po’ troppo derivativo. Il suo è un esempio perfetto di come spesso l’originalità stia nelle soluzioni meticcie e sporche, piuttosto che nei parti definitivi. Discorso del tutto simile quello di Svarte Greiner e Elegi che però si sono mossi in maniera più subdola, evitando di dare alle stampe documenti che suonassero propriamente risolutivi, in modo che con loro il discorso rimanga tutt’ora aperto a nuovi sviluppi. L’americano Anduin, che si allinea al modello Type / Miasmah e viene per questo inserito nel novero del suono europeo, gioca con l’elettronica inscenando corridoi noir nella vena del Badalamenti più sospeso e tenebroso, da qui anche l’efficacia “di settore” dell’ultimo Abandoned In Sleep. I Barn Owl in tutto questo scenario sono gli unici che partiti dal blues delle origini sono arrivati a lambire la musica eterna, con un afflato mistico visionario che è proprio dei grandi. Il fatto che ancorino le loro escursioni alla fonte mitica del suono americano non fa altro che aumentare l’efficacia d’insieme di una musica che si candida a rappresentare la quintessenza di questi anni. A chiederglielo i due nerd nemmeno stanno a pensarci più di tanto: “We just plug in and go for it” mi rispondono. 25 Lightspeed champion —Costruzioni in sincrono Drop Out Lightspeed Champion ritorna con un album che spiazza. Ne abbiamo parlato con lui, eclettico indie nerd perfezionista, smontando una contraddizione solo apparente su cui avevamo voglia di indagare. Testo: Teresa Greco 26 C he cosa ha a che fare la costruzione programmata fin nei minimi dettagli di due album assai differenti l’uno dall’altro negli ultimi tre anni, con un indaffarato nerd inglese nero di 24 anni, dall’aria svagatissima e autoironica e dagli impossibili capelli afro? La domanda sorge immediata riflettendo su questo contrasto – solo apparente – che emerge ad una prima analisi. Si parla naturalmente di Devonté ‘Dev’ Hynes e del suo progetto Lightspeed Champion, balzato sulla bocca dell’indie pop più chiacchierato all’inizio del 2008 con il folgorante primo album Falling Off The Lavender Bridge e che è fresco di pubblicazione del secondo, Life is Sweet! Nice To Meet You, sempre su Domino. La storia di Hynes, come ogni vicenda di un certo peso che si rispetti, viene da più lontano, in questo caso dalla Londra dei primi anni del nuovo millennio, dove troviamo tre amici d’infanzia (Rory Attwell, Sam Mehran e Dev Hynes, quest’ultimo nato nel 1985 a Houston, Texas ma cresciuto in Inghilterra, nell’Essex) che si danno da fare mettendo su compulsivamente una band dietro 27 l’altra, con le influenze più disparate, che vanno dall’indie pop rock alle contaminazioni hip hop, crossover e punk, fino a formare nel 2004 i Test Icicles, sorta di gruppo dance punk nurave subito messo sotto contratto dall’accorta Domino; l’esordio For Screening Purposes Only, un album abbastanza ben accolto in ambito indie, risale al 2005, sotto la produzione di James Ford (Simian Mobile Disco). Solo pochi mesi dopo però, a inizi 2006, il gruppo splitta, con la motivazione, addotta dallo stesso Hynes nel corso di un’intervista al NME di “non essere abbastanza interessati al tipo di musica che stavano facendo”… frase che fa capire come la band fosse in naturale evoluzione e che quello era solo uno step da diciottenni lungo un percorso più articolato. E che fa anche intuire poi gli orizzonti dello stesso Hynes, già avanti mentalmente rispetto al suo e all’altrui presente prossimo. Infatti dopo brevi collaborazioni con l’amico Rory Attwell, Dev prende il largo e da buon conoscitore dell’ambiente, comincia a mettere a frutto la connection ancora aperta con la Domino. Il Nostro allora all’alba del 2006 si ritrova più o meno da dove era partito, a raccogliere i cocci della breve esperienza Test Icicles, mentre si dedica anima e corpo allo studio di un nuovo progetto. Afflitto da problemi intestinali e intolleranze alimentari sin da quando aveva 13 anni (come da lui dichiarato) quindi più o meno impossibilitato a bere e fare stravizi nei pub working class dell’Essex nativo, non è difficile perciò immaginarlo nerd onnivoro e compulsivo della rete, con le mani in pasta in mille direzioni, quali in effetti era ed è. I suoi orizzonti sono allora già ben oltre l’Albione indie pop e wave del momento; come capita un po’ a tutti i genietti dotati, il suo range di influenze è talmente eclettico da permettergli di spaziare ampiamente, come poi in effetti succederà, ben oltre quel panorama ristretto dell’indie. Da una parte troviamo i consueti studi classici dell’infanzia (nel suo caso piano, violoncello e basso), poi i disparati interessi da adolescente ribelle tutto chitarre e percussioni, associati al nerdismo di cui sopra, e a una passione per i fumetti (che disegna) e la scrittura, il tutto contribuisce a formarne un quadro sfaccettato e poliedrico. Così capita che insospettati altri interessi lo riportino alla terra di nascita, vale a dire gli Stati Uniti. Si trasferisce infatti armi e bagagli a New York con l’intenzione di perfezionare il famoso progetto a cui sta pensando. Qui si rivela un’altra passione, quella per l’Americana e anche l’esplicitazione della sua vena musicale più melodico-intimistica. Comincia a frequentare Mike Mogis, vale a dire il produttore attivo in area Saddle Creek e collaboratore di Bright Eyes alias Mr Conor Oberst. I pezzi scritti insieme a Mogis diventeranno il fatidico primo album, Falling Off The Lavender Bridge (uscito nel gennaio 2008), che i due vanno a registrare in quel di Omaha, Nebraska, il cuore di quel suono. Non mancano alle session altri personaggi topici, quali Nate Walcott (Bright Eyes), Clark Baechle, batterista dei Faint, Emmy The Great e membri di Tilly And The Wall e Cursive. “Mike Mogis non è stato un produttore impositivo e che forniva idee, in realtà mi ha lasciato libero di fare le cose a modo mio, e così eventuali errori presenti nel primo disco sono dovuti al suo non intervento, piuttosto che a me!” – rivela nel corso dell’intervista. Il primo step del percorso di Lightspeed Champion è così compiuto. Stupisce, osservando la sua storia a posteriori, di come ogni passo di Dev sia perfettamente calcolato. Ogni mossa tracciata conseguentemente seguendo un’idea ben precisa e declinata. Di come sia scientemente programmato ogni disco e ogni scelta conseguente di sound e collaboratori, un disegno razionale 28 che segue certamente le passioni del momento, ma razionalizzate e incanalate in un percorso preciso e netto. Nel corso dell’intervista Hynes scioglie finalmente il nodo sul contrasto rilevato tra ragione e impulsività: “In realtà io sono un perfezionista e voglio che ogni cosa sia fatta nei minimi dettagli e nel migliore dei modi, ma al tempo stesso non sono uno capace di aspettare e credo molto anche nell’immediatezza; da qui il mio blog e tutte le attività instant che faccio a partire dal web”. Un perfezionista estremo quindi, e così ogni cosa ha un senso. Tornan- do al primo album, si rivelerà vincente la scelta di genere e produttore. Nel gennaio 2008 sul mondo indie si abbatte così inaspettato il ciclone Lightspeed Champion, che diventa immediatamente, attraverso un rapido tam tam mediatico, un vero e proprio “caso”. Falling Off The Lavender Bridge è album di songwriting indie folk pop di ispirazione Americana, riccamente arrangiato e prodotto, che riflette tutta la ricchezza melodica e compositiva di Hynes, novello Conor Oberst, Okkervil River o Elvis Costello (a quest’ul- timo assomiglia parecchio per tono di voce oltre che per alcune scelte stilistiche). L’esordio rivela una vivacità compositiva che già allora poteva fare venire in mente uno eclettico come Patrick Wolf, a cui poi si sarebbe avvicinato. Un’ispirazione che si abbevera alle fonti citate e che al tempo stesso le rinfresca con un talento compositivo non comune. Se a questo si va ad aggiungere la personalità frizzante e scoppiettante del personaggio, una vivacità intellettuale e un’autoironia contagiosa, si capisce come l’esplosione del “fenomeno” Lightspeed Champion si sia potuta verificare in un tempo relativamente breve. Il web ha poi amplificato i molti progetti di Dev attraverso la presenza attiva come blogger (lightspeedchampion.com), proprio da qui è stata resa nota la sua passione per la scrittura e i comics (il moniker scelto deriva da una serie di strisce che disegnava da teenager sui quaderni di matematica…); ha infatti autopubblicato subito dopo l’uscita del primo disco un libretto di suoi fumetti, I'm Asleep - Comics, Photographs and Illustrations, e a giugno 2009 è uscito il li29 bro Punk Fiction: An Anthology of Short Stories Inspired by Punk, che contiene una sua short story di sci-fi, mentre a breve è prevista una antologia di racconti brevi. L’altra uscita ufficiale è un contributo di Dev a una raccolta di comics appena pubblicata del collettivo Cntrl.Alt.Shift. “Scrivere musica è un processo abbastanza veloce e mi diverto a farlo, sui fumetti ci passo invece molto tempo e non è una cosa facile e immediata come l’altra, ma ugualmente gratificante”. Su web ha anche messo a disposizione alcuni progetti estemporanei con vari demo da scaricare e interi album che ha coverizzato, alla maniera di un Beck. Recentemente ha anche esposto sue foto in una galleria di Soho. Altra cosa insospettata che viene fuori è la sua passione per l’hip hop commerciale e le varie rivalità fra le fazioni rivali (2Pac / Biggie, Eminem…), di cui ha persino scritto su Wikipedia, correggendo alcuni errori negli articoli presenti! Insomma il ragazzo si dà da fare e pure parecchio. Nell’intervallo tra primo e secondo album, ci sono stati la consacrazione e un tour promozionale, che lo ha portato anche dalle nostre parti.Visto alla casa 139 di Milano a fine gennaio 2008, è apparso frizzante e all’altezza di ogni aspettativa suscitata. Come dovrebbe essere ogni indie act che si rispetti, fresco e intenso ma non banale. Come conseguenza del tour si è verificato poi per Dev un problema alla gola, poi risolto, che lo ha lasciato quasi senza voce e il definitivo trasferimento da Londra a New York. E finalmente il seguito, rivelatosi una conferma, e che ci fornisce l’occasione per una chiacchierata con Hynes: Life is Sweet! Nice To Meet You (in spazio recensioni) pubblicato a febbraio, sempre su Domino era disco molto atteso, considerate le notizie che circolavano già da qualche mese. Ancora un cambio alla produzione, pur rimanendo in terra americana: questa volta in cabina di regia siede il quotato Ben Allen (Gnarls Barkley e Animal Collective tra gli altri). “Con Ben ci siamo trovati su un terreno comune di stessi gusti musicali, e poi il mio primo album era tra i suoi preferiti del 2008! In genere entro in studio quando i pezzi sono del tutto pronti, come questa volta, cosicché abbiamo registrato in soli nove giorni. Ho di solito un punto di vista molto preciso e anche perAllen è così, infatti ci sono stati alcuni momenti di tensione tra noi poi risolti, lui sa come ottenere canzoni incredibili”. Allen ha accontentato la voglia del Nostro di suono americano, anche se è cambiato molto il punto di vista di Hynes, ora è il pop a tutto campo la sua area di investigazione musicale, piuttosto che il folk di area USA, anche se di quest’ultimo qualcosa è rimasta qua e là sotterraneamente nel disco. In Life is Sweet! Nice To Meet You non c’è traccia di scrittura per chitarra acustica, come nel primo, prevale infatti quella piano e synth, in un contesto di chitarre dal suono pulito e al solito suoni estremamente curati. “Per questo album volevo che tutto suonasse esagerato, mi sono prefissato di aggiungere quanti più elementi potevo quasi fino allo sfinimento, ed ho cercato di evocare le emozioni che esprimevano alcuni artisti solisti che ho sempre amato, perché lavorando da soli potevano fare tutto quel che volevano, tipo Todd Rundgren e Serge Gainsbourg, due tra i miei preferiti in assoluto.Volevo solo una voce maschile e voci maschili nei cori, questo tipo di aspetto macho artificiale maschile che amo, tipo West Side Story. Mentre componevo poi stavo ascoltando alcuni pezzi di classica che ho amato in passato e nello stesso tempo scrivevo arrangiamenti per orchestre, così ho cercato di usare questo tipo di formula adattandolo al disco”. Questo spiega l’accumulo di elementi e la loro giustapposizione. Siamo ora così in pieno trip Settanta, soprattutto inglese, lo si nota da certe chitarre frequenti con tanto di assoli, come in Middle Of The Heart (“il finale 30 di chitarra è volutamente esagerato, è venuta così live, si adatta perfettamente alla conclusione dell’album”), dalle inflessioni powerpop, si veda Faculty Of Fears (“lo ammetto, sono un grande fan del powerpop e dei Weezer, anche se quest’ultimi non c’entrano molto qui; è Todd Rundgren piuttosto un altro dei miei eroi, di cui ho coverizzato l’intero A Wizard, A True Star, uno dei miei album preferiti dei 70”), da un songwriting che ricorda alcune cose del primo David Bowie (periodo Hunky Dory). Senza farsi mancare le incursioni nel guitar pop e nella wave, si veda il singolo Marlene o la nota Madame Van Damme (veniva eseguita live negli anni scorsi, con il titolo di The Prostitute/The Escort Song). Altro elemento importante nel disco è quello teatrale e glam, inteso anche in senso lato. “Musical e teatro sono due tra le mie influenze da sempre, la prima cosa vista in quell’ambito è stata il Libro della giungla; mi piace il musical perché si passa con disinvoltura da un genere all’altro, cosa che a me piace fare da sempre”. Non mancano in questo trionfo dell’accumulo anche intermezzi vocali simil operistici di marca Sparks e Queen (“sono un grande fan dei Queen, c’è chi ha visto loro influenze nel pezzo The Big Guns Of Highsmith e in altri, ed è vero; anche se non avevo in mente il gruppo quando ho scritto l’album, come influenza inconscia è venuta fuori ugualmente") che lo avvicinano stilisticamente a uno come Patrick Wolf (“conosco Patrick, siamo anche amici, entrambi mettiamo noi stessi come interlocutori della nostra musica, non compiacendo nessuno”). In realtà Hynes si rifà soprattutto a un’idea totale di musical, non a caso ha citato Andrew Lloyd Weber tra le sue influenze, il compositore autore di musical quali Jesus Christ Superstar, Evita, Cats e Il fantasma dell'opera. Songwriting adulto, accumulo di elementi, musical, pop, powerpop e suono Settanta, influssi di classica (“Michael Nyman è un altro da cui sono stato influenzato per questo disco”) il tutto tenuto insieme da una produzione e un suono tipicamente americani, questo in estrema sintesi Life is Sweet! Nice To Meet You. Sul processo compositivo in sé Dev dice in generale che tutto quello che fa è una sorta di esperimento e che i testi vengono solo per ultimi (“scrivo prima la melodia, poi la struttura e poi dopo gli arrangiamenti vengono rapidamente le lyrics”), mentre è molto importante in questo caso quello che hanno rappresentato; “si parla di uscire allo scoperto, è un anno e mezzo che sono andato via da Londra per NY e questo trasloco mi faceva paura all’inizio, quindi ci ho scritto su dei pezzi che parlano anche del senso terapeutico del muoversi, fino ad arrivare a stare sufficientemente bene da poter dire buongiorno alla gente - si veda il titolo dell’album, ndr – senza più nascondersi, come ho fatto in passato. Il disco è anche un omaggio a Londra, sto bene solo ora che me ne sono andato via e così tendo a ricordarne solo le cose positive. L’album è quindi una sorta di diario che è venuto come un flusso di coscienza, certe volte capendo solo dopo il significato di certi testi che avevo scritto”. Un modo quindi per esorcizzare alcune paure e in questo caso riuscire a superarle. E intanto, perché non riesce proprio a star fermo, il Nostro ha messo su anche un side project tra un album di Lighspeed Champion e l’altro: come Blood Orange (myspace. com/bloodorangeforever) dovrebbe uscire qualcosa a breve; si tratta di una one man band tra lo fi, black funk e ritmi dub. Un personaggio a tutto tondo Dev Hynes, che in fondo, come ci ha rivelato, fa solo le canzoni che vuole sentire, magari quelle ascoltate a mesi di distanza e che riprende con procedimento non del tutto conscio, sia nella musica che nei testi. Ci piace perché ha personalità e talento. 31 Recensioni AA. VV. - Twisted Cabaret Vol. 1 (Volvox Music, Gennaio 2010) G enere : vaudeville / pop - cabaret Twisted Cabaret Vol. 1: un esperimento che si vuole eclettico (quanto meno nella scelta mediale: compila musicale nel CD, più una raccolta di videoclip nel DVD) teso a repertoriare un certo mondo musicale di stile goliardico, grottesco a volte, cabarettistico - ma nel senso originario del Cabaret Voltaire zurighese, e quindi filodada - compiuto dalla Volvox Music. I Residents non potevano mancare (con The Dying Oilman e con il video di Harry The Head); eppure, e neanche questo ci stupisce, dipingono ormai paesaggi senza nessun interesse. Un freak show ambientato nella grafica 3d da videogioco metà Novanta. La sorpresa è semmai Beguine di De Kift, band olandese vicina a The Ex; surreali associazioni automatiche e paranoiche, divertenti in primis, con un video che eleggiamo a migliore del lotto. Certo, tutto questo materiale ci farebbe fare il solito collegamento, se dovessimo descrivere un elemento alla volta, separato dal contesto del progetto: il vaudeville. E quindi, probabilmente, anche solo per anzianità, sono tutti figli dei Residents, questi neo-vaudevilliani. Alcuni apertamente, e superando a destra (da restauratori) i maestri-occhio, come i Dresden Dolls, oppure Marcella And The Forget Me Nots (che giocano sull’asse comico-surreale-horror-gotico-antan) - ma anche Little Annie, forse? Altri sono più intelligenti, e giocano con la cultura di oggi - i cigni di Aranos (nel video di Julio Cruz), correlativo oggettivo della resistenza della bellezza all’inquinamento, oppure il già citato teatrino quotidian-surreale di De Kift, o, infine, le atmosfere voodoo-circensi dei Little White Rabbits Still Bleed Red di Muncie Mayhem (Who’s Got The Maya). E che sia la libertà di associazione di mondi la macro-chiave di interpretazione, la scelta curatoriale? Se sì, la apprezziamo.(6.6/10) Gaspare Caliri AA. VV. - Fabric Presents Elevator Music Vol. 1 (Fabric, Gennaio 2010) G enere : UK bas s , chillstep Il brainstorming in casa Fabric accosta alle uscite mensili una nuova compilation stranamente unmixed. Elevator 32 — cd&lp Music, secondo i boss del locale, raccoglie(rà?) la crema del suono bass dance britannico. Data la mole di tracce, meteore, innamoramenti e mode che passano sotto la consolle dei DJ britannici, il tentativo di catalogazione è più che mai appropriato. Nelle sedici track sembra che il club della capitale UK stia orientandosi verso un pubblico adult che apprezza le derive del suono dubstep ma che ne gode pure gli aspetti off da party privati. Guizzi d'adrenalina giovanilistica per il trentenne che cerca momenti d'escapismo sonico controllato vestiti (cosa più importante) di coolness da ostentare senza riserve. L’ascensione ricalca il periodo di massimo splendore della !K7, quando gli idoli erano Kruder & Dorfmeister e la città era Vienna. Oggi mutatis mutandis ci si sposta un po’ più in su, ci si toglie di dosso il chill e si pompa il cocktail con lo stepfloor. I nuovi party saranno quindi farciti di dance caraibico-tribale (Sing With Us, Drums In The Deep), houstep mescolata con le tastierine F Comm (Pistol In Your Pocket), qualche ricordo progressivo mescolato con il tiro ‘n’bass (The Moth, Melvin Blue), il bbreakin’ d’obbligo (siamo pur sempre a Londra, no?) e per chiudere con il botto singoli che colano acido dalle menti di Martyn, Caspa & Rusko e Starkey. Se vi eravate persi qualche puntata: senza passare dal via andate direttamente sull’ascensore del Fabric. Coniugare lo step con il chill, chi l’avrebbe mai detto? Culto istantaneo.(7.4/10) Marco Braggion AA. VV. - Pop Ambient 2010 (Kompakt, Gennaio 2010) G enere : electro ambient Decimo anniversario per la compilation che come ogni gennaio spunta fuori dagli scaffali di casa Kompakt facendo il punto sulle sonorità ambient kraute dell’etichetta di Wolfgang Voigt. Già specializzato con lo storico progetto GAS, il boss sforna una sequenza che, a differenza dei numeri precedenti, tende a posizionarsi sul melodico, testimoniando gusto classico (Orb, DJ Koze e lo stesso Voigt) e illustri sconosciuti. Le atmosfere dell’ambient da Colonia si purificano rispetto alle performance dei soundmakers berlinesi tanto highlight Adam Green - Minor Love (Rough Trade, Gennaio 2010) G enere : songwriting Il newyorkese sarcastico e sempre sopra le righe, che detesta la figura del cantautore confessionale e passa di citazione in citazione giocando con il suo songwriting ad effetto, sembra essere arrivato ad un punto di svolta. Alla soglia dei trent’anni e con l’ennesimo album in uscita, Minor Love, riesce laddove non era arrivato completamente finora.Vale a dire a scrivere l’album compatto e finalmente adeguato alle sue possibilità espressive. Intendiamoci, il piglio ironico e il mood sbarazzino ci sono tutti, quello che sembra essere cambiata è l’attitudine e la scrittura si è fatta più coerente e sicura, senza troppo sbavature. Minor Love è quindi un compendio del suo songwriting, che oscilla tra i numi tutelari Lou Reed, Leonard Cohen, Burt Bacharach, Jonathan Richman, a spasso tra decenni di musica americana , senza dimenticare il country rock e persino la ballata in odore di acido psych (Bathing Bird), facendo anche simpaticamente il verso al miglior Beck soul funk in Lockout. Insomma il ragazzino impertinente che abbiamo imparato a conoscere un bel po’ di tempo fa con i Moldy Peaches è cresciuto. Sempre senza prendersi troppo sul serio, speriamo a lungo.(7.2/10) Teresa Greco che scompaiono la contaminazione con il bass inglese o con la techno nordeuropea. La dichiarazione è un’altra, quasi un controaltare per il dub rarefatto dei guru del dub Hard Wax: less is, again, more. E anche se si tolgono elementi non ci si dimentica per fortuna di quello più importante. L’anima. Quella resta, magari frozen, ma c’è. Un bel regalo che allieterà i soundscapes invernali.(7/10) più caldi spiccano Jazzsteppa, Cotti, Rush, Mrk1 ed Eskmo. Il disco spazia dall’electrostep in acido (Playtime’s Over) al bass più tirato (Freedom), dall’ardkore zombyano di Dubcore all’ambient-goa di Cheddar. Una compilation ben mixata che ci fa conoscere una nuova etichetta, ma che non aggiunge molto alla media delle produzioni mesh-step d’albione. Solo per aficionados.(6/10) Marco Braggion Marco Braggion AA. VV./Studio Rockers - Studio Rockers At The Controls (Studio Rockers, Novembre 2009) G enere : raggastep dub Tony Thorpe (aka The Moody Boyz) è il boss di casa Studio Rockers. L’etichetta, fondata 3 anni fa dal ragazzo Wall Of Sound e curatore del Meltdown Festival in combutta con i Massive Attack, comprende un roaster di amanti delle roots dub e delle tensioni -step. Fra i nomi AFCGT - AFCGT (Sub Pop, Gennaio 2010) G enere : A vant psych punk Sempre più spesso il passato si reinventa. I gruppi si riformano o si riciclano. Più raramente esperienze distanti, ma non opposte, trovano il modo di dar vita ad una nuova fragorosa creatura. Succede oggi con gli AFCGT, combo formato da due gruppi di Seattle, rispettivamente gli A Frames (già un album su Sub Pop) e i Climax 33 Golden Twins, dei quali sono la naturale unione anche a livello di acronimo scelto. L'attitudine al rock tellurico di scuola Skin Graft / AmRep dei primi si accosta al lato dronico e concreto dei secondi (com'è d'obbligo nei 2.1). Spesso però non avviene una fusione completa, ma piuttosto una giustapposizione dei rispettivi stili. Così tribali cavalcate psych (Two Legged Dog) vengono affiancate a divagazioni raga-ambient (Nacht); e garage mathematico (New Punk, New Punk 27) a strazianti collage di suoni rubati ad un aeroporto nel panico (Reasonably Nautical). Il risultato (uscito solo in digitale e in LP con un 7 pollici bonus allegato) non è né organico né d'immediata assimilazione. E se questo può inizialmente lasciare perplessi, ci pensa la maestria dei cinque a fare da garante e a generare visioni vorticose come i caleidoscopi delle loro copertine.(7.3/10) Andrea Napoli Agent Side Grinder - Irish Recording Tape (Enfant Terrible, Novembre 2009) G enere : N eo W ave Sempre per l'olandese Enfant Terrible (e in seguito a un primo lavoro del 2008), gli Agent Side Grinder tornano con ben due album, entrambi realizzati con un membro del gruppo momentaneamente trasferitosi negli Stati Uniti. Irish Recording Tape riprende da dove l'omonimo debutto si era interrotto: massicci dosaggi di wave elettronica (Die To Live, Black Vein), basso che pulsa dritto sulle tempie (The Screams), incursioni industriali a redarguire chi pensa di averci preso confidenza (Pulse). La composizione si fa meno immediata e più ponderata; la conoscenza della materia trattata e la capacità di rielaborarla in chiave personale restano immutate.(7.1/10) Andrea Napoli Agent Side Grinder - The Transatlantic Tape Project (Enfant Terrible, Novembre 2009) G enere : A mbient / I ndustrial S oundtrack Il secondo tomo del nuovo capito ASG si chiama The Transatlantic Tape Project e mostra il lato più sperimentale e compositivo della band di Stoccolma. Frutto del fitto scambio di idee tra Svezia e Stati Uniti, il secondo ellepì tesse trame sonore ammalianti e avvolgenti. Sette paragrafi dai nomi criptici a mescolare psichedelia sixties, ambient mutante e muzak industriale. Cabaret Voltaire, Eno e Velvet Underground, tutto sapientemente rielaborato per dar vita ad una soundtrack da 34 viaggio lento e meditativo, proprio come nella splendida cover.(7.3/10) Andrea Napoli Album Leaf (The) - A Chorus of Storytellers (Sub Pop, Febbraio 2010) G enere : I ndie , post , chamber L'ex post-rocker Jimmy LaValle ce l'aveva fatto credere: dopo aver inciso il nuovo album di The Album Leaf alla solita maniera, e con l'aiuto dei sodali Jon Sigur Rós Birgisson (al missaggio) e Ryan Hadlock (fonico del Bear Creek Studio), ha iniziato a sbandierare, già tre mesi fa, che non sarebbe più stato solo, lasciando indendere una svolta importante. L'etichetta è montata a cavallo aggiungendo "fondamentali" ai cambiamenti profilati da A Chorus of Storytellers, album che si è avvalso dell'aiuto di un'intera band come non accadeva dai tempi dei Tristeza. I ragazzi sono quelli del supergruppo Magnetic Morning che ha seguito LaValle anche nello scorso tour (tra i quali troviamo vecchie conoscenze quali Sam Fogarino degli Interpol e uno degli Swervedriver) ma il loro coinvolgimento non è stato sostanziale. LaValle era solo quando ha portato le comuni session ai soliti studi di Washington dove ha sfornato un master non dissimile dai consueti standard. Rispetto al bello e (a questo punto) autoconclusivo Into the Blue Again, la nuova prova si caratterizza per un immobilismo quasi imbarazzante, una prova cristallizzante più che cristallina, pietra tombale sopra a un mondo sonoro tanto faticosamente sintetizzato nei lavori precedenti. La lunga gestazione poi non ha giovato: un blocco dello scrittore ha costretto il chitarrista, che nel frattempo si è sposato, a tardarne l'uscita. L'attacco - e le modalità - di uno dei brani più riusciti dell'album, Falling From The Sun, ricordano più Casiotone For The Painfully Alone che non lui che a quelle strategie del cuore ha contribuito prima di tutti, quando altrove è la solita cartolina di post, Islanda e Morr Music. Doveva, anzi voleva, essere il miglior album di Album Leaf ma lo è soltanto per una produzione e un professionismo ineccepibili. Gli arrangiamenti chamber - e adult - à la Mùm (Stand Still), così melodiosamente impeccabili, ne evidenziano ancor più l'inutile esercizio di stile. (5/10) Edoardo Bridda Alva Noto - Xerrox Vol.2 (Raster Noton DE, Gennaio 2009) G enere : elettronica Seconda uscita di cinque, quelle che si attendono per la serie di Xerrox ed un Alva Noto come sempre pronto ad immortalare geometrie del suono. A tre anni dal primo volume e ad uno dagli interstizi astratti per inserti e rumore di Unitxt la poetica è sempre quella; impatto sonoro e riflessioni estreme su materia e frequenze ed una ricerca di classicità che sembra essere diventata una priorità per lui e gente come William Basinski o Fennesz peculiarità condivise con quest’ultimo anche in ambito di un passato d’innovazione attorno all'ossimoro glitch. Differentemente dallo Xerrox Vol.1 che presentava anche stampanti nude e crude al lavoro, nel Vol. 2 il boss della Raster Norton ci presenta quel classico fare dronato con vaghi ma pregnanti accenti cameristici (Monophaser 1) e ancor più calcolati e aleatori tocchi cinematografici (Sora). Un solidificarsi di materiale in campioni che partono da registrazioni fatte con Stephen O'Malley e Michael Nyman e che attraverso i domini d’elettronica in micro-sintesi arrivano a confluire con sinergia sottile oggetti artificiali che vanno a toccare prima l’ambient astratta e granulare (Soma) o a risuonare in paragon di virtù agli scritti di Russell Haswell e Florian Hecker per fisicità e appello al rumore (Meta Phaser). Ma il noise è un'alchimia usata con parsimonia e non la colata lavica di gente più arrembante come Ben Frost. Ed è un classico gioco di generazioni e di percorsi dunque. Niente di così diverso dalla versione digital di epopee come quelle dei Neubauten.(7.5/10) Sara Bracco Ambrogio Sparagna/Orchestra Popolare Italiana - Taranta d'amore (Parco della Musica Records, Novembre 2009) G enere : musica popol are Diventata nell'ultimo decennio autentico fenomeno di massa - con l'annessa retorica “sole-mare-vento” che ha reso il Salento una sorta di Shark El-Sheik di chi addita con disprezzo coloro che a Sharm el Sheik ci vanno davvero - la taranta rischia di perdere per strada tutta quella densità antropologica di tradizione e cultura che le ha permesso di superare numerosi secoli e altrettan- te barriere. Serve dunque difenderla, ma meglio ancora darle nuova vita, per via contaminatoria o prestandosi ad un'operazione come quella che compiono Ambrogio Sparagna e l'Orchestra Popolare Italiana dell'Auditorium Parco della Musica di Roma in questo Taranta d'amore. Ovvero contaminare sì, ma non con musiche contemporanee, bensì mescolando tradizioni che fra i secoli dal centro Italia all'estremo sud hanno trovato nel ritmo ternario della taranta un comune filo rosso, aggiungendovi poi brani nuovi e autografi. L'esito è un humus ben poco imbalsamo nelle stagnazioni filologiche ma fecondo di tracce al contempo viscerali ed eleganti, che aggiungono alla tensione terrigna d'origine l'imponenza energica di un ensemble numeroso e perfetto nell'esecuzione. Applauso dunque a Sparagna per il lavoro in fase di adattamento di spunti in nuce molto diversi fra loro (strambotti, pizziche, canti popolari romani e tanto altro) come di scrittura di nuove canzoni del tutto omogenee al resto (splendida Libera nos a malo). E applauso ai venti elementi dell'Orchestra tra zampogne, organetti, mandolini, chitarre battenti, ghironde, ciaramelle, tamburelli, violini e voci (di alcuni dei migliori cantanti popolari italiani: su tutti impossibile non segnalare la voce pastorale di Raffaello Simeoni). Se c'è qualcosa da sostenere contro l'istituzionalizzazione da pro loco e il trionfo della didascalia da cartolina è proprio una pratica di futuro antico come questa. Ancor di più se realizzata a livelli così alti.(7.7/10) Luca Barachetti Angus & Julia Stone - And The Boys ep (Capitol, Gennaio 2010) G enere : folk pop Australiani di Sydney, i due fratelli Angus e Julia Stone tornano a quasi due anni dal debutto lungo A Book Like This. Se per marzo è previsto il successore Down The Way, il qui presente singolo And The Boys ep ci offre un antipasto degno di menzione. Sembra proprio che la delicatezza folk del duo abbia acquisito quel preziosismo indolenzito, quella profondità trepida, quella sottigliezza inesplicabile che fa la differenza tra un popfolk innocuo e uno che ti lascia l'impronta sul cuore. Tre i pezzi in programma: una title-track tesa e illanguidita dove Julia sembra una El Perro Del Mar ipnotizzata Joanna Newsom (o viceversa), una Change che vede Angus nei panni del troubadur di velluto (anche un po' sdrucito, il che non è male), infine quella Take You Away che s'adagia con una certa convenzionalità su una crema d'archi ma struggendosi in bello stile. Segnali di maturità che presto troveranno conferma o smentita.(7/10) Stefano Solventi 35 Aoki Takamasa - Ununtrium/RNRhythm-Variations (Raster Noton DE, Gennaio 2010) G enere : P ost -T echno Ancora tavole periodiche, elementi primari e deframmentazioni post-techno per la serie Unun su RasterNoton, del cui lotto finora brilla di originalità (teorica e non) Grischa Lichtenberger. Stavolta tocca ai beat incasellati di Aoki Takamasa che sorreggono pattern a costanti alvanotiane perdurando così fino alla fine. Quattro movimenti sostanzialmente somiglianti sia nei titoli (delle RN progressive) che negli effetti. Le ritmiche si scompongono come extrasistoli incattivite e dentro qualche pattern iniziale riecheggia prepotentemente lo spettro di Akufen. Dei frattali marini dei due Silicom non è rimasto niente, soltanto qualche scossone granulare qua e là. Spiccare di genio con suoni così inflazionati è piuttosto impossibile.(5.5/10) Salvatore Borrelli Badara Seck - Farafrique (Officine Meccaniche, Novembre 2009) G enere : etno - world Il problema a monte è parlare di “musica africana” riferendosi a un continente esteso tre volte l'Europa e difficilmente pareggiabile per molteplicità di culture e tradizioni musicali. Come se un americano parlasse di musica europea riferendosi indistintamente a un rebetico greco o a una humppa finlandese. E colpisce che a farlo sia un griot quale Badara Seck, senegalese musicalmente trapiantato in Italia, già collaboratore fra gli altri di Massimo Ranieri, Morgan e Raiz, ora all'esordio con la produzione di Mauro Pagani. Farafrique potrebbe essere un discreto disco di brani tradizionali kora, percussioni e voce - che voce: fuori dal tempo, spiritata soul senza esserlo, odorante memoria e sangue - se non si fosse pensato bene di infilarci qua e là indigeribili grumi tipo world andata a male di ritmiche elettroniche, tastierame assortito (addirittura un finto flauto di pan in Djamu) e batterie standard ad edulcorare impianti ritmici tanto complessi quanto affascinanti (Visa). Due brani li produce Roberto Vernetti, che tratta la title-track e Mamadou Faye quasi come se fossero due pezzi dei La Crus e il risultato è la più agghiacciante cartolina tipo tramonto africano di synth crepuscolari e fondale di cori watussi. Meglio il resto, a partire da una Malì Senegal dove Seck incontra lo ngoni e la voce del maliano Baba Sissoko - e allora si sente che la musica africana non esiste se 36 non nella testa di chi la considera una brodaglia esoticamente indistinta - fino ad una Here Nanà in travolgente crescendo rotatorio di kora e battiti. Ma bisognerebbe avere molto più rispetto ed essere molto più rigorosi quando si ha tra le mani un simile patrimonio. Altrimenti è meglio che ognuno stia a casa propria.(5/10) Luca Barachetti Badly Drawn Boy - Is There Nothing We Could Do? (Discograph, Gennaio 2010) G enere : soundtrack autorale Quattro anni sono passati da quel Born In The UK che sancì lo smarrirsi di un'ispirazione avviatasi ad inizio millennio con slancio forse anche eccessivo. Fatto sta che il ragazzo disegnato male aveva fatto di tutto per smentire le enormi aspettative suscitate da The Hour Of Bewilderbeast e dalla OST di About A Boy, sfornando altri tre lavori velleitari, frenetici, confusionari, scentrati. Presuntuosi, ecco. Il risultato - il brutto - è che in tutti questi anni non ci è mancato troppo, il caro Damon. Nossignori. Va detto altresì che, se proprio doveva tornare, lo ha fatto in modo quanto meno dignitoso. A fari bassi. Con la scusa di una colonna sonora per il film TV inglese The Fattest Man In Britain. Per la quale ha sfornato un pugno di melodie imbronciate, senza guizzi, cercando di circoscrivere una dignitosa trepidazione. La title track sbocconcella cartoline Elliott Smith; Welcome Me To Your World è un'accademica malinconia per piano che innesca una marcia incendiata di tromba, tastiere e corni. Tra le tipiche frattaglie ambientali da soundtrack, spuntano altre ballatine senza infamia ma soprattutto poca lode come Just Look At Us Now e la solenne Ill Carry On, benedetta da una misurata orchestrazione d'archi. Badly Drawn Boy è tornato, ma non per stupire. (5.8/10) Stefano Solventi Bibi Tanga/Selenites (The) - Dunya (Nat Geo Music, Gennaio 2010) G enere : etno - funk & pop Bibi Tanga, cantante e bassista nativo di Bangui (capitale della Repubblica Centrafricana), parigino d'adozione, è sulla scena da almeno dieci anni: prima solista, con l'afrofunk di Le Vent Qui Souffle (2000; prodotto nel giro della Malka Family), poi in coppia col produttore Le Pro- highlight Brian Jonestown Massacre - Who Killed Sgt. Pepper? (A., Gennaio 2010) G enere : psych - shoegaze - rock Anton Newcombe come non l’avete mai sentito. Oppure sì, se seguite le peripezie di quella che è l’ultima, vera, riottosa rockstar del mondo. Perché se lo seguite, come merita, sapete benissimo che è uno che non si culla sugli allori, anzi, quando ti aspetti il deja-vu ecco che lui sterza a 180° e parte per l’ennesima, sorprendente tangente. Già chiedersi chi ha ucciso il sergente Pepper significa giocare con la Storia della musica, ma nell’album n. 11 (o abbiamo perso il conto?) Anton i conti li fa sul serio con la sua storia. Con la psichedelia - neo-sixties o acida e imbastardita, che sia - che da qualche lustro ne è segno caratteristico e che in un capolavoro come My Bloody Underground si faceva esplicito omaggio e palese manifestazione alle versioni/ visioni più sporche e malate di quel suono. Ma anche con tutte quelle influenze sonore che finora erano rimaste a covare sotto la cenere. Da un lato una evidente aggressività post-punk da agitatore sonoro quale è (l’omaggio-rendition di She’s Lost Control in This Is The One Thing We Did Not Want To Have Happen), che forse trova la sua ragione d’essere nella matrice europea dell’album: metà islandese, metà berlinese nella registrazione/composizione e pienamente europeo nella formazione (di rilievo in mezzo a uno stuolo di musicisti francesi, tedeschi, islandesi, l’ex Spacemen 3 e Spiritualized, Will Carruthers). Dall’altro, novità delle novità, una neanche tanto latente propensione per ritmi e sonorità nere: di matrice hip-hop old-skool, limitrofi alla house tribaloide, reminiscente di industrial mesh-up alla Kevin Martin (roba tipo The Bug e Techno-Animal, per capirsi). Who Killed Sgt. Pepper? ipotizza un immaginario ponte tra ’60, ’80 e ’90 che frulla mantra e trip da ecstasy, scorie radioattive e wall of sound classicamente shoegaze in un collage meno estremo, sporco e riottoso rispetto al precedente ma plastico e sintetico. Come poteva suonare un gruppo psichedelico nell’Hacienda semi-house della Madchester dei bei tempi. Ipotesi e possibilità di nuovi percorsi in cui, alla maniera di un famoso album di Spacemen 3, emerge una grossa e lapalissiana verità: Mr. Anton Alfred Newcombe è grande e le droghe sono il suo profeta.(7.3/10) Stefano Pifferi fesseur Inlassable (Yellow Gauze, 2007). Arriva però soltanto adesso al debutto internazionale, sempre affiancato dal Professore, assieme ai nuovi compagni Arnaud Biscay (batteria), Rico Kerridge (chitarra) e Arthur Simonini (tastiere, violino). Il sottoscritto è generalmente diffidente verso i progetti world sponsorizzati e pompati (Bibi fa parte del WOMAD di Peter Gabriel e il disco esce nientemeno per National Geographic), sempre a rischio di giocare di ruffianeria e pigiare sull'esotismo facile. Ma qui abbiamo un prodotto ispirato. Cantato in inglese e in sango, cadenza leggermente rappata, un falsetto che ha come modello Curtis Mayfield, brani generosi, che alternano alla predominanza funky e funk (e samba-funk, nella trascinante title-track) atmosfere trip-hop, frammenti di tradizione africana (su tempi dispari, Pasi), cantautorato folkie, misterioso slo-reggae (Gospel Singers) ed episodi jazzati e bluesy (Bon Jour...), fino allo scatenato funky-disco finale (ripescaggio dall'album del 2007). Bibi sa il fatto suo.(7.3/10) Gabriele Marino Boston Spaceships - Zero To 99 (Guided By Voices Inc., Ottobre 2009) G enere : low - fi rock Tranquilli, non si tratta dell’ennesima sensazione sulla quale Pitchfork sta per sbavare. Le “navi spaziali” bostoniane sono l’ennesima creatura di Robert Pollard, noto (?) ai più per aver guidato i padrini del low-fi Guided By Voices. Facce conosciute lo affiancano (basti quel Chris Slusarenko da parecchio fidato suo pard) in un’impresa che diremmo seria e anzi la più seria dalla fine dei GBV. Decollata nell’estate 2008, è proseguita con un tour, 37 l’esordio buono Brown Submarine e un paio di 7”. Il solito profluvio creativo di un artigiano sconclusionato e geniale, brontolerete. Sì e no, perché dopo una replica persuasiva come The Planets Are Blasted, il “difficile terzo disco” edito lo scorso anno e distribuito solo ora nel nostro paese possiede scrittura solida e policroma come non accadeva da anni. Immutato il quadro, dal timbro vocale tra McCartney e Stipe alle canzoni che, come figlie di Television Personalities statunitensi, arrivano da un universo parallelo nel quale il folk-rock dei ’60 s’è fuso con new wave e punk, saltando tutto quanto di deprecabile v’era in mezzo eccetto il power pop meno banale. Valore superiore alla media e apici assoluti in Radical Amazement e Question Girl All Right, Go Inside e Exploding Anthills; la novità una propensione all’acida acusticheria che in Return To Your Ship e Godless recapita barrettiani gioiellini. Se interessati, sappiate che sono pronti un mini e il quarto 33 giri e oggi che autoprodursi dischi è più facile che mai, chi fermerà Robert? Noi no di certo.