gli esordi psicotici e il problema dell`affettivita`

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GLI ESORDI PSICOTICI E IL PROBLEMA
DELL’AFFETTIVITA’
Ilaria Ortolani *
Introduzione
Parlare di esordi psicotici è un po’ come voler tracciare una
linea di demarcazione che dalla persona conduce al disturbo
escludendo la persona stessa e il suo pensiero. Solitamente, quando il
percorso di sviluppo si interrompe per dare vita “all’incomprensibile”
(Jaspers, 1959), allora si dice che lì nasce la psicosi. Ma i nuovi
approcci di intervento (Birchwood, 2005) e i nuovi modelli eziologici
(Zubin Spring, 1977) ci invitano a guardare oltre e prima, dove
ancora non c’è psicosi ma dove potrebbe esserci.
Lì, allora, in quel luogo, che è la vulnerabilità,
che non è un
punto ma una linea di sviluppo in evoluzione, può nascere la psicosi
ma anche non nascere perché è sempre dall’incontro tra esperienze di
vita e personalità più o meno vulnerabile che potrebbe nascere la
psicosi. Dunque, il percorso o i “percorsi” (Ballerini, 2002) che
conducono alla psicosi, potrebbero non essere così lineari ma delle
evoluzioni che partendo da una vulnerabilità biologica e psicologica
arriverebbero, tramite il passaggio per esperienze e tentativi di
“difesa”, al punto che noi vorremmo chiamare esordio. Certi che
l’esordio non è il momento in cui si va consolidando “l’autismo” e
“l’appiattimento affettivo” (Bleuler, 1911), perché tale punto sarebbe
già lontano dal momento critico per l’intervento (Birchwood, 2005) e
che non è il momento in cui osservare dei fattori di rischio che solo in
alcuni casi potrebbero condurre alla psicosi, allora ci chiediamo dove
possiamo collocare l’esordio?
Grivois nella sua accattivante metafora del “nascere alla follia”,
* Psicologa, allieva del III anno del Corso di Specializzazione in Psicoterapia
Istituto Romano Psicoterapia Psicodinamica Integrata
1
parla di esordi psicotici come un “debordare del tessuto emozionale preverbale e pre-riflessivo” (Grivois, 1999); Ballerini descrive l’autismo come
il modulatore dei “percorsi psicotici” (Ballerini, 2002), l’elemento che
consente di intravedere nei sintomi di base il
loro potenziale evolutivo
(ivi); Giuseppe Lago (2006) descrive la psicosi come uno stato di chiusura
autistica finalizzata a mantenere il “protomentale a livelli ridotti” (ivi).
Dunque, per una condizione di comodo, consideriamo l’esordio come il
momento o il periodo caratterizzato da un’angoscia terrorizzante o
“protomentale
in
eccesso”
(ivi),
che
nell’impossibilità
di
essere
mentalizzata o trasformata in immagini a causa dell’assente “funzione
alfa” (Bion,1963) porterebbe il soggetto ad organizzare stili difensivi come
l’autismo e l’attacco al legame al fine di stabilire la quota emotiva minima.
La condizione di “appiattimento affettivo” descritta da Bleuler sarebbe,
quindi, il risultato della lotta prepsicotica durante la quale l’autismo
diverrebbe sempre più consolidato. Certi che la nostra linea è solo un
tratto immaginario, che serve a giustificare un intervento precoce che non
potrebbe essere sempre sulla personalità vulnerabile data la sua natura
indefinita e quindi non “pre-psicotica” e a rifiutare la visione della psicosi
come “malattia incurabile” (Kraepelin, 1889), considereremo il ruolo
dell’affettività negli esordi e nei percorsi che dalla dolorosa angoscia
prepsicotica condurrebbero ad una penosa esclusione del protomentale e
del legame. Certi di intravedere nel “problema dell’affettività” il fulcro
delle psicosi, riprenderemo l’ipotesi di Bleuler relativa alla presenza di
varie forme di schizofrenia accomunate da “sintomi fondamentali” ed
“accessori” (Bleuler, 1911), considerando però le varie manifestazioni
come diversi aspetti di uno stesso fenomeno ovvero la necessità di ridurre
al minimo il protomentale. In tale ottica anche la distinzione tra positivi,
misti e negativi (Andreasen, 1982) appare solo fenomenologia: se infatti
scopo del paziente psicotico sarebbe ridurre al minimo il protomentale,
data l’impossibilità di creare nuove sintesi o rappresentazioni del mondo e
quindi di ridurre il marasma emotivo che deriverebbe dall’interazione con
l’esterno, allora si potrebbe pensare a una vasta gamma di modi possibili
2
che vanno dal delirio al disinteresse, all’allucinazione, alla catatonia ecc.
Considerare il “momento della nascita” come un punto caratterizzato dal
protomentale in eccesso ci permette, inoltre, di rifiutare il concetto di
“incurabilità”
(Kraepelin,
1889)
considerandolo
il
risultato
di
un
osservazione parziale: ovvero l’osservazione di pazienti già al di là del
periodo “critico”
per l’intervento o vicini ad uno stato di cronicità dato
dall’appiattimento affettivo.
In questa sede riprenderemo, quindi, l’ipotesi di Bleuler relativa alla
presenza di varie forme di schizofrenia caratterizzate da sintomi di base
ed accessori, attribuendo un ruolo chiave, nella visione complessiva del
disturbo e del suo sviluppo, all’affettività ed alla necessità di mantenerla al
minimo, al fine di ridurre i livelli di angoscia (protomentale in difetto).
Quindi valuteremo il ruolo dell’affettività nelle psicosi all’esordio o nelle
fasi precoci del disturbo ipotizzando un momento “critico” caratterizzato
da un eccesso di affettività che, nell’impossibilità di essere mentalizzata
(disturbo del pensiero), genererebbe lo sviluppo di varie strategie
difensive finalizzate a loro volta a ridurre al minimo il livello emotivo e
quindi il dolore (Lago, 2006). La chiusura, il distacco dalla realtà,
l’ambivalenza ecc costituirebbero, quindi, diversi aspetti di uno stesso
fenomeno ovvero la necessità di ridurre al minimo il marasma emotivo
talvolta confuso, indefinito e doloroso dei pazienti psicotici. In quest’ottica,
consideriamo l’appiattimento affettivo come un carattere saliente delle
psicosi giunte però alla cronicità e il percorso psicotico come una lunga
“lotta” contro il “debordare di elementi emotivi-affettivi” (Grivois, 1999)
angoscianti in cui possibilmente dispiegare l’intervento (Birchwood, 2005).
Il protomentale in difetto (Lago, 2006) diverrebbe, quindi, per il soggetto
psicotico una sorta di anestesia che impedirebbe il contatto, il piacere, ma
soprattutto il dolore. Questo è quello che chiameremo psicosi.
3
1 Gli esordi psicotici: il cammino verso l’appiattimento
affettivo
Abbiamo ipotizzato, riprendendo il modello dell’IRPPI che il
paziente psicotico sia portato ad eliminare la propria affettività al fine
di ridurre esperienze emotive dolorose, ma che tale condizione
rappresenti soltanto il fulcro della patologia cronica o conclamata.
In tal senso ci sembra interessante citare quanto evidenziato
da Ping-Nie Pao rispetto all’emotività dello psicotico. Quest’ultimo
(Pao, 1979) descrive l’indifferenza emotiva come un elemento
utilizzato a scopo difensivo. Citando Bleuler considera indubbia la
capacità dello schizofrenico di produrre affetti e l’appiattimento come
la “migliore soluzione possibile” all’angoscia: come ogni altra persona,
dice
Pao,
lo
schizofrenico
deve
elaborare
stimoli
affettivi
ed
ambientali che possono in lui attivare desideri, rabbia o paure
persecutorie o più in generale una condizione di angoscia che Pao
definisce “panico organismico”. Volendo evitare la condizione di
angoscia, lo schizofrenico utilizza l’indifferenza come unica o “migliore
soluzione possibile” (Pao, 1979). In tal modo, riesce ad attenuare
l’effetto degli stimoli esterni ed interni non appena li percepisce (ivi).
