GLI ESORDI PSICOTICI E IL PROBLEMA DELL’AFFETTIVITA’ Ilaria Ortolani * Introduzione Parlare di esordi psicotici è un po’ come voler tracciare una linea di demarcazione che dalla persona conduce al disturbo escludendo la persona stessa e il suo pensiero. Solitamente, quando il percorso di sviluppo si interrompe per dare vita “all’incomprensibile” (Jaspers, 1959), allora si dice che lì nasce la psicosi. Ma i nuovi approcci di intervento (Birchwood, 2005) e i nuovi modelli eziologici (Zubin Spring, 1977) ci invitano a guardare oltre e prima, dove ancora non c’è psicosi ma dove potrebbe esserci. Lì, allora, in quel luogo, che è la vulnerabilità, che non è un punto ma una linea di sviluppo in evoluzione, può nascere la psicosi ma anche non nascere perché è sempre dall’incontro tra esperienze di vita e personalità più o meno vulnerabile che potrebbe nascere la psicosi. Dunque, il percorso o i “percorsi” (Ballerini, 2002) che conducono alla psicosi, potrebbero non essere così lineari ma delle evoluzioni che partendo da una vulnerabilità biologica e psicologica arriverebbero, tramite il passaggio per esperienze e tentativi di “difesa”, al punto che noi vorremmo chiamare esordio. Certi che l’esordio non è il momento in cui si va consolidando “l’autismo” e “l’appiattimento affettivo” (Bleuler, 1911), perché tale punto sarebbe già lontano dal momento critico per l’intervento (Birchwood, 2005) e che non è il momento in cui osservare dei fattori di rischio che solo in alcuni casi potrebbero condurre alla psicosi, allora ci chiediamo dove possiamo collocare l’esordio? Grivois nella sua accattivante metafora del “nascere alla follia”, * Psicologa, allieva del III anno del Corso di Specializzazione in Psicoterapia Istituto Romano Psicoterapia Psicodinamica Integrata 1 parla di esordi psicotici come un “debordare del tessuto emozionale preverbale e pre-riflessivo” (Grivois, 1999); Ballerini descrive l’autismo come il modulatore dei “percorsi psicotici” (Ballerini, 2002), l’elemento che consente di intravedere nei sintomi di base il loro potenziale evolutivo (ivi); Giuseppe Lago (2006) descrive la psicosi come uno stato di chiusura autistica finalizzata a mantenere il “protomentale a livelli ridotti” (ivi). Dunque, per una condizione di comodo, consideriamo l’esordio come il momento o il periodo caratterizzato da un’angoscia terrorizzante o “protomentale in eccesso” (ivi), che nell’impossibilità di essere mentalizzata o trasformata in immagini a causa dell’assente “funzione alfa” (Bion,1963) porterebbe il soggetto ad organizzare stili difensivi come l’autismo e l’attacco al legame al fine di stabilire la quota emotiva minima. La condizione di “appiattimento affettivo” descritta da Bleuler sarebbe, quindi, il risultato della lotta prepsicotica durante la quale l’autismo diverrebbe sempre più consolidato. Certi che la nostra linea è solo un tratto immaginario, che serve a giustificare un intervento precoce che non potrebbe essere sempre sulla personalità vulnerabile data la sua natura indefinita e quindi non “pre-psicotica” e a rifiutare la visione della psicosi come “malattia incurabile” (Kraepelin, 1889), considereremo il ruolo dell’affettività negli esordi e nei percorsi che dalla dolorosa angoscia prepsicotica condurrebbero ad una penosa esclusione del protomentale e del legame. Certi di intravedere nel “problema dell’affettività” il fulcro delle psicosi, riprenderemo l’ipotesi di Bleuler relativa alla presenza di varie forme di schizofrenia accomunate da “sintomi fondamentali” ed “accessori” (Bleuler, 1911), considerando però le varie manifestazioni come diversi aspetti di uno stesso fenomeno ovvero la necessità di ridurre al minimo il protomentale. In tale ottica anche la distinzione tra positivi, misti e negativi (Andreasen, 1982) appare solo fenomenologia: se infatti scopo del paziente psicotico sarebbe ridurre al minimo il protomentale, data l’impossibilità di creare nuove sintesi o rappresentazioni del mondo e quindi di ridurre il marasma emotivo che deriverebbe dall’interazione con l’esterno, allora si potrebbe pensare a una vasta gamma di modi possibili 2 che vanno dal delirio al disinteresse, all’allucinazione, alla catatonia ecc. Considerare il “momento della nascita” come un punto caratterizzato dal protomentale in eccesso ci permette, inoltre, di rifiutare il concetto di “incurabilità” (Kraepelin, 1889) considerandolo il risultato di un osservazione parziale: ovvero l’osservazione di pazienti già al di là del periodo “critico” per l’intervento o vicini ad uno stato di cronicità dato dall’appiattimento affettivo. In questa sede riprenderemo, quindi, l’ipotesi di Bleuler relativa alla presenza di varie forme di schizofrenia caratterizzate da sintomi di base ed accessori, attribuendo