(7/10) Giancarlo Turra Brain - Brainstorm (Semai, Gennaio 2010) G enere : H ip - hop Francesco Spatafora, classe '83, bolognese di genitori calabresi, è Brain dei Fuoco Negli Occhi, crew accasata presso La Grande Onda di Zannello/Piotta e con due dischi all'attivo. In grande spolvero la bravura dell'MC nel costruire rime strapiene di trick, autoreferenziali ma comunicative (no al nonsense, pochissimo slang), a tratti veramente eccezionali, esposte con un flow velocissimo ma perfettamente intellegibile, timbro pulito e cadenza mai caricata, quasi parlata. Le basi sono un po' il punto debole della faccenda, con tastierine e call&response un po' troppo simili a tanta roba che si trova in giro (e che non ha la fortuna di servire un rapping così valido). Le migliori sono ancorate ad un asciutto (electro)funk. Un buon debutto solista, in una scena difficile com'è quella del rap italiano.(6.4/10) Gabriele Marino Brilliants At Breakfast (The) - Romy's Garden (Seahorse Recordings, Dicembre 2009) G enere : post - rock / psichedelia Come NON rinnovare un genere come il post-rock ce 38 lo insegnano i palermitani The Brilliants At Breakfast. Con una serie di luoghi comuni mascherati dai soliti arpeggi, qualche riferimento a un grunge svogliato, un campionario di morbidezze altalenanti su grassetti in overdrive e un mood che gioca con una psichedelia narcotica ma elementare. Materiale che già alla terza traccia ha dato tutto, lasciando trasparire pochi motivi di interesse che giustifichino un ulteriore ascolto. Dalla débâcle non si salva quasi nulla - forse la sola title track -, tanto che viene da chiedersi che cosa abbia trovato nella band in questione uno navigato come Paolo Messere con la sua Seahorse. Forse una creatività grezza e qualche input da perfezionare, di cui noi, tuttavia, non possiamo accontentarci.(4.5/10) Fabrizio Zampighi Chicago Underground Duo - Boca Negra (Thrill Jockey, Gennaio 2010) G enere : free - jazz Cos’è che ci portano in regalo, questa volta, Rob Mazurek e Chad Taylor? Ciò che ci aspettiamo, ovviamente, è quella mirabile resa di un humus culturale che ci ha sempre affascinato, come se un gruppo potesse ritrarre una città, il suo stato di salute, le sue interiora, il suo sottobosco musicale. E come sta Obama-ianissima Chicago, oggi? Ecco che forse questa non diventa più la sede ideale per rispondere, dato che né Mazurek, né Taylor sono più a Chicago. Il primo si è trasferito a São Paul, nel paese della moglie, il secondo è ormai residente a NYC. Allora perché chiamarsi ancora Chicago Underground Duo? Probabilmente per l’affiatamento. Green Ants fa le prove generali, e si chiude con la contrattazione tra tromba e batteria: da entità autonome, indipendenti, free tra di loro, a coese, in un muro finale. Left Hand Of Darkness è un viaggio teneramente psichedelico, pieno di echi di Nanà Vasconcelos, specie delle sue collaborazioni con Don Cherry. Sembra dunque che ormai le influenze di Mazurek la facciano da padrone. Anche se in realtà Boca Negra parla un esplicito linguaggio free, più vicino a New York, piuttosto che a Chicago. Dopo le meraviglie di São Paulo, ci sembra che Mazurek - e Taylor - ci vogliano rendere astigmatici. E confondere i confini tra Sao Paulo e Chicago, in prima istanza, e quindi tra queste e NYC. Certo, non mancano prospettive fuori dal jazz - in Laughing With The Sun e Roots And Shooting Stars, e in Vergence, che chiude con le solite connessioni post. Però in generale Boca Negra è un disco chiuso, cioè sempre liberatorio, come tutto il free, ma meno aperto a prospettive diverse, anzi, meno capace di aprire prospettive, di far highlight Claudio Rocchetti - The Carpenter (Boring Machines, Gennaio 2010) G enere : coll ages sonori Non si offenderà Rocchetti se gli diamo del carpentiere, giocando un po’ col titolo del comeback. Dopotutto di complimento si tratta, visto che più che artista lo consideriamo un vero e proprio artigiano della musica. Uno che intarsia suoni più o meno rumorosi, più o meno abrasivi, più o meno disturbanti con la cura e l’attenzione dei vecchi incisori. Costruisce, Rocchetti. Usando strumenti e strumentazione noti, dà forma all’ignoto fluire della sua musica, crea collages e pastiche in cui convivono naturalmente, senza screzi né titubanza, accenni di ritmi techno e ambient glaciale, horror soundtrack e drones estatici, mozzichi di contemporanea e malinconia tardo-adolescenziale, incrinature materiche e atmosfere mesmeriche... Aspetti noti, eppure mai come in The Carpenter l’equilibrio e l'amalgama degli input antitetici è stato reso in modo così personale. E c'è un lavoro di squadra dietro: la crème de la crème dell’Italia più off: Giuseppe Ielasi masterizza, Lorenzo Senni e Be Invisible Now! vanno di grafica e layout, Stefano Pilia, Jukka Reverberi, Beatrice Martini, Margareth Kammarer suonano qua e là, Boring Machines e Wallace producono in cd, Presto! e Holidays in vinile. Sopra tutto e tutti c'è però il Rocchetti musicista, oggigiorno simile solo a se stesso. Non un pregio da poco.(7.5/10) Stefano Pifferi intuire la grandezza di nuove possibilità, di nuove opzioni - sensazione che ha sempre reso grandi i dischi con Mazurek. C’è un grado come di “compiutezza” in più, nella chiarezza dei riferimenti, certo nello stile ultrapersonale che ormai riconosceremmo tra mille, nella Chicago Underground che non sta più a Chicago…(7.4/10) Gaspare Caliri Circulasione Totale Orchestra - Bandwidth (Rune Grammofon, Gennaio 2010) G enere : avant jazz Frode Gjerstad è uno che sa tirare le fila. Norvegese, sassofonista e clarinettista, è un caposaldo della scena impro europea nonché da un quarto di secolo leader dell'ensemble Circulasione Totale Orchestra, quindici (più o meno) rappresentanti del miglior jazz internazionale chiamati ad unire le forze in questo progetto tra i più compositi che abbiano mai calpestato le scene. Più difficile è tirare le fila del qui presente Bandwidth, triplo album che esplora, dilata, sincretizza, indaga e ipotizza sprezzando ogni senso del limite, riducendo l'ascoltatore in bilico tra sfinimento ed incanto. Tribalismi sclerotizzati e trasfigurazioni latine, perturbazioni electro e particelle post-bop, libere intersezioni di ance, vibrafono, chitarra elettrica e un impressionante lavoro percussivo a cura dei tre pesi massimi Paal Nilssen-Love, Hamid Drake e Morten J. Olsen. E' un lavoro meravigliosamente dispersivo, deliziosamente scentrato, formidabilmente indefinibile.(7.3/10) Stefano Solventi Delphic - Alcolyte (Polydor, Gennaio 2010) G enere : I ndie , dance L'idea della provetta da laboratorio ti ronza per tutta la durata dell'album e non ti lascia neppure quando capisci che la maliconia nordica dei Delphic è la copia di quella (autentica) dei New Order. L'album cola come una glassa indie-dance imbottita di prozac. La ragnatela di rimandi a Klaxons (il ritornello di Doubt), Underworld (This Momentary) Bloc Party (il remember house di Counterpoint) è facile, servita con cura e nondimeno pervasa da certe pose "da grande sfoggio d'umanita" à la Killers. Saremo anche nel post nu-rave, eppure la sensazione che si voglia a tutti i costi far sfondare fenomeni che uniscono la cameretta alla pista da ballo è più di una intuizione dell'ultim'ora. Si punta troppo su una presunta generazione fatta della somma di rave e reminiscenze 39 Ottanta. Può darsi, per esempio, che internet non sia stato soltanto una Fabbrica di Cioccolato illegale. Che la globalizzazione mediatica non si sia fermata a cose tipo Future Sound Of London. Che nei 2010 ci si aspetti qualcosa di diverso del revival delle Converse. Inoltre è naturale che, più il tempo passa, e più le aspettative vengano tradite, salvo poi il ritorno immediato d'investimento dato dalle classifiche. Se prima sbancavano i Klaxons e lo scorso anno ci si provava con i Big Pink, ora si spingono i Delphic. E poco rimane. (5/10) Edoardo Bridda Doozer (The) - Great Explorers (Pickled Egg, Febbraio 2010) G enere : psych folk Tempo di sophomore album per The Doozer, strano tipo originario di Cambridge. Come si evince dal titolo, si tratta di un bel viaggetto nelle stralunate terre del folk psych d'antan. Il Virgilio del caso, invisibile ma tangibilissimo, è l'illustre concittadino Syd Barrett, o meglio il di lui spirito, che aleggia in ogni inflessione balzana, nelle marcette flosce, tra gli organi caliginosi e lo strumming sparuto delle chitarrine. Una devozione itinerante che lungo la strada incrocia altri spiriti affini come ovviamente i Robyn Hitchcock e i Julian Cope nella versione più frugale ma non per questo meno sciroccata (sentitevi Public Transport o l'iniziale Nothing Like The Hero). Una bizzarra solennità (Brother Lazarus) risponde a certo estro bucolico (i Belle And Sebastian in pieno trip anfetaminico di God Does not Need Light), ma si fa preferire di gran lunga il piglio erratico e insidioso d'una Decisive Mind, che spedisce i primi Floyd dalle parti dei Jefferson Starship. Il tipo in questione non è solo un bislacco, nel tempo libero collabora con tipetti quali Alasdair Roberts e Animal Collective. In ogni caso, a questo punto ne sapete abbastanza per esservi fatti un'idea di cosa aspettarvi. (6.6/10) Stefano Solventi Elisa Luu - Ipo // 13 (Ipologica, Dicembre 2009) G enere : elettronica Se il primo dei tre brani del vinile non si discostano molto dal Luke Vibert prima maniera, o dalle fascinazioni bbreaking di casa Ninja Tune (D_G), quando s'ascolta 40 Unexpected Attraction si ha la netta impressione che la ragazza non ci sia soltanto con la tecnica, ma pure con l’anima analogica che guarda al kraut e ai Dntel ambient (Unexpected Attraction). Si discosta dalle prove precedenti, Elisa Luu. Il nuovo EP, imbevuto in una sorta di nostalgia pop, si muove al confine tra ambient e glitch, bbreaking e visione. E con la chiusa Popolar Hit a mescolare frammenti minimal e ricordi Morr si capisce poure che tra gli 8 bit c’è ancora spazio per un po’ di romance. Il giusto compromesso dell’elettronica italo tra melodia ed effetti, yin e yang. Carriera in salita.(7/10) Marco Braggion Eluvium - Similes (Temporary Residence, Febbraio 2010) G enere : P op ambient Matthew Cooper cambia spesso registro tra un disco e l'altro. Dall'esordio del 2003 con Lambient Material, fino a quest’ultimo Similes, ha quasi sempre spostato il baricentro. E’ come se Eluvium esordisse ad ogni capitolo, aggiungendo o limando piccoli dettagli di uno stile che si direbbe tutto suo: un'ambient elettronica tastieristica dai ricami neoclassici. In Similes c’è la sua voce ed attorno ad essa un completo restyling degli arrangiamenti, ora incasellati e non più fluttuanti e magmatici. Una voce che ricorda molto (e forse troppo) l'ultimo soprendente David Sylvian. Del resto, Eluvium ha sempre toccato con largo ritardo tematiche precorse da altri: la cifratura pianistica alla Sylvain Chauveau, i cui Le Livre Noir Du Capitalisme e Nocturne Impalpable del 2000-2001, già contenevano l’essenza dagli affreschi neo-espressionisti di An accidental memory in the case of death del 2004; così come le distorsioni auree di Talk amongst the trees erano figlie (e sfiguravano) al confronto di quelle di un Tim Hecker. Similes inizia con la frondosa quiete di Leaves eclipse the light, prosegue sui tralicci pianistici della scintillante The motion makes me last, e tocca la buona combinazione di pause nella garbata Weird Creatures, fino alla lunghissima coda di Cease to know, la parte più monotona ed estesa del disco, e segno che le canzoni non reggono; l’altra metà il disco sconfina in un ambient da sala d’attesa, innocua e per questo obliabile. Se fin'ora si potevano sprecare consonanze con Peter Broderick, Gregor Samsa, Max Richter, le note dell’ultimo Eluvium sono come lo zucchero nel caffé (tanto zucchero).(5/10) Salvatore Borrelli Endorgan - Endorgan (Toxo Records, Dicembre 2009) G enere : P ost -M erzbow Parte con una guerra sfrenata il 3” degli Endorgan, uscito in contemporanea con l'esprdio parallelo dei Weltraum sulla loro Toxo Records. Sintetizzatori da elettronica d'assalto e chitarre preparate con intento massacratorio da coagulare con cangiante combinazione di assalti organizzati per una nuova forma di rumore totale. Sfrontatezze merzbowniane su canovacci-trabocchetto dove l'interruzione e l'attesa disegnano interlinee discombaciate ma quasi zen. Nelle macerie annunciate - e dentro questi suoni che non hanno più niente della loro origine - sembra si stia preparando un processo in contumacia alla logica come noi la conosciamo. Se arrivate alla terza ed ultima traccia vi sembrerà di udire un riff: si tratta di uno scherzo. Esperienza dolente Endorgan, ferraglia, elettroastatica e alienazione; fine del piacere connesso all'oggetto sonoro... ponte verso apocalissi prossime.(7/10) Salvatore Borrelli Entourage - Prisma (Seahorse Recordings, Gennaio 2010) G enere : grunge / noise / post - rock Giusti i tempi, il suono e in generale la scrittura. Eppure l'impressione è che nel disco d'esordio dei messinesi Entourage si sia ricorso a un rassicurante campionario di suoni ampiamente contestualizzati. Materiale che va dal grunge/hard del duo Soundgarden/Alice In Chains di Boom - uno degli episodi migliori di questo Prisma assieme a Age - alle ballate elettriche Verdena prima maniera di Lettere moderne, al post-rock onirico di Yoga. Un fine Novanta americano, per una formazione attiva dal 2001 che ha visto le chitarre urticanti di Seattle defluire nelle geometrie cerebrali di band come i Tortoise in un tripudio di inner spaces e disagio da cartolina. Passioni giovanili vissute tra bassi possenti, batterie stratificate, sei corde compresse e una buona capacità di rielaborazione che garantisce a questo esordio impatto e convinzione.(6.6/10) Fabrizio Zampighi Farmer Dave Scher - Flash Forward To The Good Times (Kemado, Gennaio 2010) G enere : psych - folk & pop - rock Un piccolo grande sogno (pop) americano. ''Farmer'' Dave Scher, venditore ambulante di noccioline a Venice Beach, fonda assieme ad alcuni amici i Beachwood Sparks. Da qui, nel corso dei Duemila, di collaborazio- ne in collaborazione, si costruisce una carriera parallela come strumentista e produttore al servizio di una pletora di nomi prestigiosi, dagli Interpol a sua maestà Elvis Costello. Questo è il suo primo disco da solista, uscito negli USA ad agosto 2009, distribuito solo adesso da noi via Audioglobe. Dave è estroso e ironico, con un cantato quasi sempre sopra le righe, e mostra tutta la sua conoscenza e la sua passione per gli arrangiamenti kitsch-sofisticati di Bacharach, l'american classic rock di JJ Cale, il cantautorato ironico di Randy Newman, l'r'n'b Motown e il surf dei Beach Boys, su una base comunque figlia dello psych-folk westcoastiano. Maggior pregio: i due instant tormentoni posti in apertura, Bab'lone Nights e You Pick Me Up. Difetto più evidente: i pezzi psyck-pop-folk si assomigliano un po' tutti.(7/10) Gabriele Marino Feeling Of Love (The) - Ok Judge Revival (Kill Shaman, Gennaio 2010) G enere : S ynth G arage -B lues I Feeling Of Love sono, assieme a Cheveu e Crash Normal, la punta di diamante dell'avant-garage d'oltralpe. Quella che qualcuno chiama pure glue wave, tanto per non farsi mancare l'ennesimo opinabile nomignolo. Inizialmente un progetto (semi) solista del cantante/chitarrista Guillaume, i TFOL rilasciano Petit Tu Es Un Hit per la Yakisakana nel 2008 non facendo mistero dell'amore per Gories, Doo Rag e il Jon Spencer più ruvido. Nel lasso di tempo che intercorre tra il primo e il secondo disco, la formazione si allarga a tre membri, con un synth a dare il groove che mancava in precedenza. Ne esce un sound rinnovato: ancora intriganti ipnosi blues (Young Jesus) potenziate dalla line-up attuale (Night Cold Dance) ed ancora isterismi di casa (Better Than A Dog Detective). Poi una novità: metà dell'album occupato da tracce più lente, soffuse, non meno paranoiche o demenziali. Beyond The Dirt, Going Back To The Nineties, Leader Of The Cops e God Willing guardano indietro al passato dei Velvet Underground prima e Monochrome Set dopo. Acquisto a scatola chiusa.(7.3/10) Andrea Napoli 41 Feldmann - Imaginary Bridge (Macaco Records, Maggio 2009) G enere : folk / blues Un ponte immaginario. Quello che lega il folk astratto dell'esordio del gruppo Watering Trees all'elettro-folkblues psicologico, onirico ed estremamente razionale che si ascolta in Imaginary Bridge; quello che fa da punto di congiunzione tra il Cesare Basile che di quel primo disco fu collaboratore illustre e lo Hugo Race produttore di questo (all'opera, in passato, anche nel Closet Meraviglia dello stesso Basile); quello che richiama la scena musicale catanese nelle persone di Marta Collica e degli stessi Tazio “Tellaro” Iacobacci e Massimo “Loma” Ferrarotti titolari della ragione sociale; quello che parte dalla Sicilia e finisce a mezz'aria, sospeso tra fermi immagine di un John Lee Hooker mano nella mano ai Tunng e con un vecchio cappello da cow-boy in testa. Perché in questo consiste la formula del duo siciliano: chitarre acustiche essenziali su ammiccamenti da bottleneck in acido (In The Water), grezze basi elettroniche su riff smozzicati (Share Your Time), ballads eteree e intimiste (Hour Of Need). Materiale ricettivo ma spietato, nei confronti di una tradizione americana (Miss I Don't Care) resa algida da linee melodiche che sono elaborati sussurri - Hugo Race docet - in bilico tra psichedelia e spolverate di jazz. Si perde in immediatezza e sintesi rispetto agli esordi, si gioca con gli spazi vuoti, ma si guadagna in pulizia, ordine e raffinatezza, nell'ottica di un prodotto destinato a svettare nel panorama delle produzioni indipendenti. A patto che non gli chiediate di recuperare quelli che del blues sono da sempre i tratti distintivi: fascino terreno e indole popolare.(7.2/10) Fabrizio Zampighi Fine Arts Showcase - Dolophine Smile (Adrian, Aprile 2009) G enere : indie pop Suscita comprensione Gustaf Kjellvander, cantante e autore di questa band svedese: per seguire la fidanzata si trasferiva da Malmö a Londra, dove lei lo scaricava. A seconda del carattere, la maggior parte di noi incapperebbe in una depressione cronica o si abbandonerebbe a un devastante turbinio di socialità estrema. Gustaf decideva invece di tornare a casa a scrivere canzoni per esorcizzare l’accaduto, usandole come lettino dello psicanalista. Ulteriore tassello di un mosaico che nella storia conta precedenti eccezionali, questo ennesimo viaggio all’interno di un cuore spezzato risulterà particolarmente gradito a chi si ciba di indie-pop chitarristico anni ’80. Stilemi Sarah e/o Creation in versione leggera, polaroid 42 scattate dagli Echo & The Bunnymen sotto la pioggia oceanica e ammiccamenti malinconici a Railway Children e Orange Juice ultimo modello compongono un piatto diverso dal solito stucchevole paciugo indiesfiga, che scorre senza particolari picchi ma nemmeno incappa in esagerazioni melodrammatiche e autoreferenzialità. Per tutti gli altri, possederlo o meno dipende da quanto romanticismo gli scorre nelle vene, ma soprattutto dalle loro recenti vicende sentimentali.(6.6/10) Giancarlo Turra Flying Lotus - A Decade of Flying Lotus (Self Released, Dicembre 2009) G enere : glitch - hop - tronica Per festeggiare i dieci di attività (e noi, da bravi italiani, lo consideriamo ancora un "giovane produttore"), Steven Ellison aka Flying Lotus ha deciso di fare un bel regalo di natale a tutti i suoi fan: quaranta minuti di inediti, materiali vecchi e cose più nuove, che altrimenti non avrebbero mai visto la luce. Abbozzi, appunti, spunti e schizzi accanto a momenti invece perfettamente compiuti, il tutto mixato ad arte dall'amico Gaslamp Killer (del giro lotusiano Brainfeeder). E' uno zibaldone di ambient polverosa, funk, soul, hip-hop (di marca Madlib ma soprattutto Dilla), perfino latin, techno desiccata - che è praticamente dubstep-grime - e ovviamente wonky, con quei tronicismi ectoplasmici che spiegano alla perfezione da dove è venuto fuori Nosaj Thing: uno bravo, ma il cui esordio non è certo il capolavoro descritto da Pitchfork. Il tutto è incrostato da quella patina bluesy, notturna e (tattilmente) tra la concrezione e l'amniotico che è il marchio di fabbrica del nostro dopo il capolavoro Los Angeles. Un golosissimo antipasto di quello che è uno dei dischi più attesi - almeno da queste parti - del 2010, in arrivo sulla solita Warp ad aprile, titolo che è tutto un programma: Cosmogramma.(7.3/10) Gabriele Marino Forest Fire - Survival (Catbird Records, Luglio 2009) G enere : folk I Forest Fire sono quattro ragazzi residenti in luoghi sparsi degli States che pare abbiano ascoltato in vita loro solo i Velvet Underground e lì siano rimasti. Nulla di male, eppure le nove canzoni di Survival paiono l'esito highlight Emily Jane White - Victorian America (Talitres Records, Gennaio 2010) G enere : folk rock La ragazza californiana è cresciuta. Puoi quasi toccare la densità del suo songwriting. Che è folk, che si lascia sottilmente sedurre dal blues, che pesca dai bauli e rosicchia i bordi delle fotografie ingiallite, cercando linfa nell'incedere da troubadour e facendosi un bell'infuso di radici inestricabili (appalachi, europee...). L'onda neanche troppo lunga del prewar folk l'ha trovata ricettiva sì, ma non passiva. L'impressione è che si sia trovata bene con la calligrafia di una Joanna Newsom, ma solo perché complemento importante di un percorso narrativo che desidera esplorare un patrimonio più ampio, ovvero più diretto e terreno. Vedi infatti come la title track stemperi suggestioni da camera e cremosità country, vecchi merletti e front porch. Proprio così: da una parte una The Country Life che manda mollemente a braccetto Alela Diane con Lucinda Williams, dall'altra una Ghost Of A Horse che colleziona palpiti in una scenografia orchestral/cinematica. Con solennità, sì, ma senza mai perdere una franca tenerezza da folksinger indolenzita. Non potrebbe essere altrimenti con quella voce da sorella morigerata di Cat Power. Comunque capace in Red Dress di spurgare inquietudine composita vagamente PJ Harvey mentre l'organo impazza in fregola crimsoniana. Un album che impone Emily Jane White tra le più importanti songwriter del momento.(7.4/10) Stefano Solventi di una devozione più che un disco vero e proprio. Una devozione virata folk inacidato e caracollante in I make windows; votata al calco vocale in Fortune teller (Mark Thresher è più Lou Reed di quanto Lou Reed non sia Lou Reed oggi); riconvertita al femminile nell'ugola angelicata di Natalie Stormann nell'apice della mattutina Sunshine city; infusa di elettricità umorale nell'istantanea Promise. E solo saltuariamente spruzzata da sentori Beatles (Through my gloves, Steer me) e nient'altro. I quattro si sono trovati di tanto in tanto tra New York e Portland per registrare queste nove tracce. Probabilmente è stata soprattutto una rimpatriata tra amici, ma non era forse così necessario sigillarla su disco.(5.3/10) che sposa trance e cosmica in un sol colpo, Stereo vale sicuramente una menzione particolare. Sul lato opposto, Extinction esplora galassie sempre più scure muovendo tra kraut e drone music. Più in generale se le preferenze del produttore francese cadono spesso su una nazi techno a diverse velocità (e onde radioattive sempre più nefaste), si rimane sempre sui bordi giusti senza cedere nelle facili banalità del caso. Attivo da più di dici anni anche sotto il nome di Electronicat, Bigot è sicuramente il rocker del noise analogico, l'anti intellettule da appuntarsi al petto nel club di fiducia. Poi è semplice ed efficace come un Neu! 2 all'inferno, che volete di più? (6.7/10) Luca Barachetti Edoardo Bridda Fred Bigot - Mono / Stereo (Holy Mountain, Novembre 2009) G enere : A nalog noise , techno Galactic - Ya-Ka-May (ANTI-, Febbraio 2010) G enere : meticciato funk Se avete nostalgia del lato più grezzo (leggete noise analogico spinto) e tecnoide della produzione dei Pan Sonic, oppure siete in cerca di un Mika Vainio senza troppe visioni tubolari indotte da frequenze paranoidi, Fred Bigot potrebbe essere un'idea, non formidabile, ma frequentabile e forse persino geniale. Con gli oscillatori appalla e un loop metallico modulato I Galactic di Stanton Moore proseguono nella direzione già indicata da Ruckus, strumentale prodotto da Dan The Automator, e soprattutto da From the Corner to the Block, disco in cui avevano ospitato alcuni rapper più o meno di culto (vedi il Mr. Lif del giro Definitive Jux). Qui ospitano nomi storici e astri nascenti della scena 43 di New Orleans, provenienti tanto dal jazz, dal funk e dalle brass band, quanto dal bounce (il rap aggressivo e appiccicoso che va tanto forte da quelle parti). Alcuni pezzi spaccano senza appello, su tutti il Prince che rifà Stevie Wonder (o viceversa?) di Bacchus, assieme alla leggenda vivente Allen Toussaint (non è un caso che i nostri siano cresciuti a pane e Meters), e il languido e torbido funkblues sottopelle di Speak His Mind, col veterano Walter "Wolfman" Washington. Il resto si divide tra ottima routine funk & dintorni (per dire, nella jamesbrowniana You Don't Know si sente quel grassume funk che spesso manca alla Breakestra), con in più la carta dell'ospite di lusso (Irma Thomas, Big Chief Bo Dollis), e pezzi rappati che sono invece la parte debole del disco, abbastanza confusi, a tratti francamente tamarri, come alla rincorsa a-tutti-i-costi dello stile bounce (che, per inciso, scopre sorpendenti affinità con certe sfumature ragga-grime). Sprazzi di goduria funk da gestire meglio.(6.6/10) Gabriele Marino Georgia Anne Muldrow - Early (Animatedcartunes, Novembre 2009) G enere : soul Un 2009 positivamente prolifico - la raccolta di produzioni a nome Ms. One, il secondo album Umsindo (bellissimo, ma che pure lasciava sperare qualcosa di più), lo spigoloso Holy Smokes del compagno di vita Dudley Perkins (da lei musicato) - Georgia vuole chiuderlo in bellezza, pubblicando dieci pezzi scritti e registrati secoli fa, primissimi anni Duemila, quando aveva tra i diciassette e i diciannove anni. Si tratta di ballad voce, piano & batteria totalmente immerse in un mood soulful (con punte praticamente gospel) sonnacchioso, fragrante e pulviscolare, come un raggio di sole mattutino che filtra dalle finestre attraverso le tende. Una early Georgia già sorprendentemente matura nell'interpretazione vocale (già padrona dei suoi sbilenchi saliscendi), influenzata dalla Badu - e questo lo sapevamo - ma soprattutto da Lauryn Hill, concentrata sulla forma-canzone e su testi generosamente naif, poco interessata invece a trick produttivi, meno dispersiva di quanto non sia oggi, più asciutta, anche se necessariamente meno decisiva e attuale (e non perché i pezzi abbiano ormai quasi dieci anni). Nondimeno, una Georgia affascinante. 44 Disco dichiaratamente minore (artigianale, domestico, acerbo), che illumina - se mai ce ne fosse stato bisogno, vedi il capolavoro Roses su Umsindo - il lato squisitamente cantautoriale della donna. Ma, soprattutto, un disco con alcuni pezzi di una bellezza abbagliante. In arrivo, tanto per non smentirsi in prolificità anche per il 2010, un Kings Ballad annunciato come il suo disco "più pop" di sempre.(7.3/10) Gabriele Marino Gigi - Maintenant (Tomlab DE, Dicembre 2009) G enere : pop Nick Krgovch è persona che ci accorgiamo di conoscere non appena citiamo No Kid e P:ano, le band di cui fa parte. E, in qualche modo, Mainteinant si basa su una familiarità, sul sentito dire, in un certo senso sulla vanità dell’ascoltatore: si nutre cioè della schiera di ospiti che accoglie nei brani, da Owen Pallett a Rose Melberg, da Zac Pennington a Karl Blau. Nick ha deciso di dedicare i ritagli dei suoi ultimi quattro anni per confezionare un raffinatissimo omaggio nello stile dell’originale - al Back To Mono Box Set, cioè alla famigerata raccolta di produzioni pop ad opera Phil Spector dai primi Sessanta. Per questo motivo ha chiamato a raccolta amici cantanti e musicisti, aiutato da Colin Stewart per produzione, registrazione e missaggio. Mainteinant, a nome Gigi, ne è il risultato, nello spirito dei grandi dischi di pop orchestrale fuori dal tempo. Per l’ennesima volta, ci troviamo a ripetere la stessa formula, che prima o poi diventerà un nucleo concettuale su cui organizzare una lettura a scala più ampia: l’etichetta di musica indie-pop collettiva. Eppure in un modo diverso - e probabilmente più banale - da quello più volte sottolineato, negli ultimi mesi: il respiro di queste canzoni prende aria dai polmoni degli ospiti, che portano la propria personalità, appunto, diventandone quasi gueststar. Lo sentiamo in Dreams Of Romance, nell’ingombro del timbro del leader dei Parenthetical Girls, come nelle peculiarità arrangiative “alla Karl Blau” di Strolling Past The Old Graveyard. Eppure lo spirito pop, della citazione del maestro, prevale sull’autorialità: la missione “spectoriana” è fissa nella mente, ed è questo il nucleo collettivo della faccenda, che ci dice qualcosa sul mondo dell’indie, sulla sua ricerca, sui suoi riferimenti. Tutto dentro a un banchetto sofisticato, dove si mangia e beve bene, ma non ci si ubriaca.(6.5/10) Gaspare Caliri Gioacchino Turù/Vanessa V. - Il crollo della stufa centrale (From Scratch, Settembre 2009) G enere : anti - pop Di questi due dovremmo dire che non stanno bene. Che hanno esagerato, chissà se col cattolicesimo o le droghe, alla fine gli effetti sono gli stessi. E che si sono chiusi in casa a scrivere canzoni degenerate come loro ma che, comunque sia, noi non siamo abbastanza reazionari per togliere il disco dal lettore dopo due tracce. Perché l'anti-pop è un gioco bello finché dura poco, altrimenti è la standardizzazione della follia, la rottura che cannoneggia gli attributi, il demenziale che si fa all'istante derivativo. Quando non sai se sia cialtroneria o genio ma in fondo non te ne frega niente, visto che alla traccia quattro hai già capito cosa succederà fino alla quindici. Eppure a Gioacchino Turù e Vanessa V. le idee non mancano. Lui fa la figura del fuori di testa, ma meno che ai tempi di C'è chi è morto sul Tagadà, di cui questo disco riprende alcune tracce. Lei sembra soprattutto assecondarlo, per darci a intendere allo stesso modo che il TSO non le servirebbe a niente. Il resto è un prontuario di tastierame volutamente scarso, beat ridotto ad ossa di gomma, ritmiche elementari, melodie anche, e ovviamente una voce sguaiata, anzi due, per testi tra il lirico da cameretta e lo sboccato comico da camerata manicomiale. Lego lagher come Tricarico che si fa produrre da Casiotone For The Painfully Alone. Marco Prandi e Yann Tiersen in trip 8 bit. Manovale ovvero Rino Gaetano ai tempi del fallimento del multiculturalismo. Spongebob legge Magret mentre Beck violenta quattro accordi blues con variegati scaracchi elettronici. E Merenda con gli Altro in techno spolpata. Ma che noia, non le canzoni in sé - lo ripetiamo: le idee non mancano - ma proprio l'estetica che ci sta a monte e che imbriglia tutto in un forzato bordello psichiatricodomestico-sessuale che non fa ne ridere ne piangere. A parte due tracce che potrebbero aprire un futuro favorevole alla poesia e contro la stupidità - Tagliati i seni immersa in synth fluidiformi e il Daniele Brusaschetto crepuscolarizzato di Libreria museo brucia - qui per ora si gioca solo alla sinapsi malandata. E narcolettica.(5.7/10) Luca Barachetti Grievous Angel - Dusk + Blackdown Vs. Grievous Angel Margins Music: Redux (Keysound, Novembre 2009) G enere : world - step Grievous Angel, su richiesta esplicita via telefonata notturna, riprende in mano e dà nuova vita al disco del 2008 dei boss di casa Keysound Rec. In mancanza di definizioni migliori, avevamo bollato la sorgente del remix con il tag expat-step, per sottolineare la definizione di una possibile alterità che fuggiva dal dubstep primigenio, strettamente intessuto nel suburbio sonico londinese, verso lidi di contaminazione con suoni world. Il ritorno sulle coordinate extra UK da parte del produttore di Sheffield mescola i suoni dei due archeologi e li innesta con il beat laserizzato e pulsante del south end. Un trattamento che ci riporta al movimento e toglie quella patina di intellettualismo che probabilmente cercava riferimenti inesistenti. Il world-step remixato senza esagerare (come spesso fa invece Toddla T) si ascolta senza problemi e la bilancia non pende mai verso l’acido o verso il banghra. Un concept remiscelato seguendo le orme di padri nobili del calibro di Coldcut o Bill Laswell. Meglio dell’originale.(7.3/10) Marco Braggion Grouper/Roy Montgomery - Split (Self Released, Gennaio 2010) G enere : drone soundscapes Gli split ep devono piacere parecchio a Liz Harris se è vero che quest’ultimo parto condiviso con il buon vecchio Roy Montgomery si va ad aggiungere ad altre collaborazioni avute in passato con Xiu Xiu, Inca Ore, Pumice, City Center e Xela. Una vera promiscua la bella Liz, ma quest’ultimo lavoro in particolare desta maggiore interesse, non foss’altro cje per sentire di nuovo la chitarra di Montgomery all’opera. La sorpresa amara sopraggiunge però subito quando si capisce che la traccia che occupa tutto il primo lato del 12” altro non è che un’altra variazione dello stesso brano presente sulla mitica antologia Harmony Of The Spheres, ovvero un’altra variazione live di Fantasia On A Theme By Sandy Bull. Quanto a Grouper, quello che mette sul secondo lato di questo split è l’intero ep denominato Vessel che raccoglie le sue ultimissime composizioni. Tolta la prima e l’ultima traccia che hanno un eccessivo profilo di corredo nel loro taglio strumentale, l’interesse è tutto per le due canzoni vere e proprie: Vessel e Hold The Way. Due “song” effettive che testimoniamo lo stato dell’arte della musicista di Portland, che sembra ormai arrivata ad un’asciuttezza rarefatta e suggestiva, a tratti quasi liturgica, con più di qualche venatura medioevale. Difatti entrambe le 45 highlight Field Music - Measure (Memphis Industries, Febbraio 2010) G enere : pure pop Una vicenda non lunga quella dei fratelli Brewis, però ricca di eventi e dimostrazioni di talento. Due i dischi che - in particolare Tones Of Town - li segnalavano discendenti della stirpe pop britannica di alto lignaggio, che risale agli Albarn e ai Partridge, a Beatles e Zombies. Superlativi per una volta spesi a ragion veduta e in mezzo una pausa necessaria, tre anni spesi a ripensarsi come gruppo e autori, tirando il fiato con progetti paralleli carini ma non destinati a restare. Sospettavi che ci fosse qualcos’altro, un confondere le carte preparando il terzo disco risolutore. Che affrontano come hanno affrontato il recente passato: a testa alta e mente sgombra, più del solito liberi di infilare se stessi in un cesto (colmo: ben venti) di canzoni. Secondo logica, queste restituiscono l’importanza del momento nell’aspetto misurato tuttavia prezioso, nella loro essenza policroma. Va difatti benissimo allorché - causa la defezione del tastierista Andrew Moore - fanno leva sulle chitarre e asciugano le strutture, ché la sagacia compositiva appartiene a un English Settlement (Choosing Numbers, Curves Of The Needle) corretto da Drums And Wires: ecco una perfetta Clear Water e la meditativa You And I; ecco una Each Time Is A New Time che apre surrealismi blues-rock alla dolcezza e le acrobazie di pieni e vuoti in All You’d Ever Need To Say. Quanto il passo sia sicuro, però, lo comprovano gli episodi in cui si osa come la sublime title-track, saltellare tra Albi Bianchi e archi, acusticherie e prati estivi; come Precious Plans, profumo di Aztec Camera fanciulli che sostituiscono il santino di Arthur Lee con Brian Wilson; come l’inquietudine notturna che avvolge Lights Up. Ed è solo la punta di un iceberg contro cui siete invitati a naufragare in allegria per centellinare ogni dettaglio. Metamorfosi matura e sublime che rimane modesta solo nel porgersi, degna di artisti che “non furono fatti per questi tempi”.(7.5/10) Giancarlo Turra canzoni hanno il piglio del lied romantico, tra riverberi centellinati e canto mai così pulito e rifinito. Due capolavori, soprattutto Hold The Way che va di pari passo con il suggestivo video: canto lunare su un tessuto bianco e nero innevato e impalpabile e con un tappeto di frasi oniriche di un Rhodes che sembra arrivare direttamente da Carnival Of Souls.(7/10) Antonello Comunale Higuma - Den Of Spirits (Digitalis, Gennaio 2010) G enere : drone apocalypse Da una costola dei Barn Owl si staccano gli Higuma, ovvero Evan Caminiti e Lisa McGee, già avvistati un paio di anni orsono con il promettente Haze Valley e che ora danno alle stampe il secondo album per la nicchia in vinile della Digitalis Industries. Titolo e copertina (artwork di Evan stesso che richiama “l’Isola dei Morti” di Bocklin…) fanno capire subito che aria tira da queste parti, qualcosa di ovviamente assimilabile alla band primaria, ma con il suo profilo ben netto e delineato. Ergo un nuovo rosa46 rio di apocalypse drones da ultimatum alla terra, che non prende prigionieri se non gli spiriti: l’ambient congelata di Glacial Tongues, prepara il terreno dell’excursus soprannaturale di The Ocelot, un ritmo tribale alla Natural Snow Buildings con vocal drones e chitarre riverberate in delay cosmico. Musica che oscilla tra la stasi instabile di Hexed and Vexed e la liturgia eterna di Hathor’s Dance, tributi impalpabili ai mantra ascetici dei Popol Vuh. Da qui l’avveniristica passeggiata krautedelica di Sun Crown, tra le migliori cose ascoltate negli ultimi anni nel settore drone e derivati, a cui si aggiunge l’irreale stasi armonica di Are You Nobody Too? in lenta e pigra processione per aprire finalmente un prezioso scrigno di rapimento cosmico. Gli Higuma sono usciti dallo stato larvale e si sono trasformati in una splendida farfalla.(7.5/10) Antonello Comunale Hikobusha - Dinosauri (Motherfuckart, Gennaio 2010) G enere : wave / trip - hop / canzone d ' autore Hikobusha, ovvero “vivere con la morte dentro”. Soprat- tutto dalle parti di Hiroshima e Nagasaki. A trascinarci in questo esordio della band di Davide Gammon Scheriani, Stefano Maurizio, Strix Silverii, Antonio Colombini e Paolo Zangara - già Lo.Mo - , una new-wave “patternizzata” trip-hop che aspira evidentemente a conquistare lo spessore autoriale di certa tradizione autoctona. Uno scenario decadente e conflittuale come non se ne sentivano da un pezzo, figlio di ruvidezze oscure à la Portishead e di una Mute Records ante litteram, dei Depeche Mode meno avventurosi e dei La Crus. Da quest'ultimi i Nostri ereditano approccio serioso e aspirazioni colte, col pallino di aggiornarle di qualche anno e di farle star dentro ai canoni di un rock che non disdegna la chitarra elettrica. Le cose migliori si ascoltano quando a prendere il sopravvento sono la canzone d'autore (Terra di risa e sgomento) e il trip hop (Libero arbitrio), mondi piacevolmente - e inaspettatamente - confinanti tra cui la new wave fa un po' da collante. Per una scrittura dettagliata che perde smalto quando si addentra in un citazionismo di forma (Scarafaggio Elvis, La danza delle ossa) e si esalta nelle parentesi meno convenzionali (Malastreada, Il sapere del sangue, Angelo tra noi). Un disco dai buoni contenuti dove è soprattutto la parte suonata a emergere. Il che significa che forse non tutti gli obiettivi di partenza sono stati raggiunti.(6.8/10) Fabrizio Zampighi HiM - ん (HipHipHip, Gennaio 2010) G enere : afro post - rock Continua a circumnavigare il globo musicale Doug Sharin/HiM, con una regolarità impressionante per quello che dovrebbe essere (o almeno era) un progetto collaterale. L’ex batterista di June Of 44, Codeine, Rex e mille altri ancora stavolta approda sulle rive del lontano oriente con ん, titolo al limite del mistico visto che in giapponese suona come qualcosa di simile a hmmmm. Sorta di esclamazione di piacere che ci ritroviamo inconsciamente a imitare all’attacco di Creode: dubbone plastico, mobile e iper-ritmico (a dar man forte a Sharin c’è il percussionista nippo Shinpei Okaya) impreziosito egregiamente dalla voce di Ikuko Harada. In due parole, come un afrobeat alle pendici del monte Fuji. Sensazione reiterata, stavolta senza propulsione ritmica, nella sensualissima Other Echoes, haiku delicato e sospeso che certifica lo spostamento dell’interesse di HiM verso il Giappone, dove guarda caso il grosso delle composizioni è stato registrato. Le basi solide del suono HiM sono e restano però sempre alla convergenza tra post-rock strumentale di gran classe e afro-beat potente e cangiante e le suggestioni orientali fornite dai numerosi ospiti dagli occhi a mandorla non fanno che screziarlo ancor di più e fornire un ulteriore piacevole tassello al vagabondaggio di Sharin.