La cronicità ed il passare del tempo giocherebbe un ruolo chiave nel
consolidamento dell’indifferenza come difesa, mentre nelle fasi acute
questa
non
sarebbe
ancora
pienamente
sviluppata,
quindi
lo
schizofrenico potrebbe ancora mostrare segni di labilità emotiva.
Dunque, “l’appiattimento affettivo” (Bleuler, 1911) sarebbe, in linea
con questa teoria, un aspetto centrale nelle psicosi croniche ma non
ancora ben consolidato nelle fasi precedenti. In tal senso ci sembra
interessante anche l’ipotesi di Grivois (Grivois, 1999), il quale
descrive la psicosi nascente o l’esordio come un “debordare del
tessuto emozionale preriflessivo e preverbale” tanto che il soggetto
“ne viene invaso e ne viene fatto esplodere fino ad allontanare la
realtà” (ivi). Nascere alla follia, secondo lui, è un emergere di
“emozioni-cognizioni” o di “tracce relazionali profonde” (memorie
4
implicite) attivate da ulteriori relazioni. Secondo Grivois, il distacco
dello psicotico dal tessuto emotivo costituirebbe un aspetto già
cronicizzato di quest’ultimo, indotto in parte dall’azione cronicizzante
dei farmaci, in parte dall’aspetto relazionale della prescrizione che
potrebbe corrispondere ad un messaggio di indisponibilità affettiva.
Nonostante
la
posizione
estrema,
ci
sembra
interessante
la
prospettiva di un esordio caratterizzato dal “protomentale in eccesso”
(Lago, 2006), che vede nel ritiro, nell’appiattimento affettivo e nella
chiusura l’unica soluzione
possibile al dolore;
congruente con tale
impostazione ci sembra anche la visione di Birchwood, il quale
evidenzia come spesso quello che noi vediamo delle psicosi è solo il
risultato di un lungo percorso che non sempre conduce alla cronicità
(Birchwood, 2005). Considerando la psicosi come una “organizzazione
stabile” tesa a ridurre il dolore, il piacere ed in genere l’affettivià o
l’angoscia che deriva dall’interazione con l’ambiente (protomentale in
difetto), ci sembra possibile ricondurre le varie forme del disturbo ad
un unico comune denominatore e considerare le
(sintomi
misti,
negativi
o
positivi/dimensione;
manifestazioni
sintomi
positivi,
negativi, disorganizzazione) come le differenti facce di un'unica
medaglia. Lo scopo ultimo dello psicotico sarebbe, infatti, ridurre al
minimo il protomentale e quindi il proprio livello emotivo (Lago,
2006); l’unico modo possibile affinché ciò avvenga sarebbe la messa
in atto di varie strategie per escludere l’altro e la realtà dal proprio
mondo. Che questo avvenga tramite la chiusura autistica, tramite il
delirio, l’allucinazione ecc ci sembra meno rilevante. Interessante a
questo proposito è anche la visione di Correale il quale descrive il
percorso pre-psicotico come una lotta contro “l’inermità, l’impotenza
e la passività”, un terrificante percorso, potremmo dire, drammatico e
spaventoso, verso l’irrealtà che condurrebbe, superato il punto di non
ritorno, alla “passività” ed “all’inerzia” (Correale, 2000). Nonostante
Correale consideri l’aspetto relativo all’appiattimento affettivo come
secondario rispetto al senso di irrealtà pre-psicotico o meglio come
5
una sorta di rassegnazione contro cui il soggetto ha lottato durante le
fasi precedenti del disturbo, ci sembra interessante l’attenzione alla
riattualizzazione del trauma, intesa come riattivazione di memorie
emotive implicite e la visione della depersonalizzazione come assenza
del principio ordinatore della coscienza o funzione/inversione della
“funzione alfa”. Tutto questo ci sembra molto analogo al concetto di
eccesso
di
emotività
la
quale,
nell’impossibilità
di
essere
mentalizzata, “ordinata” o sintetizzata condurrebbe ad un drammatico
emergere di elementi confusi ma carichi di angosce o di significati
oscuri, elementi simili a quelli definiti da Bion come “elementi Beta”
(Bion, 1963). Dunque, scopo di questo lavoro è analizzare il problema
dell’affettività
durante
le
fasi
prepsicotiche,
considerando
il
protomentale privo di contenimento la base di partenza dello sviluppo
psicotico nonché elemento comune delle varie forme di schizofrenia.
2. La psicosi conclamata e l’appiattimento affettivo
Nel 1911 Bleuler coniò il termine schizofrenia per indicare un
gruppo
di
patologie
caratterizzate
da
“sintomi
fondamentali”,
necessari alla diagnosi, ed “accessori” (Bleuler, 1911) ovvero presenti
in alcune forme di psicosi ma non indispensabili alla diagnosi (deliri,
allucinazioni). In questa sede considereremo l’appiattimento affettivo
come il fulcro della patologia (Lago,
2006), considerando gli altri
sintomi come variabili secondarie e funzionali al mantenimento della
quota protomentale al minimo (ivi). Un altro elemento centrale
sembrerebbe
rappresentato
dall’autismo
inteso
non
solo
come
chiusura ed isolamento ma come esclusione dell’altro dalla relazione
ed impossibilità di creare uno spazio intersoggettivo. Possiamo quindi
intravedere
aspetti
autistici
nel
delirio,
nell’allucinazione,
nella
catatonia, in quanto “modi possibili” per creare una rottura con
l’esterno. In ultimo, è bene evidenziare che la pericolosità del
protomentale e della relazione, possibile fattore di innesco di
cortocircuiti emozionali, non sarebbe data dall’angoscia in quanto
6
tale, ma dall’impossibilità di mentalizzare o di sintetizzare in immagini
nuove elementi emotivo-affettivi (disturbo del pensiero).
In questa sede citeremo la teoria di Bleuler per evidenziare il ruolo
dell’appiattimento affettivo nel disturbo schizofrenico. Considereremo,
quindi, i sintomi fondamentali come aspetti o manifestazioni esterne
del “problema fondamentale”: ovvero il “problema dell’affettività”.
2.1
L’appiattimento affettivo
Per appiattimento affettivo intendiamo la riduzione di quella
quota di elementi emotivi pre-verbali e pre-riflessivi (protomentale)
che in soggetti normali verrebbero ordinati e sintetizzati tramite la
funzione mentale detta da Bion “funzione alfa” (Bion, 1973) o tramite
quel
processo
mentale
che
Fonagy
chiama
“mentalizzazione”
(Fonagy, Target, 1997). L’assenza di tale funzione nei soggetti
psicotici condurrebbe, nel caso di un incremento del livello emotivo,
all’emergere di immagini frammentate analoghe agli “elementi beta”
in maniera confusa, indefinita e indifferenziata (insalata di parole,
disorganizzazione del pensiero e del comportamento) nonché ad un
penoso ed angosciante marasma emotivo, doloroso sia in quanto
caotico “debordare del tessuto emozionale” (Grivois, 1999), sia in
quanto drammatico senso di estraneità (angoscia di inermità:
Correale, 2000). Scopo quindi dello psicotico sarebbe la riduzione al
minimo del livello protomentale (Lago, 2006) al fine di ridurre
l’angoscia ed il dolore.