un ruolo chiave, nella visione complessiva del disturbo e del suo sviluppo, all’affettività ed alla necessità di mantenerla al minimo, al fine di ridurre i livelli di angoscia (protomentale in difetto). Quindi valuteremo il ruolo dell’affettività nelle psicosi all’esordio o nelle fasi precoci del disturbo ipotizzando un momento “critico” caratterizzato da un eccesso di affettività che, nell’impossibilità di essere mentalizzata (disturbo del pensiero), genererebbe lo sviluppo di varie strategie difensive finalizzate a loro volta a ridurre al minimo il livello emotivo e quindi il dolore (Lago, 2006). La chiusura, il distacco dalla realtà, l’ambivalenza ecc costituirebbero, quindi, diversi aspetti di uno stesso fenomeno ovvero la necessità di ridurre al minimo il marasma emotivo talvolta confuso, indefinito e doloroso dei pazienti psicotici. In quest’ottica, consideriamo l’appiattimento affettivo come un carattere saliente delle psicosi giunte però alla cronicità e il percorso psicotico come una lunga “lotta” contro il “debordare di elementi emotivi-affettivi” (Grivois, 1999) angoscianti in cui possibilmente dispiegare l’intervento (Birchwood, 2005). Il protomentale in difetto (Lago, 2006) diverrebbe, quindi, per il soggetto psicotico una sorta di anestesia che impedirebbe il contatto, il piacere, ma soprattutto il dolore. Questo è quello che chiameremo psicosi. 3 1 Gli esordi psicotici: il cammino verso l’appiattimento affettivo Abbiamo ipotizzato, riprendendo il modello dell’IRPPI che il paziente psicotico sia portato ad eliminare la propria affettività al fine di ridurre esperienze emotive dolorose, ma che tale condizione rappresenti soltanto il fulcro della patologia cronica o conclamata. In tal senso ci sembra interessante citare quanto evidenziato da Ping-Nie Pao rispetto all’emotività dello psicotico. Quest’ultimo (Pao, 1979) descrive l’indifferenza emotiva come un elemento utilizzato a scopo difensivo. Citando Bleuler considera indubbia la capacità dello schizofrenico di produrre affetti e l’appiattimento come la “migliore soluzione possibile” all’angoscia: come ogni altra persona, dice Pao, lo schizofrenico deve elaborare stimoli affettivi ed ambientali che possono in lui attivare desideri, rabbia o paure persecutorie o più in generale una condizione di angoscia che Pao definisce “panico organismico”. Volendo evitare la condizione di angoscia, lo schizofrenico utilizza l’indifferenza come unica o “migliore soluzione possibile” (Pao, 1979). In tal modo, riesce ad attenuare l’effetto degli stimoli esterni ed interni non appena li percepisce (ivi). La cronicità ed il passare del tempo giocherebbe un ruolo chiave nel consolidamento dell’indifferenza come difesa, mentre nelle fasi acute questa non sarebbe ancora pienamente sviluppata, quindi lo schizofrenico potrebbe ancora mostrare segni di labilità emotiva. Dunque, “l’appiattimento affettivo” (Bleuler, 1911) sarebbe, in linea con questa teoria, un aspetto centrale nelle psicosi croniche ma non ancora ben consolidato nelle fasi precedenti. In tal senso ci sembra interessante anche l’ipotesi di Grivois (Grivois, 1999), il quale descrive la psicosi nascente o l’esordio come un “debordare del tessuto emozionale preriflessivo e preverbale” tanto che il soggetto “ne viene invaso e ne viene fatto esplodere fino ad allontanare la realtà” (ivi). Nascere alla follia, secondo lui, è un emergere di “emozioni-cognizioni” o di “tracce relazionali profonde” (memorie 4 implicite) attivate da ulteriori relazioni. Secondo Grivois, il distacco dello psicotico dal tessuto emotivo costituirebbe un aspetto già cronicizzato di quest’ultimo, indotto in parte dall’azione cronicizzante dei farmaci, in parte dall’aspetto relazionale della prescrizione che potrebbe corrispondere ad un messaggio di indisponibilità affettiva. Nonostante la posizione estrema, ci sembra interessante la prospettiva di un esordio caratterizzato dal “protomentale in eccesso” (Lago, 2006), che vede nel ritiro, nell’appiattimento affettivo e nella chiusura l’unica soluzione possibile al dolore; congruente con tale impostazione ci sembra anche la visione di Birchwood, il quale evidenzia come spesso quello che noi vediamo delle psicosi è solo il risultato di un lungo percorso che non sempre conduce alla cronicità (Birchwood, 2005). Considerando la psicosi come una “organizzazione stabile” tesa a ridurre il dolore, il piacere ed in genere l’affettivià o l’angoscia che deriva dall’interazione con l’ambiente (protomentale in difetto), ci sembra possibile ricondurre le varie forme del disturbo ad un unico comune denominatore e considerare le (sintomi misti, negativi o positivi/dimensione; manifestazioni sintomi positivi, negativi, disorganizzazione) come le differenti facce di un'unica