(7/10) Stefano Pifferi Hot Chip - One Life Stand (Parlophone, Febbraio 2010) G enere : electropop tamarro Giunti al quarto disco, in quest'incredibile mix di maturità e svendita, gli Hot Chip quasi non li riconosci. Piuttosto che alle solite wave, hanno deciso di calcare fino in fondo una propria via agli Ottanta sia cercando di guardare quelli "contro" del maestro Robert Wyatt sia mettendo il naso in qualche anfratto mutant disco (One Life Stand) o early house (We Have Love). Sulla carta soltanto applausi, ma che succede quando dal coraggio di osare si passa alla voglia di strafare abbracciando un immaginario che va da certo Jimmy Sommerville, passando per l'imprescindibile Antony degli Hercules Love Affair (We Have Love), approdando persino ai lidi più bonari (I Feel Better, Brothers) della puerile estetica Killers? E' il risultato terribile di un album dal nerbo comunque salvifico avvitato com'è attorno a un (white) soul pop funzionante quando i ragazzi ci si affidano completamente (il grandioso singolo Alley Cats, l'ispirata Keep Quiet), diverte quando giocano la carta nerd (il vocoder cartoon della rockisch Hand Me Down Your Love con un bell'inserto da lacrimuccia); e fallimentare nel resto dei casi, ad esempio nella kitsch disco krauta di Thieves In The Night, nel citato buonismo natalizio di Brothers; pur salvandosi in corner con la superballatona blues da accendini (Slush con alla batteria Charles Hayward dei This Heat). Una classe ancora papabile e viva dopotutto.(6.5/10) Edoardo Bridda Idlewild - Post Electric Blues (Cooking Vinyl UK, Gennaio 2010) G enere : folk rock Sempre più imbevuti d'America gli scozzesi Idlewild, fanno con questo Post Electric Blues un deciso salto nei lanscapes sonici d'oltreoceano, ferma restando l'irruenza intrigante e innodica che li contraddistingue. Mai come oggi sono sembrati una costola ora soffice ((The Night Will) Bring You Back to Life) e ora scoppiettante (Dreams 47 highlight Get Well Soon - Vexations (City Slang, Gennaio 2010) G enere : songwriting , pop orchestrale Dietro al moniker Get Well Soon troviamo una vecchia conoscenza, ovvero il tedesco Konstantin Gropper, due album all’attivo su City Slang compreso Vexations. Fatto il botto in Europa nel 2008 con l’esordio Rest Now,Weary Head, un connubio tra pop orchestrale, elettronica, folk e classica, con un’impronta di artigianato fortemente DIY, il multistrumentista si ripresenta con un sophomore album concettualmente elaborato, un concept sullo stoicismo. I cambiamenti dal punto di vista musicale ci sono e sono evidenti: dalla relativa solarità musicale precedente si passa ad una struttura piuttosto sofisticata basata su pop orchestrale e influssi classici, ampiamente arrangiata e registrata con un quartetto d’archi e una sezione fiati. Gli ingredienti alla base della musica di Get Well Soon ci sono tutti, in Vexations vengono spinti maggiormente verso orchestrazioni compatte che procedono per accumulazione, senza per questo essere sovrabbondanti, con il consueto gusto estetico impeccabile e una spiccata sensibilità indie. Rimangono qua e là le tentazioni klezmer tipicamente Beirut, una sensibilità melodica vicina a Leonard Cohen ma anche a Thom Yorke e a Patrick Wolf, con l’influsso di tanta musica da film, da Ennio Morricone in giù; Gropper è infatti anche compositore di colonne sonore, l’ultima alla quale ha collaborato è infatti Palermo Shooting di Wim Wenders (2008). In sostanza registriamo l'album come un ritorno significativo per il tedesco, una promessa già mantenuta.(7.3/10) Teresa Greco Of Nothing) dei R.E.M., per non dire di come cavalchino la voglia di ballatone (Take Me Back to the Islands) e persino AOR in odor di power pop (Post Electric, Younger Than America). Ma è un forzare le redini e infatti accadono strane distorsioni stilistico/geografiche, come lo Springsteen altezza Human Touch mischiato alla baldanza Codlplay di Readers & Writers, oppure i palpiti Jackson Browne pennellati da tremori U2 della conclusiva Take Me Back In Time. Un ibrido non del tutto risolto, incoerente ma entusiasta, prevedibile ma generoso. In fondo, può andare bene così.(6.2/10) Stefano Solventi Irrepressibles (The) - Mirror Mirror (V2 Music, Febbraio 2010) G enere : O peretta pop Sulla scia dei Wild Beasts, e più in generale giù per la china di uno dei vizietti rock preferiti (l'operetta), il debutto dei londinesi Irrepressibles aggrega (esasperandoli) i modelli più prossimi prendendo dell'Antony le pose più branderburghesi e del principino Patrick Wolf la prosopopea in costume. Guardandoli in faccia questi quattro ragazzi sepolti sotto 48 dita di trucco e banchetti seicenteschi, capisci che non sarà facile addentrarsi negli innumerevoli cambi d'abito à la Phantom Of The Opera. Jamie McDermott ha dalla sua un'attenzione particolare al giovane Scott Walker e riesce a condire il menù con una punta di Tony Hadley con il Jeff Buckely più lirico. Eppure, troppo debitrice delle intuizioni di Antony, la sua musica necessita ancora di una performance visiva che aggiunga peso. Il sound non basta, e quando convince abbiamo pop song appena sufficienti (Nuclear Skies).(6.4/10) Edoardo Bridda Jack Rose - Luck in the Valley (Thrill Jockey, Febbraio 2010) G enere : fingerpicking Ebbi modo d’incontrarlo Jack Rose. Uno squallido organizzatore, durante quel tour, l’aveva abbandonato sugli appennini tosco-emiliani a piedi, e con la chitarra sulle spalle. Jack se l’era fatte tutte quelle vallate per suonare la sera stessa. Nonostante le gambe gli duolessero, le mani scivolavano sullo strumento con la stessa soprendente lentezza di un treno dell’Alabama degli anni trenta visto dagli occhi di un bambino di colore. Era inconfondibile quello stile blues pieno di tecnica mai così discretamente nascosta. Morire a 38 anni improvvisamente è qualcosa a cui non ci si abitua. Lasciare un’eredità nell’olimpo dei chitarristi visionari è un dono che solo pochi illuminati possiedono. Il Jack Rose che conobbi si muoveva come un guerriero solitario nella notte, impugnava la chitarra come un’arma segreta. Sapeva di essere al centro di una trappola: le distese infinite dei campi di grano di John Fahey, e le combinazioni misticheggianti di Robbie Basho. Jack Rose si trovava nel loro mezzo come in una bufera: li mescolava, utilizzava le ritmiche del primo sulle scale raga del secondo, ma la sua musica si privava del misticismo dei suoi padri spirituali In Luck in the valley avviene proprio questo incontro combinatorio, ora Fahey (ma senza punteggiatura scandita), ora Basho (ma senza rimandi religiosi). Uno stile di lente progressioni, a volte irregolari, perlopiù sanguigne, sempre precise e filologicamente corrette. Luck in the valley non sembra il disco di uno che sapeva di morire, non è un epitaffio, e nemmeno un compendio definitivo. Era ed è semplicemente un altro disco di Jack Rose, che anche stavolta, slittava un pizzico più in là, verso una forma più cangiante ma comunque attenta alla riscoperta della prewar folk music, con lo stesso piglio catalogativo di Harry Smith o di Alan Lomax (c'è anche una cover di Blind Blake). Diviso esattamente in due ambiti, che azzardando, si potrebbero ritenere forse frutto di una scelta della Thrill Jockey più che del Rose: uno freak-free-folk paganeggiante (e quindi sulla stessa via di molti episodi recenti di Sir Richard Bishop), l’altro hillbilly e country (e queste sembrano più delle sessioni, registrate quasi amatorialmente, che veri e propri brani concepiti per convivere con la parte più solitaria dell’opera). È dunque lecito pensare Luck in the Valley come l'incontro di due ossature, le stesse che Rose divideva in proprio e con i Pelt, due modi d’intendere il lavoro sullo strumento, quello sommesso e solitario, e quello festoso e corale. Sarebbe inutile citare un brano in particolare, visto la differenza degli episodi scritti in 9 mesi durante i quali si svolse l’ultimo grande tour di Jack Rose.(7.5/10) Salvatore Borrelli Jaga Jazzist - One-Armed Bandit (Ninja Tune, Febbraio 2010) G enere : post jazz Che l’elettronica di stampo ‘90 non fosse più in cima alle preferenze del combo norvegese lo si era intuito dal precedente What We Must. In fondo, tante cose sono accadute dal debutto ad oggi e la consapevolezza di quel jazz espresso sin dalla ragione sociale, ora trascende Aphex Twin armonizzandosi alla composizione europea con un pizzico di afro-beat. A dircelo è Lars Horntveth, uno con tanta musica in corpo da poterne vendere che definisce One-Armed Bandit come una crasi tra Fela Kuti e Wagner. Premessa credibile di una album che offre tanto altro come dei Weather Report proiettati su marte (Banafleur Overalt ) o dei Motorpsycho più forbiti (Book Of Glass). Grazie anche a John McEntire, c’è sicuramente una nuova, diversa, veduta prospettica e il minimalismo portato nel combo da Horntveth, palese in brani come Toccata (palesemente ispirata dal Reich di Music for 18 Musicians) e Touch Of Evil, dà quel contributo in più per la quadratura del cerchio. Una big bang mai così totale.(7.3/10) Gianni Avella Jean Binta Breeze - Eena Me Corner (Arroyo, Gennaio 2010) G enere : dub poetry Potrebbe sembrare un azzardo consigliare ai non specialisti in materia un disco come questo. Non lo è, in ragione del fatto che per un’ora, la calda voce della cinquantatreenne poetessa di Kingston scorre agile e intensa su basi minimali epperò solidissime, frutto dell’incontro tra due generazioni di produttori. Di due mondi, per di più, essendo le menti musicali dietro l’operazione il mito vivente Dennis Bovell - tondo, magnetico e sensuale il suo basso - e il pisano Marzio Aricò a/k/a Prudo. Più giovane, questi porta in dote l’asciuttezza di talune declinazioni del verbo dub secondo la techno, allestendo trame sonore attorno alla potenza evocativa di parole e storie (i testi sono riportati integralmente e tradotti nella nostra lingua, rimarcando l’impegno profuso nell’operazione) con lo scopo, centrato, di fondersi con essa. Di accentuarla, anche, e aggiungere un tassello il più possibile attuale (magari tramite l’epidermica Mother Africa) a un aspetto importante della musica in levare. E’ un lavoro per niente monotono, allora, costruito di volta in volta attorno a sottintesi e atmosfere suggerite più che sovrimposte (Grandfather’s Dreams) oppure a un’elettronica lanciata in rifrazione contro la propria immagine (Dawn). A raffinatezze che si aprono rigogliose (Mermaids), a profondità degli incastri (Aid Travels With A Bomb) e dell’insieme (Third World Blues). Non ci si rende conto che il punto d’inizio siano state le registrazioni “nude e crude” 49 della Breeze tale è il calore umano che promana dal disco (apice una fluviale Testament che fonde con fierezza antico e moderno) ed è paradosso tra i più azzeccati. La presenza di un bel pezzo del nostro paese, poi, ce ne rende ancor più appagati.(7/10) Giancarlo Turra Josh Rouse - El Turista (Bedroom Classics, Marzo 2010) G enere : pop da cartolina Ne succedono di cose strane: songwriter di buon successo e discrete capacità, Josh Rouse ha deciso di cantare un album di brani in spagnolo. Nulla di particolarmente sconvolgente, non fosse che il ragazzo è nato in Nebraska e il disco viaggia leggero e solare su una confusione sonora che con i nostri cugini più a ovest ha poco a che vedere. Josh si è trasferito a Valencia con la moglie iberica cinque anni fa, di conseguenza un titolo come “il turista” restituisce l’osservazione dall’esterno di una cultura più che l’immersione al sui interno. Aggiungete il fatto che alcune tracce sono state incise a Nashville e l’idea ha preso corpo a Brooklyn ed ecco comporsi un mosaico spontaneo ma, soprattutto, casuale. Senza la “progettualità” di un David Byrne, manca qualcosa che tenga assieme ironia a passo di afro-cubana e clonazioni del Paul Simon “etnico” anni ‘70, la regolamentare bossanova jazzy e il pop glassato d’archi. Risultato in ogni caso gradevole che - con l’eccezione di un paio di ottimi azzardi come il traditional Cotton Eye Joe riletto alla Burt Bacharach e una Don't Act Tough tesa e leggiadra - riflette l’estemporaneo svago dei villaggi vacanze. Quell’impressione che, al di là del recinto che ci tiene al sicuro, le cose siano poco confortanti ma vive. El Turista diverte per i trentasei minuti che dura; dopo di che, se ne esce dalla stanza che manco t’accorgi. Chiamala, se vuoi, eccentrica tappezzeria.(6.5/10) Giancarlo Turra Kabyzdoh Obtruhamchi/ Michael Jantz - Bouts-Rimûs (Sturmundrugs, Dicembre 2009) G enere : psych Weird flowers, strange fruits è il motto rivelatorio della Sturmundrugs, nuova etichetta di Donato Epiro. E mai frase fu più azzeccata, almeno a giudicare dalla prima uscita. Ad inaugurare la label salentina è, infatti, la colla50 borazione a distanza tra Michael Jantz (a.k.a. Black Eagle Child) e Kabyzdoh Obtruhamchi, nom de plume del russo Sergey Kozlov. In un’unica, lunga traccia da oltre un’ora suddivisa in 6 movimenti ed incastonata in una bellissima edizione fatta a mano, Bouts-Rimûs muove da una sorta di psichedelia d’accatto - slanci mediorientali e suggestioni psych-folk su un qualcosa vagamente simile a Sun Araw, Magic Lantern et similia - per arrivare ad una specie di rituale pagano, orgiastico e devastato nel finale, prima di spegnersi in un freak-folk arabeggiante ed evocativo. Nel mezzo ci si incanala, di volta in volta, verso droning rituale, percussivismo acceso di matrice industriale e psichedelia folkish sommessa, senza perdere il bandolo della matassa né il fluire magmatico della musica. Un vero e proprio tour de force da alterazione dello stato di coscienza.(6.9/10) Stefano Pifferi Kitty Solaris - My Home Is My Disco (Macaco Records, Febbraio 2010) G enere : indie Con un titolo My Home Is My Disco ti aspetteresti come minimo un'elettronica in stile berlinese. E invece Kitty Solaris, bionda artista tedesca con una terna di produzioni alle spalle, è quanto di più lontano ci possa essere dagli algidi patterns di un laptop. Anche perché l'immaginario a cui si ispira pone solide basi nella new york stradaiola dei Velvet Underground, nei Novanta alternativi di P. J. Harvey e in una vena pop minimale da loser. Fusione di stili che scova mezze luci e obliquità tra chitarre elettriche pulite, bassi, vibrafoni, batterie da home recording e tastiere, per dar vita a un indie rock della porta accanto capace di piccole ruvidezze (la Harvey di Kisses Lift Me Up) come di certe Sunday Morning più intimiste. Un disco che funziona al di là dei voluti limiti formali, grazie anche a un apprezzabile basso profilo.(6.8/10) Fabrizio Zampighi Local Natives - Gorilla Manor (Infectious, Febbraio 2010) G enere : wave art folk Quintetto texano - da Silver Lake - al debutto, i Local Natives s'infilano agili e oserei dire soavi tra i solchi weird folk e tribal-wave che informano tante propaggini alternative d'oggidì, col merito di sfuggire ad entrambe le categorie abbozzando un pop evoluto che dovrebbe fare la gioia di tutte le playlist meno banali. Possiedono una affabilità cristallina patinata di esotismi (sintetici e non) che viene naturale far risalire al post-punk più abboccato, pur sempre covando però una trepidazione percussiva che rimanda ai nonni Talking Heads (di cui non a caso rileggono Warning Sign) via Grizzly Bear, cui si aggiunge spesso un pizzico di enfasi Arcade Fire (sentire il singolo Airplane per credere). Pure scomodando link variegati e vieppiù nobili (dai Beach Boys strattonati Go-Betweens di World News al Patrick Wolf ingentilito Rufus Wainwright di Stranger Things, passando per i CSN&Y in fregola soul di Cards And Quarters e da una Sun Hands che sembra quasi i Tears For Fears in bilico tra languore e acidità) non danno l'idea di volersi spingere troppo avanti sul terreno della ricerca, della sintesi di cose nuove. Il loro è pop appunto che si mantiene aperto a molte possibilità (in virtù del grande futuro dietro le spalle) ma alla larga dagli azzardi sperimentali. In un certo senso, mi sembrano la controparte statunitense dei britannici Friendly Fires, aspirazioni MTV (versante Brand New) comprese.(6.8/10) Stefano Solventi Los Campesinos! - Romance Is Boring (Arts & Crafts, Gennaio 2010) G enere : I ndie P op Per la nuova prova lunga i Los Campesinos! hanno registrato a Stamford, nel Connecticut, proprio in mezzo alla tournée americana che li ha visti coinvolti la scorsa primavera. Nel frattempo Gareth (sorella di Kim) ha sostituito il dimissionario Aleks alle tastiere (e voce) e l'album è stato completato a giugno sotto la supervisione dell'ingegnere e produttore John Goodmanson (Blonde Redhead, Death Cab For Cutie...). L'entusiasmo della tournée, e l'euforia ingenerata dalle webzine statunitensi, è papabile nella febbrile intensità di molte tracce del lavoro. I ragazzi sono gasati e, proprio grazie allo scafato produttore, possono vantare una formula tecnicamente avvincente: (twee)indie pop intarsiato d'angoli math e detriti di hardcore. Rispetto alle chitarre grezze del recente passato è un bello scarto, specie se tutt'attorno l'arricchimento delle tessiture e delle dinamiche è stato operato in modalità simili ai compagni d'etichetta Most Serene Republic, ovvero aumentando la dose di contagiosa verietà delle soluzioni prog-pop. Differentemente da ...And The Ever Expanding Universe dei ragazzi dell'Ontario, Romance Is Boring (terzo sforzo dopo Hold On Now,Youngster e We are Beautiful, We are Doomed) è qualcosa di affilato, contagioso e convincente; un condensato dei citati Broken Social Scene dalle scariche punky Architecture in Helsinki, per il quale non si può che presentare lodi e proverbiali frecciatine da sovrabbondanza, quella sì imprescindibile ai prodotti Arts & Crafts. Piacerà molto agli amanti delle coralità canadesi. Troverà sicuramente chi ne criticherà la presa delle singole canzoni (ma attenzione a The Sea Is A Good Place To Think O The Future, i ragazzi già puntano agli Arcade Fire); di certo, la carica e l'efficace stratificazione funzionano a dovere e tengono ben rette le figure dei ragazzi di Cardiff, anche a rispetto una mia proverbiale diffidenza per il Canadian Pop.(7/10) Edoardo Bridda Madlib - Madlib Medicine Show #1: Before the Verdict (Stones Throw, Gennaio 2010) G enere : HIP-HOP E' iniziata l'invasione, è cominciato il Medicine Show. Con quel tanto della metafora patologica e del fare da imbonitore che questo titolo evoca e che calza ora più che mai a Madlib. Il primo volume di questo Mind Fusion "firmato" e allargato è una selecta rappusissima, coi soliti squarci funksoul madlibiani e la sua ossessione per Melvin Van Peebles e Galt MacDermot a condire. 17 pezzi tra produzioni nuove, ripescaggi e soprattutto remix - che sono però preview - dall'attesissimo ritorno di Guilty Simpson (di cui avevamo già un ottimo indizio, il 12" Coroners Music). Inutile tentare troppo la via della filologia. Soprattutto, inutile rimproverare Mad per l'autoriciclo. Perché qui c'è ispirazione. Mad recupera All Caps da Madvillain (Life Goes By), e quella base è bella dovunque la metti; si autocita campionando Love Leaks Out dei Residents (in Yikes); espone una preziosa reliquia dilliana (dall'epoca Jaylib) ed è subito boom bap wonky, ma soprattutto è un pezzo che spacca. E spacca pure la cupa rendition di Ode to the Ghetto, come del resto il 90% dei rappati qui presenti. Pezzi come sempre dilaniati da zapping interni e da brusche cesure, che destabilizzano l'ascolto, scompaginandolo; suono stratificato e granuloso come sappiamo, più cattivo dell'ultimo Mad, vicino alla sensazione di minaccia imminente che comunicano certo Quas e le cose con Doom (fa eccezione il quadretto tutto pop e cuoricini di I Must Love You). Non è un capolavoro, ma un ottimo disco underground hip-hop, e dopo un 2009 deludente (il capolavoro Beat Konducta Vol. 5-6 era uscito su vinile già a metà 2008), 51 possiamo dire che Madlib è tornato. Un must per tutti i madlibiani e, soprattutto, lo si sarà capito, per quelli più rappusi.Vediamo come saranno i prossimi MS: già annunciati un mix di roba brasiliana e un BK in Africa.(7.3/10) Gabriele Marino Mamuthones - Sator (Boring Machines, Gennaio 2010) G enere : kosmische Avevamo apprezzato i primi vagiti dell’entità Mamuthones in The First Born, collaborazione con Fabio Orsi targata A Silent Place, 2008, e ora Sator conferma la bontà del progetto. Dietro il nome preso in prestito dal folklore sardo si cela Alessio Gastaldello, cofondatore e transfuga dei Jennifer Gentle, multistrumentista abile e dall'armamentario di tutto rispetto: rhodes, farfisa, fingerpiano, flauti, chitarre, percussioni, rumori e quant’altro. Prendendo il nome dalla più misteriosa delle incisioni romane, l’album non può che essere un monolite nero (come da splendido packaging): musiche ipnotiche e inquietanti, kraute e cosmiche di default, liquide e ossianiche, sempre ammantate da una coltre di sinistri rimandi a tessiture criptiche e trance-inducing nonché spesso guidate da un tribalismo sciamanico da foresta nera. È pregno di spiritualità, Sator, e ci si meraviglierebbe del contrario, viste le premesse. Quella di Mamuthones è però una spiritualità atavica (e pre-umana) che è anche in grado di giocare con la réverie, con stati di (in)coscienza alterati, con dinamiche vuoto/pieno non banali, con slanci chiesastici che si fondono insieme ad un forte immaginario pagano. Un album che fluttua, privo di vincoli e restrizioni di genere, attraverso un magma di musiche ancestrali e misteriose perse nei meandri del passato dell’uomo, proprio come ad una antichità infinita - grado zero della civiltà - rimanda il nome stesso scelto per il progetto. Se Dio fosse pagano, questa sarebbe la colonna sonora della sua esistenza.(7.3/10) Stefano Pifferi Mangia Margot - Maddalena, Maria (Autoprodotto, Settembre 2009) G enere : impro / jazzcore Da Malo, provincia di Vicenza, i Mangia Margot, gruppo nato nel 2003 come trio prog estremo, nel 2007 asciugatosi a duo (Andrea Colbacchi-Luca Brunello) e votatosi a 52 quella miscela impro-noise-math-jazzcore che l'organico (basso-batteria, senza voce) e i compagni di palco degli ultimi tempi (Zu, oVo, Talibam; ma anche i conterranei Eterea) possono facilmente lasciare intuire. In questa prima prova ufficiale - lasciando da parte il concept anti-omofobia che ci sarebbe dietro ai titoli troviamo cinque miniature tutte costruite sulla giustapposizione di piccole cellule ritmico-timbriche, con un esito finale collagistico (in tal senso figlio del loro passato prog) che li avvicina - e non è un caso - ai Testadeporcu di Diego D'Agata. Jazzcore, fonti del jazzcore e dintorni, tra funk distorto, thrash metal, tribalismi industrial, cupezze alla Primus e alla Whirlwind Heat, appiccicosità alla Sabot e cinetismi (nelle rullate) che guardano ai Lightning Bolt. Ma anche un paio di deviazioni - strutturalmente - disco. Per quanto la formula sia abusatissima, i Margot se la cavano bene, con momenti ottimi soprattutto nel bilanciare le atmosfere e i cambi di registro. Andrebbe meglio concentrandosi un po' più sulla composizione e un po' meno sul solo montaggio.(6.4/10) Gabriele Marino Marco Rovelli - LibertAria (Comitato della memoria della Spezia, Giugno 2009) G enere : combat - rock Di Marco Rovelli bisognerebbe leggere prima di tutto i libri, tre negli ultimi anni (“Lager Italiani” e “Lavorare uccide” per Rizzoli; “Servi” per Feltrinelli), fondamentali nel loro lavoro di inchiesta e analisi biopolitica per capire la laida situazione italiana. E solo poi bisognerebbe accedere alla musica, che oltre a nascere direttamente dai libri ne fa da contraltare emozionale, mostrando l'ex Les Anarchistes per quello che è, ovvero non solo un cantautore e non solo un intellettuale, ma l'unione delle due cose insieme sul filo teso della scrittura. LibertAria corre deciso sui binari di un combat-rock muscoloso, che aggira i proclami inoltrandosi nella memoria e nell'attualità e che si nutre di letture e letteratura. Più Yo Yo Mundi (presenti come ospiti insieme, tra gli altri, a Daniele Sepe) che Modena City Ramblers, più Billy Bragg che Manu Chao, ma inspessiti in elettricità talvolta al limite noise primi Marlene Kuntz, e la collaborazione in fase di scrittura dei testi di Maurizio Maggiani, Wu Ming 2, Erri De Luca e Roberto Saviano. Rovelli usa la voce con accento popolare, caricando di un senso ulteriore un songwriting che se ha un difetto è quello di una densità che rischia di travolgere per la quantità di riferimenti e per risultati non sempre del tutto a fuoco. Ma è appassionato, rigoroso, vitale. E scrive canzoni realmente di dissenso, che invece di provare a convincere inchiodano ognuno alle proprie responsabilità.(6.3/10) Luca Barachetti Martin Rev - Stigmata (Blast First Petite, Novembre 2009) G enere : synth - orchestral - pop È strano di come in Martin Rev la dimensione performativa sia ineludibile (quando non necessaria). Strano e quasi paradossale, data la consueta performance: lui immobile nei suoi grandi occhiali, in piedi sul palco. Affianco il synth con preset e sample pronto per essere percosso (in duo) oppure, semplicemente lanciato (in solo). Gli sporadici interventi al microfono, poi, svelano una voce flebile: prima ci cantava i bubblegum favoriti a mo’ di American Graffitti ridotti all’osso, ora se ne viene fuori con quest’opera o operetta spettrale che sembra una presa in giro dei Settanta dei progger più deleteri. Curioso poi come i live Rev-iani si basino sulla presenza scenica e non sull’accatastamento di tastiere sul palco. E il fatto, la presenza, risulta fondamentale pure nell’austerità del nuovo lavoro del Suicide in solo: la presenza (di uno assente come lui) ad assurgere a unico valore. In cuffia l’effetto non cambia. Lo percepiamo dentro ai riff medio-bassi degli archi sintetici che danno forma e sostanza a Stigmata, agli inserti più esplicitamente elettronici (Sinbad's Voyage), a quelli midi-atizzati (Paradisio), ai sussurri di gola, che punteggiano come un’intonazione spettrale il ritmo senza percussioni delle tracce. Tolto questo la musica si presenta come una collezione di bozzetti digitalmente orchestrali, mai sinfonici, anti-ouverture verrebbe da dire, appunti arrangiativi che si creano e come sono nati si spengono. Sono impalabili e gli assomigliano e di converso gli fanno gioco. Lui così fuori da tutto, così vulnerabile e menefreghista. Così personaggio. Proprio questa curiosa e impenetrabile personalità ci spinge a un insperato apprezzamento.(6.5/10) Gaspare Caliri, Edoardo Bridda Massive Attack - Heligoland (Virgin, Febbraio 2010) G enere : trip hop Era la contaminazione a rendere il suono dei Massive Attack un classico. Soul e hip-hop prima, rock e elet- tronica poi. E la comodità dei critici di chiamarlo triphop. Oggi, sette anni dopo il controverso (ma appunto controvertibile) 100th Window, il duo di Bristol tenta la carta del (nuovo) capolavoro con risultati, diciamolo subito, non lusinghieri. Autoriflessivi e rococò, Del Naja e il ritrovato Daddy G utilizzano vecchi e nuovi amici per ribadire le cristallizzate sonorità che li resero celebri con il primo a tentare di smarcarsi inutilmente da Mezzanine (vedi Atlas Air o l’inutile plagio di Karmacoma che è Rush Minute) e il secondo a giacere sullo sfondo come un fantasma. Della buona tensione respirata nelle tracce dell'eppì Splitting The Atom e.p. c'è poco o nulla, come poco s'aggiunge parlando dei classici feat.: il dub e solidale Horace Andy (Girl I Love You), la solita monolitica Hope Sandoval (Paradise Circus), e il discreto ma di certo non originale Guy Garvey degli Elbow (l'electro glitch radioheadiano di Flat Of The Blade). Il passato è ancora caldo e potente. Le intuizioni di Burial (si parla di un remix per lui a proposito) e, meglio ancora, King Midas Sound sono lì a dimostrarlo, eppure era chiaro già tanto tempo fa che il balletto degli ospiti avrebbe portato verso una rapida senescenza. Heligoland salirà con qualche ascolto senza che la prima impressione venga messa in discussione. I Portishead di Third sono davvero lontani da quest'isola e i Massive Attack definitivamente storicizzati.(5.5/10) Marco Braggion Mavis - Mavis Presents (!K7, Febbraio 2010) G enere : lounge trip - hop Ashley Beedle non è uno che sta fermo davanti allo specchi a cantarsi quanto è bravo. Tutt’la più se ne sta alzato la notte con l’amico e collaboratore Darren Morris ad ascoltare Mavis Staples (ecco spiegato il nome del progetto) e gli Staples Singers, da sempre loro prediletti, e vi scova la scintilla per realizzare un disco. Magari gli ci vogliono tre anni per arrivarci e il risultato è lontano dalla perfezione, però nel frattempo si è messo in discussione, ha sudato attorno a un’idea. Nello specifico, quella di chiamare attorno a sé alcuni cantanti cui affidare una traccia ritmica da remixare fino a ottenere brani diversi e confacenti partendo da una radice comune. Che è la medesima o quasi per Kurt Wagner dei Lambchop in perfetti abiti da crooner (Gangs Of Rome vale gli Air migliori) dell’usuale e per il consumato marpione Edwyn Collins (un gradino sotto, Feeling Lucky), viceversa muta in istantanea modernista dal ghetto tramite la lezione bristoliana con la Revolution donata a Candi 53 highlight Lightspeed Champion - Life is Sweet! Nice to Meet You (Domino, Febbraio 2010) G enere : indie pop Life is Sweet! Nice To Meet You era disco parecchio atteso, dopo tutto l’hype suscitato a inizi 2008 dall’esordio Falling Off The Lavender Bridge, una quadratura del cerchio indie pop come non si sentiva da tempo, indice di un talento non proprio ordinario. L’ex-Test Icicle Dev Hynes, preso il moniker Lightspeed Champion si era all’epoca abbeverato alle fonti americane di Omaha, Nebraska, presso la corte di Mike Mogis, vale a dire l’area Saddle Creek/Bright Eyes, confezionando un album di songwriting indie folk pop. Per il seguito, ancora produzione americana, questa volta con il quotato Ben Allen (Gnarls Barkley e Animal Collective), che ha ben assecondato la voglia di suono americano del Nostro; alla base dell’album c’è questa volta una scrittura per piano e synth (mentre nel precedente era la chitarra acustica), tenendo comunque conto delle chitarre dal suono pulito, e di arrangiamenti curati. Non manca un’attitudine prettamente inglese che viene fuori nelle inflessioni ’70 pop rock soprattutto delle chitarre, come in Faculty of Fears, e in certe ballad dal tono powerpop magniloquente (Middle Of The Heart, un David Bowie periodo Hunky Dory, ma anche un Todd Rundgren); in influenze di teatro musicale e lirico (The Big Guns of Highsmith che sa di glam seventies con tanto di intermezzi simil operistici Sparks e Queen o se si preferisce il più attuale Patrick Wolf), non facendosi mancare un suono wave con una base countreggiante sotto (Madame Van Damme) e in generale un sottotesto di folk a stelle e strisce. Un’attitudine giocosa e un po’ sopra le righe viene fuori qua e là, un andare oltre i generi guardandoli appena dal di fuori e come dissacrandoli con affetto, segno questo di una continua evoluzione. L’eclettismo non manca di certo a uno come Hynes e salutiamo allora il suo ritorno con tutto l’entusiasmo del caso.(7.4/10) Teresa Greco Staton, in cremoso babà grazie alla sventolona Sarah Cracknell di When I Walk With You e bella reinvenzione pop orchestrale con Ed Harcourt (Puzzles & Riddles). Il rischio di un’operazione di tal fatta, nondimeno, sta nel livello medio dei partecipanti: non tutti sono assi e, tra buoni panchinari o giovani di discrete speranze, un paio di fiacche interpretazioni arrivano in un battibaleno. Vorremmo però spezzare una lancia in favore del cast e non paia una contraddizione: scommettere su facce nuove rimane un gesto coraggioso e pazienza se non tutti ripagano come Disa - da Reykjavik: si sente - o la sudafricana Cherilyn MacNeil. Quel che si ascolta è infine un po’ fuori dal tempo, un po’ retro e un po’ attuale. (6.8/10) Giancarlo Turra Mayer Hawthorne - Soul With A Hole Vol. 1 (Stones Throw, Febbraio 2010) G enere : vintage soul I 45 mix ideati dalla Stones Throw li si potrebbe consi54 derare variazioni negroidi del verbo Nuggets: se il primo volume Yo! 45 Raps griffato PBW e J Rocc raccoglieva chicche sparse di oldschool hip hop, la nuova collana Soul With A Hole inaugura il versante vintage soul. Roba da vinyl junkies che ancora una volta attinge dal commovente formato 45 giri. Dato il tema, questa volta a selezionare non poteva essere che Mayer Hawthorne che troviamo alle prese con ventiquattro episodi passando in rassegna eminenze oscure mai oltre il formato singolo (Erroll Gaye And The Imaginations, The Dynamic Tints e culti assoluti tipo Dee Dee Warwick, sorella maggiore della blasonata Dionne, Sly, Slick And Wicked).Nomi per lo più sconosciuti ma che sottobanco hanno influito sia sul talento di Hawthorne (in tal proposito, ascoltare All On A Sunny Day di Deon Jackson e la si paragoni a One Track Mind del Nostro) che sulla cultura soul in generale. Il missato è assai naïf. L'uomo sfuma una traccia nell’altra con pochi artifici se non quello base d'incastrare tutto a tempo. Funziona però. (6.5/10) Gianni Avella Midlake - The Courage of Others (Bella Union, Febbraio 2010) G enere : prog folk Dopo il debutto al crocevia tra Radiohead e Grandaddy, i Midlake, continuando sulla scia del precedente The Trials of Van Occupanther, fugando ogni dubbio sul loro peso specifico. Più che della maturità, The Courage Of Others è il disco di una consapevolezza fatta di Hatfield and the North e Jethro Tull coniugati all’epico Neil Young (quello di Harvest). L'efficace tecnica mutuata dai trascorsi jazz, e una produzione che manda a memoria i migliori ’70, permette alla band di muoversi tra folk ora agresti (la delicata Fortune) ora drammatici (i Radiohead travestiti da Strawbs di Bring Down, The Horn), e tutto scorre alla maniera di un tempo, sullo stile dei migliori Camel (Small Mountain) e degli stessi Hatfield (In The Ground). Anche visti i recenti e interoluctori Guillemots, più che imitatori, i Midlake rappresentano gli spontanei discepoli di una gloriosa tradizione.(7/10) Gianni Avella Million Young - Be So True EP (Arcade Sound Ltd., Gennaio 2010) G enere : E lectro glo - fi A breve distanza dal Sunndreamm EP di qualche mese fa (scaricabile gratuitamente dal myspace) il ragazzo milionario dalla Florida approda al formato fisico sulla breve distanza e lo fa a suon di glo-fi e la giusta dose di nostalgia senza cedere troppo alle tentazioni emulatorie. Mike Diaz ingrossa il sound d'input elettronici e riesce ad aumentare il ritmo come avevano fatto i Delorean (Cynthia) con una strizzatina d’occhio agli '80 più plastici (Soft Denial), il bel soul robotico che ricorda Darkel e la francia più gloss-downtempo di Sebastien Tellier (Mien, Pilfer) e, per concludere, il doveroso slalom tra ambient à la Boards Of Canada e bbreaking (Day We Met). Il miniculto glo espande e allarga le vedute insinuandosi con eleganza in altri generi, una nuova bella promessa che potrebbe fare a gara - per voce e attitudine - con quei romanticoni dei Kings Of Convenience.(7/10) Marco Braggion Mimmo Locasciulli - Idra (Hobo, Aprile 2009) G enere : canzone d ' autore In clamoroso ritardo e facendone pubblica ammenda recuperiamo questo lavoro di Mimmo Locasciulli, il diciassettesimo di una carriera a latere rispetto ad altri della sua generazione ma non priva di passaggi essenziali. E il motivo di tale recupero è che uno di questi passaggi essenziali è proprio Idra, disco in cui il songwriter abruzzese se ne va a New York in compagnia del fido Greg Cohen ad incontrare tipi del tutto raccomandabili come Marc Ribot e Joey Baron, insomma quanta grazia. Locasciulli di suo tira fuori qui almeno nove canzoni (su dieci della tracklist) di pari bellezza e intensità, i raccomandabili (e con loro un Gabriele Mirabassi e uno Stefano Di Battista a tenere egregiamente testa) infarciscono il tutto di spremiture blues-jazz che instillano rumorismi trattenuti ma efficaci o squarci evocativi che hai voglia ad avercene.; E allora viste le premesse non rimangono che da elencare i risultati, tutti molto tradizionali, ovvio, ma anche tutti pieni di idee, vibrazioni. Il blues lineare e metronomico di Scuro, organo a tirare le fila, sax inquieto, Ribot che fa Ribot (soprattutto nella versione Marc 'n' Roll in chiusura); la title-track malinconica e aurorale, ovvero come parlare di immigrazione lievemente e senza sociologie d'accatto. La svisata Ardecore del ritornello popolaresco di Senza un addio, e poi ancora una trafila di ballad classiche ma sostanziose e vive - come raramente ormai ne arrivano da penne italiane nate dal sessanta indietro (vero Fossati, Guccini, De Gregori?) - dove a variare è alla fine solo la direzione musicale intrapresa: latineggiante e smaltata dai piatti di un Baron totalizzante in Passato presente, vestita ad occasione da archi cinematici in Benvenuta, crepuscolare con gocce di glockenspiel e sax ad attraversare il cielo come un fascio di luce in L'attesa, palpitante di mandolini in Lucy, infine nuda nel pianovoce da brividi de Il bambino e il destino.; Che altro dire? Niente, se non che di Locasciulli così in lucore ce ne vorrebbero di più, visto che qualche verso di questi brani potreste portarvelo dietro, proprio per la vita («Tutti aspettano di salvarsi / come si aspetta in una stazione / come si tratta dentro a un mercato / dove il prezzo è già scontato»), e che canzoni così preziose e del tutto meditate, anche da chi le ha suonate, giustificano anche un recupero ad anno concluso, che tanto quello appena iniziato non ce le farà certamente dimenticare.(7.8/10) Luca Barachetti Moltheni - Ingrediente Novus (La Tempesta Records, Novembre 2009) G enere : canzone d ' autore Sei dischi in studio in dieci anni. L'esordio con il pop 55 radiofonico - ma strambo quanto basta per farlo emergere dalla massa (anche sanremese) - di Natura in replay, sotto l'ombra ingombrante di Carmen Consoli (la produzione era di Francesco Virlinzi) e con il riferimento Afterhours ben presente. Poi l'urlo elettrico, grunge fuori tempo massimo però viscerale come pochi, di Fiducia nel nulla migliore, con Chris Stamey e Jefferson Holt (Sneakers, R.E.M.) in cabina di regia. Dunque l'accasamento indie su La Tempesta Dischi per quello Splendore Terrore che doveva essere una parentesi, dilatata e ieratica, e che invece è stato l'inizio di un nuovo percorso all'insegna di un pop sempre più strettamente imparentato col folk, in primis il New Weird d'oltreoceano (Toilette Memoria, l'altra punta massima nel decennio percorso), certo non privo di qualche momento di stanca (Io non sono come te ep), ma anche capace di singoli episodi dalla caratura altissima all'interno di un percorso recentemente di nuovo in ricerca (I segreti del corallo, uscito l'anno scorso). Un percorso che ora per Moltheni pare arrestarsi, dalle ultime dichiarazioni addirittura in modo definitivo, con questa antologia in formato audio e video. Diciassette i brani presi da ciascun lavoro pubblicato e risuonati per intero, di questi due inediti: Petalo, già eseguita più volte negli scorsi tour, che lo riporta alle rotondità pop-rock degli esordi ma con vestiti meno iperlucidi, e Per carità di stato, invettiva sull'Italia retrograda e immobile che sembra anticipare la decisione di dire basta. Quindi altre quindici canzoni con cui fare i conti, tra ospitate importanti (Mauro Pagani, Enrico Gabrielli che arrangia gli archi) e qualche recupero di pregio, come una Nutriente rifatta cameristica e il cameo spargi asfalto di Vasco Brondi aka Le luci della centrale elettrica su Zona monumentale, sorta di dichiarazione di discendenza del ferrarese dal marchigiano in quanto ad urgenza espressiva e lavoro sul linguaggio - a tal proposito: senza loro due due e pochi altri il nostro cantautorato si ritroverebbe oggi di qualche passo indietro, sarebbe ora di accorgersene in modo chiaro ed evidente. Nel dvd invece le riprese di due stralci di concerti, uno elettrico (piuttosto bello) e uno acustico (sicuramente meno diretto), alcuni videoclip (peccato manchino quelli del primo disco) e un corto dall'ambientazione bucolica parecchio suggestiva. Nel complesso, insomma, un riassunto ottimo per i neofiti ma che regalerà soddisfazioni anche ai fans della prima ora. 56 Qualche anno fa, tour di Fiducia nel nulla migliore, alla fine di un concerto - elettrico, molto elettrico, uno spiritual di feedback e parole tirate in gola - andai a conoscere Moltheni, la scaletta in mano per fargliela firmare. Lui non me la firmò, ma scrisse in fondo alla track-list “Moltheni sta male”. Capii solo qualche anno dopo che non era una bizzarria da artista, ma la sua firma, quella vera, onesta e impellente anche a rischio di risultare eccessiva. Perché Moltheni è da sempre così. Uno che sa scrivere canzoni e le scrive perché ne ha bisogno. Uno che sale sul palco e sputa senza troppi giri di parole, ma attraverso i densi filtri metaforici delle sue liriche, le ferite che prima o poi tutti riceviamo e ci portiamo in dote. «Capra realtà, nutriti con la mia erba»: dispiace, e molto, se deciderà davvero di chiudere qui.