2.2
L’autismo
Un secondo sintomo che Bleuler definisce fondamentale è
rappresentato dall’autismo. Per autismo l’autore intende una forma di
“distacco dalla realtà” caratterizzata “dall’indifferenza al mondo
esterno che spesso può risultare ostile per il soggetto in quanto fonte
di disturbo del proprio mondo interno” (Bleuler, 1911). Dall’autismo
deriverebbe anche l’assenza di volizione e l’apatia. In questa sede
7
consideriamo l’autismo come una strategia difensiva necessaria al
soggetto psicotico per mantenere al minimo il livello protomentale e
rintracciabile anche in altre manifestazioni patologiche. Qualsiasi
forma di relazione o più semplicemente la presenza dell’altro da sé
implicherebbe, infatti, la possibilità di reagire emotivamente ad esso
dovendo creare rappresentazioni coerenti e stabili di sé e della
relazione. Di fronte all’impossibilità di sintetizzare elementi emotivi
confusi ed indefiniti, lo psicotico deciderebbe di escludere il mondo
esterno dal proprio spazio vitale evitando, tramite l’indifferenza,
l’apatia e l’anedonia, qualsiasi contatto con esso. In una prospettiva
ampia, quindi, consideriamo l’autismo non solo come ritiro ed
isolamento ma come “attacco al legame” o assenza di relazioni
affettive (Ballerini, 2002).
2.3
L’ambivalenza
L’ambivalenza
descritta
da
Bleuler
come
“tendenza
ad
attribuire contemporaneamente a psichismi diversi segni positivi e
negativi”(Bleuler, 1911), sarebbe sia funzionale al mantenimento
della quota protomentale minima, in quanto impedirebbe al soggetto
la volizione, l’azione e l’emozone (ambivalenza emotiva, della
volontà, dell’intelletto) e quindi il contatto e l’interazione con il
mondo, sia espressione dell’assente funzione alfa. E’ come se il
soggetto, sottoposto ad una pressione ambientale, manifestasse la
propria frammentazione, dovuta a sua volta all’assente funzione alfa,
e questa stessa frammentazione costituisse una sorta di attacco al
legame tale da mantenere l’emotività minima.
Il “voglio ma non
voglio”, “amo ed odio” “sono il tale X e non sono lui” escluderebbero
la possibilità di interagire con il mondo ed allo stesso tempo
rappresenterebbero l’emergere di un inconscio frammentato dopo una
richiesta di interazione.
8
2.4
L’allentamento dei nessi associativi
L’allentamento dei nessi associativi potrebbe essere visto sotto
la stessa ottica dell’ambivalenza: ogniqualvolta uno stimolo agisce sul
livello emotivo del soggetto generando l’emergere di memorie
emotive automatiche, questo si troverebbe di fronte all’impossibilità
di creare rappresentazioni dei propri moti interni, di conseguenza
emergerebbero
“rappresentazioni”
interne
frammentate
e
disconnesse; tale alterazione, a sua volta, condurrebbe ad una
“relazione impossibile” e quindi all’attacco al legame funzionale
all’equilibrio stabile (Lago, 2006).
Un elemento importante della perdita dei nessi associativi potrebbe
essere la presenza di un filo conduttore delle varie “immaginiframmenti” riportate dal soggetto. Se infatti tali immagini fossero
attivate da uno stimolo agente sull’inconscio emotivo generando
l’emergere di memorie automatiche implicite legate a tale stimolo, se
le rappresentazioni attivate riguardassero configurazioni disconnesse
a causa dell’assente funzione alfa, allora le associazioni del soggetto
potrebbero riguardare l’affetto elicitato dallo stimolo. Il problema è
che, nei pazienti psicotici, mancando un senso di sé fondato
sull’emozione del momento ovvero il sé nucleare presente nei
borderline (Damasio, 1999), anche l’emozione del momento sarebbe
confusa
ed
indefinita
rendendo
difficoltoso
rintracciare
il
filo
conduttore delle associazioni. Tale filo potrebbe infatti essere dato da
un misto di rabbia, amore, e paura confuso ed indefinito. Un paziente
ad esempio, di fronte ad un rimprovero paterno, riportò una serie di
esperienze ed aneddoti legati tra loro forse, da un marasma emotivo
di rabbia, abbandono, amore, solitudine. Il rimprovero aveva forse
alterato la quota protomentale generando l’emergere prima di
memorie emotive implicite poi di immagini frammentate legate a tali
memorie in alcuni casi deliranti. Cominciò quindi a parlare della ex
fidanzata che lo aveva lasciato, dell’episodio del rimprovero, della
morte del padre, del vicino di casa (probabilmente a lui ostile), delle
9
cene di Natale, della preparazione dei pasti ecc…In questo caso,
comunque, più che di dissociazione sarebbe opportuno parlare di
frammentazione: le immagini-frammenti, infatti, non sono solo
vagamente disconnesse o ricomponibili ma elementi di realtà psichica
mai sintetizzati.
2.5
Le schizofrenie
Bleuler distingue, inoltre, tra le varie forme di schizofrenia
quella “simplex” (Bleuler, 1911), caratterizzata dalla sola presenza di
sintomi
fondamentali,
da
altre
forme
in
cui
oltre
ai
sintomi
fondamentali sono presenti altre alterazioni non necessarie alla
diagnosi. Consideriamo la schizofrenia semplice la forma più vicina ai
disturbi di personalità schizoidi e schizotipici in quanto caratterizzata
da stili difensivi fondati sul disinteresse, sulla chiusura, apatia,
isolamento ecc. La forma “paranoide”(ivi) sarebbe, invece, diversa da
un punto di vista sintomatico rispetto alla forma semplice in quanto
caratterizzata dalla presenza di sintomi positivi, ma simile da un
punto
di
vista
psicodinamico:
il
soggetto,
infatti,
di
fronte
all’impossibilità di mentalizzare stimoli emotivi provenienti dalla
realtà, invece di disinteressarsi ad essa per difendersi, sceglierebbe di
costruirne
una
presenterebbe,
a
lui
più
secondo
congeniale.
Bleuler,
La
dopo
forma
fasi
di
catatonica
si
eccitamento
schizofrenico. Questo punto rinforza la visione del sintomo catatonico
come strategia per ridurre al minimo l’emotività.
Detto questo e considerando che, lo studio di Bleuler evidenzia le
caratteristiche di casi già conclamati di psicosi, ci chiediamo quali
siano le caratteristiche salienti degli esordi e se, in queste fasi, sia
possibile attuare l’intervento.
3. Lo sviluppo della personalità vulnerabile alle psicosi
Diversi studi evidenziano la relazione tra stile d’attaccamento
infantile e lo sviluppo di varie forme di psicopatologia in età adulta.
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Alcuni tra questi evidenziano la stretta connessione tra uno stile di
attaccamento disorganizzato e sviluppo psicotico. Rivisitando tale
relazione alla luce del modello dell’IRPPI, appare abbastanza evidente
l’impossibilità in soggetti con attaccamento disorganizzato di affidarsi
ad un “altro da sé” capace di contenere e sintetizzare il proprio livello
emotivo e quindi di favorire la formazione di immagini stabili di sé e
dell’altro da sé. L’assente funzione di “rệverie” materna o l’assenza di
una “base sicura” (Bowlby, 1969), l’assente capacità del care-giver di
“contenere” gli stati emotivi del figlio (Bion, 1962), la mancanza di
una “relazione di empatia” (Kohut, 1971), e l’incapacità di scoprire il
mondo imitando l’altro e di riconoscere il sé negli occhi dell’altro,
condurrebbero alla carente formazione di immagini e all’impossibilità
di “mentalizzare” (Fonagy, Target, 1997) il livello emotivo detto
protomentale che si sviluppa nei primi 2 anni di vita (Lago 2006).
La “funzione riflessiva”, ovvero la capacità del bambino di
“leggere” la mente altrui e di derivare lo stato del Sé dalla percezione
dello stato mentale dell’altro da sé, permetterebbe, infatti, tramite la
percezione
dello
stato
mentale
del
caregiver,
lo
sviluppo
dell’immagine di sé e dell’altro (Fonagy, Target, 1997).
Fondamentale al fine dell’elaborazione di un’immagine non
distorta di sé e dell’altro da sé è, quindi, la capacità del genitore di
fornire la cosiddetta base sicura (Bowlby, 1969) o contenimento
(Bion, 1962) o relazione d’empatia (Kohut, 1971).
La teoria dell’attaccamento e quella della mentalizzazione, ci
permettono inoltre, di fornire nuovi significati al concetto di “doppio
legame” schizofrenogeno (Bateson, 1972). La presenza di una
comunicazione alterata tra il bambino ed il care-giver, ovvero
contraddittoria
rispetto
ai
messaggi
collocati
su
diversi
piani
d’astrazione, il possibile rinforzo negativo di fronte ad una corretta
decodificazione di entrambi i messaggi, non permetterebbero al
bambino di organizzare uno stile d’attaccamento stabile né di
contenere il proprio livello emotivo. Soprattutto a risultare alterata
11
sarebbe la capacità del bambino di pensare o di creare immagini
mentali: se lui infatti, di fronte ad un rifiuto non verbale della madre,
creasse una rappresentazione di lei come incapace di contenere i suoi
stati emotivi (attaccamento evitante) potrebbe ricevere un rinforzo
negativo (verbale) volto a smentire questo pensiero. Se, invece,
decidesse
di
prendere
la
comunicazione
verbale
della
madre,
pensando a lei come capace di prendersi cura di lui (attaccamento
sicuro) verrebbe allontanato. Il risultato di questa comunicazione
abnorme sarebbe quindi il blocco della mentalizzazione: il bambino
non può trasformare le sue impressioni emotive in immagine perché
qualsiasi rappresentazione sarebbe punita. Col tempo ogni pensiero
dovrà
essere
distrutto
dal
soggetto
proprio
come
nel
corso
dell’infanzia, in quanto potenziale fonte di angoscia. Non solo il
protomentale
sarebbe
in
eccesso,
ma
il
soggetto
avrebbe
la
necessità, proprio come impresso nelle prime memorie implicite, di
mantenere
la
distanza
dall’altro,
escludere
la
possibilità
della
relazione empatica e frammentare qualsiasi immagine derivante
dall’interazione con l’esterno.
Tale condizione di partenza sembrerebbe analoga a quella di
soggetti che sviluppano altri tipi di disturbi come ad esempio i disturbi
di personalità: il problema è definire, contenere, sintetizzare e
trasformare una quota di protomentale eccessiva per il soggetto.
Mentre nel soggetto borderline troviamo la tendenza a lasciare che i
corto-circuiti emotivi scattino automaticamente dando luogo a vissuti
emotivi
instabili
che
determinano
l’instabilità
della
percezione
esterna, nello psicotico il problema verrebbe risolto alla radice:
escludendo la relazione, l’altro ed il mondo esterno il soggetto
eviterebbe qualsiasi moto emotivo di rabbia, dolore, perdita ed
angoscia. Quello che ne deriverebbe sarebbe la chiusura autistica e
l’assenza
di
emotività.
La
realtà
esterna
verrebbe
quindi
“dementalizzata” (Lago, 2006) ovvero gli oggetti perderebbero il loro
spessore diventando sagome (ivi) o come dice Bion “oggetti bizzarri”.
12
Le esperienze nuove di attaccamento, che potrebbero costituire
nuove
immagini
verrebbero
degradate
generandone
la
frammentazione. La lassità delle connessioni neurali propria della
frammentazione psicotica rimanderebbe quindi anche al concetto di
lassità delle connessioni umane (ivi). Dunque, considerando lo
“scopo”
o
meglio
la
funzionalità
difensiva
dell’organizzazione
psicotica, quello che resta da chiedersi è quando, ed in che modo,
nell’impossibilità di mentalizzare il protomentale, lo psicotico nel
corso dello sviluppo decida di ridurlo al minimo e di dementalizzare il
mondo esterno. Certi che il nostro “quando” è solo una linea
immaginaria o un contenitore dalle dimensioni variabili, vorremmo
comunque considerarlo al fine di immaginarci una psicosi prima che
sia psicosi ed un intervento che non sia un etichetta su ciò che non è
psicosi. Ma qui il problema si complica nuovamente perchè i modi
possibili per arrivare alle psicosi potrebbero essere diversi tra loro,
quindi non un unico percorso in cui rintracciare il nostro “quando” ma
una vasta gamma di strade. Ecco quindi giunti al concetto di “percorsi
psicotici” (Ballerini, 2002).
4. I percorsi psicotici
Una nuova linea di pensiero, riattualizzata e sviluppata ipotesi
e
modelli
sulla
schizofrenia
quali
quello
“diatesi-stress”
(P.E.Meehl,1962,1989) o il paradigma della “vulnerabilità” (J.Zubin,
B.Spring
1977;K.H.Neuchterlein
1987),
sottolineano
come
la
patologia psicotica si sviluppi dall’incontro fra profilo vulnerabile ed
esperienze ambientali. In linea con tali teorie, Ballerini (2002) tratta
l’ingresso nella schizofrenia come “un passaggio da esperienze
sintomatiche non specifiche, fino alla costruzione di un mondo
completamente artistico” (ivi). La schizofrenia sarebbe, quindi, una
condizione a cui si arriva tramite percorsi diversi nati dall’incontro tra
la persona con le sue vulnerabilità ed esperienze di vita; percorsi
che non sempre conducono alla psicosi e che potrebbero portare ad
13
esiti diversi. Intervenire precocemente, più che essere un modo per
migliorare la prognosi diverrebbe una “maniera affinché il disturbo
non si sviluppi affatto”. Egli considera la condizione schizofrenica non
come una patologia avente caratteristiche peculiari, come evidenzia il
DSM, ma
come uno “spettro di disturbi che vanno dai disturbi di
personalità alle psicosi aventi però come tratto comune la costruzione
di un mondo artistico” (ivi). La vulnerabilità autistica, intesa come
difficoltà a stabilire contatti affettivi e non solo come chiusura ed
isolamento, secondo Ballerini, potrebbe portare allo sviluppo di uno
spettro schizofrenico (dal disturbo di personalità fino alla psicosi)
accomunato dall’assenza di contatti affettivi. Di conseguenza gli
esordi, sarebbero “fasi che spaziano dal punto di vista nosologico dal
disturbo di personalità, a disturbi deliranti a disturbi dell’umore, tutti
accomunati non da un vettore verso la cronicità ma verso un modo di
essere, resistente o meno alle terapie, completamente o in parte
autistico” (ivi). In linea con il concetto di percorso psicotico non
prestabilito ovvero non definito rispetto all’esordio, decorso ed esodo,
consideriamo la fase pre-psicotica o l’esordio come un momento
caratterizzato dalla necessità di ridurre un protomentale eccessivo,
confuso
e
doloroso.
L’autismo,
considerato
da
Ballerini
come
esclusione dell’altro ed assenza di contatti empatici, costituirebbe
l’iniziale tentativo del paziente di ridurre tale emotività. Ciò che noi
chiamiamo esordio, riprendendo questo paradigma, potrebbe quindi
spaziare dal punto di vista nosologico dal disturbo di personalità al
disturbo dell’umore alla bouffée delirante, ma essere nello stesso
tempo un momento critico per l’evoluzione psicotica a causa della
“vulnerabilità
autistica”
all’esordio, quindi,
(ivi).