(7.2/10) Luca Barachetti Motorpsycho - Heavy Metal Fruit (Stickman, Gennaio 2010) G enere : hard / psichedelia Eclettici come pochi, prolifici quando non letteralmente incontenibili - quasi impossibile seguirne le vicissitudini ventennali tra LP ufficiali e numerosissimi EP -, i Motorpsycho hanno sempre dimostrato una contingenza creativa rigogliosa, disposta a farsi contaminare ma alle volte fin troppo autocelebrativa. Se nei Novanta il grunge contribuì non poco a mettere a fuoco le spinte centrifughe della band norvegese fungendo da specchio e stimolo per una contemporaneità psych originale e lontana dall'hard acidissimo e derivativo degli esordi, col nuovo secolo e la perdita dei principali punti di riferimento si è assistito all'affermazione di un utilitarismo formale piuttosto di maniera. Non brutto in assoluto, come testimoniano dischi come Phanerothyme e It's A Love Cult , ma certamente poco significativo. Seguito da un progressivo ritorno alle origini che ha sostanzialmente confermato tutti i pregi e i difetti della formazione di Trondheim: molte idee, ma qualche difficoltà nel saperle valorizzare a dovere. Il nuovo Heavy Metal Fruit riprende il concetto di suite psichedelica - quello che era un po' mancato all'ultimo Child Of The Future - cercando di dribblare i soliti problemi di logorrea inconcludente con sei episodi in bilico tra hard anni Settanta (i Black Sabbath di W.B.A.T.) e certe declinazioni jazzy rubate all'accoppiata Quicksilver Messenger Service /Grateful Dead (il drop out progressivo e quasi “crimsoniano” di Starhammer). Una scelta formale che ha il pregio di offrire una chiave interpretativa solida al materiale e che rispetto al penultimo Little Lucid Moments - anch'esso dilatato a dismisura - serra le fila promuovendo un suono meno dispersivo, highlight Magnetic Fields - Realism (Nonesuch, Febbraio 2010) G enere : folk pop Due anni esatti dopo Distortion, ecco il di lui contraltare Realism. Entrambi all'insegna del "no-synth", realizzati dallo stesso team di musicisti, sembrano le classiche due facce di una stessa medaglia (che è poi l'arte melodica - apparentemente inesauribile - di Stephin Merritt). Se il predecessore muoveva dall'esplicita intenzione di omaggiare il sound distorto dei Jesus And Mary Chain in un magma talora ecessivo di chitarre deragliate, questo torna ad acquietarsi nel grembo d'un folk di stampo popolare, ispirato alle produzioni britanniche a cavallo tra Sessanta e Settanta, quindi puntigliosamente acustico anche se per nulla parco negli arrangiamenti. Violini, violoncelli, fisarmoniche, banjo, bouzuki e tabla sono gli abiti versicolori di canzoni straordinariamente ispirate e varie. Sogni di bambagia vagamente psych (Always Already Gone), teatrini vaudeville-country (We Are Having a Hootenanny), incanti melmosi come un Julian Cope sotto valium (Walk A Lonely Road), deliziose marcette fiabesche (The Dolls' Tea Party), uno Scott Walker di carta da zucchero (I Don't Know What to Say) e una ballata da genuflessione come You Must Be Out of Your Mind capace di tanta asprigna malinconia da mandare in solluchero (anche) i fan di R.E.M. e GoBetweens. Il repertorio dei Magnetic Fields si arricchisce di un altro grande album. E - sapete cosa? - non ci stupisce. (7.6/10) Stefano Solventi fortemente contestualizzato ma forse poco coraggioso. Il che, nella pratica, per i musicisti significa cavarsela con stile confezionando un'opera che intercetta e personalizza il revival prog-hard di band come i Black Mountain e per chi ascolta portare a casa il risultato senza uscirne sfibrato.(7/10) Fabrizio Zampighi a una produzione pulitissima e a testi proporzionati alle aspirazioni. Buone potenzialità ma paracadute in spalla, per una formazione che ci piacerebbe vedere meno dipendente da certe dinamiche legate all'immagine.(6.6/10) Fabrizio Zampighi Nadàr Solo - Un piano per fuggire (Massive Arts, Gennaio 2010) G enere : punk / noise Ninca Leece - There Is No One Else When I Lay Down And Dream (Bureau-b, Gennaio 2010) G enere : P op , dance Scafati sono scafati, i Nadàr Solo. Lo capisci da come agitano senza riguardo il loro punk-noise adatto ai classici turbamenti adolescenziali come a contesti meno in linea con i gusti massificati. Sicuri di potersela cavare in ogni situazione, grazie a un suono non troppo compromesso e capace di mostrare qualche ottima intuizione. Della serie un colpo al cerchio e uno alla botte, un occhio ai Ministri e uno alle innocue accelerazioni generaliste da teenager con poche pretese. Contrasti e collusioni che affiancano alle banalità telefonate di Un'ora sola la batteria isterica e fascinosa di Sette anni, ai Muse taroccati di Stato Maggiore gli scambi al fulmicotone di Cento Cose, al battere in levare da top ten di La Strada gli sviluppi noise di Cinque secondi. Il tutto scevro da difetti di forma, grazie Il lifestyle da club prima ad Amsterdam e dopo a Berlino (dove ha abitato fino a l'altro ieri) deve aver inciso parecchio nella vita di questa ragazza francese cresciuta tra il concervatorio e la passione per i suoni eterei (parole sue) di New Order e My Bloody Valentine. Nel debutto There Is No One Else When I Lay Down And Dream la troviamo perfettamente a suo agio tanto nella techno quanto nell'house, entrambe virate secondo dettami della Capitale (e spesso funky). Non mancano i riferimenti uber artici come Björk (l'opener fuorviante Touriste) ma Ninca preferisce pose più sexy e terrene; di più, data la sua di terra, i proverbiali Ottanta li troviamo sottoforma di Lio in Funny Symphony. Il mix di popness e electro (colta come, più praticamen57 highlight Pantha Du Prince - Black Noise (Rough Trade, Febbraio 2010) G enere : minimal techno Ci avevamo visto giusto con Weber. Questo nuovo attesissimo disco infatti si incarica di traghettare la minimal techno mutante di Pantha Du Prince in un formato assai più gioioso e ammiccante, senza per questo abbandonare il proprio status di griffe di prestigio nel settore della dance hall intelligente. Uno scarto che si avverte all’istante, non foss’altro che per l’etichetta che distribuisce, una Rough Trade in grado di presentare il dj tedesco al di fuori del suo normale ambiente di riferimento. Ergo strizzatine d’occhio e pacche sulle spalle a profusione in un lavoro dal taglio denso e melodioso, che mette da parte tutto il rigore teutonico che faceva il senso di un disco come This Bliss. Qui Weber arricchisce la tavolozza partendo da una serie di field recordings registrati mentre era in vancanza sulle alpi svizzere insieme ai fidati Joachim Schütz (Arnold Dreyblatt Trio) e Stephan Abry (Workshop) e infatti la quasi totalità dei brani parte proprio da questi suoni naturali remixati a rielaborati digitalmente. Da qui anche tutto il discorso teorico che Weber butta giù, a mo’ di concept album, sul “rumore nero” della natura, quell’indefinibile e impercettibile rumore che viene avvertito dagli animali prima di una tempesta. A tutto questo aggiungiamoci i special guest stars, nelle persone di Tyler Pope (!!! e Lcd Soundsystem) e Noah Lennox (ovvero Panda Bear) che danno una mano rispettivamente su The Splendour e Stick To My Side e quello che otteniamo è Black Noise, un disco che sa unire vertiginosi giochi di chimes islandesi (Lay In A Shimmer) e vigorose linee di basso campionato (Abglanz); inedite aperture vocali (Stick To My Side) e nerissimi motorik techno modello Detroit (A Nomads Request, Behind The Stars) senza tralasciare ariose aperture da soundscape romantico (Welt Am Draht, Im Bann). La carne al fuoco forse è anche troppa e dischi come questo che giocano la propria ragion d’essere proprio sul contaminarsi di continuo, corrono sempre il rischio di risultare alla fine inconcludenti, come un giochino fine a se stesso. In questo caso il pericolo è scongiurato perché il sound di Pantha Du Prince ne esce fuori a testa sufficientemente alta, ma Weber deve lavorare ancora a lungo per definire meglio i contorni di una formula così “user friendly”.(7.3/10) Antonello Comunale te, da club) è il punto di forza di un album che snocciola minimal, clicks e cut e trance berlinese (leggi AGF fino a Ellen Allien) con grande classe. Particolare non di poco conto: perfettamente fuse le sensibilità nazionali. Skippabile la cover dei Cure (Lovesong).(7/10) elettronica che guarda all’ambient che già in Bat For Lashes avevamo notato e apprezzato. Ramona Gonzales è intrigante, l’operazione nondimeno didascalica e senza singoli da mandare a memoria.(5.5/10) Edoardo Bridda Marco Braggion Nite Jewel - Good Evening (Human Ear Music, Aprile 2009) G enere : electropop , glo - fi Mancava la voce femminile sotto l’ombrello glo-fi. Il trio losangeliano Nite Jewel prende le eredità di George Michael e Laurie Anderson filtrandole con gli '80 color pastello della dark wave e costruendo così un sogno di beat in eco, Cure (Heart Won’t Start), polveri Enya (Universal Mind) e sintetismi Japan (Artificial Intelligence); 58 Nitin Sawhney - London Undersound - Instrumentals and Remixes (Cooking Vinyl UK, Novembre 2009) G enere : chill - world - pop Polistrumentista, produttore, autore di colonne sonore, organizzatore di eventi culturali, uomo delle istituzioni (è uno dei patron del "Programma per l'accesso alla musica" voluto nel '92 dal governo Major), Nitin Sawhney - origini indiane, nazionalità inglese, vissuto londinese rivolge da sempre il proprio impegno a favore del multiculturalismo e dell'integrazione. London Undersound ('08) - con ospiti prestigiosi come il Macca e la figlia di Ravi, Anoushka Shankar - è stato la naturale prosecuzione di questo percorso, tanto nei contenuti (ponendosi esplicitamente come uno spaccato del "cuore positivo che pulsa a Londra" nell'epoca degli attentati terroristici), quanto nella formula musicale, piccolo aggiornamento di quella brevettata già in Beyond Skin ('99). Una avvolgente pulitissima miscela di jazz, pop, orchestrazioni da soundtrack ed elettronica soft, a creare un trip-hop/chill-out animato da forti richiami world music. Questo disco adesso raccoglie gli strumentali (e un paio di alt take) dell'album 2008 più alcuni remix (in parte già pubblicati altrove): l'assenza della voce è tutto sommato trascurabile; i rmx portano i pezzi originali nei club, ma con risultati alterni. In ogni caso, grande cura per il dettaglio e alcuni singoli episodi ottimi, col rovescio di un innegabile sentore di retorica e di lezioso che - inevitabilmente? - affiora a tratti. Un sottofondo di bocca buona ma preparato con passione e classe.(6.5/10) Gabriele Marino Odd Clouds - Deceiving Illusion (Tasty Soil, Gennaio 2010) G enere : free - weird - jazz Deceiving Illusion segna il ritorno della combriccola più weird della Detroit mutante d’inizio millennio. Nata dall’incontro tra Chris Pottinger e Jamie Easter, l’esperienza Odd Clouds si è sempre distaccata rispetto ai compagni di merende detroitiani per la predilezione per suoni di matrice più free e meno punk-oriented, tanto che se dovessimo buttar lì coordinate generiche propenderemmo per una versione (molto) più acida dei Rollerball o degli Animal Collective con sezione fiati cresciuti a funghi e deserto. In questo nuovo 12” il quintetto offre 6 tracce untitled in cui pasteggia con free-jazz e rock mutante per poi risputarlo fuori cialtronesco e infame, tanto quanto può risultare lo stile da fumetto splatter impazzito col quale Pottinger adorna le copertine dei dischi. Dilatazioni free immaginate come colonna sonora di discariche post-industriali convivono con mascalzonate a base di marcette da brass-band ubriaca; nello stesso modo fantasmi ayleriani si spalmano in allucinati passaggi folk-noise alieni, ebbri e pure deformi. Con una naturalezza e una capacità di elaborazione tale che ci fa forse ripensare ai molti dubbi che avevamo (e che abbiamo) sul reale portato musicale di molti weird-heroes odierni. E che, se non si fosse capito, ce li fuga in un momento.(7/10) Stefano Pifferi Oh No Ono - Eggs (Leaf, Febbraio 2010) G enere : pop Ha uno strano rapporto con l’orecchiabilità, Eggs. Funziona da subito, acchiappa l’orecchio con le soluzioni iperdisegnate (come curatissime architetture); richiama alla mente una costellazione di riferimenti, pop inglese, Supertramp, ricchezza di dettagli pop-prog, ma anche quella animosità art-oriented molto praticata a Portland. Una miscela che carbura con strani giri di motore. Cresce repentinamente con gli ascolti, poi si ferma, poi inizia a scendere appena, e quindi si stabilizza. È comunque comprensibile che, dopo essere uscito, nel 2009, su un’etichetta danese non meglio specificata (la 01-11700170), Eggs venga licenziato - da Leaf - anche al di fuori del mercato scandinavo. Bastano i primi minuti del nuovo lavoro di Oh No Ono, quintetto di Aalborg, per capirne le potenzialità da indie-pop internazionale. Eppure il gioco dell’album si risolve tutto in un paradosso apparente; non mancano citazioni che escano dalla Danimarca, come dicevamo, eppure si coglie l’intenzione di fare qualcosa di peculiare, che alla fine siamo portati ad associare a una scena (quella del pop scandinavo). In tutto e per tutto Eggs è un impasto di pop eccentrico che ha un sapore caratteristico, conseguenza della ostinazione (senza giudizio di valore) nel voler far sprigionare la propria penna e le proprie atmosfere dalla qualsiasi frammento e particolare dell’arrangiamento, e specialmente nelle melodie aeree. Lo spettro di risposta va dalla pillola indorata, nordica e intellettuale, di Swim, alla stramberia Mercury Rev-iana di Eve. Non si può nascondere una certa curiosità, e una completa incapacità di previsione, rispetto al modo in cui Eggs verrà accolto dal mercato musicale anglosassone…(6.9/10) Gaspare Caliri Ok Go - Of The Blue Color Of The Sky (Capitol, Gennaio 2010) G enere : funk - power - pop Saremmo portati a dire che WTF?, primo brano e primo singolo da Of The Blue Color Of The Sky, sia una sorta di manifesto del nuovo approccio degli Ok Go. 59 Niente più power-pop lineare, e al suo posto il singhiozzo animista - ma profondamente pop - di spezie funk liofilizzate.Torna principesca la figura di Prince (Skyscrapers), e con lui quella di tutto il pop sensuale degli Ottanta - delle musiche che non andavano necessariamente classificate sotto il prefisso synth- (che qui riecheggia in White Knuckles, End Love), che vivevano di chitarre e produzione, che si agitavano nelle charts anglosassoni. Non è un caso se diventa rilevante, per il terzo disco dei chicagoani, la presenza del produttore Dave Fridman, all’attivo con altre realtà indie nobiliari o meno - Flaming Lips, Mercury Rev, Clap Your Hands Say Yeah, Weezer. La stanza dei bottoni è presente anche se non ingombrante, e contribuisce non poco a dare una vena raffinata alla pasta delle canzoni. Gli Ok Go sembrano giocare la carta dell’eccentricità, difficile forse per piazzare una giocata vincente, se il proprio nome è da sempre associato a meccanismi semplici, idee efficaci e immediate. Eppure, i Nostri dimostrano di avere una certa abilità, a volte (Needing/Getting), nel decostruire il binario di marcia. Il passo successivo, non parlando di una band per pochi intimi, è fare zoom-out e cambiare scala. Da Here It Goes Again sono cambiate un po’ di cose, diciamo contestuali, nel mainstream, che dai Franz Ferdinand si è spostato qualche anno più avanti, a proposito di padri putativi: le mosse di Ok Go avvengono in una stanza già imbottita di suoni revivalistici, dove non è impensabile spendere pure un vocoder ultra-citazionistico (Before The Earth Was Round). La sorpresa è semmai (ancora Frid, il responsabile?) l’impianto costruttivo di In The Glass, ballata finale che conduce l’ascoltatore dalle campane al rumore. Una gemma quasi glam, nelle armonie e nella prima metà del pezzo, psichedelica poi. Come ogni brano finale, una chiusura e una promessa…(6.5/10) Gaspare Caliri Olivier Girouard - La nuit nous deconstruit par coeur (Ekumen, Giugno 2009) G enere : elettroacustica Pedina irrinunciabile del collettivo Ekumen (Nicolas Bernier, Jacques Poulin Denis) l'esordiente Olivier Girouard è una delle più belle scoperte degli ultimi mesi in ambito d’elettroacustica. Cinque tracce per Le nuit nous deconstruit par co60 eur che s'ispirano alle poesie di Marie Uguay e scritte originariamente per lo spettacolo Beside Me di Kate Hilliard, memoria ed omaggio alla recente scomparsa un caro amico. Chitarra principalmente (Song for no one), suoni trovati, texture in granuli (Ou il n’y a persone) e punteggiature in beat (Ici seule), questi gli strumenti utilizzati con sensibilità estatica e riduzionista (D’autre que moi) a cui Olivier Girouard dona voce giocando su rifrazioni, riverse (Ne me lasse pas ici) loop, evanescenze e poetica intimista. Ritorna il tema dell’intreccio e del collage, lezioni impartite già dai compagni nel più recente Sur le Fond Blanc (Ekumen,2009) qui condotti con estrema padronanza di tempo e sfumatura. Erede angelicato del Chauveau più accomodante, il suono di Girouard prima ancora che una nuova proposta si presenta come un’efficace lezione di genere.Ben venga comunque.(6.7/10) Sara Bracco Oratio - Ora ti ho (Malintenti Dischi, Dicembre 2009) G enere : folk Un Bugo primordiale (Una parte di me, Il tabacchino è chiuso), Lucio Battisti (Il bianconiglio, Ce ne andremo via) e qualche accento barrettiano. Flower power sdrucito su canzone italiana anni Sessanta-Settanta, accompagnato da una chitarra acustica sfrontata e una naturalezza per nulla retorica. Nelle dodici tracce dell'esordio discografico di Oratio si sperimenta la quotidianità dei dischi del Battisti nazionale, l'immediatezza e la cura del messaggio, l'orecchiabilità e la melodia. Mirando a una formula in bilico tra folk/ blues americano, musica d'autore e surrealismo in forma di testo. Ora ti ho parla del Mogol dei supermercati e dei treni che partono, delle stagioni e delle case, oltre che di quel mediare tra rapporti personali e mondo esterno che negli anni del boom economico rifletteva su cambiamenti sociali epocali mentre qui si accontenta delle ristrettezze di un semplice dare e avere. Mi son svegliato presto / per conquistare l'universo / ma già dopo il caffè / mi sentivo perso” canta Andrea Corno sotto mentite spoglie, con uno stile che potrebbe ricordare quello di Dente. Del resto la discografia di riferimento è analoga, anche se ai riflessi pop distratti e stralunati del cantautore parmense il progetto Oratio preferisce un impianto testuale serrato e una calligrafia più aderente al folk. Nel CD contributi di Toti Poeta (produttore) e di buona parte degli artisti del giro Malintenti Records.(7.3/10) Fabrizio Zampighi Paul Baran - Panoptic (Fang Bomb, Novembre 2009) G enere : E lettroacustica , canzone sbilenca Soltanto omonimo del geniale ingegnere polacco che ha fornito un contributo fondamentale, grazie alla messa a punto del concetto di rete decentrata e ridondante, alla nascita di internet, il nostro Paul Baran è, invece, un sound-artist di Glasgow che sguazza a meraviglia nei flussi musicali del dopo-internet. A capo di una mini orchestra molto sui generis che annovera, tra i numerosi componenti, Keith Rowe (chitarra preparata), Werner Dafeldecker (contrabbasso, processing analogico, voce) e Andrea Belfi (percussioni, processing), Baran si fa, da par suo, ingegnere di un suono cervellotico e a tratti ostile, fermo a mezza strada tra astratto pianismo di matrice feldmaniana (Love Under Surveillance) e improv pura (Pin-snipers), da un lato, e acerbi tentativi di incanalare rumore, improvvisazione ed eccessi sonori in stralunati abbozzi di canzone rock (Pomerol) o jazz-ballad (Lewitt: comunque uno degli episodi meglio riusciti dell'album), dall'altra. Solo per coraggiosi.(6.3/10) Vincenzo Santarcangelo Peter Gabriel - Scratch My Back (EMI, Febbraio 2010) G enere : cl as sical pop “Un album molto personale di 12 canzoni eseguite per sola orchestra e voce”, questa la definizione di Scratch My Back da parte del musicista inglese. Dodici cover quindi, eseguite con un’orchestra di 40 elementi, con arrangiamenti del veterano John Metcalfe (Durutti Column) e produzione di Bob Ezrin. Un progetto ambizioso che prevederà a breve uno scambio da parte dei personaggi coinvolti, David Bowie escluso. Scaletta azzeccata, scelta di cover ad ampio range (Randy Newman, Lou Reed, Neil Young, Paul Simon, Talking Heads, Radiohead ma anche The Magnetic Fields, Arcade Fire, Bon Iver, Elbow e Regina Spektor) attraverso cui Peter Gabriel mostra come sempre un ottimo gusto musicale. Artisti così diversi sono resi alla sua maniera, senza snaturarli ma piuttosto rivisitando ogni canzone, non stravolgendoli ma costruendo gli arrangiamenti attorno alla sua voce sempre efficace. Ne viene fuori un incontro inusuale tra classica e pop, con arrangiamenti spogli ma funzionali, dove l’enfasi è messa solo all’occorrenza, come nel crescendo di My Body Is A Cage degli Arcade Fire. Si sentono l’influsso classico e quello minimalistico, ma anche il sincretismo gabrieliano e anni di world music, una costruzione per aggiunta di elementi, l’emotività e una resa sonora e vocale ben amalgamate: tutto questo fa sì che l’album sia compatto e vi si senta il peso del “mestiere”, in positivo”, di uno come il Nostro. Applausi.(7.5/10) Teresa Greco Peverelist - Jarvik Mindstate (Punch Drunk Records, Novembre 2009) G enere : dubstep ambience Alle soglie dell'(auto)consacrazione Hyperdub, il disco d’esordio di Tom Ford arrivava (era novembre) in un periodo di magra per il dubstep, seppellito dal fuorilegio di produzioni wonky, ragga e step da salotto (King Midas Sound). Logico che all'inizio a prevalere è il pregiudizio di fronte a nove lunghe tracce dal sound inevitabilmente citazionista. Peverelist pesca certamente nella techno dub Basic Channel (Jarvik Mindstate) nell'electro dub firmato Pole (Valves) e negli ambientstep Scuba (Clunk Click Every Trip) e Pinch (che compare in featuring in Revival) ma lo fa talmente bene da far ripartire la giostra del genere. Il disco è dedicato a Robert Jarvik, l’inventore del cuore artificiale e NME ha appena dichiarato che il 2010 sarà l'anno del dubstep mentre oramai più voci parlano di nuovo la lingua della drum'n'bass... Staremo a sentire.(7.2/10) Marco Braggion Pillowdiver - Sleeping Pills (12k, Aprile 2009) G enere : P ost - rock Dopo la Sleeping Pills Series di Dj Olive, un altro disco il cui intento è quello di farci dormire sonni tranquilli. La pillola, stavolta, ce la somministra Pillowdiver, nom de plume di René Margraff, impiegato presso una nota compagnia che si occupa di software musicali e chitarrista nei ritagli di tempo. Quello rilasciato dalla sempre attenta 12k è il debutto assoluto di questo musicista di stanza a Berlino, ma meglio, forse, avrebbe trovato collocazione nel catalogo della Slaapwel, un'etichetta interessata esclusivamente a musica "which is interesting enough to listen to, but boring enough to fall asleep to. Ciò che si ascolta nelle nove tracce in scaletta - piuttosto simili l'una all'altra, come è bene che sia in questi casi -, sono stanchi (addormentati?) giri melodici di 61 chitarra che si adagiano in maniera ricorsiva su fragili detriti di elettronica (pare ci sia un synth, da qualche parte), riverberi, rumorini assortiti. Molto post-rock guitar driven fine '90, insomma, a metà strada tra Tarentel e certi (i peggiori) Labradford. Passare oltre all'uscita n. 12k1055 (questa portandosi addosso il numero seriale 12k1054) dell'etichetta di Taylor Deupree, prego.(5.5/10) Vincenzo Santarcangelo Plasma Expander - Kimidanzeigen (Wallace Records, Gennaio 2010) G enere : noise - rock Torna ad espandersi il Plasma, a distanza di tre anni dall’esordio omonimo. E se a quel tempo si era dubbiosi sulla natura concreta o estemporanea del progetto, Kimidanzeigen fuga ogni incertezza. Sempre in trio senza basso (esce Mauro Podda e entra Marcello Pisanu, sempre alla chitarra baritono) e in modalità strumentale, il trio sardo reitera il proprio amore per un sound datato, reinventato a suon di mazzate noise/math-rock e deragliamenti free in precedenza solo accennati. Come se un gruppo postrock d’inizi ’90 fosse finito alla Amphetamine Reptile e avesse sottoposto le chitarre ad un trattamento termico miscelando così cerebralità e fisicità. Kimidanzeigen è fatto di groove azzeccatissimi dall'impatto letale, improvvisazione libera e ricercata strutturazione, elaborate ragnatele d'aggressività ad alto peso specifico. Stupisce, inoltre, la grana del suono: una resa quasi da live per potenza ed impatto, unita a una cura certosina nell’equilibratura. Plasma Expander è una macchina rodata che viaggia a 100 all’ora senza rischiare derapate o testa coda.(7/10) Stefano Pifferi Portico Quartet - Isla (Real World, Ottobre 2009) G enere : jazz Il jazz sognante e ‘ambience’ del quartetto londinese prende le mosse da un amore incondizionato per le percussioni balinesi esplorate dal maestro Steve Reich (in particolare lo hang, strumento simile allo mbira con dei risuonatori che emettono un particolare riverbero di armonici) e da guizzi melodici (dai sax di Jack Wyllie) in linea con l’estetica ECM. Alla seconda prova sulla lunga distanza (dopo l’acclamato 62 esordio Knee Deep In The North Sea) i quattro esplorano sonorità visionarie che coniugano la tecnica con la melodia (Dawn Patrol), la progressività minimalista con l’anima (Line) e in generale un sentire smoooth da club, cose da frac e cravattino che scoppiano in sporadici assalti e assoli uberboost (Life Mast, Isla). Il jazz dei Portico non a caso è stato notato dai guru del selecting mondiale, Gilles Peterson incluso. Il disco, registrato nei mitici studi di Abbey Road, è un tributo all’eterogenità di Miles Davis tagliato Molvaer, che si distingue per la superba tecnica e per il piglio deciso di quattro giovani a pane e DIYness. Ottimo per chi ama il jazz onirico o il minimalismo infarcito di citazioni world. Per i non addetti sarà una bellissima sorpresa. Give ‘em a try!(7.3/10) Marco Braggion Quitzow - Juice Water (Young Love, Febbraio 2010) G enere : dance - pop La diagonale M.I.A./Santogold continua a fare proseliti. Ninfette sensuali e riottose, meglio se di razza mista, imbracciano synth, vocoder e chincaglieria più o meno elettronica per dare vita ai propri personali anthem generazionali. Ne è ottimo esempio l’opener Let Out All The Crazy, dal nuovo album di Quitzow, artista americana che di nome fa Erica e di professione la musicista, produttrice, compositrice e quant’altro. Un concentrato ipervitaminico di ritmi dancey e propulsioni electro, slanci CSS e sintetici appigli Daft Punk virati Kraftwerk, misti a sensibilità pop melodica a grana grossa e aspirazioni da dancehall alternativo (ma non troppo): roba che, man mano scorre l’album, include riferimenti e suggestioni altre rispetto ai canoni di genere (l’hard-pop-rock cafone e sintetico di Money Talks, le ballads radioheadiane Race Car e Race Car 2). La ragazza è eclettica - presta voce e violino anche al nuovo Setting Sun di Gary Levitt che ricambia suonando qua e là - e dimostra di avere attitudine e buon orecchio nel cogliere i trend del momento, piegandoli al proprio gusto personale. (6.5/10) highlight Richard Skelton - Landings (Type Records, Gennaio 2010) G enere : modern cl as sical , ambient folk Riprendo qui quello che Richard mi disse qualche anno fa: “E’ stata la scoperta che certi posti avevano una risonanza acustica particolare - ponti, pozzi e altri posti chiusi - ad attirarmi fuori con la mia chitarra. Quando questo accade, al principio mi sento un po’ vulnerabile, specie se sono da solo, ma diventa subito come una seconda vita. Ora come ora, spesso suono in posti che hanno una risonanza emozionale, più che acustica, sebbene sia davvero grande quando le due cose coesistono. In pratica, Landings è un tentativo di creare una connessione più intima con i paesaggi e di esplorare un senso di identità con i luoghi. Ogni lavoro è “site-specific” e spesso finisce per essere un’offerta musicale, un oggetto che letteralmente si lega al posto in cui è stato fatto”. Poco altro da aggiungere, perché la mission artistica è chiarissima, così come la musica, che ha ormai da tempo lasciato qualsiasi dimensione temporale per legarsi ad una indefinita eternità senza tempo e facendo del suo autore una sorta di paradigma. Nè folk, né classico, né assolutamente niente altro, forte di un linguaggio ormai così personale che è arrivato ad essere del tutto autonomo. A conti fatti non è neppure un musicista tout court, quanto proprio un impressionista, alla maniera dei migliori paesaggisti britannici. E l’uomo come misura e protagonista del paesaggio è il connettore delle emozioni che si muovono in Landings. Una questione a forte presa di fascinazione come testimoniano le parole del libro in copia limitata che accompagna il disco e costituisce una sorta di avvincente e poetico diario delle registrazioni, la cui lavorazione è durata per quattro anni, dal 2005 al 2008, muovendosi nella zona inglese del Lancashire, ed in particolare ad Anglezarke, nella zona rurale di West Pennine Moors. E’ dalla perdita di sua moglie Louise che parte questa sorta di randagismo ristoratore, che comincia a far lentamente fluire energia nuova nelle vene, come si sorprende a testimoniare Richard stesso nel libro: “More and more I was drawn to those low hills, wreathed in heather and pale grasses, and I discovered there something analogous to my own experience of grief: a connection with the land itself through its hidden narratives of displacement and loss; a solace in the regenerative cycles of nature, as enacted in its wood and meadows throughout the changing seasons”. La musica quindi si compenetra con l’elemento naturale, limitandosi non soltanto all’uso degli sparsi field recordings che si avvertono qui e li nel disco, quanto proprio a mimarne l’umore e la cadenza, il ritmo e il respiro. Richard entra così in contatto con due fattorie diroccate chiamate Hempshaws e Old Rachels. Comincia a suonarci dentro, attorno, di fronte. Comincia ad interessarsi alla storia e alle vicende di queste costruzioni. Chi ci ha vissuto, come si sono trasformate nel tempo, che storia hanno avuto. Comincia quasi istintivamente ad immedesimarsi con questi spazi e il racconto stesso diventa la cronaca di una rinascita e di un legame atavico inscindibile dalla propria terra. “Approaching this outcrop of trees, the atmosphere hits me forcibly. The pitiable nakedness of the boughs and branches.The sudden murmuring of the wind. Colluding. I want to make some kind of gesture. An offering. A mark of passing. And to leave it here.Tied to the land”.(8/10) Antonello Comunale Stefano Pifferi Radian - Chimeric (Thrill Jockey, Dicembre 2009) G enere : digital , chamber , post Di quella creatura di carne e circuiti chiamata Radian spendemmo giusti e sacrosanti elogi nell'anno di Juxtaposition, album che segna tuttora il capolavoro del combo, nonché uno dei massimi sunti del dopo Slint. Allora il trio aveva convinto portando, dieci anni dopo, la lezione di Louisville negli anni zero del dopo glitch, e prendendosi il meglio delle intuizioni in fatto di cutting digitale e polveri industrial, succhiando dalla politicizzata Mille Plateaux il meglio che potesse esportare. Poi c'era the other side dei Radian meditativi e a un passo da certe umbratilità cantautorali, vicini, per assunti di partenza, ai cugini Autistic Daughters. Un altro cerchio comple- tava un quadro quasi invisibile mediaticamente, eppure decisivo, di culto massimo. Oggi, dopo quattro lunghi anni da tutto questo, i viennesi ripartono cercando d'azzerare le lancette della memoria senza cedere all'urgenza dell'atto, lasciando così che la "giustapposizione" in missaggio amplifichi, raddoppi, massifichi la semplicità del suonato come un tempo. 63 highlight Terre Thaemlitz/Dj Sprinkles - Midtown 120 Blues (Mule Musiq, Gennaio 2009) G enere : deep ambient house House isn’t so much a sound as a situation... E lo capisci che questo non è un disco qualsiasi. Lo recensiamo a più di un anno dall'uscita, consci dell’imperdonabile ritardo e in seguito all'insistenza con la quale lo abbiamo notato nelle chart di fine anno di mezzo mondo. Non parlarne sarebbe un reato, peccare d'orgoglio diabolico: Midtown 120 Blues è un concentrato stile e 100% anima, l’house che ha in sè il blues, l'omaggio di Terre Thaemlitz ai vecchi tempi dei club newyorkesi; il thrill che attraversava la spina dorsale, la nostalgia del contesto da cui il suono nasce (ovvero la disoccupazione, il movimento gay, il razzismo, l’HIV, la droga, l’alcool) e da lì calarsi in una catarsi prima generazionale, poi etnica e infine universale. Un viaggio in una ambient house dai divini tagli deep che toglie il respiro, salti temporali dal 1990-1991 giù fino al 1986-1987 in 120 bpm di oscurità che riprendono la lezione di Burial e la elevano a purezza estrema, tocchi nel tunnel black che sentivi in Chatterton, pesi massimi dell’analisi del ritmo vincolata da un patto di sangue con la depressione (quindi con la blackness). Trascendono i generi di riferimenti, si diventa pura poesia urbana. Un disco che non si risolve mai, ogni volta che lo si suona ne escono nuove lacrime e nuovi sorrisi. Geniale Terre. Un disco oltre il 2009. Un disco da storia dell'house nation.(7.75/10) Marco Braggion Sparhawk riparte da dove si era fermato, ovvero una voglia di scarica radicale, risalire la miccia fino all'innesco country rock - con escursioni power pop, palpiti psych e qualche tentazione hard - accaduto nella cuspide tra Sessanta e Settanta. Come se tre lustri passati a masticare, affinare, rimpolpare slowcore con la band madre fosse stato una conseguenza di quell'imprinting, un ricercarvi i codici e le declinazioni per il sentire contemporaneo. Capita quindi di sentirci un senso di atto dovuto (non a caso il debutto era omonimo e questo s'intitola semplicemente 2), di missione da compiere anzi compiuta. Ci senti divertissement, inessenzialità ma anche un bel piglio sbrigliato e brusco da roba suonata per arrivare al bersaglio senza troppo garbo né giravolte. Divertitevi allora con l'apocrifo AC/DC di White Wolf, col Tom Petty carburato Big Star di Workin' Hard, col denso mesmerismo da Crazy Horse narcolettici di Electric Guitar, oppure semplicemente con l'innodia gridata al cielo di Hide It Away. Per poi acquietarvi nel drone weird folk di Bless Us All, che ancora un altro po' e ti ricorda un Peter Gabriel nientemeno. Disco tutt'altro che indispensabile, ma ben fatto.(6.9/10) Stefano Solventi Un percorso noto che Chimeric gioca "in sottrazione" proprio per tornare a una purezza caparbiamente messa al centro della scena, un reset simile ai recenti Tortoise (Chimera a ricordarcelo particolarmente) con analoghi risultati per efficacia e riuscita. Tra momenti potenti e filler interlocutori, i richiami alle tenebre Einstürzende Neubauten sono tra le cose migliori, ma complessivamente siamo lontani dallo sturm und drang che aveva reso grande la prova della maturità. Emblematica pertanto la marittima Subcolors che ricorda i fine Novanta di Labradford (già in odor di Pan American) la cui inconsistenza senza impeto, né tensione, né catarsi, rimane senza un perché. (6.8/10) Edoardo Bridda Rebel (The) - The Incredible Hulk (Junior Aspirin, Gennaio 2010) G enere : N on - sense C ountry Ben Wallers è un tipo iper prolifico, si sa. Già da due lustri, parallelamente ai più noti Country Teasers, rilascia materiale solista a nome The Rebel. Le differenze tra i due progetti spesso stentano ad emergere, ma chi ama la voce nasale e stizzita del londinese non avrà di che risentirsi. Del 2008 è l’ottimo Northern Rocks Bear Weird Vegetable (su Sacred Bones) e dell’anno scorso lo 64 scarsamente utile Mouthwatering Claustrophobic Changes! (su Junior Aspirin), il primo un bel disco in pieno stile Teasers, l’ultimo un tedioso collage di rumori gastro-intestinali. Il nuovo, ennesimo, capitolo della saga si posiziona a metà strada. Piccole gemme di country al metadone come solo lui sa (Aiming Low, Getting High) emergono qua e la tra la coltre di demenza DIY. Demenza che è il vero motore e collante, a partire dal titolo, passando per la grafica da bambino disturbato realizzata (ovviamente) dallo stesso Wallers. Fino ad arrivare allo zenith della malattia: la cover di The Forest dei Cure, non suonata come ci aspetterebbe, bensì presa pari pari e incollata nell’album con l’aggiunta di scratch e locked groove. I fan del ribelle sono preparati e solo a loro si rivolge The Incredible Hulk.(6.9/10) Andrea Napoli Retribution Gospel Choir - 2 (Sub Pop, Febbraio 2010) G enere : psych rock Sostituito Matt Livingston con Steve Garrington al basso, e chiamato Eric Swanson (già al lavoro con Maroon 5 e ovviamente Low) al posto di Mark Kozelek alla produzione, il progetto Retribution Gospel Choir di Alan RJD2 - The Colossus (RJ's Electrical Connections, Gennaio 2010) G enere : funk - hop + indiepop Dopo un buon ep di inediti del periodo 2002-2007 (parte di un costoso cofanetto celebrativo uscito a fine 2009), ecco il quarto album di Ramble John Krohn aka RJD2, disponibile in digital download per la sua label personale. Il taglio appare da subito piuttosto compilativo: c'è l'RJ classico, produttore di un gustoso funk-hop di maniera, legatissimo agli anni Novanta (trip-hop Mo' Wax e Ninja Tune; l'RJ degli esordi - ricordiamolo - definito da molti "the next DJ Shadow"), e c'è l'RJ - espostosi col terzo criticatissimo album - autore di canzoncine indie tutte "suonate" e cantate. Si tratta di pezzi funky-soul-pop che strizzano l'occhio agli anni Ottanta (The Glow), artigianali e naiffissimi, animati da una passione tanto sincera da sembrare ingenua, quasi commoventi. Una prova scomposta e imperfetta, ma convincente, graziata da un tocco orgogliosamente inattuale e immediatamente riconoscibile. Disco assolutamente minore, piccolo grande spasso.(7/10) Gabriele Marino Rollerball - Two Feathers (Wallace Records, Febbraio 2010) G enere : avant - rock Ma sì, stavolta partiamo dalla fine. Senza farla troppo lunga col proverbiale “ogni fine è un nuovo inizio” ascoltiamo Spool, traccia finale del nuovo album del collettivo di Portland e lì ci si chiarisce tutto, o quasi. I Rollerball vengono da un altro pianeta e Spool è il portale attraverso il quale ritorneranno lassù, in qualche sperduto ed evoluto pianeta, lontano anni luce da questa nostra Terra così ottusa e miope. Sette minuti abbondanti di droning alieno che sembra la rielaborazione di onde radio perse nel vuoto del cosmo. Letteralmente. Un gioco, ovviamente, il nostro, perché 15 anni e quasi altrettanti dischi dopo l’inizio di una carriera sfavillante e giocata costantemente a livelli altissimi è inutile mettersi lì a tentare descrizioni o elaborare definizioni che non siano la solita accozzaglia di aggettivi tronfi e ritriti. I Rollerball sono loro stessi, da sempre e per sempre e Two Feathers non sfugge alla regola. Punto e basta. Hanno dalla loro la capacità (a questo punto legittimamente ultraterrena) di costruire canzoni che sono minisuite iridescenti, piccoli microcosmi sonori in cui trova degno alloggio ogni genere musicale (psych, jazz, rock, avantgarde) concepito dall’uomo e messo in scena da un combo di grandissimi artisti. Umili e normali, ma con una immensa capacità nel creare sogni in musica. Cosa ben evidente nel dvd allegato che mostra spezzoni di live, qualche video, un mini-film dal titolo Two Brunos (con Ronin e Ovo in giro per l’Europa) e una splendida improvvisazione collettiva con Jacopo Andreini dal titolo Jacopo’s House. Il problema di fondo è che la maggioranza degli umani purtroppo non ha i mezzi per comprendere la Bellezza che i Rollerball sistematicamente pongono di fronte a occhi e orecchie.(7.4/10) Stefano Pifferi Rothkamm - ALT (Baskaru, Ottobre 2009) G enere : E lettronica pura Dunque Frank Holger Rothkamm è un genio per davvero. E' in grado di passare con rimarchevole disinvolutura da tamarrate come il recente Frank Genius Is Star Truck (Flux, 2009: cantata digitale che si risolve in un terribile mesh-up di old-school disco, big beats, acid house...) e la celeberrima Opus Spongebobicum (quaran65 ta variazioni ispirate a - udite, udite - Spongebob) a questo ALT, ossia un vero e proprio arcano sonoro sotto forma di sci-fi ambient music. Quello del misterioso sound-artist e produttore tedesco - ma da tempo stabilitosi negli Stati Uniti - è un affascinante viaggio tra paesaggi sonori lunari (molto simili a quelli ritratti in copertina) che, fuor di metafora, sono suoni di una semplicità disarmante generati con macchine analogiche e disposti nello spazio sonoro con complessi algoritmi (proprio come si faceva una volta) e un'eleganza che è merce sempre più rara in contesti di musica di ricerca. In un'ideale - quanto fantomatico - studio di fonologia vintage, Frank Rothkamm appronta gli ultimi ritocchi a una navicella spaziale che emette sibili, sinusoidi di suono, inquietanti borbottii, drone da ammassi galattici. E che è ferma, ferma ancora per poco. Il consiglio è di imbarcarsi al più presto...(7.3/10) Vincenzo Santarcangelo Scarlatti Garage - Strane idee (SuoniVisioni, Gennaio 2010) G enere : rock L'esordio dei napoletani Scarlatti Garage si sarebbe potuto chiamare anche Heavy Soul. Un Heavy Soul estremamente melodico, finanche pop, decisamente attuale, su un impianto strumentale che tocca funk, punk, wave, canzone autoctona e mid-tempo à la Radiohead. Il soul va rintracciato nel tratto distintivo del gruppo, la voce di Dario Lapellazzuli, sorta di via di mezzo tra Fausto Leali, Paul Weller e Mario Venuti. Identità timbrica che va di pari passo con arrangiamenti senza sbavature, lontani dai beat banali che spesso si ascoltano in produzioni del genere. Personalità per il gruppo non significa sperimentazione o originalità a tutti i costi, ma credibilità. Una credibilità che gli permette di flirtate con il levare in stile Franz Ferdinand di Non è colpa mia senza suonare datato, di citare gli Hives in Mr. Blu su un sax decontestualizzante, di incastrare i Perturbazione su certe chitarre Rolling Stones (quelle di Mixed Emotions) e una melodia rubata ai Sessanta italiani ne L'uomo nero. Per poi ritrovarsi nella sigla di chiusura della trasmissione Demo di Radio Rai con il pop-rock elaborato de La radio. Niente pose e molta sostanza, oltre alla capacità di rinnovarsi nei limiti del trad. rock.