Data
l’eterogeneità
dei
sintomi
potrebbero esistere diversi percorsi psicotici
conducenti alla patologia conclamata o allo spettro di patologie nel
nostro caso accomunate dall’appiattimento affettivo. Tali percorsi,
nonostante diversi tra loro, sarebbero accomunati dalla necessità di
ridurre la quota protomentale operando forme di chiusura o distacco
14
dal mondo che solo nelle psicosi diverrebbero stabili a tal punto da
condurre all’appiattimento affettivo. L’elemento di iniziale “attacco al
legame”, o la specifica atmosfera schizofrenica in cui sono immersi i
sintomi
pre-psicotici,
costituirebbe
quindi
l’elemento
di
differenziazione dell’esordio psicotico da altre condizioni caratterizzate
dal protomentale in eccesso.
4.1 Gli esordi e i percorsi prepsicotici
Abbiamo definito esordio psicotico, una fase critica di quei
percorsi che potrebbero, (Ballerini, 2002) condurre alla psicosi intesa
come appiattimento affettivo e distacco dalla realtà (Bleuler, 1911)
ed in cui potenzialmente poter dispiegare l’intervento terapeutico
(Birchwood, 2005). I percorsi che dall’esordio condurrebbero alla
psicosi conclamata potrebbero essere diversi. In alcuni casi potremmo
avere un evoluzione lenta e graduale caratterizzata dall’assenza di
sintomi positivi e da una progressiva “esclusione dell’altro” e
“disumanizzazione
dell’ambiente”.
In
questi
casi
il
soggetto
cercherebbe di ridurre la quota protomentale eccessiva tramite la
progressiva chiusura e l’isolamento. Il protomentale in eccesso
sarebbe
rintracciabile
in
tutti
quei
momenti
di
angoscia
da
frammentazione a cui il soggetto risponderebbe consolidando i
meccanismi di chiusura e distacco. In altri casi, potremmo trovare
una
lunga
lotta
pre-psicotica
angosciante,
drammatica
e
terrorizzante. Questi casi sarebbero quelli descritti da Correale o da
Grivois caratterizzati da sintomi aspecifici finalizzati a ridurre la quota
protomentale. Troveremo quindi una forte angoscia a cui il soggetto
cercherebbe di rispondere tramite ad esempio la depersonalizzazione,
l’ipocondria, i sintomi ossessivi la derealizzazione fino il delirio ecc. I
sintomi “prepsicotici” rappresenterebbero, quindi, tracce emotivoaffettive
non
mentalizzate
che
il
soggetto,
di
fronte
al
loro
“debordare”, sposterebbe ora sul corpo, ora sulla realtà ora su
pensieri ossessivi tanto da generare una prima ed iniziale forma di
15
distacco finalizzata alla riduzione della quota protomentale. In ultimo
esisterebbero delle forme di psicosi secondaria che si evolverebbero
dai disturbi di personalità (Lago, 2006). In tal caso il soggetto, dopo
aver cercato di difendersi dal protomentale in eccesso tramite la
scissione, l’idealizzazione e l’identificazione proiettiva, e di fronte
all’impossibilità di mentalizzare il protomentale metterebbe in atto
stili difensivi psicotici fondati sul distacco della realtà. Altri esordi
potrebbero
essere
caratterizzati
da
manifestazioni
analoghe
ai
disturbi dell’umore, ai disturbi deliranti ed altri. La peculiarità di
queste manifestazioni sarebbe data, negli esordi psicotici, dall’iniziale
dispiegamento di stili difensivi fondati sull’autismo e sul distacco dalla
realtà finalizzati alla riduzione del protomentale. Questi meccanismi
contribuirebbero a generare l’atmosfera psicotica
o la sensazione di
“incomprensibilità” (Jaspers, 1959) legata all’impossibilità di rivivere
dentro sé l’esperienza altrui.
Considerando l’esordio come un momento nella vasta gamma di
percorsi prepsicotici nati dall’incontro tra una personalità vulnerabile
ed una o più esperienze perturbanti, ed i percorsi come strade
eterogenee che potrebbero condurre alle psicosi, non resta che
tracciare ulteriori punti o linee nei nostri percorsi al fine di mappare il
nostro oscuro territorio . Per personalità vulnerabile intendiamo una
organizzazione caratterizzata dal protomentale in eccesso e dalla
difficoltà
di
protomentale
“mentalizzare”
sintetizzando
(Fonagy,
esperienze
Target,
1997)
emotive
il
nuove.
livello
Tale
condizione di partenza potrebbe essere analoga a gruppi eterogenei
di disturbi e condurre ad esiti diversi a seconda delle esperienze di
vita successive. L’intervento sulla personalità vulnerabile avrebbe
quindi lo scopo di evitare “l’esordio” non solo delle psicosi ma di una
serie di disturbi che vanno da quelli di personalità, ai disturbi
depressivi ecc. Gli esordi psicotici sarebbero invece quelle fasi dei
percorsi, nati dall’incontro tra personalità vulnerabile ed esperienze,
caratterizzate da sintomi aspecifici che cominciano
ad acquistare
16
però la loro specificità psicotica grazie alla valenza “autistica” dei
sintomi (Ballerini, 2002).
La vulnerabilità, indotta dal difetto di
mentalizzazione, ad esempio, potrebbe generare dei vissuti soggettivi
di depersonalizzazione che in alcuni casi potrebbero rimanere stabili,
come nel tipo borderline (Klosterkotter, 1992), in altri, potrebbero
evolvere verso la psicosi. L’esordio sarebbe il momento critico dello
sviluppo in cui il soggetto, di fronte ad un’eccessiva alterazione del
protomentale indotta dall’esperienza, decide di ridurlo adottando stili
difensivi fondati sul distacco dalla realtà. In tale momento, la
depersonalizzazione acquisirebbe una valenza autistica e quindi non
sarebbe solo indice di vulnerabile alla patologia ma di vulnerabile alla
psicosi. Diversamente ancora il primo episodio sarebbe il momento
del percorso in cui tale “costruzione autistica” diverrebbe evidente ed
i sintomi manifesti. L’intervento precoce, potrebbe, quindi essere
inteso sia come intervento sulla vulnerabilità, che sull’esordio, che sul
primo episodio. L’identificazione precoce dei sintomi di base (Huber,
1957), sarebbe un primo passo nell’isolare quei fattori di vulnerabilità
che, come evidenzia Ballerini, inseriti in una “cornice autistica”
(esordio) potrebbero condurre alla psicosi. Riportiamo quindi, di
seguito i sintomi di base di Huber come possibili indicatori di
vulnerabilità alle psicosi.
5 La vulnerabilità alle psicosi: i sintomi di base
Il modello di vulnerabilità stress-coping della schizofrenia
(Neuchterlein,
1987)
dell’interazione
tra
considera
vulnerabilità
la
psicosi
biologiche
come
stressor
il
frutto
ambientali
(ambiente familiare, contesto di vita, eventi stressanti) e fattori
protettivi personali (meccanismi di difesa o strategie di coping) e
ambientali. In tale modello sono anche stati iscritti i sintomi di base di
Huber intesi, quindi, non come possibili predittori della schizofrenia
ma come segni di vulnerabilità che, in relazione alle esperienze di
vita, potrebbero evolvere verso la psicosi. In alcuni soggetti, infatti, i
17
sintomi di base rimarrebbero stabili nel corso dello sviluppo, mentre
in altri si modificherebbero per condurre al disturbo conclamato. Non
potendo considerare i sintomi di base come i prodromi della
schizofrenia li iscriviamo, rifacendoci al paradigma stress-coping,
come fattori di vulnerabilità che solo in alcuni casi potrebbero
degenerare verso il disturbo. Ci rifacciamo, inoltre, all’impostazione di
Ballerini il quale considera questi segni come manifestazioni che
acquistano una valenza pre-psicotica solo quando inseriti in una
cornice autistica. I fattori di vulnerabilità costituirebbero, quindi,
l’aspetto osservabile della personalità precedentemente descritta, non
resta, quindi, che comprendere il senso “psicodinamico” di queste
esperienze soggettive.
Per
sintomi
di
base,
innanzitutto,
si
considerano
esperienze
soggettive, ovvero riportate dai pazienti, percepite molti anni prima
delle prime manifestazioni. Questi sintomi furono considerati “segni
precoci del disturbo”. Attualmente, vengono concettualizzati come
manifestazioni aspecifiche che potrebbero evolvere verso la psicosi
ma anche in altri tipi di patologia.
Alcuni dei sintomi descritti da Huber riguardano la percezione del
proprio corpo e della realtà.
Fanno parte di questo gruppo: i cambiamenti della percezione del
volto, le micro-macropsie, il cambiamento nella percezione dei colori
e nelle percezioni acustiche, la sensazione di movimento degli oggetti
percepiti,
i
cambiamenti
nella
percezione
del proprio
volto,
i
cambiamenti nelle percezioni gustative, le metamorfopsie, la visione
parziale ecc… Tutti questi sintomi riguardano fenomeni di irrealtà
riguardanti il proprio corpo e l’ambiente. Generalmente vengono
anche
nominati
fenomeni
di
“depersonalizzazione”
e
“derealizzazione”. Tali vissuti, seguendo il modello dell’IRPPI e la
visione della personalità vulnerabile, sarebbero indotti da un eccesso
di protomentale e di elementi emotivi “liberi” (elementi beta) ovvero
18
slegati dalle rappresentazioni e dalla sintesi delle immagini che,
nell’impossibilità di essere mentalizzati, genererebbero un senso di
estraneità. Di fronte ad un evento perturbante, quindi, il soggetto al
fine
di
ridurre
l’eccessivo
livello
emotivo
indotto
dall’evento,
cercherebbe di cancellarlo non eliminando completamente la realtà
(come
nel
delirio
o
nell’autismo)
ma
operando
delle
piccole
modificazioni percettive tali da ridurre l’affettività. Il fenomeno
diverrebbe prepsicotico nella misura in cui si avvertissero le prime
tracce
dell’autismo,
ovvero
nella
misura
in
cui
il
fenomeno
condurrebbe alle prime forme di “freddezza prepsicotica”.
Altri sintomi di base riguardano i pensieri e i processi cognitivi. In
particolare
i
soggetti
potrebbero
avvertire
disturbi
della
concentrazione, interferenza dei pensieri, ossessioni, blocco dei
pensieri, disturbi della memoria, pensieri ritardati, disturbi della
intenzionalità
del
pensiero,
ecc…
Tali
fenomeni
sarebbero
direttamente collegati all’assenza di mentalizzazione, all’eccesso di
emotività prepsicotica ed alla funzione alfa alterata. Mentre i disturbi
della memoria e della concentrazione sarebbero indotti dal livello
d’ansia il quale, generando un incremento dell’attenzione del soggetto
per i fenomeni del proprio mondo interno ridurrebbero quella per il
mondo esterno, il blocco dei pensieri così come la loro interferenza
sarebbero
indotti
dal
ridotto
livello
di
mentalizzazione.
Le
perseveranze ossessive rappresenterebbero, invece, meccanismi di
difesa con cui il soggetto si difenderebbe dai propri livelli di angoscia.
Per intravedere il potenziale prepsicotico sarebbe opportuno valutare
la loro valenza “autistica” ovvero considerare quanto questi sintomi
giustifichino “l’assenza di relazione affettiva”.
Altri sintomi si manifestano invece come alterazioni del linguaggio
sia espressivo che ricettivo. Non ci resta difficile, considerando la
stretta relazione tra linguaggio e pensiero, intuire che un’alterazione
19
di
quest’ultimo
possa
esprimersi
direttamente,
oltre
che
nel
linguaggio corporeo gestito come “pensiero verbale” (Lago, 2006),
anche nel linguaggio verbale. E’ in questa dimensione, infatti che il
pensiero e quindi il livello emotivo sottostante, si “incarna nella parola
che rappresenta nel presente attuale ciò che la persona era e quella
che è nel momento in cui si esprime” (ivi). Il linguaggio è la
rappresentazione interna del paziente, quindi estremamente ricco di
elementi emotivi qualora il soggetto abbia quote emotive eccessive, o
“disconnesso” qualora sia già presente una frammentazione o più
semplicemente
fatuo,
ovvero
copiato
passivamente
dall’esterno
qualora si percepisca una organizzazione manieristica.
Abbiamo, infine dei sintomi di base che coinvolgono il corpo e le
esperienze motorie. Sono tutti i sintomi che riguardano le sensazioni
di debolezza, le sensazioni termiche o di anomala pesantezza, i
blocchi motori ecc… Anche in questo caso potremmo parlare di quote
emotive
che
non
riuscendo
ad
imboccare
la
strada
della
mentalizzazione verrebbero vissute come debolezza “corporea”. Una
notazione particolare, invece, va fatta per l’ipocondria dove spesso, il
senso di frammentazione del sé viene vissuto a livello corporeo come
senso di catastrofe o malattia. Qui, in un certo senso, potremmo già
parlare di esordio (Lago, 2006).
E’ bene ricordare che, nella personalità vulnerabile, tutti questi vissuti
potrebbero costituire solo dei fenomeni isolati e preceduti da un
evento stressante che causa l’aumento del protomentale. Solo di
fronte all’impossibilità di creare nuove immagini, e di fronte ad una
quota protomentale divenuta ormai intollerabile il soggetto potrebbe
organizzare delle chiusure autistiche. In questo caso si potrebbe
parlare di esordio psicotico.
20
6 Dall’esordio psicotico alla comparsa del delirio
Il nascere della psicosi viene spesso descritto come un
momento carico di angoscia, un’angoscia che implica la sensazione
che qualcosa di terribile stia per accadere, che il soggetto stia per
perdere il senso delle cose ed il contatto con esse, un’angoscia che
implica la lotta ed il non arrendersi “all’inermità” (Correale, 2000).
E’ interessante considerare l’angoscia nelle sue
diverse
sfaccettature: da un lato abbiamo, infatti, l’aumento eccessivo del
protomentale dovuto alla riattivazione di memorie implicite, dall’altro
la sensazione di “perdita di contatto” e quindi la paura. Quando un
evento esterno agisce infatti sul protomentale del soggetto, non
essendo questo mai stato trasformato in rappresentazione coerente,
si ha un emergere di stati emotivi confusi che il soggetto non riesce a
spiegare né a descrivere ma solo ad agire, somatizzare o controllare.
Se questi elementi slegati venissero “spostati” sulla realtà esterna o
sul
proprio
corpo
ne
emergerebbero
delle
piccole
alterazioni
percettive. Ma tale meccanismo potrebbe produrre un ulteriore
incremento di angoscia: la sensazione di estraneità infatti potrebbe
indurre il soggetto ad avvertire la paura di perdere il contatto che a
sua volta potrebbe aumentare l’angoscia. Paradossalmente, quindi, la
prima forma di distacco operata dal soggetto condurrebbe ad un
ulteriore
senso
di
angoscia.
Il
persistere
nel
tempo
della
depersonalizzazione e dell’angoscia di inermità potrebbe portare
all’angoscia di frammentazione. Questo concetto viene descritto molto
bene da Correale (ivi). “Prima ancora di sapere chi è l’altro ovvero di
percepirlo cognitivamente ognuno di noi è alle prese col fatto che
l’altro esiste. (….) il fatto che l’oggetto si imponga nella sua pienezza
(…) e la funzione alfa danneggiata (…) porta alla presenza di elementi
che si propongono alla mente come privi di collegamenti (….) Quindi
dotati di una realtà psichica insolita. L’angoscia che ne deriverebbe
sarebbe una angoscia di passività di impotenza e di estraneità.