(7.2/10) Fabrizio Zampighi 66 Scuba/AA.VV. - Sub:stance - Mixed By Scuba (Ostgut Ton, Gennaio 2010) G enere : dubstep , d ' n ’ b Dopo la migrazione a Berlino, Scuba sforna una compilation di drum’n’bass (ormai confermato come moda dell’anno), jungle (sì, proprio quella con le voci soul dei 4 Hero) e inevitabilmente ambientstep (il biglietto da visita di sempre). Il viaggio - ancorato a ricordi rave '90 - non si fossilizza sul past, bensì sul present perfect del pianeta step con Shackleton, Ramadanman e Joy Orbison, oltre agli inediti dello stesso Paul Rose (e qualche picciotto che si bacia le mani per essere stato inserito in questa selecta). Grande gusto da notti berlinesi al Berghain ma ora è giunto il momento di dare un seguito a A Mutual Antipathy...(7/10) Marco Braggion Seabear - We Built A Fire (Morr Music, Febbraio 2010) G enere : I ndie pop Messo sotto il naso l'indie pop del nuovo lavoro di Sindri Màr Sigfùsson e co. e i profumi parlano una lingua decisamente commestibile e digerita. C'è un sottobosco islandese che vuole un artigianato certosino per le proprie canzoni, e una musica che sa della propria terra e che subisce inevitabilmente il fascino delle americhe. Dalla svolta adulta dei Mùm non si torna indietro, dalle coralità canadesi neppure e così, mentre i tempi di elettroniche e astrattismi s'allontanano definitivamente, lo scenario dei Seabear si tinge di un bel folclore a diverse latitudini (fanfare, bandismi di paese, feedle di strada...), oltre alle consuete strutture country e rock. La particolarità di questi arrangiamenti è la mancata urgenza d'esecuzione (oltre che la loro eccessiva rotondità). Se oggi sembra essere una regola ascritta, per Sindri vale la strategia opposta: docilità e maniera ordinano ogni cosa, persino strofe e ritornelli la cui scrittura mostra non poche perplessità e dubbia personalità. Emblematica a tal proposito l'impalpabilità e la piatta riuscita della nuda ballata piano/voce (e crescendo) Cold Summer, come sgamatissimi gli airbag melodici sia quando si rifanno a Sufjan Stevens (Wooden Teeth) sia quando riecheggiano i Radar Bros (Leafmask). Il difetto è quello dell'indiepop, del resto l'antidoto di We Built A Fire l'abbiamo capito: certosino artigianato che alle volte si basta e vuole bastarci.(6.3/10) Edoardo Bridda Secondamarea - Canzoni a carburo. Memoria e miniera (Stampa Alternativa, Novembre 2009) G enere : canzone d ' autore In Italia le miniere le hanno chiuse, ma solo per spostarle dove manodopera ed estrazione costano meno e fanno morti più silenziosi. I giacimenti dismessi sono diventati musei o peggio discariche illegali (ma anche legali) di materiali altamente nocivi. Canzoni a carburo. Memoria e miniera ravviva in un disco di quindici canzoni e un libro non meno denso la memoria di un mestiere maledetto e dimenticato come quello del minatore, che fece morti (Marcinelle, Monongah, Courrières), spacco famiglie e schiene, e con la silicosi i fiati di tanti uomini, fino alla morte, adulti quanto bambini. I Secondamarea, duo toscano formato da Ilaria Becchino e Andrea Biscaro, hanno fatto prima di tutto un lavoro di ricerca tra la storia e la letteratura, radunando nel libro tante foto importanti, e poi stralci di articoli di giornale, atti di convegni e brani di Bianciardi, Pasolini, Weil e dello scrittore-minatore sardo Manlio Massole. A completamento le canzoni, per lo più autografe o vergate su testi dello stesso Massole, ma anche di Bassani ed Erri De Luca, in canovacci di folk scarnificato, per chitarra, contrabbasso, qualche volta fisarmonica e clarino (di Gabriele Mirabassi), con la voce della Becchino vibrante e popolare lungo la strada di Giovanna Daffini e soprattutto Caterina Bueno e quella di Biscaro più normalizzata, quasi dimessa. Una raccolta di tracce dai toni elegiaci ed austeri, che nel descrivere la vita di miniera evitano ogni eroismo e nostalgica revanche, andando invece a sondarne tanti aspetti, dalla condizione femminile allo spopolamento di intere città (la desolata Ombre, dove le due voci s'incrociano), e mettendo bene in chiaro - vedi la vigorosa reinterpretazione del tradizionale Maremma in chiusura - come la storia di uomini e donne senza nome mandati sottoterra prima del tempo, e spesso per rimanerci, faccia parte della spina dorsale di questo Paese disgraziato e di questo pianeta tutto, ieri come oggi.(6.8/10) Luca Barachetti Setting Sun - Fantasurreal (Young Love, Febbraio 2010) G enere : pop L’eleganza austera dei Tindersticks, l’accessibile ricercatezza di Beatles e figliocci, la malinconica e cristallina classe dei Black Heart Procession. No, non esattamente in quest’ordine e nemmeno fino in fondo, in realtà, ma il nuovo album di Gary Levitt a.k.a. Setting Sun può ricordare questi mostri sacri per la capacità di scrivere canzoni pop sofisticate e affascinanti senza risultare mai banale. Ora solari e spensierate (Into The Wire), ora inclinate sul versante più psych-pop (Driving), aperte verso suggestioni mediorientali (I Love Mellotrons) o reminiscenti del pop obliquo della Beta Band (Make You Feel), tradizionalmente americana (The Tree, Handsome Bridge) alla maniera del Tom Petty meno banale o memori di certe melodie umbratili e tristemente fanfaresche di Pall Jenkins (One Time Around): le canzoni di Fantasurreal sono quadretti pop a tutto tondo, crocevia di suoni e sensazioni che si trasformano in piccole gioie grazie alla naturale e misteriosa alchimia che incolla l’ascoltatore allo stereo. Una mezz’oretta di evasione da consigliare a tutti. Indistintamente.(6.7/10) Stefano Pifferi Shearwater - The Golden Archipelago (Matador, Febbraio 2010) G enere : indie prog A giudicare un disco dalla copertina si fa peccato, tuttavia qualche volta si s’azzecca. Dietro un’orrida foto metà ultimi Pink Floyd e metà Alan Parson Project si nasconde The Golden Arcipelago, terzo pannello di un trittico iniziato nel 2006 da Palo Santo e, due anni più tardi, dal convincente Rook. Lavori che in ambito indie trafficavano col vituperato “concept album” senza raggiungere le vette di Decemberist o Richard Buckner, ma nemmeno scadendo in autocompiacimento e prolissità. Che sono esattamente le tagliole in cui il deus ex machina Jonathan Meiburg incappa qui, complice la presenza al mixer di un John Congleton non contento dei disastri combinati con i Black Mountain. Va infatti benissimo discutere di problematiche ambientali e ricordi di famiglia, meglio ancora se documentandosi sul campo con viaggi nella Terra del Fuoco e alle Galapagos, ma altra faccenda è affidare il tutto a una pacchiana grandeur sonora. Prendete la buccia dei Talk Talk di The Color Of Spring, allorché lasciavano il new pop per spingersi oltre il rock; venatela di folk e soprattutto progressive e soffiateci dentro il gigantismo 67 dei Simple Minds. Poiché di Arcade Fire non ne nascono a ogni decennio, accade che una scrittura di già sottotono rimane soffocata da arrangiamenti enfatici, ridondanze ritmiche e vocalità lamentosa. Uniche oasi autenticamente affabulatorie, le soffuse An Insular Life e Missing Islands non arginano prosopopea e irritazione. Più una palude che un arcipelago, insomma.(5.5/10) Giancarlo Turra Silver Mt. Zion Orchestra & TraLa-La Band - Kollaps Tradixionales (Constellation Records, Febbraio 2010) G enere : post - rock Esistono molte differenti maniere per affrontare un cambiamento. Sin dall’inizio un collettivo, la Banda del Monte Sion ha dimostrato in otto anni una solidità d’intenti e azioni rara, invidiabile; attestati di rilievo la discografia a cadenza regolare e senza macchie e il sostegno, di questi tempi ancor più struggente, a Vic Chesnutt in una fase altissima della sua carriera. Ragion per cui c’era attesa attorno a questo sesto disco, frutto di un non indifferente rimescolamento d’organico avvenuto nell’estate di due anni fa. C’è un nuovo batterista - David Payant: solido e preparato - a compensare la dipartita di un “Tra-La-La Band” nella ragione sociale e di tre membri. Succede dunque che, di fronte alle scelte, si fa quadrato attaccandosi a ciò che meglio si conosce, pur con un atteggiamento diverso. Ridotta a quintetto (ecco gli archi di Sophie Trudeau e Jessica Moss ancorati al basso di Thierry Amar), la ribattezzata Thee Silver Mt. Zion Memorial Orchestra toglie gli ultimi veli rimasti all’umanità del suo post-rock con risultato sublime, che dona concretezza e calore a un genere che preferiva il distacco oggettivo e l’accantonamento delle emozioni. Conseguenza ne è che l’album sia, più del solito, un bagno di spiritualità che risale ai padri fondatori (Kollaps Tradicional: gli Amon Düül II che rileggono Scarborough Fair; I Built Myself A Metal Bird: echi di Can e dei Savage Republic maturi). Ritrovi i tratti caratteristici di uno stile e non potrebbe essere altrimenti: presenti all'appello l'impasto strumentale, le pause e i riverberi che spazzano via, quel linguaggio composito eppure mai balbettante, la voce di Efrim Menuck che scava dentro l’anima. L’insieme è tuttavia meno apocalittico, sovente addirittura 68 elegiaco con un piglio virile (‘Piphany Rambler, There Is A Light), così da condensare ansia e rabbia come soltanto a una certa età si può: ragionando calmi prima di uscire a spaccare le vetrine. E solo se necessario, senza scadere nel melodramma o nella prosopopea, senza parlarsi né suonarsi addosso, senza consegnare il genio ai vicoli ciechi. Raccogliendo la propria poetica in un solido gheriglio la si è resa più vibrante, nel frattempo mostrando che le cose sono cambiate. E’ una nuova pelle, un’altra identità che della precedente trattiene lo spirito. Per questo scintilla più che mai.(7.3/10) Giancarlo Turra Sister Iodine - Flame Desastre (Editions Mego, Novembre 2009) G enere : A vant -N oise Sister Iodine è in giro sin dall'inizio degli anni '90. All'epoca la band suonava una sorta di noise/no-wave e condivideva palchi con Faust, Sonic Youth, The Ex. Fermi per oltre sette anni causa il trasferimento di uno dei componenti negli States, tornano in scena nel 2007 con Hale, quindi Flame Desastre, dapprima uscito in vinile per Premier Sang e, in seguito, in cd per un'insolita (per il genere trattato) produzione Editions Mego. Di fatto, dopo il lungo iato, il trio francese il tiro l'ha spostato parecchio: un noise-rock di chitarre e sintetizzatori dalla grana ruvida più simile a Wolf Eyes e Hair Police che a DNA o Mars; rispetto ai toni disperati della band di Ann Arbor però, il rumore qui è arreso, remissivo. Densi fasci di frequenze si muovono lineari, come conati di suono, pulsano ordinati lungo le scheletriche cadenze ritmiche in un incedere circolare. Il rumore è confinato in uno stretto controllo come se il loro intento fosse l'esistenzialismo francese, noise rock allo Spleen.(7.1/10) Leonardo Amico Skiantos - Phogna (Universal, Dicembre 2009) G enere : R ock demenziale Si può annunciare un disco "serio" fatto di brani "più intimisti" e definirlo il "The dark side of te Skiantos" sbagliando l'ordine dei titoli in copertina? Si può e oltretutto, le note parlano della "prima volta" degli Skiantos, gente che dei brani inediti di quest'eppì ne fanno dal 1989 (da Troppo rischio… fino al recente live Skonnessi). Tentativo d'aggiornare l'immagine o no soltanto Deserto di parole (ballata rock senza ironia e giochi di parole, danneggiata da una produzione 80s) corrisponde agli slogan e ci troviamo una riuscita cover di Uno di questi giorni ti sposerò, un Tenco che era diffi- highlight Toro Y Moi - Causers Of This (Carpark Records, Febbraio 2010) G enere : poptronica glo - fi Cosa resterà degli anni 80? Sentendo il debutto di Chaz Bundick, la sensazione è che restano eccome. L'onda lunga del revival Ottanta non ne vuole sapere di scivolare via dalle lenti (antiriflesso) degli occhialuti nerd d'oggi, e attenzione ai metri quadrati in cameretta. Per Causers Of This, primo di una doppietta annunciata di long playing, troviamo un ragazzo a stendere ponti ideale tra l'america di provincia glo e le istanze Ottanta Novanta della chillout (Thanks Vision) e da lì risalire al presente bbreaking di Bibio e compagnia vintage step (Lissoms, Freak Love) fino a certi Animal Collective (Blessa). I tocchi di clavietta Bontempi da festina delle medie (Low Shoulder), la lounge blackness dal tocco funk diluito (Imprint After), oppure il soul soundtrack da soft porno firmato Joe D’Amato (You Hid), la dicono lunga anche sulla varietà del proposto. Se Washed Out, lavava via letteralmente gli Ottanta sgocciolandoci qualche lacrimuccia da coccodrillo, lui, con spocchia intellettualoide che chiama Londra (e quel fascino discreto borghese) incarna l'androgino in ritirata suburbica tra droghine sintetiche e un doppio alla Playstation. L'alloggio è di stanza Brooklin e non più nell'america veramente tale. Tra tutti i glo-fier sarà anche il più paraculo, nondimeno è uno dei più scafati e ammalianti nel dominare le influneze emerse fin'ora nel sottobosco dei paesi che masticano l'English. Toro non guarda indietro rincorrendo qualche trip amniotico, gioca con l'House di Knuckles e taglia di laptop. Lo metti in pista e fa ballare senza troppe seghe (Lissoms), Blessa infine, già singolo pubblicato nel 2009, ne è il perfetto biglietto da visita. Come se i Collective venissero stravolti da Washed Out. Da avere.(7.2/10) Edoardo Bridda cile immaginarsi rock-blues e invece ne esce benissimo, torrido il giusto e credibile nella distanza dall'originale.(6.8/10) Giulio Pasquali Sole/Skyrider Band - Plastique (Fake Four Inc., Ottobre 2009) G enere : electro - rock - hop Per tutto il 2008-2009 la crew Anticon - dentro e fuori dalla label - ha alternato prove in cui è parsa riprendersi dal torpore in cui era caduta dopo i primissimi Duemila ad altre in cui si è mostrata la stanca portavoce di un'estetica fuori tempo massimo che probabilmente è. A quest'ultima categoria appartiene anche la seconda uscita di Tim Holland aka Sole (uno dei fondatori di Anticon, rapper capace di affilati stream-of-consciousness ma finora sempre poco decisivo sotto il profilo musicale) assieme alla Skyrider Band (il produttore Bud Berning, il giovanissimo musicologo e polistrumentista William Ryan Fritch, il batterista John Wagner). Meno apocalittico del precedente, sempre calato però in un'atmosfera ansiogena, frutto del ritiro di Sole lontano dalla città e immerso nelle sue letture (dal filosofo della postmodernità Jean Baudrillard al vate americano Walt Whitman), è - ancora una volta - una serrata invettiva contro il mondo di plastica in cui viviamo. Fin qui. I pezzi però - anche quelli migliori, come la Battlefields col feat di Archer dei Notwist - deludono tanto per le basi (che peggiorano la maniera Anticon in un rock-elettroindustrial appesantito da tante enfatiche emo-tastiere, basi alla fine un po' tutte uguali tra loro), quanto per il rappato (che, pur serrato e aggressivo, non intriga mai davvero), quanto ancora per le lyrics (sempre abbastanza "qualunquismo contro"). Un riciclo non particolarmente ispirato.(4.9/10) Gabriele Marino Souljazz Orchestra (The) - Rising Sun (Strut Records, Febbraio 2010) G enere : afro jazz I precedenti lavori per Do Right!, Freedom No Go Die (2006) e Manifesto (2008), hanno imposto la Souljazz orchestra come fervida realtà dell’odierno panorama neofunk-afro-jazz. Il passaggio nella casa del rinato Mulatu Astatke, ne consolida la posizione. Presentato come il loro album afro-jazz acustico, The Rising Sun combina la 69 highlight Vampire Weekend - Contra (XL Recordings, Gennaio 2010) G enere : pop Hype incredibile, per Contra, forse di una consistenza mai vista nell’indie internazionale. Non si tratta solo dei soliti fake buttati nei p2p, o delle anticipazioni e delle pillole che non fanno che aumentare l’astinenza: attorno al seguito del self-titled dei Vampire Weekend si è creata un’attesa di una qualità diversa, trasversale, perchè instillata non solo nei fan ma anche nella critica. Con una settimana di anticipo rispetto all’uscita ufficiale, è ufficialmente lanciato il fotofinish del recensore, grazie alla pubblicazione sul My Space di tutto l’album, che macina migliaia di click al giorno. E non c'è un ma: la band dimostra di saper fare il mestiere che è chiamata a fare, ovvero, al di là di tutto, scrivere canzoni convincenti. La formula non cambia, a primissimo ascolto. Il rondò in levare di Holiday rasenta la manualistica (nel rapporto refrain / strofa, pieno / vuoto) quanto la perfezione, specie nell’incastro di comprensibilità ed efficacia complete di chitarra e batteria. Due minuti o poco più. I VW sanno quando essere più scoppiettanti (sentite il tiro di Cousins, ma forse l’avete già fatto, guardando il video da un po’ presente sul tubo) e quando esserlo meno (Taxi Club). Sanno come guardarsi allo specchio ma anche come prendersi qualche libertà, nella forma di parziali aperture negli arrangiamenti. Questi ultimi sono la vera novità che c’è e non c’è. O meglio, c’è, ma con l'oculatezza di mettere il marchio inequivocabilmente VW sulle molteplici peregrinazioni presenti a volte dentro lo stesso brano. Estraendo dal cilindro, sul finale di Run (episodio armonicamente meno convincente), persino i New Order. Oppure occhieggiando divertiti e tra le righe alla dance hall, in Diplomat’s Son, prima che gli archi e la drum machine ci portino su altri paesaggi. E, volgendo al termine, allentando la presa in I Think Ur A Contra. Contra è l’ideale compendio di Vampire Weekend. Solfeggio di cantautorato balearico, Police-iano, indorato e comunque secco, diretto, attualissimo. Esercizio di stile pop. Auto-manuale. Una sostanziale conferma di uno stile unico al mondo, fatta dal di dentro, perché in realtà i vampiri stanno giocando con se stessi, lo abbiamo capito. Per un sophomore è già molto, no?(7.2/10) Gaspare Caliri febbrile verve di Fela Kuti con certo jazz trascendente, in primis Pharaoh Sanders ma anche Marcus Belgrave. Dopo l’inizio di velluto (Awakening), le danze partono con l’afro-beat di Agbara a cui seguono gli arabeschi Ethiojazz di Negus Negast. Più spirituale di Nomo e Budos Band (ma meno in your face degli Antibalas), il combo canadese sa farsi easy listening senza cadere nel kitsch (Lotus Flower e Serenity sembrano farina del miglior Belgrave) vestendo panni post-bop come si usava alla Blue Note (Consecration). A chiudere, nonché a confermare, la ripresa di un classico minore dello stesso Pharoah Sanders, Rejoice (dall’omonimo lavoro del 1981), diviso in due parti e fastoso come in origine. Il fan Gilles Peterson dalle frequenze della BBC di sicuro apprezzerà. Nondimeno noi.(7/10) Gianni Avella 70 Spiral Stairs - The Real Feel (Matador, Ottobre 2009) G enere : mid - life indie rock Ha anche un pregio lo scioglimento di una band. E cioè che, da quel che avviene dopo, sovente ne capisci meglio le dinamiche interne, il fatidico chi faceva cosa. Valga per tutti l’esempio dei Pixies, nelle cui fila Kim Deal sembrava una comprimaria finché non ebbe modo di respirare a pieni polmoni con le Breeders. In termini contrari, confermano l’assioma di cui sopra anche la produzione di Stephen Malkmus - svanito dietro la propria controfigura - e anche quella di Scott Kanneberg a/k/a Spiral Stairs. Le sortite a nome Preston School Of Industry si arenavano infatti dentro a un limbo incolore, nell'incapacità di rifarsi una vita artistica credibile come - tanto per restare tra “slacker” cresciuti - ad esempio un Lou Barlow. Questione di indole(nza) e di giocare di retroguardia an- che nel momento in cui si esce da dietro il paravento di una band e ci si aspetta una dichiarazione più significativa del solito, non sorridente gregariato che manco s’avvicina a una canzone minore del gruppo madre. Vaga tra corridoi bui e stanze vuote tenendosi stretti ricordi di gioventù fatti di risciacquature Modern Lovers , mediocrità sixties o country-rock, ogni tanto uno stanco inseguire gli Smog. Siccome due indizi fanno una prova, si capiscono i retroscena della recente reunion dei Pavement.(5/10) l'intera l'operazione sembra francamente poco interessante. Nota a margine: Wilson cura le ristampe audiofile per i Crimson; Harrison, batterista dei Porcupine, suona come membro aggiunto nei Crimson dal 2007; Pat Mastelotto, batterista dei Crimson dal '94, è qui presente con un suo remix. Che ha il pregio di avere un suono immediatamente riconoscibile: quello del bruttissimo The ConstruKction of Light (2000). Gli altri a remixare sono i Dälek e Sitek dei Tv On The Radio: delusione.(4/10) Giancarlo Turra Gabriele Marino Stan Ridgway/Pietra Wexstun Silly Songs For Kids, Vol. 1 (A440, Ottobre 2009) G enere : E lectro western Uscito prima in versione EP digitale e poi in full-lenght fisico, il curioso progetto vede l'ex Wall Of Voodoo e signora dedicarsi alla musica per l'infanzia (benché non ci risultino piccoli Stans e pur se autore e fans dovrebbero essere ormai grandicelli per la cosa). Lontano dalle favole in stile folk britannico con tocco psichedelico Lewis Carroll nell'analogo progetto di Donovan del 1971 (il classico H.M.S.), i due si ispirano, con l'eccezione delle puntate celtiche di Leprechaun Cave Of Candy e Tale Of The Sea Witch, al country maturo ed evoluto che caratterizza la recente produzione ridgwayana arricchito da tipiche incursioni di jazz notturno (Spider's Web), spruzzate di elettronica (Feelin' So Lazy) e r'n'r (Kooky's Cuckoo Clock). La terra fantastica popolata di elfi e animali gode d'ispirazione, meno le vocine per bambini che fanno torto a qualche pezzo (vedi Mountain Top). Ad ogni modo esperimento riuscito rivolto a grandi e piccini; entrambi, ne siamo sicuri, ugualmente inquietati dallo stile infantile e minaccioso del Mark Ryden che firma la copertina.(7.1/10) Giulio Pasquali Steven Wilson - NSRGNTS RMXS (Kscope, Agosto 2009) G enere : psych - ambient - prog Questo mini raccoglie i sei "vincitori" del concorso online per i migliori remix da Insurgentes di Steven Wilson (il leader dei Porcupine Tree). Ora, posto che quel disco non era proprio un discone (nebulosa psichedelia ambientronica filtrata da una sensibilità prog; ogni parola pesata nella sua accezione negativa), posto che i remix remixano poco (tanto gli Engineers, quanto i Danse Macabre aggiungono un pianoforte; Dirk Serries aka Fear Falls Burning toglie invece praticamente tutto), Stonephace - Stonephace (Tru Thoughts, Maggio 2009) G enere : jazzrock / fusion Larry Stabbins ha cominciato a suonare professionalmente a sedici anni al fianco di Keith Tippett (tastierista progjazz - marito di Julie Driscoll - che i rockofili ricordano su alcuni dischi dei King Crimson come Lizard e Islands) e per tutta la vita è stato diviso tra il radicalismo di gente come Peter Brötzmann e un amore profondo per il funksoul muoviculo, declinato spesso e volentieri nelle forme più pop di progetti come i Weekend, costola stattoniana degli Young Marble Giants, e i Working Week, costola della costola. Questo Stonephace è una delle sue prove migliori di sempre, se non la migliore. Accanto a Stabbins (sax e flauto) troviamo Adrian Utley e Jim Barr (rispettivamente, chitarrista e bassista-turnista dei Portishead; per inciso, Stabbins è di Bristol), Helm DeVegas alle tastiere elettriche e Krzysztof Oktalski al laptop. Gli interventi elettronici si fanno evidenti giusto negli interludi (piccoli siparietti che oscillano tra il trip-hop e l'ambient rumorista) e in certe sfumature effettistiche come il dub-echo applicato al rimshot (sottolineamo pure che le batterie sono tutte campionate, ma la cosa quasi non si capisce), mimetizzandosi per il resto perfettamente nel suono acusticoelettrico degli altri strumenti. Stonephace guarda piuttosto alla Mahavishnu e allo Zappa anni Settanta (altezza Grand Wazoo), con inflessioni di prog-canterburiano, speziature funk e venature latin-etno su una base solidamente jazzrock. E' un disco festoso, a tratti amazzonico (nell'evocare l'intricatezza della giungla), ispiratissimo sotto il profilo melodico, avvincente nel solismo, soprattutto in quello del leader e di DeVegas, fusion con tutto il corredo di tempi dispari 71 e giochi di accenti proprio del genere, ma senza eccessi e senza noia. Un disco vecchio stile (basti sentire il riverbero che accompagna il sax), un disco generosissimo.(7.5/10) Gabriele Marino Teepee - Morals (Senzei, Dicembre 2010) G enere : synth - weird - pop Spuntano come funghi (allucinogeni) i progetti collaterali nella scena weird-no-fi-garage. E spesso sono anche di pregevole fattura. Ne è testimonianza l’esordio lungo di Teepee, nom de plume in solitaria di Eric Lopez, già uso a seviziar chitarre dei misteriosi Electric Bunnies e qui alle prese col proprio universo di fantasmi in chiaroscuro e prospettive a tutto tondo. Una manciata di 7”, qualche nastro come al solito e ora Morals a sgrezzare l’ormai nota materia prima. Slabbrati quadretti shitgaze con abbondanza di synth in saturazione (Subconscious), strambe ipotesi di taranta-wave paranoica (Tecum Uman), cold-wave ora malinconica (Your Majesty), ora in the vein of Suicide (Sewing Machine), triste synth-pop figlioccio dei J&MC (I Told You So), pantani melmosi di drone lugubri (Yes You Khan Bismillah, No Mans Land), addirittura folk apocalittico limitrofo ai Death In June (Satisfied). Tanta roba, eppure, a favore dell’album, gioca paradossalmente la coesione e non l'accozzaglia di già sentito. Morals riesce infatti nella fusione delle istanze elettriche ed elettroniche dell’odierno suono weird americano. Dargli del bignami sarebbe riduttivo oltre che ingiusto.(6.9/10) Stefano Pifferi Tindersticks - Falling Down A Mountain (Beggars Banquet, Gennaio 2010) G enere : chamber pop Li avevamo lasciati con il comeback The Hungry Saw nell’aprile 2008, ultimo album del gruppo dopo 5 anni, a cui è seguito un tour di successo che è culminato in Hyde Park nel luglio 2009. Stuart A. Staples e compagni si sono dovuti allora per forza di cose confrontare con il loro passato e un presente da continuare a scrivere. Così è nato Falling Down A Mountain, loro ottavo disco in studio. Nel frattempo due nuove aggiunte, il batterista Earl Harvin e il chitarrista e vecchia conoscen72 za David Kitt e la guest Mary Margaret O’Hara in duetto in Peanuts. Il nuovo album riparte dal precedente, intimo e soffuso, con il consueto carico di dolenze, per superarlo man mano, in un mix dello Staples solista e dei rinati Tindersticks. Percussività, talking Lou Reed in più di un’occasione, ma sostanzialmente c’è tutto lo stile del gruppo, arricchito dalle nuove presenze, per un lavoro che prosegue la storia del gruppo senza citarsi troppo addosso. Bene.(7/10) Teresa Greco Tomasz Bednarczyk - Let’s Make better Mistakes Tomorrow (12k, Giugno 2009) G enere : elettronica / ambient Terza trattazione in meno di due anni per Tomasz Bednarczyk: due uscite con la Romm40, e ora il debutto con Let’s Make better Mistakes Tomorrow per la 12k a svelare ancora una volta un’inclinazione naturale all’ambient più sommesso. L'album si muove in punta di piedi tra docili drones e fragili texture (Kyoto), ombre (While), contemplazione (Drawing), loop elettroacustici (Shimokita), field recording o crackle (The Sketch). Dieci processi di malinconia - qui in forma breve - che a cercarne i contorni ci ricordano Mathieu e Hecker, pur con i modi disperatamente romantici del William Basinski. Un altro nome da aggiungere alla lista degli autorevoli scultori del suono.(7.2/10) Sara Bracco Transitional - Stomach Of The Sun (Conspiracy Records, Settembre 2009) G enere : D rone - I ndustrial Il bassista dei Transitional non è un nome nuovo nel giro sludge-industrial. Sodale compagno di Justin Broadrick, Dave Cochrane era con lui negli Head Of David (ora freschi di reunion) e più recentemente ha collaborato con Jesu in alcuni live tour. A completare il quadro, inoltre, la materia trattata dal trio non si discosta molto dalle ambientazioni di quello che di Broadrick è stato il progetto più significativo, i Godflesh. È da quelle stesse sorgenti che Stomach Of The Sun sembra trarre linfa vitale, nonostante gli arrangiamenti siano debitamente aggiornati agli standard Isis e alle loro dinamiche rallentate (fino a rendere inevitabile l'etichetta drone). Fatta eccezione per le dilatate scariche di elettronica granulosa dell'introduzione (suono che svolge un ruolo duale al silenzio, nell'economia dell'album), i Transitional suonano ritmi cadenzati in ampi riverberi sotto netti colpi di chitarre, siano essi cupi fendenti o controllate dissonanze. La voce - mai predominante - si presenta violenta in Pyramid, per poi passare agli stranianti effetti vocoder di Hideaway (anche i Transitional riescono come i Boris in Altar - nella fragile arte di non suonare come una giustapposizione Kraftwerk-Metal, nell'utilizzare questo effetto). Al brano omonimo, con il lungo claustrofobico riff, va il riconoscimento di pezzo migliore dell'album. Si chiude con Worst Eyes Shut, che all'ambient della prima traccia aggiunge un drumming frenetico ed impazzito, degna conclusione di un album che non è male davvero.(7/10) Leonardo Amico UnePassante - More Than One In Number (Anna The Granny, Gennaio 2010) G enere : folk / funk / pop Attitudine freak à la Ani Di Franco e a una trasversalità che spazia dal pop, al jazz, al funk, a un classicismo orchestrale che non ti aspetteresti. La base rimane un interplay virtuoso tra chitarra acustica, contrabbasso, batteria, percussioni, in linea con le aspirazioni autoriali del progetto di Giulia Sarno - autrice di tutti i brani -, Guido Masi, Sergio Schifano, Michele Staino e Simone Sfameli. Dodici episodi adatti un po' a tutti i contesti, tra suoni da camera virati pop (Wreckage) e un Leonard Cohen da jazz club (A Une Passante), i Novanta indie della Di Franco citata in apertura (Bats, Rats & Cats) e ambienti folk rarefatti (You Are Music). Punto di forza di More Than One In Number, il sostanzioso lavoro in fase di arrangiamento e produzione ad opera dei musicisti, di Gianluca Cangemi e di Gianmaria Ciabattari. Più che una semplice cornice d'autorevolezza, uno sviluppo supplementare capace di capitalizzare i pregi di una scrittura “totalizzante” che ricorda una St. Vincent in chiave chamber ma senza le torsioni metropolitane tipiche della musicista newyorkese.(7.1/10) Fabrizio Zampighi Uxo - Uxo1 (Queenspectra, Dicembre 2009) G enere : uonchi bbreaking La via italiana alla contaminazione tra hip-hop electro e sampling parte da gente come Marco Acquaviva. Il tag per il produttore milanese è uonchi, italianizziamo cioè la nozione UK e ci ritroviamo in un percorso che ha le mani in pasta con una sensibilità beat addicted de noantri. Il localismo implica un’amore tutto italo verso la melodia già sentita sulle prove fidget di Congorock e qui arricchita da vocine in elio, accenni glo (Exploitation), synth 80 (The Cheapest Space Travel), sirene grimey (Beginning) e trucchetti che faranno impazzire i nerd dietro la consolle. Marco passa senza problemi dalle visioni di Badalamenti ai beat di Dabrye e Madlib. L'eterogeneità segue un percorso personale che parte dalla fascinazione per l’abstract-hop (grazie probabilmente ai suoi trascorsi street) e arriva alle proposte ritmiche d’oltremanica in una lunga sequenza di tracce stringate che al massimo superano i tre minuti. Brevi pezzi manipolati artigianalmente con l’old school analogica nell’anima e il manuale di Ableton Live nella testa. Un piccolo manifesto a tratti interlocutorio ma che probabilmente getterà la base per un proseguio più omogeneo. Aspettiamo con fiducia il botto. E magari la nascita di una scena. Chiediamo troppo?(6.9/10) Marco Braggion Xiu Xiu - Dear God, I Hate Myself (Kill Rock Stars, Febbraio 2010) G enere : art pop Gli Xiu Xiu sono stati uno degli avvenimenti sonori degli anni zero, che hanno segnato grazie ad una calligrafia inconfondibile, caratterizzata da un sovraccarico drammatico con pochi precedenti e ancor meno eguali. Il canto di Jamie Stewart si poneva come una mutazione di genere e generazionale del lirismo ineffabile d'un Mark Hollis, strattonato da fantasmi wave e dark, sospeso tra implosione ed esplosione emotiva, tra stordente disillusione e pathos cupo. E' comodo dirlo adesso, ma appare inevitabile che quel punto di forza finisse per rivelarsi una prigione. Questo Dear God, I Hate Myself - album numero sette in otto anni - azzarda un frastagliato repertorio di espedienti electro a bassa fedeltà (pare che sia stato utilizzato anche un Nintendo DS) come guarnizioni per variare la portata. Ma è tutto inutile. Benché non manchino buone intuizioni - la delicata Hyunhye's Theme, quella Chocolate Makes You Happy che assieme alla title track rappresenta l'apice catchy di tutta una carriera - resta più che in filigrana la sensazione di un panegirico funereo già sentito troppe volte. E che non hai troppa voglia di stare ancora a sentire. Stewart ha talento da vendere e un'integrità indiscutibile. Credo sappia benissimo quanto sia necessario ripensarsi artisticamente, ma non è certo grazie ad un 73 maquillage a base di balzani stratagemmi sonici che ci riuscirà.(5.8/10) Stefano Solventi Yeasayer - Odd Blood (Secretly Canadian, Febbraio 2010) G enere : synth pop E menomale che doveva essere il disco della maturità! Questo secondo lavoro della band di Brooklyn puzza di flop lontano un miglio e ci sono davvero poche speranze che non vada a finire tutto in rovina. Non certo da un punto di vista strettamente commerciale, visto che tra hype (indirizzato) - marketing (evoluto) e video + teaser mp3 disponibili, più o meno volutamente, già da mesi, c’è da coprirci almeno le spese di registrazione, tanto poi vai di tour e almeno il piatto in tavola è assicurato. Quello che lascia basiti è la drammatica involuzione stilistica di una band che al primo disco aveva tutte le cose al posto giusto. Non dico che potessero mettersi sullo stesso piano dei Vampire Weekend, ma le premesse tra gusto eighties, tribalismo modaiolo e coretti glam ci stavano tutte. Odd Blood accoltella subito allo stomaco la nostra buona volontà con il pachidermico synth dell’iniziale The Children; ci spezza le gambe con l’animalismo collettivo di riporto del primo singolo Ambling Up (con video però ipnagogico a base di effetti cheap anni ’80 e malattia jodorowskiana!); ci sventra gli intestini con i coretti leziosissimi delle zuccherose Madder Red e I Remember. Con One siamo dalle parti del peggiore synth pop anni ’80, qualcosa di informe che si muove tra la prima Madonna, i Pet Shop Boys e gli Spandau Ballet, e il rantolo in gola comincia a spezzarsi definitivamente. Nemmeno la forza di gridare ci viene concessa quando appaiono Love Me Girl e Rome, parodie non si sa quanto volontarie di mezza classifica Billboard di un anno qualsiasi tra il 1983 e il 1989. Tutto suona posticcio e artificioso, senza un minimo di quella nostalgia malinconica che teneva le sorti del primo disco ancorandolo al ricordo degli anni migliori. Qua la band di Chris Keating si è messa a rovistare nel bidone della spazzatura. Poi, per un qualche incredibile scherzo del destino, tutto questo potrebbe anche suonare bene a qualcuno che nel 2010, in crisi dopo la morte di Michael Jackson è disposto a scendere a patti con il peggio del pop e fare due più due, mettendo in relazione Mondegreen e Thriller, ma noi a fine disco ci arriviamo praticamente in una pozza di sangue, senza più un briciolo di vita, che a guardarci anche il coroner ha un sussulto di pietà.(4.5/10) Antonello Comunale — libri Rock, amore, morte, follia e un paio d'altre sciocchezze che i nipotini dovrebbero sapere M ark O liver E verett (E lliot , 2009) Poco appropriato parlare di “conferma” nel caso dei transalpini Zëro. Perché se è vero che la prova del secondo album viene affrontata con disinvoltura e sapienza, allo stesso modo si tratta di gente in circolazione - come Bästard - da un decennio e passa. Che, ciononostante, appare ben lungi dal placare la propria furia, avendola semmai incanalata dentro strutture vieppiù meditate, in martellamenti che non danno tregua, in creatività senza limiti espressivi. I quali possono essere tuttavia unificati tramite un prefisso per ben due volte assai magico nella musica leggera e cioè post: da anteporre ovviamente a “rock” e “punk” tenendo conto del padre comune krauto. Si chiuderebbe in questo modo il discorso, nel contempo cavandosela alla svelta e centrando il nocciolo della questione, visto che per ogni Load Out e The Cage per le quali Girls Vs. Boys e Trans Am menerebbero rispettivo vanto ascolti una Dreamland Circus Sideshow che erige ponti tra Chicago, Manchester e Colonia. Del predecessore Joke Box ritroviamo urgenza, piglio esecutivo vibrante e partecipato, arrangiamenti curati senza capitomboli nella leziosità (tranne il finale della faustiana Viandox: poca roba, in ogni caso). Si pesta di jazz ed elettronica vintage e ruvida con raffinatezza (Cheeeese) mentre osservi il grammo di verve compositiva in meno. Non però nella cavalcata krauta Pigeon Jelly e nei paesaggi tra Cluster e Sonic Youth di Enough... Never Enough, nel singultare alla primissimi XTC di Sick To The Bone e nella febbrile The Opening. Dimostrazioni brillanti che, per mutare le visioni in realtà, servono consapevolezza storica e ingegno libero da vincoli.