L’angoscia di frammentazione potrebbe subentrare da un lato quando
21
l’angoscia di inermità perduri troppo a lungo, dall’altro in presenza di
richieste
molto
pressanti
dell’ambiente.
Solo
in
un
momento
successivo si avrebbe la passività intesa come la perdita di speranze
che il soggetto aveva tanto temuto” (ivi). L’esordio sarebbe quindi
caratterizzato da un lato dall’emergere di elementi preriflessivi
dall’altro, il perdurare della sensazione di irrealtà potrebbe condurre
ad
un
esperienza
ancora
più
terrificante
che
è
il
senso
di
frammentazione. Questa esperienza viene descritta molto bene da
Pao
il
quale
utilizza
il
termine
“panico”
per
evidenziare
la
drammaticità del terrore prepsicotico. Anch’egli, in un certo senso,
ricolloca il concetto di angoscia nel quadro delle memorie implicite
registrate nei primi anni di vita. Il “panico organismico” sarebbe
legato all’incapacità della madre e del bambino di costituire una
“segnalazione reciproca” e quindi all’impossibilità del bambino di
alleviare le proprie tensioni grazie alle cure empatiche della madre.
Infine Grivois descrive l’angoscia prepsicotica come un “debordare di
elementi pre-riflessivi e pre-verbali”. Dunque l’angoscia prepsicotica o
l’esordio sarebbe dato, riprendendo
questi autori, non da un
emergere di emozioni ben precise, ma di quel tessuto che sta prima
della funzione riflessiva, che viene iscritto nella memoria implicita e
che non è verbalizzabile proprio in quanto pre-verbale. Considerando
quindi la personalità vulnerabile come una personalità con un deficit
di
mentalizzazione,
diciamo
che
l’esordio
sarebbe
indotto
da
un‘esperienza esterna peculiare rispetto alla possibilità di attivare il
protomentale, capace di produrre un incremento del livello emotivo.
La
personalità
metterebbe
vulnerabile,
in
atto
incapace
delle
di
prime
mentalizzare
l’evento,
forme
distacco
di
(depersonalizzazione) finalizzate a ridurre la quota. Di fronte, però al
perdurare delle pressioni ambientali, al continuo incremento del
protomentale, con relativa impossibilità di trasformarlo in pensiero,
ed alla successiva angoscia che deriverebbe dal senso di irrealtà, si
avrebbe
l’angoscia
di
frammentazione
ed
il
dispiegamento
22
dell’autismo. A questo punto potrebbe nascere il delirio. Il delirio, che
potrebbe anche assumere il carattere di allucinazioni (in tal caso un
delirio
fuori
di sé), per
essere
considerato
tale
deve
essere
caratterizzato da:
1 “la convinzione assoluta della persona sull'idea delirante” (Balbi,
1998)
2 “il fatto che nonostante la maggioranza delle persone e le prove
contrarie che possono essere portate indichino che l'idea è falsa, c'è il
convincimento che quest'idea sia sempre valida. Non c'è quindi
possibilità di criticare il delirio” (ivi).
3 “che l'idea sia falsa, perché se è vera è una convinzione, non è un
delirio”. (ivi).
Il delirio secondo Balbi sarebbe il tentativo del soggetto di ricostruire
se stesso, dopo il senso di frammentazione, in modo che si
ripristini
la sensazione di continuità del sé. “Nel delirio, quindi il mondo viene
ricostruito in una modalità diversa in cui si ridetermina questo senso
di continuità, questo senso di poter distinguere in qualche modo e
naturalmente non del tutto, l'interno dall'esterno, una continuità di se
stessi anche se c'è stato un enorme cambiamento. Cambiamento che
riguarda il mondo esterno, ma che riguarda - ed è importante
sottolinearlo - contestualmente se stessi (ivi).
“La costruzione delirante ha il significato di proteggere se stessi da
una percezione intollerabile di se stessi” (ivi). Di fronte, quindi,
all’incremento della quota emotiva, caratterizzata dall’indefinizione
delle emozioni e da una serie di elementi confusi e terrorizzanti, il
soggetto
impossibilitato
nella
mentalizzazione
e
quindi
di
un
riconoscimento dei propri vissuti e del proprio senso di sé fondato su
questi, deciderebbe di ricostruire il mondo esterno distaccandosi
profondamente da esso. La nuova costruzione di sé e del mondo
avrebbe
lo
scopo
di
difendere
il
soggetto
dalla
percezione
terrorizzante del sé e della realtà. Nel caso in cui tale condizione
divenisse stabile l’autismo sarebbe conclamato.
23
Potremmo continuare il nostro percorso o i nostri percorsi per arrivare
a nuove vicissitudini nate dall’incontro tra esperienze e persone,
potremmo raccontare ancora nuovi pezzi di storie con nuove difese e
nuovi distacchi, ma allora la nostra mappa sarebbe immensa e non
ulteriormente esplicativa dei percorsi, degli esordi, dei livelli emotivi e
dei distaccamenti autistici. Ci accontentiamo di aver tracciato una
linea immaginaria che lascia pensare alla nascita di qualcosa che
potrebbe ma non necessariamente condurre alla fine del percorso.
7 Frammenti di un percorso psicotico
Dopo aver descritto le fasi dei percorsi psicotici ed il momento
critico chiamato esordio vorremmo esporre alcuni passi di un racconto
dove ben si percepiscono alcuni concetti chiave. Il testo è tratto dal
libro “Diario di una schizofrenica” (Sechehaye, 1955).
Il percorso di Renè verso la psicosi appare come una lotta lenta ed
angosciante contro il senso di irrealtà. I primi segni di vulnerabilità
compaiono già all’età di 5 anni quando la paziente ha il primo
episodio di derealizzazione. In seguito, all’età di 12 anni, abbiamo
altri elementi di vulnerabilità. L’esordio appare non come un punto
ma come un lento dispiegarsi della vulnerabilità autistica.
All’età di 12 anni Renè comincia a presentare un calo del rendimento
scolastico
dovuto
a
difficoltà
di
attenzione,
alla
perdita
della
prospettiva, alla mancanza di senso pratico ed ai disturbi percettivi.
Possiamo
qui
rintracciare
i
sintomi
di
base
indice
della
vulnerabilità psicotica:
Le lezioni di canto:
“Il professore contava su di me come a solo (…) ma ben presto si
accorse che stonavo(…) quando non stavo attenta (…) non riuscivo a
24
battere il tempo ed ogni lezione mi dava un’angoscia inesprimibile
(…)”
Lezioni di ginnastica:
“ Non capivo gli ordini sinistra destra e li confondevo”
Disegno:
“Avevo perso il senso della prospettiva quindi copiavo il modello della
mia compagna”
Nello stesso periodo abbiamo i primi vissuti di estraneità. Nelle parole
di Renè troviamo sia l’angoscia prepsicotica, sia il dispiegarsi di stili
difensivi fondati sull’autismo. Qui potremmo già parlare di esordio
vista la necessità della paziente di creare un distacco dalla realtà
angosciante (le lezioni di scuola) al fine di ridurre il protomentale. La
difesa autistica sembra inizialmente limitata ad alcune situazioni che
richiedono una capacità di mentalizzare l’emotività, fino a coinvolgere
tutta la vita di Renè.
“Durante le lezioni sentivo i rumori provenienti dalla strada (…)
sembrava che ognuno di questi rumori si staccasse dalla realtà per
rimanere inciso nell’aria immobile e senza senso (…) E sempre quel
silenzio impressionante (…) e quel sole implacabile che scaldava l’aula
e quell’immobilità senza vita. Una paura senza limite mi afferrava
(…)”.
Gradualmente Renè comincia a distaccarsi anche dalle persone, la
loro esistenza o come dice Correale il fatto che l’altro si imponga nella
sua pienezza, determina la necessità di distaccarsi da esso al fine di
ridurre la risposta emotiva legata alla relazione. L’autismo quindi,
viene sempre maggiormente usato come difesa dal protomentale.
“ Vedo i suoi denti bianchi, luccicanti, guardo i suoi occhi bruni che mi
guardano e mi accorgo che ho una statua accanto a me, un
25
manichino che partecipa a un mondo di finzione (…) .
Il mio
isolamento e la mia solitudine aumentano (…)”.
Con il tempo la lotta contro la follia diventa la ragione di vita di Renè.
Una lotta potremmo dire contro l’inermità ma gradualmente contro la
frammentazione. L’autismo, la solitudine e la chiusura che si
dispiegano gradualmente, staccando la paziente dal mondo e dagli
affetti, diventano sempre più chiari.
“ Ora lottavo disperatamente per non soccombere, per non essere
sommersa dalla “luce” (…) Era un’immensità senza limiti. Desolata
squallida; un paese minerale, lunare, gelido come le steppe del nord.
In questo paese tutto è immutabile cristallizzato, (…) gli oggetti sono
sparsi qua e là.(…) Le persone sono fantasmi che vagano in questa
landa senza confini. Io ero sperduta là dentro isolata, fredda, nuda
sotto la luce e senza scopo (…)”.
Gradualmente
l’angoscia
di
inermità
diventa
angoscia
di
frammentazione
“In quel silenzio terribile avevo l’impressione che qualcosa di terribile
stesse per accadere per rompere il silenzio e che uno sconvolgimento
atroce dovesse sopravvenire”.
L’angoscia o il protomentale hanno quindi raggiunto livelli che la
paziente non riesce più a controllare. La semplice presenza dell’altro,
con il suo mondo di affetti, provoca della risposte emotive che Renè
non
può
mentalizzare,
elementi
slegati
creano
un
vissuto
di
frammentazione a cui non c’è più modo di rispondere se non
ricostruendo una realtà che dia senso al distacco dal mondo.
Paradossalmente il delirio acquista una valenza di senso che
permette alla paziente di distaccarsi dal mondo, evitare l’emotività
26
che ne deriva e ristabilire un senso di continuità di sé. La costruzione
delirante ha lo scopo di proteggere se stessi da una percezione
intollerabile di se stessi.
“ Avevo un senso di colpa terribile per l’ostilità che provavo verso
tutti (…) sognavo di costruire un congegno elettrico che avrebbe fatto
saltare la terra (…) Col tempo non mi sentii più colpevole per queste
fantasie, le consideravo legittime (…) la punizione più sadica
consisteva nell’essere colpevoli (…) Un giorno scrissi una lettera al
mio persecutore (…) Qualche tempo dopo scoprii che il persecutore
non era atri che il sistema che mi puniva(…) Lo concepivo come una
gerarchia mondiale che accomunava tutti gli uomini (…) alla cui
sommità c’erano quelli che comandavano, che davano punizioni (…)
Tutto il mondo ne faceva parte ma pochi ne erano coscienti ed erano
gli illuminati come me. (…)A questo punto la cosa era chiara: il paese
della luce era il sistema ed entrare in lui significava divenire
insensibili a tutto (…)”.
La frammentazione psicotica appare evidente quando la paziente
parla del rapporto con la sua analista. La vicinanza emotiva diventa
intollerabile ed anche in questo contesto Renè ha bisogno di operare
un distacco, anche questa figura entrerà a far parte del delirio.
“ Vedevo le parti del suo viso separate, indipendenti (…) prima
c’erano i denti, poi il naso, e le guance (…) e la paura e la folle
angoscia aumentavano in me (….) sto affogando, sono nel gelo (…)
perché lei si lascia comandare dal sistema?”
Il problema dell’affettività
appare
chiaramente
nel racconto
quando Renè afferma di non riuscire a tollerare l’uso della prima
persona. Il parlare dell’analista in terza persona le permetteva,
27
probabilmente, di fuggire alla relazione intersoggettiva e quindi
all’affettività
“Mi dava gran sollievo il fatto che lei parlasse in terza persona.
Quando per sbaglio mi parlava in prima persona improvvisamente
non la riconoscevo più”.
Gradualmente le difese della paziente conducono alla riduzione
dell’affettività, una sorta di anestesia per non sentire il dolore e
l’angoscia
“ Ho terribilmente freddo e non riesco a scaldarmi (….) Più tardi mi
rimandarono a casa dove caddi in un profondo stato di indifferenza
(…) benché soffrissi molto meno di angoscia e di paura (…)”
Qui possiamo ritrovare le tracce del protomentale in difetto e
dell’appiattimento ed indifferenza. Ma la psicosi è cominciata molto
prima, dove ed in quale momento preciso risulta un po’ difficile dirlo.
Abbiamo tracciato la nostra line immaginaria nel punto in cui abbiamo
percepito il tentativo di operare un distacco come difesa dall’angoscia
(autismo, protomentale in eccesso) ma abbiamo anche visto un
dispiegarsi lento della difesa autistica che dalle cose e le situazioni
angoscianti ha coinvolto le persone fino alla ricostruzione di una
realtà delirante. Se il problema allora è intervenire precocemente
affinché tutto questo non si verifichi potremmo già farlo nel momento
di vulnerabilità. Certo in questo punto ancora non saremmo certi che
l’insieme dei sintomi siano segni prepsicotici, ma forse questo è meno
importante.
Conclusioni
Concludendo il nostro percorso attraverso le psicosi, possiamo
ancora una volta evidenziare la natura estremamente eterogenea del
disturbo, dei percorsi, degli esordi ecc. Certi che qualsiasi visione è
comunque una foto parziale di un fenomeno complesso, abbiamo
28
comunque voluto tracciare alcune linee o punti nel percorso per
giustificare un intervento precoce. Abbiamo scelto tra le tante griglie
di
lettura
possibili
quella
che
vede
l’affettività
come
fulcro
“dell’organizzazione psicotica” . La nostra scelta ha implicato il dover
pensare ad un momento precedente all’equilibrio stabile (Lago, 2006)
dove poter rintracciare viva ed evidente la sofferenza e l’angoscia
prepsicotica, prima per così dire della rottura con il mondo ma in un
luogo dove poterla già immaginare o semplicemente sentire. Abbiamo
dovuto ipotizzare un primo momento di rottura in quanto il termine
“esordio” fa riferimento alla nascita di qualcosa e oggi non abbiamo la
certezza che i segni e sintomi che si osservano nei pazienti prima
della psicosi evolveranno verso la patologia conclamata. Abbiamo,
quindi, ipotizzato che questi segni facciano parte di una personalità
vulnerabile, ma non abbiamo escluso la possibilità di intervenire,
ovviamente senza etichettare, già a questo livello. La nostra visione
dell’esordio ci permette inoltre di guardare alle psicosi con un occhio
positivo: il protomentale in eccesso, la sofferenza, l’angoscia sono
indici di lotta ed implicano il desiderio di continuare a “sentire” o
continuare ad “esserci”. E’ qui, in questo momento ed in questa
angosciante ricerca della distanza dall’altro e della misura e perché
no, anche di aiuto, che potrebbe ancora dispiegarsi un intervento che
rispetti il mondo del paziente e ciò che egli ha “ricostruito” o
allontanato. Qui, dove abbiamo collocato l’esordio, l’angoscia, il
terrore; qui dove abbiamo collocato il paziente vorremmo anche
pensarci insieme a lui.
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Bibliografia
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