(7/10) Gli Eels sono la band che ha cambiato le prospettive del pop rock alternativo negli anni novanta. Gli Eels sono Mark Oliver Everett, e questo è il punto. Dalla sua penna sono uscite canzoni formidabili: testi che t'inchiodano per la mistura di cinismo, disarmo, crudo dolore e un amore per la vita che cova sotto la cenere; melodie guizzanti, cristalline, brusche, setose. Un cantautore slacker folgorato sulla via dei Portishead, ai cui ectoplasmi filmici si è ispirato per ricollocare un sound altrimenti risaputo, azzeccando quella che per almeno tre album è sembrata la formula perfetta. Ma tutto ciò non sarebbe bastato a farne ciò che è stato. L'uomo è l'ingrediente decisivo, Mark e la sua vicenda, quel modo di affrontare i cataclismi che il destino gentilmente gli ha vergato tra capo e collo senza riguardo né risparmio. Una cognizione del dolore che è vero e proprio brodo di coltura in cui fermenta tutto il repertorio, dal più mesto al più furibondo allo speranzoso. Con questa autobiografia, lo stesso Mark ci mette a parte di tutto ciò: è lo spietato ribollire di quel brodo, senza lesinare sugli ingredienti (il ritrovamento del cadavere del padre, l'agonia della madre e l'amara cerimonia funebre, le tristi vicissitudini della sorella Liz...). Il tutto condito da un fatalismo lucido e agro - al limite dello sprezzante - che inibisce ogni deriva melodrammatica, restituendoci il ritratto di un uomo selvatico e brillante, che in mancanza di pace col mondo sembra aver trovato quella con se stesso. E che dire degli aneddoti folgoranti, illuminati da una luce quasi surreale, come la pennellata che dipinge un Elliott Smith ineffabile o il rovinoso quasi-incontro con uno scoppiato Elton John? Infine, esci da questo libro come dalle canzoni targate Eels, tramortito dalla zuffa tra intrattenimento e realtà, tra manufatto espressivo e vita vissuta. Verrebbe da augurargli un futuro da scrittore, al caro Mark, se non fosse un tipo tanto disilluso. Ma come fargliene un torto? Giancarlo Turra Stefano Solventi Zëro - Diesel Dead Machine (Ici d'ailleurs, Febbraio 2010) G enere : post wave rock Guida illustrata al frastuono più atroce AA.VV. (L amette C omic s , 2009) casione) del più roccherrolle dei critici musicali poteva fungere da titolo per questa compilation di tributi. Trentuno disegnatori della nuova onda italiana che più indipendente non si può si cimentano in quello che in apparenza è un sentito omaggio ai propri eroi musicali, ma in realtà una fagocitazione reciproca. Parola di Simone Lucciola, curatore del volume nonché responsabile di Lamette e disegnatore presente con uno struggente e veritiero ricordo di Nico. In questa ottica cannibalistica risiede il senso dell’albo: mettere in scena il legame che ogni artista ha con gruppi o musicisti che hanno segnato la propria giovinezza, quel cortocircuito tra musiche rock tra le più sguaiate, oltranziste, storte e sboccate e l’arte fumettistica in b/n ai suoi più alti livelli. Ovvero, immaginate Guida illustrata... come una sorta di playlist immaginaria di tutti i tempi di alcuni tra i migliori fumettisti italiani. Ratigher, Tuono Pettinato, Maicol e Mirco, Alex Tirana, Marco Corona in tandem con Antonio Solinas solo per citarne alcuni si armano di carta, penna, matita e fantasia e apparecchiano una compilation letteralmente da sballo con un paio di pagine cadauno (o poco più): Wire e Captain Beefheart, Germs e Devo, Minor Threat e Cramps, Cows e Nerorgasmo, Faust’O e Wretched. Degni di nota la biografia stilizzata e liofilizzata di capitano cuordibue ad opera di Squaz, l’ossessiva resa fumettistica di un classico del punk mai così attuale come California Uber Alles (Dead Kennedys) resa da Riccardo Pieruccini, la putrescente vita del punk dei punk GG Allin che Corona e Solinas rendono perfettamente a colpi di caotico b/n. Non da meno le avventure di Gino l’accendino – personaggio creato dalla mente malata di Alex Tirana – alle prese col mito giovanile rappresentato dai RHCP e la fantastica presa per il culo del gruppo metal più potente e coatto del mondo (i Manowar), così come gli omaggi agli outsider Brutos (per mano di Hurricane Ivan) e Truzzi Broders (di Marco Bailone). Guida illustrata… è in definitiva una delle migliori performances all’incrocio tra arti affini, fumetto e musica, mai così vicine come in questo caso. Pubblica Lamette, la webzine più rozza d’Italia, col suo marchio Comics, e non si può che consigliare da subito l’acquisto a scatola chiusa. Stefano Pifferi Nulla meglio di una citazione (seppur riadattata per l’oc74 75 — live report Patti Smith P iazza S anta C roce , F irenze (9 2009) settembre In realtà a Firenze Patti Smith c'era e c'è stata spesso, anche pochi mesi fa ad inaugurare la mostra dedicata all'amico Mapplethorpe; ma questa settimana di eventi e celebrazioni fa riferimento ad un momento preciso, ossia a quando nel 1979, con una data qui e una a Bologna, la poetessa punk pose fine all'embargo nei confronti dell'Italia da parte dei grandi nomi del rock (spaventati perché all'epoca il caro biglietti veniva contestato, e capitava che i disordini conseguenti più che rovinare il concerto lo sostituissero). La data fiorentina in particolare passò alla storia, non solo per i numeri (le cifre ballano, ma l'ipotesi più probabile è 70.000 spettatori), per la statura del personaggio e il suo rappresentare allora i tempi o perché fu un concerto lunghissimo e strano, ma anche perché fu la fine del Patti Smith Group: non ci furono disordini quella sera ma tensioni sì, che unite alla decisione di dedicarsi alla famiglia contribuirono a spingere la Smith verso il suo lungo ritiro dalle scene. A 30 anni di distanza si ricorda quello che fu un evento vero con una settimana di celebrazioni culminanti in un reading a Palazzo Vecchio e nel concerto "normale" in Piazza S. Croce la sera successiva. Quello che si celebra, in realtà, è l'amore della Smith per l'Italia, che il '79 cementò: e benché in questa settimana Patti abbia passeggiato per il centro fermandosi a suonare dove capitava e guardando in faccia gli italiani odierni, la versione del nostro paese che ama è quella di Michelangelo e Dante, certo non quella triste di oggi. Si dichiara commossa, infatti, di esibirsi in un luogo bello come la sala dei Cinquecento ("nemmeno al mio paese mi hanno fatto tanti onori", dice ringraziando Firenze per l'ospitalità) in quello che più che un reading è un vero e proprio concerto acustico: pochi testi recitati (tra i quali People Have The Power e la Footnote To Howl di Ginsberg che su Peace and Noise era diventata Spell) per il resto canzoni, sulle quali suona anche un po' la chitarra prima che Lenny Kaye e poi Tony Shanahan vengano a soccorrerla. La dimensione acustica mette a nudo i pregi delle canzoni in scaletta esaltando l'essenzialità solida e miliare già degli originali (sarà un'idea vecchia di rock la sua ma 76 bisogna saperle scrivere certe canzoni "semplici", o tirare fuori un inno del tutto personalizzato semplicemente aggiungendo una propria poesia a un pezzo di Van Morrison, con tanti saluti alla presunta modernità di quell'hip-hop modaiolo che vorrebbe "riscrivere" campionando), anche grazie alla voce, cui il tempo ha sottratto due grammi di slancio in cambio però di profondità e padronanza espressiva. Il tempo limitato di una serata, poi, permette di lasciare fuori dal quadro la parte non proprio imperdibile della sua storia (unica eccezione una Helpless anonima come sullo sfocato Twelve) presentando la parte migliore del suo canzoniere: classico nelle particolarmente adatte Ghost Dance e Pissing In A River e in Because The Night e Dancing Barefoot che non perdono forza neanche unplugged, ma anche del post-rientro: tra le altre, aperta con un'improvvisazione poetica su Firenze più cartolinesca la prima sera efficacemente accorciata la seconda, My Blakean Year (2004) conferma nel gioco di parole del titolo e in questo contesto che per lei il '79 non dev'esser stato facile davvero. Dopo una passeggiata tra il pubblico su Dancing Barefoot, per il finale viene chiamato sul palco anche Jay Dee Daugherty, non tanto per suonare (la batteria non c'è) quanto per invitare tutti al concerto elettrico dell'indomani. Il caro biglietti non si contesta più, e anche trent'anni fa il prezzo era stato tenuto basso per evitare problemi; ma nel dubbio, il reading a Palazzo Vecchio era gratuito e con 12 proletari euro si entra nel set altrettanto splendido di piazza Santa Croce, dove la spesso trascurata dal vivo Frederick apre le danze in continuità col '79, confermando la buona ispirazione della serata precedente (ma anche che il pezzo è ben più che un semplice tentativo di bissare Because The Night). Oltre ai tre della sera prima, in organico c'è l'amico di sempre Tom Verlaine, il quale si scalda sui brividi dell'incantesimo di Birdland e su una Beneath The Southern Cross meno intima rispetto a Palazzo Vecchio ma gratificata dalla maggiore varietà strumentale. Il gruppo si rivela duttile, scambiandosi gli strumenti a seconda delle necessità del momento (il basso in particolare tocca per lo più a Shanahan in alternanza col piano, ma anche a Verlaine e Kaye e, nella citata Birdland, a Daugherty); ma soprattutto in forma superlativa nel sostenere quella classe con cui la Smith, nei momenti migliori della sua storia, ha tenuto in equilibrio i dualismi tra poesia e punk, delicatezza della voce e furia del gruppo, raffinatezza dei testi e semplicità compositiva. Evidentemente le piace recitare People…: anche stasera, prima di suonarla normalmente nel crescendo finale, la declama in coda a Peaceable Kingdom, così come ama le dediche (Wing per la Pivano, ad esempio). Ma è il bis finale che trasforma quello che era stato solo uno splendido concerto in magia pura: apre My Generation grezza e sgangherata come nel (e come se non la suonassero più dal) '75, tanto per sbattere in faccia all'Italia di oggi che la gioventù può essere vitalità e rivolta (alla quale Patti esorta) e non carne fresca da vendere in tv; ed è così che l'inno del rock come musica da giovani risulta credibile cantato da una 63enne la quale, per ribadire il concetto, nella stessa sera in cui in tv inizia X-Factor invita sul palco tale 12enne Nicola da Modena, pescato chissà come-dove-perché, a suonare la chitarra nel classico degli Who (con un'impostazione delle mani migliore di Kaye, a dirla tutta). E, trainata da un Daugherty che a 57 anni suona con velocità, potenza e precisione da non credere, chiude una versione carrarmato di Rock'n'Roll Nigger, la cui ferocia viene trasfigurata dalla coesione totale del gruppo (al punto che Nicola è ancora lì, perfettamente inserito), il quale raggiunge momenti di trance nei quali una rozza cavalcata punk diventa un altro sublime. E a quel punto celebrazioni e trentennali passano in secondo piano davanti ad un grande concerto (molto superiore a quello del '79, tra l'altro, a detta di chi c'era entrambe le volte), una dimostrazione di vitalità ribadita, che fa quasi credere, a momenti, che le canzoni possano davvero cambiare il mondo: in caso, sono queste. Giulio Pasquali Tortoise E stragon , B ologna (20 novembre , 2009)) Niente da fare, i Tortoise, come tutte le grandi band in pericolo (pericolo?) di storicizzazione (ed estinzione), smuovono ragione e sentimento. Sono un gruppo che ha segnato un’epoca - su questo nessuna obiezione partorito dischi memorabili, un'entità musicale che però negli ultimi anni ha lentamente smarrito il proprio culto per una strada ambigua, scivolosa, vuoi per quella sorta di mainstream intellettuale su disco (pur con colpi d’ala, vedi il recente Beacons...), vuoi per quella spiccata attitudine live che pian piano è diventata, non soltanto mezzo, ma fine. In ogni caso, la band, antagonista e protagonista di certi Novanta assieme agli Slint, rappresenta oggi quella real- tà media (per cachet e capienza Club) che soltanto una mitologia passata riesce a deformare. Dietro infatti ci respiri una stagione pre-filesharing che pare già un mondo lontanissimo appartenuto a una generazione peraltro cortissima, post Grunge, frammentaria, e dall’accezione universitaria e intellettuale. Una generazione che sicuramente s’è scritta l’epitaffio quando proprio gli Slint miracolosamente (per l’epoca) riuniti radunarono praticamente tutti, dai fan di Scaruffi a quelli della neo realtà giornalistica Blow Up e tutti quelli che, mai letta una nota di critica, sapevano intimamente che a Bologna quel lontano giorno, o si partecipava o si perdeva qualcosa di importante, di generazionale. Era la fine del post rock. E, oggi, con quel termine ci s’infila tutto: Slint, Tortoise, Mogwai, Explosions In The Sky; tutti dentro un’etichetta che fa comodo a chi ti promuove il concerto e ti vende un pezzo di storia che fa evento. Nel recente passato, sul fatto che i Tortoise facessero post-rock c’erano serrati dibattiti. E di fatto era chiaro che non potevamo di certo parlare di Slint e Tortoise come realtà facilmente riconducibile l’una all’altra. Problemi che ai 30 something dell’Estragon, assiepati davanti al palco, assieme ad avantmetallari che si sono cibati di Sunn O))) fino a ieri, non passano neppure per l’anticamera del cervello. E se il metal, anche quello più nordico, s’identifica facilmente con mestiere, in comune i Tortoise hanno sicuramente quell’aspetto, in quanto a tecnica e professionalità, li fa facilmente etichettare come dei Pink Floyd formato doppio zero, sia per sontuosità sia per fierezza del marchio. Pertanto, zero indecisioni e tempi morti, cambi di strumento/postazione che non si contano, sia per l’animale da palco McEntire (sia ai tamburi sia alle tastiere) sia per non meno importanti i quattro compari, con il solo McCombs a non concedersi spostamenti ma intento a forgiare le fondamenta del sound con i mitologici giri di basso. Retorica a parte, è la resa di Beacons Of Ancestorship quel che interessa veramente del report, ed è presto detto: dal vivo le tracce del disco perdono ruvidità acquistando così una tipica patina tortoisiana. E’ la specialità della casa: sezione ritmica muscolare e protagonista, alle chitarre e tastiere il maquillage; è comunque e sempre un bell’ascoltare per un'ora e mezza abbondante e innumerevoli bis fino all’esecuzione del grande classico Along The Banks Of Rivers (l’album ovviamente è Millions Now Living Will Never Die). Ci troviamo una band compiaciuta e soddisfatta di tante cose ma principalmente del proprio cliché. Nicolas Campagnari 77 Gimme Some Inches #2 Altro giro a forza di vinili. Stavolta touredition ed esordi per Real Estate, Sic Alps, Magik Markers, Microwave With Marge e altri ancora. Il tutto come al solito a 7, 10 e 12 pollici. Il passaggio del testimone tra cd-r e vinile si è fatto notare anche in sede live. Se fino a poco tempo fa ad arricchire i banchetti post-concerto erano strambe e colorate edizioni digitali (casalinghe ovviamente, ma c’è da ripeterlo?), da un po’ le stesse modalità si avvalgono del vinile cosiddetto tour-edition. Della serie: o qui e ora o mai più. Proprio in questi giorni dalle nostre parti - più precisamente il 10 di febbraio al Diagonal di Forlì, unica data italiana) passeranno i Real Estate di Matt Mondanile & co. e molto probabilmente si porteranno dietro qualche edizione fatta apposta per l’occasione o forse (magari) qualche ultima copia del 12” Reality appena uscito per Mexican Summer. Un ep che, senza aggiungere nulla all’ottimo debutto, reitera quella estetica della dissolvenza che li ha resi (ehm) famosi: maracas e fi78 schiettio senza pensieri (Basement), deliqui riverberati e reminiscenze surf in modalità malinconica (Dumb Luck) per un’abbondante ventina di minuti di psichedelia della risacca. Mentale e non. Con le stesse modalità prende il via lo split tra due ottime realtà dell’underground americano. Background diverso ma integrità e rispetto reciproco per Sic Alps e Magik Markers che in occasione di un west coast tour splittato del dicembre scorso hanno rilasciato via Yik Yak un grazioso 12”. Un lato e 3 pezzi per uno: il duo allargato a quartetto per l’occasione con Lars Finberg degli Intelligence e Ty Segall (terzo membro ombra del duo from Frisco) a dar man forte, procede as usual con l’afflato psych-garage-rock caratteristico, ma si spinge verso sperimentazioni (Guxxe Bathe Ballade) e destrutturazioni (Long Cheveux) da rumore in libertà. Sull’altro, la voce di Elisa Ambrogio non si spalma come al solito sui classici sperimentalismi perfora-timpani di matrice no-wave, ma si libra verso una psych metà kosmische, metà californiana (The Diamond Guitar Of Tico Feo), lancinante alla Guru Guru (White Map Laid With…) e in modalità free-noise (Tighten One And Loosen The Other), il cui unico rimpianto è la breve durata. Ci sorprenderanno ancora? Sempre Sic Alps – amanti del disseminare pezzi a destra e manca (l’ottimo 7” L.Mansion su Slumberland, ad esempio) per poi raccoglierli in edizioni compilative (A Long Way Around To A Shortcut docet) – mettono la loro firma sulla compila in 10” Skulls Without Borders edita da una sempre più lungimirante Siltbreeze. Nomi minori per una manciata di minuti di scatafascio sonoro fatto di voci riverberate e nofi (im)produttivo, wave degenerata e weirdità assortite offerte dai misconosciuti Chickins, Puffy Aureolas, Tommy Jay Band e dai campioncini Kurt Vile (stavolta coi Violators) e Dan Melchior. Roba che fa venire in mente quanto gruppi come i Fall siano stati fondamentali per le nuove generazioni. Saltando a piè pari da un lato all’altro degli states ci ritroviamo a parlare dei Mi Ami, di cui ci si occupò a suo tempo. Quando cioè a colpire, più e prima dell’ottimo esordio lungo Watersports, erano stati i 12” (African Rhythms su tutti) a farceli apprezzare, come se nelle misure intermedie il terzetto a stelle&strisce fosse in grado di dire molto (ma non tutto) del proprio caleidoscopico universo sonoro. Ora è il turno di Cut Men con cui debuttano su Thrill Jockey: doppia traccia per un minutaggio da mini-album che offre l’ambivalente portato del trio in tutto il suo splendore. Post-punk nevrotico e engagé sul lato A (Cut Men) e dilatazioni dub malatissime e dance-oriented sull’altro (Out At Night). Se necessario, la conferma di un grande gruppo. Tornando ai Real Estate e più precisamente agli adepti del culto Underwater Peoples, è da segnalare l'uscita per la label del primo singolo dei Frat Dad, duo di teenager che già aveva partecipato alla compilation Summertime Showcase con un brano piacevolmente gonfio di riverberi. Per questo 7” i due puntano invece su un indie pop lo-fi piuttosto canonico che non fa risaltare le componenti acquatiche tipiche della casa madre e che lascia tutto sommato indifferenti. Un’occasione mancata. Chi invece non manca di farsi notare, ancora una volta, sono i californiani Nothing People che, dopo il secondo lp su S.S., tornano con un singolo dal packaging ultra deluxe. Vinile bianco, copertina con scritta “You’re Invited” incisa a sbalzo come fosse un biglietto per un gala. Enemy With An Invitation infatti si chiama il 7 pollici e presenta due pezzi musicalmente più affini al primo album Anonymous che non ai toni soporiferi di Late Night. Quindi pre-punk, dopo-punk, glam rock e psichedelia da garage at its best. Bentornati. Per concludere questo nostro giro del mondo a 45 giri, rientriamo alla casa-base. Il solito assemblamento di etichette (stavolta Lemmings, Valvolare, Musica Per Organi Caldi) mette la firma sul 10” di Microwave With Marge, Cow Licks Cow. Il trio tarantino sforna 8 brevi tracce in cui carica post-punk nuda e cruda e gusto per la frammentazione nowave (più di marca Skin Graft che newyorchese, in verità) si sposano a ritmi schizoidi al limite del danzereccio, ma immediato e straight in your face. Non che c’entri molto, ma a venire in mente è una vecchia esperienza pugliese, i Bz Bz Eu, per la capacità di triturare in un guazzabuglio sonoro influenze tra le più disparate. Infine la neonata Shit Music For Shit People dopo l’esordio di Cappottini I’ Lignu ci regala un secondo 7”, stavolta a nome Satàn. Gruppo con un piede a Torino e l’altro oltralpe, i nostri sfornano quattro pezzi in cui mischiano garage, surf e pop alle urla isteriche della cantante Paula H. Stampa di trecento copie con quello che è ormai marchio di fabbrica della label: copertina in carta da pacchi serigrafata in tre differenti colori. Come a dire, l’occhio vuole sempre di più la sua parte nell’era del feticcio. Stefano Pifferi Andrea Napoli 79 Re-Boot #1 L'avreste mai detto? Canzone d'autore in ogni dove. L'indie rock autoctono è sensibile come non mai ad uno degli elementi più nobili del nostro know how musicale di italiani medi. Alle realtà già affermate come Dente, Le luci della centrale elettrica e 33 Ore, risponde una pila di artisti emergenti che non rinuncia a offrire una propria visione della chanson impegnata. Come Fabrizio Frabetti in Uh! (6.6/10), rapito da un' America fittizia e immaginaria un po' à la Massimo Bubola e traviato da un Ivano Fossati nemmeno troppo lezioso. Tra chitarre elettriche sudiste (Le stelle della Cisa) e hammond (Hu!) ci si ritrova tra le mani un disco che mescola mestiere, buone idee e un dna melodico ineccepibile, fermo restando che la formula rimane piuttosto conservatrice. Appena più pop sono gli orvietini Petramante, il cui E' per mangiarti meglio (7.2/10) etichetta Martelabel - deriva dalla penultima generazione della scuola romana (Fabi, Gazzé) una rotondità di scrittura che li rende lievi e cutanei. Se incontrassimo una di queste 80 Un mese di ascolti emergenti italiani dieci canzoni in una riviera sempre più cadaverica oppure in un etere non meno irrancidito, sarebbe un mondo un po' più giusto. La produzione non sempre è centrata (le chitarre…), ed è un peccato perché i ragazzi hanno i numeri per ritagliarsi uno spicchio d'identità nella landa arida eppure ingombra del cantautorato al femminile (l'ottima autrice di tutti i brani è la cantante Francesca Dragoni). Si ascolti Atterro: Turci, Consoli e Donà sono avvisate. Meno consueta è la proposta di Gianandrea Esposito in arte Verner, uno che si appiccica a certe musiche trasversali sospese tra “acusticherie” sudamericane e jazz, reggae mascherato da pop (Indifferente, Almeno credo) e melodie sghembe, chiaroscuri malinconici e leggerezza non superficiale. Nel suo Il mio vestito (6.9/10) affiorano altre tracce di scuola romana nonché una maturità sorprendente, chiaro segno di un percorso artistico consapevole e del consueto ottimo lavoro del producer Giacomo Fiorenza. Ancor più peculiare è la calligrafia della nostra vecchia conoscenza Humpty Dumpty, che esce in contemporanea con due lavori (entrambi in free download). Uno, Pianobar dalla fossa (7.1/10), è stato realizzato a quattro mani con Stefano Zuccalà e conduce il consueto stile di Humpty - una cruda/languida disanima del vivere moderno - sul versante più aspro e beffardo, sorta di cyber Faust'O col morbo Syd Barrett mai del tutto debellato. L'altro, che vede la collaborazione di Renato Q, è A Mile From Any Neighbor (7.0/10) e contiene cinque tracce di pop-wave talora strinite e algide, talaltra votate ad espansioni psych che non esiteremmo a definire Julian Cope. A proposito di songwriting in english, i Pocket Chestnut col loro A Route To Peruvian Bistrot (7.1/10) suggeriscono come Mark Linkous lasci figli ineducati dove meno te lo aspetti, anche tra New York, Monza Milano e Kiribati (!). Così è la geografia dei Pocket Chestnut, che camminano con passo caracollante ma non troppo su didascalie blues-folkrock e spirito poppeggiante. Degli Sparklehorse a profilo rialzato in pratica, ma anche l'insegnamento di Mr. Everett Eels quando la voce si appoggia sul pianoforte e spunta fuori tutto. L'ep è in download gratuito sul loro MySpace e conviene provarli, perché (a tratti) non sembrano neanche italiani. Lo sembrano così poco i genovesi Cartavetro che persino Mike Watt non si è fatto scrupoli a collaborare al loro We Need Time EP (7.4/10). Pubblicato da un pool di label (Brigadisco, Anomolo, Tesla e Taxi Driver), è disco che vuole colpire duro senza smettere di credere al potere incantatorio di una chitarra, un basso, una batteria. Ruvidi sì ma per nulla grossolani, i tre grattano la scorza a melodie intense, ipnotiche, sofferte. Il sogno art-psych è ancora caldo nel taschino e infatti To Care apre le danze come dei dEUS strattonati Mudhoney, scomodando memorie Fugazi appena mollano le briglie. Zio Watt regala un cavernoso reading in testa alla title track, e loro ovviamente spendono devozione Minutemen (quella spigolosità senza vaselina) barattando però la stringatezza con un lirismo visiona- rio e dilatato. Insomma, un debutto coi fiocchi. Chi invece non è affatto un debuttante - già un paio di album alle spalle - è Jet Set Roger, protagonista di uno dei quattro ep del progetto Eureka promosso da Kandinsky Records per valorizzare realtà emergenti del bresciano. Le band chiamate in causa sono tutte belle cariche e ruspanti, ma tra i consueti kunzismi, agnellismi e teatri orrorifici, è proprio il buon Jet Set Roger (6.8/10) a farsi preferire col suo estro glam e italian beat che mischia disarmo ed assalto, minimi termini ed entusiasmo. Cambiamo decisamente prospettiva con i Bancali In Pietra che ci rispediscono nella Germania di metà anni Settanta. Ad accoglierci nel loro Autumn Ep (7.3/10), pubblicato da Tafuzzi Records, i Tangerine Dream di Zeit, tra krauti interstellari e droni, profondità liquide e inquietanti luminescenze. Curioso il percorso del gruppo, partito nei primi dischi da un concettualismo anarchico e inclassificabile che generava brani sotto i due minuti di durata e arrivato a una solida rivisitazione del lavoro dei corrieri cosmici tedeschi. Noi li preferiamo ora, anche perché il nuovo episodio a nome BIP è quanto di meglio ci sia capitato di ascoltare negli ultimi tempi in tema. Per finire, potevamo farci mancare del sano indie-pop? Dei mestrini Margareth, ad esempio, che nel loro White Lines (7.0/10) uscito per Macaco Records ingentiliscono in zona Beatles strutture pop acustiche e anglofone iniettandovi tante malinconie quanti indolenzimenti leggeri. L'effetto non è ovviamente inedito, ma la voce d'alone livido e i buoni intrecci tra chitarra, pianoforti a cascata (Night Talker) e batteria sottolineano una scrittura sempre di buon livello, in bella calligrafia insomma. Una proposta retrodatata ma emozionale, anche quando vagheggia sulle pianure Barrett prima di inondare l'aria con una tromba da Calexico della media pianura padana (The gate). Ok, per questo mese abbiamo finito. Ci rimettiamo in ascolto. Luca Barachetti Stefano Solventi Fabrizio Zampighi 81 Rearview Mirror —ristampe highlight AA. VV. - Next Stop….Soweto Vol.1: Underground Township Jive 1969-1976 (Strut Records, Febbraio 2010) G enere : township jive AA. VV./Peanut Butter Wolf - The Minimal Wave Tapes Vol. 1 (Stones Throw, Gennaio 2010) G enere : no wave La collaborazione tra Veronica Vasicka della newyorchese Minimal Wave e DJ Peanut Butter Wolf della losangeliana Stones Throw segue le ricerche archeologiche dei suoni (nascosti tra le pieghe dell’elettronica pop 80) già palesate dai Chromeo nel loro DJ Kicks. Il risultato rende disponibili su supporto digitale le tracce che dal 2005 la giovane DJ sta rimasterizzando filologicamente su singoli e 12''. La lungimiranza del boss americano e l'amore per il bbreaking ci regalano una complation al limite del dilettantismo (e per questo minimal), che possiede però quella spinta propulsiva No Wave che influenzò Miss Kittin, Mylo, The Hacker e tutti i '90 acid disco rock. I nomi sono pressoché sconosciuti, se non per gli industrial-dada spagnoli Esplendor Geométrico, il dark francese di Martin DuPont o la progressività krauta dei Das Kabinette (i fan dei Depeche Mode di Speak and Spell in lacrime) Per nostalgici e neofiti, un documento che testimonia la storia underground di un’estetica basilare per la costruzione del suono dancefloor contemporaneo. Stupenda innocenza '80.(7.1/10) Marco Braggion AA. VV. - The Blank Generation – Blank Tapes NYC 1975-1985 (Strut Records, Febbraio 2010) G enere : disco - mutant Bob Blank è un produttore newyorkese, di quelli che si sentono citare meno, ma attivissimo, con lo studio di 82 produzione Blank Tapes, tra metà Settanta e metà Ottanta. Un luogo baricentrico e pulsante, con una storia costellata di aneddoti: Arthur Russell che ci produce le proprie creature come Dinosaur L, tantissima disco music, il nichilismo pre-Ze Records, insomma quel melange proverbiale e propulsivo che insegnano a tutti, quando si parla di NYC. Di questo vive la compila in questione. Non della mera produzione di Blank ma dello spazio che ha allestito per una decade buona. The Blank Generation - Blank Tapes NYC 1975-1985 è un tributo alla città e al momento in cui underground e overground a momenti si confondevano, almeno col senno di poi, e qui sta la questione. I Blank Tapes ospitavano uno spettro di musiche tanto diverse tra loro quanto tutte vicine, una volta entrate in quel circuito e nelle stanze di Bob. Vale a dire che la disco e la sofficità funk vi addensavano a sé anche i contributi di Sun Ra o di Lydia Lunch, e quindi di quegli insospettabili (o meno sospettabili) che senz’altro fanno da specchietto per allodole a chi legga la tracklist di Blank Generation. Non di sola no-wave si viveva, opinione scontata. Ma è pur vero che si viveva di tanta, tantissima disco, di tanta mutant (I Got A Big Bee di Bumblebee Unlimited, pure con un pizzico di dub in Wax The Van di Lola), di tanto post punk ammorbidito (State Of Art dei The Necessaries, che sembra una cover di Cars di Gary Numan). Coltura perfetta per i segugi della Strut.(7/10) Gaspare Caliri Frank Zappa - Philly '76 (Vaulternative Records, Dicembre 2009) G enere : funk - rock - prog Concerto del 29 ottobre '76 a Philadelphia che documenta il veloce passaggio nelle fila zappiane della vocalist e tastierista Bianca Odin Thornton. La qualità audio - impeccabile - e una performance ruvi- Servì uno spirito illuminato come Paul Simon per spostare, a metà degli eighties, i riflettori sulla musica proveniente dal Sudafrica e, più in generale, convincere i discografici che l’etnico poteva vendere. Cosa che portò un allargamento di orizzonti benefico per critica e pubblico, l’inizio del crossover sonoro esploso negli ’90 e, occorre dirlo, anche un bel po’ di schifezze tagliate su misura per li Nord del mondo. Roba da salotto che nulla ha a che vedere con la cultura originaria e il suo rispetto, col portare a galla qualcosa di meritevole spiegandone le motivazioni e il contesto. Che è invece quanto fa la Strut, etichetta serissima e da elogiare per l’ampiezza di orizzonti e l’elevato livello delle pubblicazioni, confermato da questa nuova impresa. Dopo le “esplorazioni” in Nigeria ed Etiopia, una serie articolata su tre tomi indaga ora le sonorità sudafricane popolari tra Sessanta e Settanta, quel township jive (o mbaganga) che fungerà da base del capolavoro Graceland e mostra venature e influenze jazz e soul, gospel e rumba, finanche rocksteady. E che capisci essere in perenne transito dalla sua fonte ai cento e più fiumi che ne dipartono in un processo di mescolanza reciproca. Partito dalla contaminazione tra jazz e sonorità rurali Zulu, il mbaganga inserì sul suo robusto tronco armonie vocali e strumentazione occidentale, elettrificandosi come il blues (c’è anche lui, qui, spesso e volentieri) conservando vitalità e spirito anche quando ne sarà positivamente accentuata la danzabilità. Raccogliendo materiale destinato al mercato locale dei 45 giri, i curatori Duncan Brooker e Francis Gooding colgono il nocciolo della questione e allestiscono un quadro policromo e stordente, tracimante la voglia di vivere che rispondeva in qualche modo all’apartheid.Vibrante, commovente, imperdibile.(8/10) Giancarlo Turra da e grintosa vivificano un repertorio tra alti e bassi, con pezzi del periodo (Zoot Allures usciva in quei giorni), ripescaggi (dalla vaudeville band con Flo & Eddie, uno addirittura dalle primissime Mothers) e brani già noti ma che sarebbero finiti su disco solo anni dopo. Taglio funk/r'n'b espresso al meglio da una eccezionale City of Tiny Lites (con un ultra solo di chitarra&scat di Ray White), da una Wind Up Workin' In A Gas Station praticamente hard-disco, dai cantati felini - intrisi di soulness - della Thornton. Inutile sprecare ancora fiato sulla dissenatezza dello Zappa Family Trust nelle persone di Gail e Dweezil, anche perché stavolta è andata più che bene. Il tutto però non vale certo i trenta dollari richiesti.(6.8/10) Gabriele Marino Fucked Up - Couple Tracks: Singles 2002-2009 (Matador, Gennaio 2010) G enere : hc - punk Ogni tanto lo fanno. Come se si sentissero in dovere di rendere disponibili ai fan le decine e decine di singoli in edizioni hard-to-find che sfornano in continuazione. Dopotutto lo fecero un quinquennio fa con Epics In Minutes, compila allora targata Deranged; ora tornano sul luogo del delitto per rendere conto del periodo 2002-2009 mescolando b-sides a versioni mai suonate prima, pezzi da 7” casalinghi a estratti da sessions sparse per il mondo. Una modalità da piena etica punk, quella del sestetto canadese che predilige misure piccole per far deragliare il proprio punk-hc no compromise alla faccia dei fichetti che, loro malgrado, li hanno innalzati al livello di culto (dopotutto, performance in gallerie d’arte e copertine di magazine hype stanno lì a confermarlo). In Couple Tracks, doppio cd (o doppio vinile) suddiviso in The Hard Stuff e The Fun Stuff, sfilano 25 pezzi che sembrano un giro del mondo hc a vedere dove e quando erano stati pubblicati. Premesso che la frammentarietà tipica di una operazione del genere non si nota affatto, sono sempre due i (soliti) punti forti del suono dei Fucked Up: la voce di Pink Eyes, imponente frontman dall’ugola d’oro, che gi83 highlight AA. VV./4 Hero/Dj Marky - The King Of Drum + Bass (BBE, Febbraio 2010) G enere : D rum ' n 'B as s Il nuovo volume della serie The Kings Of continua la carrellata di producers superstar con un doppio ciddì curato da 4 Hero in tandem con il brasiliano Dj Marky. Sarebbe l'ennesimo tomo del tanto agoniato ritorno della drum'n'bass e la compila arriva quasi in risposta a quella della metalheadz 15 Years Of Metalheadz dello scorso dicembre. I capitani della label concorrente (la Reinforced) stilano il meglio del loro taste in fatto di d'n'b Novanta e lo fanno con taglio soulfull smaltato balearica, singing Chicago house e fuorilegio di techs sembre ben calibrati. Si parte dalla loro Universal Love, si batte spalla a Goldie (ovvero Rufige Kru con il rullante straclassico di Terminator II) e si finisce con A Guy Called Gerald e la splendida Sunshine. Più che la lacrimuccia ti scappa il pensiero: il genere ha da sempre un dna più resistente dell'affabulatorio e monocorde dub step da sala e la riprova è la sensibile membrana con l'esterno, attentissima nel rielaborare passato e presente. Non ce n'è neanche quando ascolti il mix di Marky concentrato sui Duemila: ci trovi il leggendario (e un po' bolso) Roni Size, e roba buona di Krust, Marcus Intalex, Random Movement con l'ultimo quarto della portata a proporre i nuovi tagli del brasilero coprodotti dal londinese S.P.Y. Una festa per i sensi.(7.5/10) Edoardo Bridda ganteggia riottosa e selvaggia e il monolitico muro delle chitarre (due, tre, a volte anche quattro, a seconda delle occasioni) che si stratificano in una marea montante. Si ha come l’impressione a volte - Black Hats, ma gli esempi potrebbero essere moltissimi - che il suono si increspi o si sfaldi tanta è la violenza, i riverberi, lo spessore del wall of sound dei canadesi che, paradosso dei paradossi, riesce sempre a mantenere una sua vena melodica interna. Detto questo, non resta che mettersi alla ricerca dei prossimi vinili che questi brutti ceffi metteranno fuori per le etichette più scalcinate del mondo.(7/10) Stefano Pifferi Jackie Leven - Only The Ocean Can Forgive/Greek Notebook (Cooking Vinyl UK, Dicembre 2009) G enere : folk Tribolata assai la vita di Leven, al punto che viene naturale essere buoni con lui. Che il nostro rispetto se lo merita fino all’ultimo vocabolo per come è uscito da una spirale di dipendenze che poteva strapparcelo per sempre. Una vita all’insegna del nomadismo la sua - di natali scozzesi e un passato dopo-punk con i Doll by Doll, ha girato per tutta l’Europa continentale - che funge da colonna portante di un virile romanticismo che, in una 84 produzione ampia per numero ed esiti, avvicina il folk delle isole britanniche alle pagine coheniane d’inizio ’70. Come spiega in modo splendido l’intensa Autumn Song, terza traccia e ultima tra quelle qui contenute a provenire dalle mura di uno studio d’incisione. Le rimanenti sei essendo estratte da concerti tenuti sul suolo tedesco in un disco che appartiene al progetto Haunted Year, serie di uscite stagionali in doppio cd precedentemente disponibili solo attraverso il fan club del Nostro. Che è qui colto a Colonia e Francoforte nel 2003 in compagnia delle sue corde vocali sapientemente modulate, di storie dal potenziale affabulatorio non comune, di una chitarra acustica cui talvolta si aggiungono misurati interventi di tromba e tastiere. Fascinoso in ogni frangente, che scavi nel dramma autobiografico con My Philosophy o si porga rabbioso in Paris Blues, che ritrovi i vecchi amici Kevin Hewick e Joe Shaw (il chitarrista dei Doll By Doll) nella fluviale Barefoot Days o che si immagini parente stretto di Johnny Cash in Classic Northern Diversion. Nulla aggiunge né sottrae alla bontà dell’esito un secon- do cd di schizzi acustici ed embrioni di canzoni recuperati da un fedele walkman, sorta di diario dalle isole greche in cui Jackie passò diversi mesi nel corso degli anni Novanta. Artista per il quale il “culto” è condizione immeritata, al di là di ogni retorica.(7/10) Giancarlo Turra Leonard Cohen - Live At The Isle Of Wight 1970 (Columbia Records, Ottobre 2009) G enere : F olk rock Un altro live pescato dall'archivio: si tratta del concerto integrale del 1970 nel tempio fricchettone dell'Isola di Wight, frammenti del quale erano già apparsi in Live Songs, primo album dal vivo del canadese, e nella colonna sonora del documentario dedicato al festival. Dalla stessa ricca messe di bobine filmate dal regista Murray Lerner (Miles Davis, Jimi Hendrix...) proviene il documentario contenuto nel dvd che sacrifica qualcosa del concerto rispetto al cd a vantaggio di spezzoni di testimonianze (Kris Kristofferson, Judy Collins e altri) che ricostruiscono l'atmosfera particolare dell'evento tra contestazioni sul caro biglietti, le migliaia di persone e il contorno dei festival dell'epoca (con occhio non benevolissimo, sembrerebbe). Disco e film ci restituiscono soprattutto un Cohen che, distante dal contesto per natura ed età, trova un dialogo con il movimento pur nelle difficoltà di salire sul palco dopo un Hendrix in vena di Storia. Due tre erroretti sindacali trovano comunque un pubblico desideroso di catarsi dopo la tempesta psych blues. Merito anche di una band che si presenta e suona come una comune freak (Tonight Will Be Fine e Diamonds In The Mine in anteprima da Songs Of Love And Hate) ma che sa pure sparire nei dettagli richiesti (una quasi finita Famous Blue Raincoat, anch'essa in anteprima). Chiude Seems So Long Ago, Nancy suonata su richiesta ma finale quanto mai adeguato. Come il Field Commander Cohen di qualche anno fa, un ottimo ripescaggio.(7.4/10) Giulio Pasquali Luigi Tenco - Luigi Tenco, inediti (Ala Bianca, Novembre 2009) G enere : canzone d ' autore Primo passo verso la pubblicazione dell'opera completa prevista, pare, per l'anno appena iniziato, questo cofanetto curato dal direttore del Club Tenco Enrico De Angelis approfondisce il canzoniere di Luigi Tenco in due direzioni temporali. Al passato nel primo dei due cd, che recupera inediti, rarità e versioni alternative conte- stualizzandole nel libretto con debite note a margine; e al futuro nel secondo disco che raccoglie diciassette reinterpretazioni ad opera di colleghi, tutte riprese dalle varie edizioni del Premio sanremese e in particolare in quella del 2007, interamente dedicata al cantautore piemontese. 
Facile di fronte a operazioni del genere storcere il naso, sia per il carattere un po' feticista della pubblicazione, sia perché l'effetto raschio del barile è sempre in agguato. In verità questo Luigi Tenco, inediti brilla soprattutto per l'accuratezza con cui De Angelis compila le proprie annotazioni a completare tracce non sempre perfette sotto il profilo della registrazione e dell'esecuzione, che però rilasciano qualche buona tensione in episodi sparsi tra i due dischi. 
 Nel primo cd i tre inediti non sono capolavori ma confermano la qualità di una scrittura sempre all'altezza (vedasi una Se tieni una stella cantata appositamente da Massimo Ranieri), capace di spunti positivi sullo spartito (lo strumentale No, no, no riversato in sensuale ipnosi pianistica da Stefano Bollani) ed interessante quando si misura con classici da tradurre (una Vola colomba che Tenco riscrive come Darling Remerber e Morgan esegue facendo sperare in un'insperabile versione di Marc Almond); il resto delle tracce invece gioca su variazioni spesso non così fondamentali se non per testimoniare l'importante lavoro di riscrittura e ripensamento che Tenco conduceva sulle sue creazioni o per riportare in luce qualche meritoria riscrittura estera (Un giorno dopo l'altro in francese e in inglese, quest'ultima cantata da Perry Como).Tuttavia in corso di tracklist ci scappano almeno due perle come Padroni della terra (prima versione in italiano di Le déserteur di Boris Vian, Fossati venne molto dopo) e una Vedrai, vedrai in pianovoce che taglia le gambe per intensità; mentre in fondo due tracce del Settetto Moderno Genovese (anno 1957, Tenco al sax) accennano alle origini jazzistiche del cantautore e un'intervista di Sandro Ciotti - dove Tenco risponde risoluto a qualsiasi tipo di domanda, compresa una sull'eventuale imbarazzo nel portare un cognome che rima con quello di... Nico Fidenco - regala inattesi momenti di comicità involontaria. Del tutto differente, come già anticipato, il secondo disco. Tanti gli artisti coinvolti (Roberto Vecchioni, Simone Cristicchi, Ardecore, Skiantos e via dicendo), e tutti alla fine la sfangano, magari con qualche debito di 85 suoni invecchiati male (vedi Alice in Se sapessi come fai), ma in pochi riescono a portare a casa versioni di brani tenchiani realmente memorabili. A parere di chi scrive un applauso convinto va a Vinicio Capossela, che nel 1999 aprendo il Premio convertì Lontano, lontano alla meccanica patafisica della sua manovella senza strozzarne lo spirito, e ad Eugenio Finardi che in altra apertura, anno 1994, se la giocò tutta d'anima e vinse. 
Ispezionata dunque l'opera laterale, non resta ora che da attendere la pubblicazione dell'opera completa, la quale non riserverà meno sorprese e meno (appassionata) precisione di questo cofanetto ottimo per fedeli con istinti da collezionisti ma anche per ascoltatori attenti e desiderosi di approfondire.(7/10) Luca Barachetti Matt Elliott - Songs (Ici d'ailleurs, Dicembre 2009) G enere : post cantautorato E’ un sontuoso mettere il punto per andare a capo e magari dire altro, questo cofanetto che - in 4 cd (o 7 vinili) - racchiude la trilogia di “canzoni maledette” concepita da Matt Elliott dopo il trasferimento in Francia. Essendo il Nostro un comprovato gentleman, ha aggiunto al già noto - sul quale non torniamo nel dettaglio pur rimarcandone la grandezza - un quarto dischetto intitolato Failed Songs, contenente sette inediti di qualità al solito elevata da rappresentare l’ideale completamento alla metamorfosi. Sorprendente e ammirevole (tra)passo che ha indagato i lati oscuri dell’umanità in maniera profonda e rara per quest’epoca, la fase parrebbe oramai chiusa dal ripescaggio del nome Third Eye Foundation. Sarà nondimeno compito del nuovo lavoro in uscita chiarire le carte in tavola, laddove per adesso basta e avanza sedersi in una fumosa bettola con Vinicio Capossela e Tom Waits, mentre sul palco si esibisce Piero Ciampi. Ritrovarsi tutti insieme a tirare mattina in strada tra una sigaretta e un bicchiere di rosso, a raccontarsi storie che paiono le solite e invece sono per l’ennesima volta diverse, come ogni consumato bohemien sa. Tra batterie spazzolate e corde tese, archi levitanti e voci ombrose, scorrono valzer falsamente timidi e fotografie seppiate di un Mediterraneo della mente. Si ragiona inseguendo fantasmi jazz e un’idea “ambientale” di cantautorato che farebbe la gioia di Scott Walker, rinnovando una tradizione inesauribile e scagliando il coraggio al di là dell’ostacolo. Nell’ipotesi che ancora non possediate gli originali, l’occasione è da non farsi sfuggire; la musica di quelle che mandi a memoria e custodisci sugli scaffali del cuore.(7.7/10) Giancarlo Turra 86 Morphine - At Your Service (Rykodisc, Gennaio 2010) G enere : post blues "We are Morphine at your service", usava esclamare Mark Sandman prima di avviare la giga veemente e sinuosa di quei concerti che avrebbero pasturato la popolarità della band fino alla tragica conclusione sul palco di Palestrina, il 3 luglio del 1999. Cinque album, compreso il postumo The Night, che ipotizzarono un rock indipendente capace di spazzolare le bettole e grattare la pancia al cielo, giù sul ruvido dei marciapiedi e su tra le languide spire dell'estasi. Mark amava chiamarlo "low rock", ed escogitare un nome non era un vezzo ma la naturale conseguenza di chi s'inventava di tutto, strumenti e quadratura musicale. La bussola puntata sull'essenzialità: basso a una o due corde, slide a tre corde, la band rigorosamente impostata a tre (di norma batteria, sax, basso e voce) eppure capace di un suono pieno, guizzante, impetuoso (ed è il caso di spendere un plauso e rendere merito al formidabile Dana Colley). In più, una straordinaria fecondità compositiva che in questa doppia raccolta vede parziale celebrazione, presentandoci inediti, versioni alternative e live di un canzoniere cui non è mai venuta meno l'urgenza, la forza di volerci essere come un incontenibile evento naturale. Nulla di nuovo né di clamoroso rispetto a quanto già noto, i blues ghignano tra esotismi sinuosi e sferzate rock, il folk smania errebì e stempera jazz. Dal mucchio di 35 tracce spiccano la splendida versione alternativa di Patience, l'irruente Come Along e una Shoot 'Em Down emblematica di come si deve cavalcare dal vivo il demonio imbizzarrito. Ma è come un pescare a caso dalla manna, da questa cornucopia di scorie incombuste che, se lo vorrete, possono ancora bruciare.(7.8/10) Stefano Solventi Rodolfo Alchourrón - Sanata Y Clarificación Vol. 1 y 2 (Vampisoul, Novembre 2009) G enere : easy listening Qualcosa più di due anni fa mi lanciavo, da queste colonne, in una lode dell’etichetta spagnola Vampisoul, annotando come possedesse uno stile prezioso nella cura con cui promuoveva musiche inusuali degne di riscoperta. Avrò portato scalogna, chissà, ma da allora in poi soltanto ordinaria amministrazione e qualche occasionale highlight Gun Club - Miami/Death Party/The Las Vegas Story (Cooking Vinyl UK, Dicembre 2009) G enere : roots - punk In modo paradossale, una band di “culto” come Gun Club s’è vista dedicare negli ultimi anni una nutrita serie di uscite tra ristampe, inediti e tributi. Stupisce sulle prime ma non ripensandoci, essendo la creatura di Jeffrey Lee Pierce costantemente in bilico tra gloria e disastro, tra affermazione e crollo e non si nutre di estremi il paradosso? Vincerà l’oscurità, infine, ma se Pierce lo davi per segnato a un’uscita di scena drammatica, altrettanto certo è che la musica - ciò che davvero conta e rimane - nella Storia ci sia entrata, che vi abbia definito panorami che solo i più distratti potrebbero bollare come marginali. Passa dalle sue mani (e anche da quelle di Kid “Congo” Powers, qui) il testimone di una tradizione antica però maltrattata a nuova vita: c’è il blues nella sua vena più oscura e malata, odorante di whisky e voodoo, compagna di demoni che giocano a dadi e di gente che si vende l’anima, ammesso che ne abbia mai avuta una. In modo non dissimile dai Doors, altri bianchi che del “nero pece” conoscevano ogni risvolto e ne maneggiavano abilmente i meccanismi, i Gun Club filtrarono le dodici battute usando lo spirito dei loro tempi: l’inquietudine dei primi Ottanta americani, ereditata dal decennio precedente e palpabile ovunque e vieppiù in una California dove era passato il ciclone punk. Che è il paletto piantato nel cuore delle radici e che serve da fertilizzante per la mala pianta dei Gun Club, tanto robusta che oggi vi si guarda con ammirazione e in cerca di esempi. Nello specifico, poiché altrove raccontiamo vicende e dischi, sappiate che a ognuna di queste riedizioni è allegato un secondo cd con un live (suono da bootleg di buon livello) che nulla aggiunge né toglie alla saga. Le illuminazioni essendo custodite nelle scalette originali, a partire da Miami, sulfureo secondo LP che da sempre si contende la palma di Capolavoro col predecessore Fire Of Love, rispetto al quale versa più country nel cocktail e sfoggia una voce più calda. Laddove Death Party fu mini album registrato a New York e focalizzazione di uno stile che inizia a essere classico. Sarà infine compito del maturo - ombre di jazz, bassifondi e decadenza nella città di illusioni di cui porta il nome - The Las Vegas Story ratificare a chiare lettere la Grandezza. Da qui in poi “solo” dischi (alcuni buoni, altri passabili) e non più pezzi di vita per Pierce, ingoiato da un vortice di litigi e droga, alcool e cuori spezzati. Di lati sempre più oscuri che sostituiscono la realtà alla rappresentazione e così era sin dall’inizio. Perché è ed era blues. Dovendo dunque dare più un senso che un giudizio a questi dischi, non può essere meno di quanto leggete qui sotto. Riposa in pace, Ramblin’ Jeffrey.(8.5/10) Giancarlo Turra zampata dai madrileni, che scivolavano a centro classifica tra grigi pareggi e deludenti sconfitte. Categoria dove rientra questo recupero di due LP pubblicati tra ’72 e ’74 dal compositore, arrangiatore e chitarrista argentino Rodolfo Alchourrón: che, nato nel 1934 a Buenos Aires, dopo un’educazione classica trafficò col jazz al fianco di Gato Barbieri e si diede al tango con Astor Piazzola senza tralasciare rock e tradizione folk locale. Affrontando problemi commerciali, nei tardi Settanta proseguì l’attività a New York, dove si spense undici anni or sono. Spirito curioso e attivo con un’infinità di formazioni, è qui latore di un lounge filmico che mescola quanto sopra senza particolari guizzi né ironia; che invece di attrarre l’attenzione trascolora in sottofondo. Non c’è peggior destino per questa musica, che i nostri Umiliani e Piccioni concepivano con inventiva e verve superiori. Ragazzi, provate a cambiare schemi o allenatore, perché in ballo adesso c’è la retrocessione.(5.5/10) Giancarlo Turra 87 Rearview Mirror —speciale Gun Club Camminando con la Bestia Da quasi quindici anni Jeffrey Lee Pierce non è più tra noi, eppure pare vivo più che mai, mentre la classicità dei Gun Club cresce da solide radici. 88 Testo: Giancarlo Turra “Scrivo moltissime canzoni disperate, del tipo ‘O Dio perché mi hai abbandonato’. Parlo d’emozioni tenute dentro e della perdita di fiducia: è parte della condizione umana essere così disillusi che l’anima muore. Non ha niente a che vedere col fatto di vivere a Los Angeles." (Jeffrey Lee Pierce, 1981) C on quei lineamenti da paffuto Marlon Brando dei bassifondi, uno come Pierce lo davi per spacciato appena ci puntavi gli occhi sopra. Attorno a sé aveva quell’aria tipica di chi non arriva alla vecchiaia; che si nega - come certi bluesmen del Delta - un sereno tramonto in cui si guarda la gioventù con un sorriso. Non era “nella parte” e infatti il destino aveva in serbo ben altro: Jeffrey era un doomed che non si limitava all’immagine esteriore. Andava a fondo e scavava nel profondo dei demoni di chiunque perché qualcuno deve farlo. Poteva accontentarsi di un aspetto da B-movie e di oltraggi da teatrino, della felicità di sembrare - come cantava lui stesso - un “Elvis venuto dall’inferno.” Macchè: non sarebbe stato altrettanto potente e scorticante il suo rimestare in acque punk le radici e i misteri del suono (e del sogno) americano. L’accostare santi e diavoli, gotico e beat, sesso e romanticismo in un calderone incendiario e stordente; il parlare esplicitamente della violenza insita nella società statunitense sin dalla scelta di chiamare il gruppo “club del fucile”, raccontare vicende che evocano personaggi buoni per Cormac McCarthy, certi pazzi che di morte vivono e la guardano negli occhi ridendo. Ma quelli sono leggende e inchiostro, non carne e nervi. Jeffrey Lee Pierce doveva per forza camminare sul filo del rasoio, tagliarsi e sanguinare in un sadico gioco di estremi. Un ragazzo biondo e stralunato che dentro era negro e dal baratro non uscirà vincitore, schiacciato dalle “solite” debolezze e, soprattutto, dal troppo dare del tu ai demoni in un rapporto di amore/odio. Dall’eccesso di rovelli dell’animo, anche, scandagliati fino a non poterne più e scivolare dentro una spirale di caos. Infine, vittima di se medesimo e delle sue scelte.Tuttavia, la musica - ciò che conta veramente - resta un esempio mirabile di tradizione schiaffeggiata, di un futuro ricostruito coi cocci del passato e condotto a viva forza fuori de accademie e musei di nuovo in strada, dove dovrebbe sempre stare a fregarsene delle convenzioni, a sconvolgerci ed esaltarci come se non vi fosse un domani. Che oggi leggi modello morabile per giganti della levatura di Mark Lanegan (diverranno amici dopo che l'ex Screaming Trees rileggerà da maestro Carry Home) e David Eugene Edwards, di tutti coloro che seguono quelle orme sonore e spirituali impresse con una rivisitazione animalesca di blues, country e memorie sixties non così scontata nel 1980. Dopo il punk, di fronte a un bivio di estremizzazione hardcore o a un immaginifico post, bastian contrari come i Gun Club indicarono una “terza via” che poteva essere affrontata in svariate maniere: da valenti traghettatori fedeli alla linea come i Blasters, da sardonici fumetti divenuti realtà come i Cramps, da torvi e pertanto umanissimi rimestatori del torbido come loro. Nulla mancava: non la conoscenza appresa dalla fonte (Jeffrey era un collezionista ed esperto di blues; ma pure appassionato di soul ed errebì, di reggae e jazz); non la capacità di dare del passato una visone contemporanea, soffiando le inquietudini e l’asfissia dell’America reaganiana in qualcosa di antico e contemporaneamente indenne alla clessidra. Era il Mississippi che sfociava in California, tra le tante cose: la più terrigna delle musiche che trascolorava nella città delle illusioni per eccellenza. Uno stile che, da iconoclasta qual’era, pian piano sarà accettato tra le maglie del mainstream con i White Stripes (Jack White il fan terminale), assurgendo a classico - seppur di nicchia - senza rimetterci un’oncia di furore. Soltanto bestemmiando il Verbo ne trattieni lo spirito e cosa meglio di un’anima che si vende al crocicchio di Robert Johnson, fradicia di depravazione e strabordante oscura poesia. Quel buio che giace dentro ognuno e non tutti vogliono scrutare: solo i più forti, e al contempo i più deboli, ne sono capaci e talvolta qualcuno torna a raccontare cosa ha visto. Dopo di che, per lui e noi non c’è più pace. Fired B y L ove Una vicenda tormentata, questa, e spesso spiacevole. Per questo - e perché di decessi del rock siamo stufi, pur nella consapevolezza della nostra impotenza - su alcuni aneddoti soprassederemo. Perché sapere quanta droga scorreva a un certo punto nelle vene di Jeffrey o quando whisky gli stesse fottendo testa e fisico conta zero. Importa il ruolo fondamentale di una formazione uscita dal sottobosco punk losangelino per gettarsi con rabbia famelica sulle radici, in ciò mostrando la via a legiosni di successori. Il punto stava e sta tuttora nell’attitudine, nell’omaggio che si realizza attraverso l’oltraggio; nella mancanza di rispetto verso la rigidità dei puristi, per i quali il rock and roll - che è soprattuo fusione! - non sarebbe manco esistito, epperò vai a spiegarglielo. Nel voler strapazzare l’oggertto del proprio amore per infondergli uno spirito nuovo. Se presti fede al diabolus ex machina Pierce, l’idea di partenza era distruggere e poi (ri)creare, dunque vicina più ai Birthday Party che a band coeve e alle prese con la medesima materia. Per restare in città e scovare qualcosa di simile devi in effetti bussare alla porta di Chris 89 D. e dei Flesh Eaters, cosicché un cerchio iniziale si chiude. Prima del quale urge un flashback al 1979, quanto il ventenne Pierce scrive per la fanzine punk Slash, occupandosi con competenza di rockabilly anni ’50 e blues prebellico, sorprendendo per l’apertura mentale che lo conduce ad appassionarsi alla musica giamaicana e, tra le altre cose, a fondare il fan club dei Blondie stringendo amicizia con Deborah Harry e Chris Stein. In occasione di un concerto dei Pere Ubu conosce Brian Tristan, in arte Kid “Congo” Powers, ammiratore dei Ramones e chitarrista autodidatta. Poiché il biondo glamorous è appena tornato da un istruttivo giro a New York, scioccato dalla No Wave e dal suo approccio viscerale che tralascia la tecnica in favore dell’espressività, ritiene una buona idea mettere su una band con questo tizio. Il quale dovrebbe essere il chitarrista solista, ma uno strumento manco lo possiede; Pierce prende per sé il microfono e risolve la questione prestandogli la sua, un amplificatore e - a mo’ di riferimenti - il vinile di debutto delle Slits e vecchi 33 giri di Bo Diddley. Appare già chiaro che il Nostro abbia un’immagine chiara in testa, pur senza perdersi in fumosi intellettualismi. Dopo un breve periodo come Cyclones si ribattezzano con un più suggestivo Creeping Ritual, mentre alla sezione ritmica passano un po’ di facce. Trascorrono due anni facendosi le ossa, suonando spesso di supporto al meglio della scena punk locale, finché l’amico Keith Morris (che canta per Black Flag e presto sarà nei Circle Jerks) se n’esce col nome che sappiamo. Con mossa molto Settantasettina, rileggono Marvin Gaye e cercano idee nella libertà regolata di Ornette Coleman, risoluti a sferzare il blues e mostrare che il vero insulto è la versione fiacca datane da bianchi senza palle. Così si spiega in buona parte il linguaggio esecutivo di Powers volto a lavorare di tessiture e rumorismo, come si evince - nonostante la scarsa qualità - da registrazioni d’epoca incluse in The Birth The Death The Ghost (ABC, 1983; 6,5/10) e raccolte su palchi di L.A. nel 1980. Persa la ritmica originaria causa screzi (non sarà mai individuo facile JL: dispotico, bugiardo patologico, debole e perciò manipolatore), c’è un primo spartiacque.Arrivano il bassista Terry Graham e il batterista Rob Ritter, ambedue di solida e fantasiosa militanza nei Bags. Succede però che Lux Interior e relativa ghenga siano in città e abbiamo problemi a gestire il chitarrista Bryan Gregory: poiché le affinità elettive non le puoi domare, iniziano a girare con i Gun Club e, già che ci sono, gli scippano Kid Congo che in tal modo esce di scena per un triennio. Sarà un caso, tuttavia anche il rimpiazzo aveva sostenuto un provino per i Cramps. Si chiama Ward Dotson, californiano di Anaheim 90 e tecnicamente preparato, adroatore delle “roots” ed elemento perfetto per fungere da pietra angolare. Finalmente pronto, l’LP d’esordio Fire Of Love (Ruby, 1981; 9,0/10) è sensazionale affare di famiglia “allargata”, l’etichetta proprietà di Chris D. che inoltre produce cinque tracce e invita Tito Larriva dei Plugz al violino, piazzandolo poi dietro al mixer per il resto della scaletta. Inciso in un paio di giorni con pochi overdub e insistendo su Pierce per un approccio punk molto ruvido e "tirato", incalza e maledice, turbando come una lama passata sulla giugulare. Una mescolanza non più distinguibile tra '77, rockabilly, country e blues col piglio irrefrenabile della gioventù, irosa e strafottente eppure capace di cogliere dettagli e robustezza del collettivo, nonostante un contesto minimale. Lo chiariscono la sferragliante Sex Beat e Cool Drink Of Water, classico di Tommy Johnson dilatato a sei minuti caracollanti tra narcosi e desolazione; la controversa (con un testo presunto razzista: è interpretazione, sappiatelo) For The Love Of Ivy scorre tra buio e riverberi mentre Promise Me incede stranita su un violino scorticante e ronzare di corde velvetiane. Rock furibondo eppure poetico, dal quale i primi Dream Syndicate e Violent Femmes trarranno subito linfa vitale (She Is Like Heroin To Me, Jack On Fire) e che ti sbatte in faccia con oggettività un infervorato delirio, un terrore che magnetizza (Ghost On The Highway, Goodbye Johnny: i Suicide con le chitarre?). Epocale, insomma, e la prima indicazione di un ego geniale però accentratore che subito litiga con la Ruby. Ecco spiegato l’ingresso alla corte di Chris Stein per il seguito Miami (Animal, 1981; 8,5/10), messo su nastro in un’angusta stanza newyorchese che aggiunge ulteriore, claustrofobico fascino al cocktail. Titolo che evoca un luogo dove l’apparenza è una cortina tirata sul sordido, su qualcosa di sudicio e immorale (come del resto Los Angeles e New Orleans; poi toccherà a Las Vegas…) e un album che intelligentemente non ricalca il predecessore, approfondendo il lavoro sull’interpretazione vocale (sorta di Jim Morrison “black”, moderno e privo di retorica: A Devil In The Woods), sui fraseggi country in composizioni fascinose e indimenticabili come Carry Home, Like Calling Up Thunder e Mother Of Earth. Stein crea sottintesi e lascia a JL spazio per muoversi in un’atmosfera oppiacea, lontana dall’impatto sul palco dei Gun Club ed è giusto così. La band, intanto, salda il conto col passato rileggendo Run Through The Jungle e il rockabilly The Fire Of Love, poi s’inventa un sensazionale Chris Isaak perverso e corrotto in Watermelon Man. Senza tralasciare la vena misticheggiante di testi che altrove sono brucianti istantanee di realismo, l’irruenza ragionata e vieppiù irresistibile (Bad Indian, i cori - omaggio della Harry sotto pseudonimo - di Brother And Sister; la traslucida gemma Texas Serenade). Roba da pronosticare onori e un po’ di soldi in più nella tasca e figurarsi: col disco nei negozi, Ritter ha detto basta preferendo i 45 Grave e in copertina le facce sono tre, Dotson offuscato dal faccione torvo del Jeffrey. Un presagio, visto che anch’egli è fuori entro fine anno (fonderà i discreti Pontiac Brothers) e idem Ward per i troppi litigi tra galletti. Prima di sbattere la porta Rob ha istruito sul repertorio la conturbante goth-lady Patricia Morrison, che fa così il suo ingresso in una line-up completata dalla tagliente chitarra di Jim Duckworth e dal batterista Dee Pop. Resistono sei mesi, nei quali il leader cerca di incassare due lire - vizio che presto genererà una pletora di uscite trascurabili - con il live Sexbeat 81 (Lolita, 1982; 5,0/10) e si innamora follemente di Linda “Texalcala” Jones, cantante di Tex & The Horseheads. Di costei la voce sul mini registrato approfittando di una session per gli Horseheads andata buca: Death Party (Animal, 1983; 7,3/10) mostra sonorità più squadrate e compatte da ascrivere ai nuovi innesti. Da ricordare la title-track, il midollo diddleyiano Come Back Jim e una raffinata The House On Highland Avenue. Altro giro di giostra attorno al dispotico Pierce, frattanto, che richiama Terry Graham per un imminente tour in Australia: Duckworth abbandona per disaccordi con il management e Terry lo segue. Sull’aereo salgono Jeffery Lee e Patricia, dapprima scortati da una band locale e poi dalla vecchia conoscenza Kid Congo Powers. Mossa vincente, giacché il Kid sarà a lungo braccio destro del Nostro, restandogli accanto fino alla fine. C’è un lungo ed eccitante tour europeo a benedire l’amalgama e a consegnare la maturità con Las Vegas Story (Animal, 1984; 7,8/10) senza smarrire verve e potenza, in virtù anche del rientrato Graham. Il palco roda le composizioni che affrescano un ritratto ancor più meditato del Grande Paese e delle sue contraddizioni. Palesi la produzione di una ricercatezza che è crescita progressiva in termini di arrangiamento e scrittura, ma anche volontà di incanalare il “clima” della città che battezza il lavoro; soprattutto 91 l’impianto di base, sorta di romanzo noir che strada facendo si adatta da solo in pellicola. Recuperata la tambureggiante e innodica Walking With The Beast dal retro del 45 The Fire Of Love, si racchiude la mezz’ora di The Creator Has A Master Plan - Pharaoh Sanders: eccola, l’apertura mentale - in novanta secondi; si ospita Dave Alvin nelle anthemiche Eternally Is Here e Give Up The Sun; ci si getta nel buio per The Stranger In Our Town e una My Dreams da Joy Division d’oltreoceano. Dominano varietà e rifiuto delle convenzioni ed è qui il significato della cover di My Man's Gone Now, Pierce che schiaccia il pedale di teatralità e confusione sessuale da tossico Mark Almond. Tradizione rivisitata sempre e comunque, altrove ratificata nella romantica Secret Fires (in origine non sul vinile, ripescata da cassetta e cd) e nella livida Bad America, nelle camere del Moonlight Motel e in tutte le date della touree europea. Riuscita al punto che ne sortisce il live Danse Kalinda Boom (Megadisc, 1985; 6,8/10) e il quartetto compare nel programma della BBC The Tube in un’esibizione sconvolgente. Non tutto rose e fiori, comunque, dato che Terry getta la spugna definitivamente a Parigi; il resto della brigata si stabilisce a Londra cercando di capitalizzare quel poco di clamore e confidando nel supporto della stampa locale. Durante una data con i Scientists, il loro cantante Kim Salmon presenta a Pierce la fotografa giapponese Romi Mori: amore a prima vista e conseguente abbandono di tutto il resto, gruppo incluso. Congo e la Morrison fondano i trascurabili Fur Bible col batterista Nick Sanderson. Il capo dal canto suo risponde in solitudine con l’apprezzabile prova del dylaniano Wildweed (Statik, 1985; 7,0/10). Nei concerti che ne seguono la pubblicazione, lo scortano giustappunto Sanderson e la Mori al 92 basso. Ancora non può saperlo, ma è solo l’inizio di una discesa in inferi non più redenti dall’arte. R amblin' to the end “Poiché non vivrò a lungo, dovrai rispondere tu alle mie lettere, spiegare a tutti i giornali che ho comprato il biglietto per l’inferno. Per laggiù, sotto a questo mondo.” (Up Above The World; 1993) Prima della graduale picchiata al suolo da altezze forse troppo grandi, Mr. Pierce prende tempo riposandosi con la Mori e qualche distratta apparizione in cui recita poesie. Ricaricate a suo modo le batterie con alcol e droga e la partecipazione all’emozionante “cult record” I Knew Buffalo Bill di Jeremy Gluck (della partita Nikki Sudden, suo fratello Epic Soundtracks e Rowland S. Howard: viene da commuoversi e incazzarsi), riapre il Club nel 1987 con la fidanzata e il fido Powers, nel frattempo divenuto parte integrante dei Bad Seeds. A tamburi e piatti siede Sanderson e i concerti dell’epoca non sono granché benauguranti: una band limitata tecnicamente sorregge come può un frontman rifugiato nello stereotipo; certo non quello che vorresti dopo un biennio di sosta. Per questo motivo desta sorpresa a dicembre Mother Juno (Red Rhino, 1987; 7,0/10) e ancor più la presenza, nel ruolo di produttore, di Robin Guthrie dei Cocteau Twins. Stupore che lascia spazio a un sorriso d’approvazione grazie alla teatralità di Breaking Hands e al rockabilly Bill Bailey, alla splendida Yellow Eyes con ospite Blixa Bargeld e alla serrata Thunderhead. Se aggiungete Hearts e la lenta Lupita Screams, avrete l’ultimo 33 del Nostro da mettere in casa senza alcun patema. Ciò nonostante è palpabile la confusione ed è evidente che le troppe interruzioni abbiano fatto perde- re il treno e la centralità - seppur a livello “underground” - della formazione. Prova ne sia un progetto solista dell’uomo che si trascina per un biennio e ha per oggetto alcune cover di brani preferiti da Jeffrey, sostanzialmente vecchi country, blues e murder ballads. Ne discuterà a un festival con l’amico Nick Cave, che ripulito e focalizzato sulla propria attività farà dell'intuizione miglior uso. Il disco a firma Ramblin' Jeffrey Lee, vedrà la luce nell’indifferenza generale e con vendite risicate. Il decennio si chiude in tono minore con una nuova fatica dei Gun Club, quel Pastoral Hide And Seek (PIAS, 1990; 6,7/10) in cui la chitarra di Romi guadagna spazio e le sonorità si ammorbidiscono: il leader pare sereno, viaggia e si interessa alla cultura orientale; per un poco allontana da sé i vizi e la matrigna Los Angeles; può così scrivere brani di buon livello come Straits Of Love And Hate e Another Country's Young, come Humanesque e I Hear Your Heart Singing. Sostanza stilistica che non cambia, benché l’opera risenta in positivo del successivo Divinity (New Rose, 1991; 5,0/10), inconcludente pasticcio in studio e dal vivo che, tra ripescaggi e ispirazione in soffitta, poteva raccontare un artista placato ma dimesso oppure perso definitivamente dentro a follia e dipendenze. La soluzione, in ambedue i casi, è in arrivo. C’è il forfait di Nick Sanderson, cui subentra tale Simon Fish ovvero il 'Willie Love” che compare nel secondo album solista di cui sopra, Ramblin' Jeffrey Lee & Cypress Grove With Willie Love (New Rose, 1992; 6,6/10).Vi sfilano un paio di originali discreti benché l’anima sia in riprese di brani altrui: Charlie Patton (Pony Blues), Howlin’ Wolf (Moanin' In The Moonlight) e Skip James (Hardtime Killin' Floor Blues) le più note e azzeccate. Chiamatelo atto d’amore o rivelazione, magari un messaggio nella bottiglia nemmeno troppo velato in un estremo momento di lucidità. Fatto è che il tunnel è imboccato e la luce, là in fondo, appartiene a un treno lanciato a folle velocità. Nel corso dei ventiquattro mesi che seguono, Pierce alterna uscite acustiche a esibizioni un po’ così con i Gun Club, come testimonia Ahmed's Wild Dream (Solid, 1992; 6,4/10 - in America uscirà come Live In The U.S.), ricavato da un’esibizione olandese che mostra del buon lavoro di sei corde ma suscita inevitabili e stridenti confronti.Vale più come ultima registrazione ufficiale in cui appare Kid Congo: infine solo, Jeffery richiama Sanderson e combina casini a ruota libera. Non ne risente troppo il commiato Lucky Jim (What’s So Funny About, 1993; 6,7/10), più robusto compositivamente e impreziosito da liriche belle come mai mentre il cantante si fa carico della quasi totalità delle chitarre. Senza nulla togliere, l’assenza del Ragazzo Congo è tangibile ma non nel semiacustico brano omonimo, nell’autobiografica Ka- mata Hollywood City, in Idiot Waltz e Cry To Me. Passabile, ma Jeff non ci sta proprio più con la testa e da qui in poi non è un bello spettacolo. Tradita la Mori con un’altra giapponese - la fotografa Kayo Hosaka - se la gioca a favore di Sanderson: in siffatto “valzer idiota” spariscono sezione ritmica, l’amore della vita e voglia di vivere. Sulla via dell’autodistruzione a niente servono un giro concertistico sul continente coi Cypress Grove e le comparsate con Bad Seeds e Kim Salmon. Scade il visto ed è obbligato a lasciare il Regno Unito, rifugiandosi in Olanda e facendo la spola con l’oriente, tentando di ricostruirsi una carriera in Giappone. Ennesimo fallimento, con la conseguenza di un fatale rimpatrio nel grembo californiano. Nuovamente a L.A., Jeffrey Lee butta giù un’avvelenata biografia che uscirà postuma, tuttavia la catarsi è insufficiente. Ha ormai deciso, sicché è solo questione di tempo. Che viene trascorso frequentando la cricca di Snoop Doggy Dogg (!) e appassionandosi al rap, che il Nostro - in un’ultima follia - vorrebbe fondere con l’idioma del Sol Levante in un (parole sue...) rappanese che siamo in fondo felici ci sia stato risparmiato. Eccolo parlottare spento sul Tom Waits di Pasties & A G-string per il tributo Step Right Up, suonicchiare con poca verve e ancor meno convinzione qui e là, più di tutto stare seduro al bancone del Viper Room. La lancetta scatta il 31 marzo 1997: a nemmeno trentotto primavere, Jeffrey Lee Pierce è sieropositivo, ha l’epatite e un fegato devastato ma non un dollaro per cercare di curarsi. In visita al padre nello Utah, lo sorprende un infarto e addio. Sono trascorsi da allora tredici anni e gli omaggi nel frattempo sono andati moltiplicandosi, sotto forma di nuove edizioni, riscoperte (la più significativa Early Warning, un Sympathy For The Record Industry del 1997 con versioni alternative in studio, demo acustici e live dell’82; 7,0/10), omaggi. Dapprima il progetto italiano di Nicola Cereda e del Circo Fantasma che in I Knew Jeffrey Lee (Lain, 2006; 7,0/10), ripropone col cuore in mano anche sei brani di Pierce con gusto e la presenza di Emidio Clementi, Cesare Basile, Steve Wynn. Più recente e “pesante” We Are Only Riders (Glitterhouse, 2009; 7,5/10), lungo il quale Pierce aleggia come uno spettro, la voce recuperata - un paio di brani soltanto, però - da un nastro scoperto da Cypress Grove e reinterpretato da spiriti affini. Compaiono Cave, Lanegan, Edwards, Kid Congo e Deborah Harry al fianco di leve più giovani (Raveonettes, Sadies) e figure che era logico aspettarsi (Lydia Lunch, Mick Harvey, Barry Adamson). Legato da vigorose affinità elettive e da un’eredità benissimo compresa e portata avanti. Che, in qualche modo, lenisce la ferita di un’anima fin troppo (auto)devastata. Grazie comunque, voodoo child. 93 (GI)Ant Steps #35 classic album rev Sonny Clark Violent Femmes Dial "S" For Sonny (Blue Note, Luglio 1957) Violent Femmes (Slash, Aprile 1983) A cinquantadue anni compiuti il primo episodio solista di Sonny Clark ha ancora lo stesso fascino discreto che metteva in mostra in pieno Bebop. Defilato, certamente meno pirotecnico di altre produzioni dell'epoca, ma capace di reggersi a meraviglia grazie a un jazz organico e a una scrittura lineare come poche. Merito del suo autore, pianista di sostanza cresciuto ricalcando lo stile di Horace Silver, Bud Powell, Thelonious Monk e merito probabilmente anche di una biografia sfortunata che vide il Nostro esordire a suo nome nel 1957 e lasciare questo mondo già nel 1963. Il tutto a soli trentadue anni, per colpa dell'eroina e senza il tempo di dimostrare più di quanto si ascolta in quel pugno di dischi che costituisce la sua ridotta discografia. Fino a quel momento il percorso di Clark era stato di quelli istituzionali, tra collaborazioni di rilievo con Dexter Gordon, Stan Getz e Bud Shank quando la base operativa era ancora Los Angeles e sessions con Charles Mingus e Sonny Rollins dopo il trasferimento in quel di New York. Segno di uno stile giovane ma già formato, sicuro ma al tempo stesso malleabile, ideale per il ruolo di sideman e house pianist che la Blue Note gli affiderà verso la fine degli anni Cinquanta. Rilassatezza, interplay, organicità, blues: parole che in Dial “S” For Sonny inventano sei brani che stemperano l'enfasi del Bebop trasformandola in armonia e soprattutto 94 visione d'insieme. A creare un ponte con la contemporaneità jazz pensa la tromba di Art Farmer, decisa a sfruttare a dovere gli ampi spazi concessi dalla sobria scrittura di Clark con uno stile energico ma non debordante. Come si ascolta nella title track ma soprattutto in Bootin' It, tra saliscendi spericolati di ottoni – sono della partita anche Curtis Fuller al trombone e Hank Mobley al sax tenore – e svisate del padrone di casa sul pianoforte. Il tutto entro gli steccati di una musica impostata su un backgrond virtuoso, sull'accento nascosto e lontana da grossi scossoni o nette cesure, improvvisi ribaltamenti o impeti rivoluzionari. Anche in quella Sonny's Mood posta a metà programma che rappresenta con il suo mid tempo impeccabile un po' tutto il mood disco. Con un Clark swingante più che mai chiamato a cesellare alla sua maniera, tra grassetti in solitaria rispettosi della melodia e un impianto armonico lucidissimo. Bistrattata da buona parte della critica dei grandi nomi e scosciuta ai più dopo la morte dell'autore, la produzione di Sonny Clark subirà una rivalutazione repentina soltanto verso la metà degli anni Ottanta, quando John Zorn metterà in piedi il Sonny Clark Memorial Quartet. Una degna conclusione di una storia finita troppo in fretta. Fabrizio Zampighi I primi anni ottanta. Musicalmente, il periodo assomiglia alla spuma di un’onda sul punto di precipitare, tra ultimi fuochi punk, spuri compiacimenti elettronici, amplificazioni selvagge e contaminazioni sbalorditive. E tradizione che preme per indossare maschere nuove. A Los Angeles spuntano come demoni meravigliosi i Gun Club. Ma quella, signori, è la California. A Milwakee, stato del Wisconsin, città dei grandi laghi e della birra, accade qualcosa di simile, in qualche modo. Ma diverso. Il destino suggerisce a Gordon Gano (voce e chitarra), Victor De Lorenzo (batteria) e Brian Ritchie (basso e un sacco di altre cose) una missione chiamata Violent Femmes. Obiettivi principali: ruvidezza, genuinità, mancanza di rispetto. Tutti raggiunti, e al primo colpo. La loro prima leggendaria esibizione, avvenuta nella scuola frequentata da Gano, non fu priva di conseguenze: le liriche troppo allusive (che in realtà poco lasciavano all’immaginazione) guadagnarono al vocalist l’allontanamento dall’istituto e al padre di lui - predicatore battista convinto di aver cresciuto il pargolo a pane e riverenze sacre – qualche motivo di imbarazzo e riflessione. In realtà i tre sciagurati un sacro fuoco da adorare ce l’avevano eccome, e alimentato da combustibili doc: come i Modern Lovers del geniale loser Jonathan Ritchman, o il Tom Verlaine artefice di irrequieti sogni lunari, eppoi il country-folk, il vaudeville, il blues, Lou Reed, la verve del jazz, la Bibbia, il teatro d’avanguardia… Ingredienti che, ben centrifugati e sottoposti a febbrile disciplina unplugged (ante litteram), costituirono motore e sostanza dell’omonimo album d’esordio, ancora oggi bruciante come un nervo appena scoperto, come se avesse preso letteralmente a ceffoni le ingiurie degli anni. In che modo questo sia possibile, è un mistero ma neanche troppo: in realtà il chitarrone di Gano, il diteggiare fibroso di Ritchie e le batterie improvvisate di De Lorenzo furono e sono la manifestazione tangibile di un dissidio antico e ancora attualissimo, quello tra carne e spirito, tra convenzione e istinto, tra regole e fregole. Di questo sono fatte le loro canzoni, dello stesso impasto che da sempre rende necessario, impellente, naturale il fenomeno “rock”. Insomma, Violent Femmes è un disco esplosivo fin dal mefistofelico arpeggio che apre Blister In The Sun, due minuti e mezzo di lusinghe ormonali e potenza de-elettrificata, spiritello campestre prestato alle smanie del punk, vero e proprio sortilegio acustico i cui gran cerimonieri sono una batteria perversa (che esibisce in punta d'orgoglio la propria nudità) e la voce di Gano trotterellante sul ritornello assatanato. Qui, contese tra la provincia e il mondo, le radici del folk ritrovano urgenza, senso e applicazione. Per poi carburare bellamente rhythm and blues, come è il caso della convulsa Add It Up o quella fanfaluca di Prove My Love (dove De Lorenzo si esalta tra sincopi e ratataplan). E che dire dell'estro stradaiolo di Gone Daddy Gone - con quello xilofono da mortesecca burlona - e del jazz-blues di Confessions? Per approdare infine a Good Feeling, con quel sorprendente assolo di violino e tutto un languore sordidello che fa coagulare lo spirito Velvet Underground annidato tra i solchi. I lavori successivi (soprattutto Halloweed Ground e 3) si difesero bene senza però eguagliare freschezza, urgenza e ispirazione dell’esordio. Che resta disco godurioso, dalla portata enorme per tanto "indie" successivo e oserei dire contemporaneo. Stefano Solventi 95 la sera della prima —speciale 3-D parte terza Il salto finale nella storia del 3-D è complesso da decifrare perché lo stiamo vivendo e perché sono in gioco fattori che riguardano il progresso tecnologico nell’ottica e nella componente digitale. Testo: Costanza Salvi 96 Eccoci arrivati all’ultima puntata della nostra storia del cinema in 3-D; riassumendo le cose potremo notare, in fondo, una relativa continuità. Continuità che riguarda, prima di tutto, soggetti e generi privilegiati dal cinema in 3-D: fantasy, horror, animazione per un pubblico molto giovane. Anche gli effetti sono rimasti più o meno gli stessi o, al massimo, hanno subito qualche processo di restyling. Basta notare la profusione di lanci degli oggetti verso il pubblico o la loro disposizione sull’asse della profondità all’interno dell’inquadratura, presenti già nei primi film. Infine la commistione fra l’elemento commerciale curato dagli Studios e quello sperimentale/visionario di alcuni sconosciuti entusiasti della tecnica è rimasta invariata dagli anni 50 in poi. Parlare del passato e trovare elementi costanti è facile da questo punto di vista, perché le varie ondate della rinascita del 3-D coincidono esattamente ai vari momenti di crisi economica e di minaccia alla peculiarità della visione del film in sala: TV nei 50,VCR e home-video negli 80, Internet nel 2000. Il salto finale nella storia del 3-D è, però, più complesso da decifrare sia perché lo stiamo ancora vivendo sia perché sono in gioco più fattori che riguardano proprio il progresso tecnologico nell’ottica e nella componente digitale. Il digitale è, infatti, antagonista (chi fa più lo sforzo di recarsi nelle sale se può scaricare dalla rete?) ma anche nuovo alleato del cinema per grande schermo, soprattutto rispetto al 3-D: risolve problemi tecnici, affranca da molti vincoli e permette alla creatività di volare in territori sconfinati producendo risultati che si adattano perfettamente solo alle grandi dimensioni di uno schermo. Si tratta, poi, di decidere se considerare il 3-D come l’ultima tappa dell’evoluzione che portò dal muto al sonoro, dal b/n al colore e concordare sulla possibilità che vada a sostituire tutto il cinema che abbiamo conosciuto fin d’ora. Le maggiori case di produzione, soprattutto per l’animazione, hanno già dichiarato che i prossimi film saranno tutti in 3-D e che, d’ora in avanti, verrà utilizzata solo questa tecnica. Ci sono registi che da qualche anno si dedicano completamente a questa nuova strada: Robert Zemeckis e James Cameron in primis. Nella loro scelta siamo quasi costretti ad intravedere un sottotesto: il cinema del futuro sta qui. Non penso siano molto sicuri di quello che dicono ma fanno finta di esserlo, seguendo quella famosa strategia in cui si danno in pasto rumors e si raccolgono ‘verità’. In realtà nessuno può essere sicuro di nulla; si tratta di scommesse e previsioni soggette a ritrattazioni e cambi repentini d’opinione. Forse questa grande incognita che incombe sul cinema d’intrattenimento rispetto al suo successo e alle sue possibili nuove strade ha a che fare con l’estre- ma fugacità del film, con la difficoltà che ha un film di essere ricordato, di entrare nella memoria e nella stratificazione dell’immaginario comune. Per questo si devono ‘inventare’ e costruire momenti di svolta; soprattutto, come accade per Avatar, si deve trasformare un film in media-event attraverso la collaborazione con altri media, lo si deve identificare con un look estroso che, come un cappotto o una bibita, possa fare tendenza ed essere all’avanguardia. In questa nostra metafora il 3-D appare proprio come le scarpe all’ultimo grido, lo stile stravagante di una giacca che tutti finiscono per amare (e, in realtà, è stato ripescato dal fondo del baule). Il cinema, si diceva un tempo, sembra essere fragile come la pellicola su cui viaggia, soggetto a caducità e invecchiamento precoce; ora che tutto è in digitale e che un film viene scaricato, distribuito e scambiato nella rete, quel senso di fragilità è stato forse leggermente corretto. Ciò che fa venire in mente è, più che altro, l’idea di un contagio, di un virus che si clona in miliardi di varianti (serie, sequel, prequel, reboot ecc). Paradossalmente, poi, nonostante il veloce ricambio degli apparati e dei software, un film sembra anche essere più restio a dimostrare gli anni che ha e ad invecchiare velocemente, come succede ad un qualsiasi altro film girato su pellicola: lo direste che sono già passati dieci anni da The Matrix? Questo del tempo e della memoria è un tema da sempre connesso con il cinema e ha una particolare relazione con il 3-D. Mi è capitato di incorrere in un’interessante obiezione in proposito sollevata da Kristin Thompson (Duellanti, gennaio 2010). Lei sosteneva di non ricordare la tridimensionalità delle immagini in 3-D; il suo ricordo, l’immagine mentale che ha tratto da molti film 3-D, è, inesorabilmente, destinata alle due dimensioni. Forse questo ha a che fare con i limiti dello schermo, ovvero il suo perimetro, dal quale non si può prescindere, confine questo davvero inesorabile che comporta la scelta elettiva di una porzione di realtà, di una ‘veduta’. Le cose potrebbero cambiare se cominciassimo a pensare il 3-D non come un effetto che riempie lo spazio tra lo schermo e il pubblico, venendo fuori, ma come una profondità acquisita tra lo schermo e un visionario al di là. Cioè se abbandonassimo l’idea di un quadro che ispira volumetria e ogni tanto si spinge in fuori e accettassimo quella di una scatola ‘animata’. Comunque sia rimane il fatto che il 3-D sembra funzionare solo per alcuni film (o generi) e non per altri, che non avrebbero il minimo giovamento da questo meccanismo (un film, per citare uno attuale, come A Serious Man cosa se ne farebbe del 3-D?). Rimane, poi, il problema dell’effetto di realtà. Se colore e sonoro aggiungevano elementi al fine di riprodurre il reale, il 3-D fa la stessa cosa? Soprattutto è l’effetto di realtà quello che vuole 97 ottenere? Se è così perché ricordiamo colori e voci, ma non la tridimensionalità di un’immagine? O forse siamo più propensi a ricordare la storia che un film ci racconta più che la sua dimensione visiva? Il 3-D aggiunge un elemento che è costitutivo della realtà o rimane relegato alla stregua di un ‘effetto’ e, come tale, è qualcosa di cui si fruisce sul momento e che non è funzionale al motore narrativo o al meccanismo della produzione del senso o, ancora, alla identificazione proiettiva (che, comunque, rimangono intatti che ci sia o non ci sia 3-D)? Ritorniamo ora un po’ indietro: eravamo rimasti agli anni 80. Il decennio precedente è stato molto particolare per il cinema in 3-D, tenuto in vita quasi esclusivamente dalle produzioni indipendenti e pornografiche. Il successo di massa di Gola profonda aveva scatenato le iniziative. Nel 1972 uscì The Stewardesses che fece un discreto incasso anche perché in piena crisi il film venne acquisito dal circuito generale degli esercenti e non dai soli cinema a luce rossa. Fu distribuito dalla Stereo Vision International che si lanciò successivamente in una join venture con la Sierra Pacific Airlines e produsse altri due film della serie delle scatenate assistenti di volo. Altre compagnie indipendenti, fra cui la Sherpix che produsse Gola profonda, in quel periodo operarono tangenzialmente al circuito principale. In alcune di queste produzioni di skinflick o softcore si imbarcò, per esempio, la ben più famosa American International Picture (di Arkoff/Nicholson) che aveva già distribuito i film di Roger Corman, i beach-party movies e i film dei bikers degli anni 60. Ma probabilmente a causa della scarsa qualità di questi prodotti la AIP rifiutò di firmare i company credits. I film erano Prison Girls e A Man with a Maid che era di origine svedese e venne rieditato nel 1977 con un nuovo titolo, The Groove Room. È molto facile perdersi nei meandri produttivi di questi film dal momento che le riedizioni erano molte e i titoli spesso cambiavano; rischierei, quindi, di dare solo un elenco di film poco costruttivo. Chiunque voglia può andarseli a scovare nella rete: gli anni 70, in fondo, sono una miniera infinita di film di questo genere. Però qualcuno andrebbe 98 nominato: per esempio uno dei cult di questo periodo fu Flesh for Frankenstein, conosciuto anche come Andy Warhol’s Frankenstein, del 1974, girato in Italia con una coproduzione italiana (Carlo Ponti), francese, tedesca e americana da Paul Morrissey (e Antonio Margheriti?), con Joe Dallesandro e, in una piccola parte, Dalila Di Lazzaro. Il pretesto era sempre il solito: carne e sangue. Negli stessi anni anche le pubblicazioni periodiche si dedicarono al 3-D, spesso portando la mania pruriginosa fuori dalla nicchia del film porno. Il fumetto underground Deep 3D Comix del gruppo Krupp Comix Works, per esempio, includeva degli occhiali con lenti colorate rotonde e circondate da una miriade di bolle (to bubble in inglese significa anche essere pieni d’emozione, specialmente eccitati). Le pubblicità di questi prodotti alludevano a certe pratiche: It’s a malicious lie that 3D glasses cause kids to go blind. Reaserchers at Parson’s College (Parson è un sinonimo di sacerdote) found that less than 10% of children so observed went totally blind, and nearly half suffered absolutely no eye damage at all! Nel luglio del 1975 la rivista satirica National Lampoon che aveva una tiratura decisamente più ampia del fumetto underground, uscì fuori con un numero dal titolo ‘X-Rated 3D Entertainment’ con una delle copertine più trash della storia del 3D: Stevie Wonder che indossa un paio di occhiali blu e rossi! Decisamente poco elegante… Era accluso un paio di occhialini anche per l’acquirente che si poteva godere immagini e fumetti come Dirty Duck e Nuts, tutti rigorosamente stereo. Altre riviste come American Cinematographer, Australian Playboy e Club pubblicarono numeri simili. A cavallo fra 70 e 80 uno store a buon mercato come 7 Eleven distribuì una serie di vedute e comodi viewers pieghevoli che potevano essere riutilizzati in altre occasioni. Infine McDonald s’inventò un 3-D Happy Meal i cui occhiali per bimbi avevano la forma della classica M gialla del logo. Ma nessuna iniziativa per una produzione destinata alla massa fu presa durante questo decennio, almeno per quanto riguarda il cinema. La grande distribuzione venne coinvolta solo per alcune riedizioni di classici horror degli anni 50: House of Wax, Creature from the Black Lagoon, It Came from Outer Space. La cosa interessante di questo periodo fu soprattutto la strategia di sfruttamento della produzione commerciale mainstream da parte di questi film indipendenti al fine di ottenere notorietà. In molti casi si trattava di vere e proprie parodie: nel caso della locandina di The Flesh and Blood Show venne disegnato un volto di donna modellato su quello di Farrah Fawcett che era allora all’apice della popolarità. Alcuni film classificati come X-rated ve- nivano pubblicizzati come ‘stereovision 4D’: di fatto non si trattava tanto di tecnologie - se non dal punto di vista dei formati della pellicola che variavano – quanto di un riferimento alla componente erotica. La quarta dimensione era quella del ‘sensual involvement’. Attualmente il 4-D movie è un film tridimensionale che comprende anche l’uso di physical effects come pioggia, vento, luci stroboscopiche, vibrazioni ecc. che vengono usate, però, solo per i parchi a tema. Non sono da confondere con i motion simulator che, invece, sono specificatamente utilizzati per la simulazione di effetti e sensazioni prodotte dal movimento di un veicolo o di un aereo. Questi ultimi, applicati all’intrattenimento, hanno prodotto i simulator rides ispirati ai film più popolari come Back to the Future: the Ride o The Simpsons Ride. Nel caso del film APE, invece, la locandina diceva: ‘Not to be confused with King Kong’ che doveva servire come una specie di teaser. La presenza di uno squalo nelle grinfie del bestione, poi, irritò la Universal perché appariva a molti come una sorta di tie-in promozionale senza che, in realtà, questo film avesse nulla a che fare con il film Lo squalo (Jaws). La produzione di APE era quasi interamente sudcoreana e, in effetti, furono molte le occasioni in cui piccole compagnie indipendenti italiane, tedesche, cinesi e giapponesi (il caso di Domo Arigato, terzo film 3-D di Arch Oboler) stabilirono cooperazioni e accordi internazionali. Le tecniche 3-D si prestavano nella resa spettacolare dei film sulle arti marziali e quindi il cinema di Hong Kong visse un momento di crescita. Solo tre di questi film, però, raggiunsero un discreto successo fuori da Hong Kong: 13 Nuns (conosciuto anche come Revenge of the Shogun Women o Revenge of the 13), Dinasty e, infine, Magnificent Guardsman (o Magnificent Bodyguard) con la superstar cinese Jackie Chan. Negli Stati Uniti uno dei contesti di applicazione maggiori del prodotto in 3-D erano i parchi a tema. Uno dei film più impressionanti fu proprio pensato per il parco acquatico di Marineland in Florida, ora soppiantato dal vicino Disney World a Orlando. Il film di 23 minuti si intitolava Sea Dream. Ma il 3-D rimaneva ancora una tecnica presa molto poco sul serio, alla stregua di un passatempo da ragazzini, sottoprodotto di generi di consumo, buono per serate al drive-in. Per capire come veniva percepito dalla gente potete vedere il trailer di Real Life, un film della Paramount, girato, però, in versione piatta. Il film era una parodia di un programma tv di successo della PBS che documentava la vita quotidiana di una famiglia della middle-class americana. Albert Brooks, comico di origine ebraica, girò questo film nel 1979. Il trailer, che prende in giro i film in 3D, lo potete vedere qui: http:// www.youtube.com/watch?v=HvZTqRKX0GA. 99 Parlando di collaborazioni e partnership tra produzioni indipendenti forse non tutti sanno che la seconda grande fase del 3-D, quella degli anni 80, poggia proprio su di uno spaghetti western di Ferdinando Baldi che in Italia non venne distribuito: Comin’ at ya! L’artefice di questo film del 1981 fu Tony Anthony (Roger Pettito) che per l’occasione mise insieme un cast di origini spagnole (Victoria Abril), italiane e tedesche; la location era Almeria (la stessa di Un pugno di dollari di Sergio Leone) e la postproduzione e il soundtrack vennero fatti a Roma; una parte del risultato la potete vedere qui http://www. youtube.com/watch?v=PNnbR6mbBOE. Nonostante i problemi causati dalla scarsità degli occhiali forniti agli esercenti il film fece incassi sbalorditivi in confronto al denaro speso e il gruppo produttivo Lupo-AnthonyQuintano riuscì a realizzare anche una scopiazzatura in 3D di Indiana Jones, Treasure of the Four Crowns, con alla regia sempre Ferdinando Baldi. La penultima ondata di rilancio del 3-D iniziò da questa base semi-italiana proprio nei due anni successivi con film come Friday the 13th – Part III, Jaws 3-D e Amityville 3-D. Guarda caso sono tutti terzi episodi di film che hanno ottenuto grandissimo successo; stessa cosa accade oggi con i terzi episodi in 3-D di Toy Story o di Ice Age. La serialità (o prototipicità) cominciò ad essere davvero incalzante a Hollywood proprio negli anni 80 e fu scoperta la sua potenzialità di money-making. Non era, quindi, strano che il valore aggiunto del 3-D potesse funzionare da ulteriore appeal per migliorare il meccanismo di fidelizzazione rappresentato dal sequel: il secondo film lo si vede per il primo, il terzo per il 3-D. Friday the 13th – Part III in Italia uscì con il titolo di Weekend di terrore; riscosse molto successo soprattutto in patria dove uscì contemporaneamente in 800 sale il 13 agosto 1982. La Paramount prese accordi con la Sirius II Corporation per creare molte unità di proiezione che furono affittate dagli esercenti; inoltre questa compagnia produsse anche le lenti che permisero di creare i titoli di testa. Rispetto allo sviluppo della tecnica e agli standard usuali di quell’epoca, i titoli di testa passarono alla storia. Per avere un’idea della loro capacità di ‘proiettarsi’ nello spazio degli spettatori potete vedere qui http://www.youtube.com/watch?v=XVb4TxO500k. Il successo arrivò nonostante la censura avesse proibito ad una gran fetta del suo potenziale pubblico di entrare in sala. Il film, infatti, era ‘X-rated’ perché in una sequenza Jason taglia la testa di una vittima e scaglia l’occhio verso il pubblico. Jaws 3-D uscì nelle sale l’anno dopo, a luglio del 1983, distribuito dalla Universal. Nello stesso anno la 20th C. Fox era uscita con il terzo episodio di Star Wars (Il ritor100 no dello Jedi) che a maggio aveva fatto numerosi incassi ma non era in 3-D. Jaws 3-D passò attraverso numerosi problemi di realizzazione che si fecero sentire nella scarsa qualità delle scene tridimensionali, in particolare in quella dell’attacco dello squalo nel tunnel sottomarino. Durante la postproduzione la corrispondenza tra riprese realizzate da due diverse unità non fu possibile per cui si rigirarono alcune scene con materiale in miniatura e attrezzatura video. Il risultato fu, poi, trasferito su pellicola ma disallineamenti e confusione fra sfondo e primo piano non contribuirono alla qualità; inoltre alcune scene riprese ‘dal vivo’ e scartate dal primo Jaws vennero convertite per il 3-D. Il film, comunque, stava andando benissimo ma stranamente rimase nelle sale solo due delle quattro settimane concordate. Il film successivo, sempre in 3-D, che sostituì Jaws fu Metalstorm: la tempesta d’acciaio, un film mediocre che scimmiottava Star Wars, sempre distribuito da Universal ma realizzato da una produzione indipendente. C’erano molte aspettative su questo film dal momento che lo stesso autore aveva, precedentemente, scritto Parasite (in Italia Mutanti) con Demi Moore che in USA aveva avuto successo. Ma Metalstorm, nonostante tutto il rumore, i trailer, la pubblicità che se ne fece, andò molto male e la Universal perse denaro; il 3-D cominciò a perdere colpi di nuovo. Il terzo ed ultimo film di grandi incassi di questo periodo fu Amityville 3-D, uscito a novembre 1983. Questa serie era tratta dall’omonimo romanzo del 1977 di Jay Hanson, presentato come un fatto paranormale veramente accaduto. Il primo film del 1979 - di cui nel 2005 è stato fatto un remake - è di Stuart Rosenberg, regista della New Hollywood abbastanza interessante; questo terzo sequel in 3-D, invece, è diretto da Richard Fleischer (Viaggio allucinante, Tora! Tora! Tora!, 2022: i sopravvissuti) e prodotto da Dino de Laurentiis. Il film non era stato presentato come sequel dei due precedenti e il suo personaggio principale era modellato su un certo Stephen Kaplan, investigatore del paranormale, realmente esistito, che cercò di dimostrare che la storia della famiglia Lutz da cui Hanson trasse il romanzo non era altro che un inganno! C’erano numerose inquadrature in-your-eyes nel tipico linguaggio 3-D ma niente di troppo esaltante. In seguito, a parte le riedizioni dei classici dei 50 e i pochi casi - come Starchaser: The Legend of Orin che è onestamente noiosissimo - nessun altro film veramente interessante venne girato negli anni 80. Ma c’è una piccola eccezione, guarda caso per un parco a tema. Si tratta di Captain EO, uno dei più costosi film realizzati in 3-D, almeno in quel periodo. Michael Jackson è protagonista di questa favola scritta da George Lucas insieme a Francis Ford Coppola e Lemorande. Il film è del 1985 ed era stato realizzato esclusivamente per EPCOT, uno dei 4 parchi a tema del Walt Disney World Resort a Orlando, ispirato all’utopica città del futuro pianificata dallo stesso Disney. Pare inoltre che la morte di Jackson abbia spinto a rimettere in circolazione questo film a partire dal febbraio 2010 proprio a Tomorrowland, EPCOT, appunto. Strano che non sia ancora diventato un caposaldo del trash: http://www.youtube.com/watch?v=H9KZWKKpxk. C’è una curiosa convergenza di fattori che, per ogni decennio in cui il 3-D si affaccia sulla scena commerciale del cinema, spinge verso una fisiologica caduta dell’interesse. La curva del successo e della moda è inesorabile e, se ci facciamo caso, ha sempre a che fare con un capostipite particolarmente remunerativo e di grande successo di pubblico. Negli anni 50, gli anni migliori sono stati il 1952 e il 1953, stessa cosa si può dire per gli anni 80 (1982, 1983), quasi come se le linee dirigenziali degli Studios decidessero, all’affacciarsi di una nuova decade, di richiamare fuori dal cilindro qualche novità, avidi come sono di questo bene che si rivela sempre preziosissimo nell’intrattenimento. A ben guardare – altra cosa che si ripresenta e che ho già accennato – almeno un film che, per destino e per capacità collettive, è riuscito (doveva riuscire) a fare da spartiacque e ‘prototipo’ per una nuova ondata c’è sempre stato: Bwana Devil di Oboler nel 1952, Comin’ at ya! o Friday the 13th nel 1982/83 (in Italia Lo squalo). Segue, poi, una fase della durata di due anni, più o meno, che poi fisiologicamente decade quasi a suggerire che l’apice del successo può essere raggiunto una sola volta e che tutto quello che accade dopo è il solo effetto a strascico di un momento. Poi - sarà per il carattere episodico della moda e del comportamento del pubblico, sarà per la natura del cinema così soggetto al fenomeno del tempo e della caducità - tutto si spegne nel giro di pochi anni; almeno così è stato fino al 900 perché, forse, una certa inversione di tendenza si è verificata proprio in questi primi dieci anni del 2000. Da questa nostra storia abbiamo potuto notare che, il 3-D - almeno per il 900 - è stato sinonimo di cinema sperimentale, di serie B, a volte sconfinando nel trash, a volte nel più completo e autonomo orgoglio d’avanguardia. Se ha incontrato le masse lo ha fatto solo per pochi film che hanno coinvolto personalità più forti o nei casi in cui la possibilità economica era talmente ampia da assicurare un successo. Questo meccanismo è cominciato a cambiare durante gli anni 90; solo che non ce ne siamo accorti perché tutto veniva preparato all’interno dell’ambito ristretto delle produzioni destinate ai parchi a tema. Ed è infatti da qui che proviene l’ultima fase del 3D: stiamo parlando dell’IMAX. L’IMAX è un formato della pellicola più grande di quello usuale (70 mm) e richiede standard particolari di proiezione e uno schermo adeguato che, in genere, si aggira sui 22 x 16 metri. Questo tipo di standard è stato presentato per la prima volta nel 1970 per un Expo sulla tecnologia a Osaka, in Giappone. I costi di manutenzione e della logistica nelle attrezzature e nello sviluppo erano altissimi, quindi, inizialmente, i film presentati in questi circuiti erano diversi da quelli di puro intrattenimento. In genere si trattava di film documentaristici, molto più corti, adatti all’ambito nel quale l’IMAX si stava installando: istituti o centri scientifici. Più tardi, negli anni 90, cominciò anche il coinvolgimento dell’industria dell’entertainment ma i film girati continuavano ad essere destinati ai parchi a tema o ai musei, unici posti dove era possibile trovare dei teatri IMAX. Durante tutti gli anni 90 non ci sono stati film in 3D per il circuito tradizionale mentre molti sono stati girati per questo circuito (uno dei primi film di fiction IMAX in 3D fu Wings of Courage di Jean-Jacques Annaud del 1995, lungo 40 minuti e costato 20 milioni di $). Nelle sale tradizionali, invece, i 90 sono stati, più che altro, gli anni della CGI, utilizzata soprattutto per gli effetti spe101 ciali. Discorsi sulla virtualità e sul rapporto tra digitale/ analogico, irrealtà/realtà, nuove tecnologie, si sono moltiplicati fra studiosi e intellettuali mentre la tecnologia procedeva inesorabilmente sull’onda del gusto per l’effetto speciale più mirabolante. Visto in quest’ottica, l’approdo al 3-D nel 2000 non è altro che la logica conclusione di progressi tecnologici raggiunti dal digitale nel decennio precedente e dall’incontro tra prodotti e tecniche un tempo destinati a circuiti separati. Nel 2003 James Cameron crea per il circuito IMAX un documentario, Ghosts of the Abyss sui resti del Titanic, con una digital camera da lui realizzata, la Fusion Camera System, per realizzare film in 3-D. Con lo stesso sistema nel 2005 realizza anche Aliens of the Deep. Lo potete vedere qui: http://www.youtube.com/watch?v=PsS5IzcNnL8. Cameron, con questi due documentari, si comporta come se si preparasse a sondare le tecnologie da lui stesso ideate e implementate con l’obiettivo di registrarne il grado di preparazione, in vista dei nuovi progetti (Avatar, che era nel cassetto da un po’ e il futuro Battle Angel, tratto dal primo volume della serie manga, Battle Angel Alita, creata da Yukito Kishiro). Intanto comincia a delinearsi la possibilità di portare il 3-D fuori dal contesto IMAX. Infatti con la stessa digital camera (Fusion Camera System) Robert Rodriguez gira nel 2003 il terzo episodio di Spy Kids, Missione 3DGame Over, la serie infarcita di star ma per un pubblico molto giovane, questa volta con Sylvester Stallone e cameo di George Clooney. Il 3-D comincia ad uscire dal limbo della produzione IMAX ed invadere il territorio tradizionale (pare anche che alcuni effetti 3D siano stati mantenuti nella versione DVD e che siano stati venduti con la dotazione di un set di quattro occhialini). In patria non riscuote successo come i primi due, in Italia passa piuttosto inosservato così nel 2005 Robert Rodriguez ci riprova e dopo aver diretto l’apprezzato Sin City realizza sempre con la famigerata camera digitale Le avventure di Sharkboy e Lavagirl in 3D: http:// www.youtube.com/watch?v=8nU62Y6C4zo. I critici, Rodriguez, proprio non riescono a inquadrarlo a causa di risultati incostanti che spiazzano; ma Sharkboy e Lavagirl in effetti non si può vedere: è noioso e sembra che tutta la profusione di tecnologia sia scomparsa in un risultato mediocre e definito anacronistico a causa del formato anaglifico presente anche nella versione home video dotata dei famigerati occhialini blu e rossi. In realtà non penso che sia totalmente esatto questo nostro modo di pensare al 3-D come una peculiarità del cinema su grande schermo. Ci sono molti fattori che fanno pensare che, se le cose andranno per il verso giusto in termini economici, un giorno avremo anche canali 102 televisivi interamente dedicati a spettacoli in 3D (http:// www.imax.com/corporate/pressReleases/) o dispositivi 3-D per l’home video. Esiste anche una storia della televisione in 3D ma sarebbe troppo lungo anche solo accennarla. Chi vuole può partire dai tentativi fatti dalla 3D Video Corporation. Alcune iniziative furono prese dalla ABC per una puntata di Mork and Mindy in 3-D (‘Gotta Run’ è il titolo) di cui poi non si fece nulla, venne però girato uno spot della Coca Cola per la NBC durante il Super Bowl e il Rose Bowl Parade venne trasmesso in 3D sulla Fox. A dire il vero se il 3-D si fermasse a questi due prodotti non faremmo fatica a pensare di poterne fare volentieri a meno; ma, fortunatamente, negli anni successivi sono usciti risultati più apprezzabili: La leggenda di Beowulf del 2007 ha forse segnato un altro capitolo dal punto di vista delle produzioni in 3-D. Robert Zemeckis, poi, molto astutamente, si appoggia alla tradizione culturale accademica scegliendo con Beowulf un antico poema epico – a dir la verità considerato soporifero e complesso - che nei paesi anglosassoni viene studiato nelle facoltà umanistiche; il risultato finale è una girandola pop piena di citazioni e umorismo sboccato. Al di là del contenuto, che qui non stiamo considerando, il film è spesso ricordato per l’utilizzo di una tecnica di manipolazione digitale dell’immagine che Zemeckis aveva già utilizzato per Polar Express. Si tratta della performance capture che permette di registrare le espressioni del volto e i movimenti dell’attore, per formare un pattern digitale utile a creare un personaggio o più personaggi animati, sia in 2-D che in 3-D. Se volete una versione della motion capture direttamente da Homer Simpson potete vedere qui: http://wtso.net/ movie/351-1209_HOMR.html Pare che Zemeckis sia completamente fiducioso delle possibilità di questo sistema: permette, infatti, al regista di affrancare la sua creatività dalla gabbia dell’unicità dell’attore in carne ed ossa, da un lato rispetto alle sue caratteristiche specifiche e la sua fisionomia, dall’altro dai limiti dovuti alla variabilità delle singole performance. È particolare il caso di Beowulf, per esempio, dove l’attore Ray Winstone interpreta sia Beowulf che il drago. Il drago ha, quindi, le fattezze di un drago ma la sua fisicità è quella di un attore, una sorta di ‘clonazione mutante’ come è stata definita. Non tutti gradiscono, però, il risultato visivo. Questo tipo di texture della parte visiva, secondo qualcuno, rende gli attori inespressivi e, in modo inquietante, simili a statue di cera sul punto di sciogliersi. In alcuni casi, invece, la riconoscibilità dell’attore al di sotto delle sue ‘spoglie digitali’ può fungere da attrattiva; un gioco che funziona ampiamente perché in pieno accordo con l’estetica e il look dell’immagine a cui attualmente siamo abituati. La performance capture - peraltro proibitiva per produzioni a basso costo perché implica software e hardware complessi con programmatori molto competenti e qualificati - è stata utilizzata di nuovo da Zemeckis per l’ultimo suo film tratto da un racconto di Dickens, A Christmas Carol, ma anche da Tim Burton per Alice in Wonderland, che dovrebbe uscire a breve. Se questo discorso esula, in parte, da quello centrale sul 3-D, sarebbe stato sbagliato non menzionarlo dal momento che si tratta di una tecnica che viene, evidentemente, esaltata e ravvivata dall’uso dell’immagine tridimensionale. Ultimamente sono davvero aumentate le possibilità di scelta sul 3-D: c’è stato l’horror di San Valentino di sangue, il cinema d’avventura con quel film-giostra che è Viaggio al centro della terra; ci sono stati, soprattutto, apprezzabili prodotti per i più piccoli come Up (Pixar), Mostri contro Alieni (DreamWorks), il delizioso Piovono polpette (Sony Pictures Animation) e il clamoroso successo del terzo episodio di Ice Age, L’alba dei dinosauri (Blue Sky Studios); tutti hanno segnato un anno, il 2009, tra i più prolifici per l’animazione tanto da spingere anche un gruppo spagnolo con sede a Madrid, Ilion Animation Studios, nel business dell’animazione in 3D con Planet 51, ispirato alla fantascienza anni 50. Nell’ambito del 3-D ci sono nuovi arrivi anche da Germania, Francia, Australia, Gran Bretagna, perfino Sud Africa e India, oltre che dall’Italia, con un noir diretto da Avallone, tratto da Henry James. Ciascuno giudicherà rispetto alle proprie preferenze e gusti personali ma se dovessi eleggere il migliore direi senz’altro Coraline di Henry Selick. La cosa incredibile di questo film è la sua realizzazione: è il primo film d’animazione stop-motion in 3-D. Il film è tratto dall’omonima fiaba noir di Neil Gaiman in cui si racconta della scoperta fatta da una bambina di un mondo parallelo dove tutti hanno bottoni al posto degli occhi. In realtà il film non contiene molti dei classici effettoni 3-D ma sicuramente ne contiene il potere fantasmagorico d’immersione. Quello che si addice di più a questa tecnica: permettere allo spettatore di entrare in un mondo, viverlo in prima persona, rompere la separazione tra l’oggetto e il punto di vista. Se il 3-D non si limiterà a fare questo ma riuscirà anche a raccontare storie e dotarle di senso forse qualcosa di veramente nuovo verrà. 103 nel lager mentre gli altri prigionieri corrono verso il forno crematorio, così nel film tv di Daniel Mann Playing For Time (1981), tratto da una storia vera, un gruppo di donne sopravvivono alla camera a gas suonando in una piccola orchestra. Infine, Il Pianista (Roman Polanski, 2002), film Palma d’Oro a Cannes: le svastiche si chiudono a tenaglia sulla Polonia del giovane pianista Wladyslaw (Adrien Brody) precipitandolo nella spirale di deportazioni, ghetti, morti e ordinari traditori. Anche il cinema, come Adam, ha dovuto fare i conti con il suo passato, insomma. —recensioni Adam Resurrected P aul S chrader (USA, G ermania , I sraele , 2010) Quella tratta dal romanzo di Yoram Kaniuk (1968), non è semplicemente una storia sull’Olocausto, bensì «la storia di un uomo che prima era un cane che incontra un cane che prima era un ragazzo» come più volte ha suggerito Paul Schrader. Un percorso di redenzione personale, un racconto sul lascito delle generazioni passate e i sensi di colpa di un sopravvissuto nei confronti dei martiri della follia umana e delle generazioni a venire. L’inferno è prima di tutto personale e ripropone su larga scala il paradigma di A Porte Chiuse (1944) che proiettano su Adam Stein (Jeff Goldblum) lo spettro del Garcin sartriano, disertore per codardia. «L’inferno sono gli altri», che siano demoni in divisa da SS o non morti emaciati che riaffiorano in sogno per ricordare costantemente il peso di questa concessione, che siano altri prigionieri del Negev o una seconda gioventù rabbiosa. La psiche per Schrader è costruita su strati di sedimentazioni confusi e non sempre intelligibili, e passa necessariamente per il prisma dell’ego sessuale. Da questa instabilità latente il rapporto tra eros e thanatos trova vigore fino a trasformarsi in un indissolubile connubio bestiale in cui anche i gesti quotidiani vengono denaturalizzati e rivestiti di una ferinità violenta. Una trasformazione totale che ha fatto di Adam Stein, da clown ed artista di varietà apprezzato, un cane in tutto e per tutto, da domatore a bestia domata. Così l’appagamento fisico per Adam passa necessariamente per la forma canina a cui si presta la l’infermiera Gina Grey (Ayelet Zurer), risarcimento postumo per lo stato annichilente cui fu piegato in maniera coatta da un comandante nazista (Willem Dafoe). Il momento del massimo godimento perde ogni valenza positiva divenendo meccanico e performativo, riaffiorando nel subconscio con le prestazioni di intrattenimento a cui era stato condannato nel lager. La redenzione, insomma, passa per la sopraffazione di sé e degli altri, riproponendo la logica che spinse alcuni ebrei ad arruolarsi tra le file degli aguzzini divenendo kapò. Non a caso è proprio la rinuncia al desiderio di potenza a permettere ad Adam di riconciliarsi con il suo passato attraverso la riabilitazione del fanciullo cresciuto pensando di essere un cane e la riconquista di una dignità umana e del diritto alla vita per un’intera generazione. Non necessariamente per Adam, che come capofila 104 di questo esercito di diseredati, ha dell’Abramo biblico. A lui viene indicata la terra promessa dopo l’esilio nel Negev, ma come tutti i patriarchi biblici potrà soltanto percorrere la strada verso la salvezza senza goderne in prima persona. Le concessioni di una sopravvivenza agognata sono un avamposto psichiatrico nel bel mezzo del deserto ed infermieri ben disposti ad usare la forza, dall’altro una resistenza esistenziale nella Germania del muro che sembra essere un residuo impolverato di quella di Weimar, una monade tumorale. Non a caso l’ultimo stadio di prigionia da cui Adam non riesce ad evadere è quello che lo incatena ai suoi ricordi, flashback di demoralizzazione fisica e psicologica che affiorano dall’inconscio e si materializzano come piccoli tumori maligni o come nazisti dai rovi nel deserto, quelli che nell’Antico Testamento erano la voce di Dio. Un clown, voce super partes per eccellenza, viene catapultato negli orrori della politica. E’ la trasformazione del primo Charlie Chaplin, quello che ancora poteva giocare innocentemente con il mappamondo ne Il Grande Dittatore (1940) nel clown di Böll (1963). Con le sue paure, le sue opinioni, le sue riflessioni sull’importanza dell’identità in un mondo borghese. Seppur in ritardo sulla produzione culturale, il cinema si è interessato al tema dell’Olocausto offrendo una lucida analisi sotto differenti punti di vista. Anzi potremmo dire che vista la successiva capacità produttiva di pellicole a tema, lo scotto sia stato completamente pagato, trovando in questo riflettere anche un modo di esorcizzare lo spettro del collaborazionismo che una certa intelligentia prestò al regime. I rapporti tra gli orrori del nazismo e il mondo dello spettacolo, in tutte le forme, da quelle del mero servilismo, a quello della ribellione armata o intellettuale, sono sicuramente l’aspetto che più dimostra di avere ancora da dire all’interno della produzione cinematografica. Il risultato è una videoteca carica di impegno politico, satira e riflessioni al vetriolo imperniata sulle relazioni tra artisti, imbonitori e regime. Forse l’immagine più celebre è quella consegnata agli spettatori dal Chaplin de Il Grande Dittatore (1940), la danza con il mappamondo del malcapitato barbiere che per un’infelice somiglianza si ritrova nei panni di Hitler. Il film più dichiaratamente politico di Chaplin che tuttavia dichiarò successivamente che se fosse stato a conoscenza degli orrori dei campi di sterminio non avrebbe mai Luca Colnaghi Il riccio M ona A chache (F rancia , I talia , 2010) trattato con leggerezza certi argomenti. Nel 1942 è il turno di Ernst Lubitsch con Vogliamo vivere, opera magistrale in cui il messaggio politico è affidato alla feroce satira di una compagnia teatrale polacca impegnata nell’Amleto, ovviamente riletto con chiari riferimenti antinazisti. Esattamente trent’anni dopo Cabaret (1972) di Bob Fosse con Liza Minnelli, musical premiato con otto premi Oscar tra cui miglior regia, miglior attrice protagonista, fotografia, montaggio e musica. Gli anni della nascita del nazismo sono visti attraverso la vicenda di una spregiudicata cabarettista: un bagno musicale alla Kurt Weill con svastiche, Lilì Marlene e fantasmi di brechtiana memoria. Il dramma dell’Olocausto e del suo rapporto con il mondo dello spettacolo fu analizzato anche da Francois Truffaut con il suo L’ultimo metrò (1980), una delle pellicole più mature del maestro francese. I temi trattati sono numerosi: l’occupazione tedesca, i rapporti tra vita e palcoscenico in un’epoca in cui ogni accezione pirandelliana per la relazione era stata sostituita dall’imperativo alla sopravvivenza. La storia dell’impresaria Marion Steiner (Catherine Deneuve) contesa tra l’attività teatrale, la compiacenza degli usurpatori e l’amore per il marito nascosto nello scantinato ripropone i meccanismi di difesa contro l’oppressione e l’oscurantismo portati in scena anche con Fahrenheit 451 (1966). Come l’Adam di Paul Schrader costretto a suonare Rue de Grenelle 7, in realtà quartiere latino, nel mondo al vetriolo della Barbery è una ricca via borghese, sponsorizzata Chabrol come da brand nella libreria segreta di Renée. Qui, tra cariatidi con l’Alzheimer, clochard ballerini, borghesi repubblichini, portinaie misantrope ed erudite (Josiane Balasko) può persino arrivare un pensionato giapponese (Togo Igawa) che si costruisce una pagoda dalle porte scorrevoli e dai sanitari che suonano Mozart per coprire gli effetti nefandi della dieta al Wasabi. E come No. E si viene a scoprire che guarda caso il nipponico anziano viene a vivere proprio nel condominio dove c’è una bambina di dodici anni (Garance Le Guillermic) che tra le sue tante velleità parla giapponese manco fosse un agente della CIA sotto copertura, e - Carramba che trasloco! - per pura combinazione anche una portinaia che tra le sue tante passioni segrete coltiva un amore per la cultura giapponese. Che fortunello. Ed è chiaro che ci scappi l’insolito triangolo, la relazione in cui molti hanno visto un richiamo di Harold e Maude di Al Ashby (1971). Insomma in definitiva, film e libro sono un po’ ruffiani, e si possono concedere vezzi, luoghi comuni, filosofia spicciola da Luciano De Crescenzo, psicanalisi di quel caciarone naif che piace tanto alla setta Crepet e scivolate di dubbio gusto come quella del water che suona Mozart. Perché se lo fa Jerry Calà (ndr. Vado a Vivere da solo di Marco Risi ,1982) si parla di trash, qui – nel calderone di citazioni e rimandi - si parla di antropologia alla Lèvi Strauss magari. Paradossalmente libro e film nella loro rigidissima formalità sono persino postmoderni, se consideriamo la cosa sul campo letterario, sempre che con postmoderno si intenda solamente un affastellarsi di citazioni che a volte diventano delle appendici(ti, e come tali da levare anche a discapito del funzionamento complessivo). Puri ornamenti su cui costruire attorno un’arzigogolata verbosità che rimane nel film conferendo 105 un andamento lento, su tempi (morti) letterari e aperture a stazioni obbligatorie, come se fosse una Via Crucis costruita su due binari, le vite delle due protagoniste. Gli altri sono solo satelliti che popolano l’universo indistinto del condominio, la regia non si preoccupa nemmeno di introdurli o darci spiegazioni. Del resto i punti di vista sono sempre e solo quelli delle due Cenerentole, portati all’estremo con la soggettiva finale della portinaia e con i primi piani della macchina da presa di Paloma. Personalmente ho sempre odiato il 90% degli attori bambini: Shirley Temple, la piccola bambina rumena di Orphan (Jaume Collet-Serra, 2008), Michael Oliver in La Piccola Peste (Problem Child, Dennis Dugan, 1990), e mettiamoci dentro anche il napoletanissimo Adriano Pantaleo (Gli intoccabili – Ci hai rotto papà, Castellano e Pipolo 1993). Caso a parte per Macaulay Culkin in Mamma ho perso l’aereo (Home Alone, Chris Columbus, 1990). Della lista nera, tolto l’odio per il peldicarota di Dugan che aveva una faccia da spaccare a sprangate sugli incisivi, e Pantaleo che sembrava uno scugnizzo con precoci problemi di tossicodipendenza, gli altri soffrono di una forma affine a quella che è stata definita come sindrome di Dawson Leery. Adulti che giocano a fare i bambini. L’esatto opposto dello stereotipo reso immortale dalla spocchiosa «Sono il re della casa» (ndr. Home Alone). Solo che se il Marzullo del Massachusetts interpretato da James Van Der Beek e compagni se non altro si ostinavano a recitare la parte di eterni teen, qui abbiamo dei vecchi che si travestono da bambini per recitare la parte dei vecchi. Nel libro Paloma (Garance Le Guillermic) è la figlia di una coppia borghese. Saputella e grafomane, se non altro si sforza di vivisezionare il mondo alla ricerca della bellezza e del buono. Nel film la bambina non scrive, se non sui muri, ma si dedica ad un videoreportage che sa del peggior Erik Gandini alla ricerca dello scabroso nel mondo borghese. Mettiamoci che si veste come un mimo francese senza cerone, che assomiglia a Wim Wenders e si esprime come il Marzullo dei tempi peggiori, e il cerchio si chiude. Forse lei il buono non lo riesce proprio a vedere, del resto proprio quando con la sua videocamera veste i panni dell’indagatrice morale, deve togliersi gli occhiali. Sarà che nelle favole con piccoli principini l’essenziale è invisibile aglio occhi e quindi tanto vale, però l’immagine anche con la videocamera è sempre sgranata. Ci dovrebbero essere una regola capitale nell’avvicinarsi al cinema: mai andare a vedere la riduzione di un libro che vi è piaciuto. Mai. Tanto più se si tratta di un film francese. Dopo 600.000 copie vendute, la trasposizione al cinema del romanzo era ovvia. La lettura de L’eleganza del Riccio, il comunque sopravvalutato bestseller di 106 Muriel Barbery, aveva suscitato in me le stesse sensazioni che mi dà un libro di Fabio Volo. All’inizio lo evito come un monatto. Poi qualcosa mi stuzzica, o forse semplicemente sono un’ottima vittima da centro commerciale. Cedo. Mi piace incredibilmente. Mi rendo conto che è nazionalpopolare e dal sentimento facile. Me ne vergogno, però mi piace. Col tempo lo trovo banale, però, mi piace. Ma il film no, anche se ripensando all’ammiccante trailer confezionato dai distributori italiani, forse sono finito a vedere un film diverso. Luca Colnaghi La principessa e il ranocchio R on C lements /J ohn M usker (USA, 2009) In epoca di pieno New Deal Obamiano, la principessa è una ragazza indigente di colore che ricorda la protagonista di Imitation Of Life (Lo specchio della vita, Douglas Sirk, 1959). È il ritorno del vintage, l’impero sensoriale del classico. Yes we can. Su note jazzate che flirtano con il fusion partiture swing, le migliori coreografie che ricordano una pubblicità tipo di Carosello, il ritmo degli affetti e della vita in cui ballano a tempo gli esponenti della lowerclass e quelli viziati della upperclass. Giudici di gare perfidi agenti immobiliari, post crisi, che sanno dove speculare costruendo bolle ed incantesimi finanziari.Tiana e il ranocchio Naveen – principe diseredato e dissipatore che ricorda il modello nobiliare dell’odierna classe aristocratica e abbiente – raccolgono l’eredità della tradizione iconografica classica disneyana, e già questa è una notevole concessione per vivere di rendita. È come quando non devi pensare al mutuo sulla casa. Primo cartoon recente della casa madre ad aver ripristinato i fasti del disegno manuale concedendosi una parentesi meravigliosamente bidimensionale dopo i già mitologici UP (2009) e Wall-e (2008). Paradossalmente caldeggiato dal genio fondatore della Pixar, John Lassenter, che evidentemente fa il suo tributo al maestro Walt Disney, riconoscendone i meriti. La regia è affidata a Ron Clements e John Musker, padri di Aladin (1992) e La Sirenetta (1989), che ricompaiono così come Bianca & Bernie (1977) come reminiscenze in alcuni numeri musicali – si pensi a quello palustre che ricorda per modalità e tema la celebre direzione d’orchestra del granchio Sebastian - degni del miglior Vincent Minnelli: coordinamento di forme, colori, sincronia tra singolo e gruppo.Tutto il corredo di irresistibili e visionarie fantasie, coreografie pittoriche e proiezioni plastiche di umanità tipo e sentimenti morali. Più che una mossa riparatrice nostalgica, la potenzialità de film sta nel climax attuale, proiettato sul presente, in cui ogni inserto fiabesco più che ad un revival visionario degli anni ’80 è costruito con la certezza che qualcosa – se non nel mostro pensiero politico, almeno nel nostro immaginario – con Barack Obama è davvero cambiato. Quindi nonostante non siano presenti continui riferimenti alla cultura cinematografica d’animazione e non, resta difficile stabilire con certezza quale se il nuovo capitolo Disney risulti più adatto ad un pubblico di bambini, estranei alle allusioni politiche, alle implicazioni culturali, a anche alla complessità musicale di alcune partiture che fuori sala vengono fischiate più da un pubblico adulto. Ad esempio, il numero musicale de I miei amici nell’aldilà è una vera chicca. Ma non per bambini. Nonostante l’alligatore Louis, evidente tributo al genio della tromba Louis Armstrong, sembri la versione squamata del mitico urside Baloo de Il libro della Jungla (1967). Certo, poi il caleidoscopico omaggio alla tradizione viene fatto con gusto, intelligenza ed humor, qualità che non sono mai mancate alle produzioni Disney. Una New Orleans di fine ‘800 che scandisce la propria esistenza su partiture jazz come risarcimento all’incubo post Katrina e post Bush, il terrore dei Buffalo Soldiers reloaded e le ombre voodoo nero petrolio della guerra preventiva che si muovono minacciose sull’America. Ma soprattutto l’agognata parità sociale e dei sessi, in cui la protagonista ha un sogno in 3D: economico, di genere e razziale, proiettato sempre in una dimensione del riscatto delle quote rosa che ad esempio le permettono di sopportare la viziatissima e biondissima amica Charlotte, probabilmente discendente di chi le catene ai suoi avi le aveva messe davvero.Tiana ha da sempre il sogno di aprire un ristorante in cui servire la mitica zuppa del papà morto in guerra. La banca dei bianchi brutti e cattivi le chiede più soldi. Lei bacia un ranocchio, ma per lei la favola gira al contrario e più che nell’immaginario regno di Maldonia si trova a regnare una palude dove tra bracconieri, spettri voodoo dell’uomo ombra (la versione cartoon di Samuel L. Jackson come hanno già notato in molti) e adorabili vecchine cubane dalla pelle raggrinzita, è sempre l’universo cosmopolita del mondo animale ad esser protagonista. Residui faustiani ed elementi edipici mescolati nel gran calderone in cui la metafora culinaria mo’ di Barilla alla fine fa la parte del leone. Alla fine quindi c’è casa. L’utopia gastronomica è l’ovvia strada di realizzazione per l’happy end, ricetta della felicità che la casa madre Disney non può non servire a tavola, anche quando – come ormai fa in ogni sua produzione – riflette sulle pagine obbligate e tristi della nostra vita, come la morte. Ma lo fa sempre con un’infinita classe e una disarmante profondità che raramente nel cinema si riscontra. La parentesi della lucciola innamorata di una stella riesce a strappare una lacrimuccia anche ai più coriacei. La principesse e il ranocchio ha la fascinazione dei giocattoli old style di Fao Schwarz e dei vecchi bottegai, l’arma vincente contro l’ipertecnologia fumettistica di Astro Boy (David Bowers, 2009) della Eagle, che manca completamente il bersaglio non riuscendo ad interessare né alle generazioni cresciute con il fumetto né alle nuove leve per cui il personaggio è un perfetto estraneo. E la sfida è anche vinta con il divertente e citazionistico Piovono Polpette (Phil Lord, 2009) distribuito dalla Sony. Il segreto? Un modo dove fantasia e vita vera, frustrazione e desiderio, superstizione e caparbietà coesistono. L’attuale vestito di vintage, senza ridicoli fardelli gadgettistici e fantascientici. Per chi non vuole smettere di sognare. Luca Colnaghi 107 www.sentireascoltare.com