medaglia. Lo scopo ultimo dello psicotico sarebbe, infatti, ridurre al minimo il protomentale e quindi il proprio livello emotivo (Lago, 2006); l’unico modo possibile affinché ciò avvenga sarebbe la messa in atto di varie strategie per escludere l’altro e la realtà dal proprio mondo. Che questo avvenga tramite la chiusura autistica, tramite il delirio, l’allucinazione ecc ci sembra meno rilevante. Interessante a questo proposito è anche la visione di Correale il quale descrive il percorso pre-psicotico come una lotta contro “l’inermità, l’impotenza e la passività”, un terrificante percorso, potremmo dire, drammatico e spaventoso, verso l’irrealtà che condurrebbe, superato il punto di non ritorno, alla “passività” ed “all’inerzia” (Correale, 2000). Nonostante Correale consideri l’aspetto relativo all’appiattimento affettivo come secondario rispetto al senso di irrealtà pre-psicotico o meglio come 5 una sorta di rassegnazione contro cui il soggetto ha lottato durante le fasi precedenti del disturbo, ci sembra interessante l’attenzione alla riattualizzazione del trauma, intesa come riattivazione di memorie emotive implicite e la visione della depersonalizzazione come assenza del principio ordinatore della coscienza o funzione/inversione della “funzione alfa”. Tutto questo ci sembra molto analogo al concetto di eccesso di emotività la quale, nell’impossibilità di essere mentalizzata, “ordinata” o sintetizzata condurrebbe ad un drammatico emergere di elementi confusi ma carichi di angosce o di significati oscuri, elementi simili a quelli definiti da Bion come “elementi Beta” (Bion, 1963). Dunque, scopo di questo lavoro è analizzare il problema dell’affettività durante le fasi prepsicotiche, considerando il protomentale privo di contenimento la base di partenza dello sviluppo psicotico nonché elemento comune delle varie forme di schizofrenia. 2. La psicosi conclamata e l’appiattimento affettivo Nel 1911 Bleuler coniò il termine schizofrenia per indicare un gruppo di patologie caratterizzate da “sintomi fondamentali”, necessari alla diagnosi, ed “accessori” (Bleuler, 1911) ovvero presenti in alcune forme di psicosi ma non indispensabili alla diagnosi (deliri, allucinazioni). In questa sede considereremo l’appiattimento affettivo come il fulcro della patologia (Lago, 2006), considerando gli altri sintomi come variabili secondarie e funzionali al mantenimento della quota protomentale al minimo (ivi). Un altro elemento centrale sembrerebbe rappresentato dall’autismo inteso non solo come chiusura ed isolamento ma come esclusione dell’altro dalla relazione ed impossibilità di creare uno spazio intersoggettivo. Possiamo quindi intravedere aspetti autistici nel delirio, nell’allucinazione, nella catatonia, in quanto “modi possibili” per creare una rottura con l’esterno. In ultimo, è bene evidenziare che la pericolosità del protomentale e della relazione, possibile fattore di innesco di cortocircuiti emozionali, non sarebbe data dall’angoscia in quanto 6 tale, ma dall’impossibilità di mentalizzare o di sintetizzare in immagini nuove elementi emotivo-affettivi (disturbo del pensiero). In questa sede citeremo la teoria di Bleuler per evidenziare il ruolo dell’appiattimento affettivo nel disturbo schizofrenico. Considereremo, quindi, i sintomi fondamentali come aspetti o manifestazioni esterne del “problema fondamentale”: ovvero il “problema dell’affettività”. 2.1 L’appiattimento affettivo Per appiattimento affettivo intendiamo la riduzione di quella quota di elementi emotivi pre-verbali e pre-riflessivi (protomentale) che in soggetti normali verrebbero ordinati e sintetizzati tramite la funzione mentale detta da Bion “funzione alfa” (Bion, 1973) o tramite quel processo mentale che Fonagy chiama “mentalizzazione” (Fonagy, Target, 1997). L’assenza di tale funzione nei soggetti psicotici condurrebbe, nel caso di un incremento del livello emotivo, all’emergere di immagini frammentate analoghe agli “elementi beta” in maniera confusa, indefinita e indifferenziata (insalata di parole, disorganizzazione del pensiero e del comportamento) nonché ad un penoso ed angosciante marasma emotivo, doloroso sia in quanto caotico “debordare del tessuto emozionale” (Grivois, 1999), sia in quanto drammatico senso di estraneità (angoscia di inermità: Correale, 2000). Scopo quindi dello psicotico sarebbe la riduzione al minimo del livello protomentale (Lago, 2006) al fine di ridurre l’angoscia ed il dolore. 2.2 L’autismo Un secondo sintomo che Bleuler definisce fondamentale è rappresentato dall’autismo. Per autismo l’autore intende una forma di “distacco dalla realtà” caratterizzata “dall’indifferenza al mondo esterno che spesso può risultare ostile per il soggetto in quanto fonte di disturbo del proprio mondo interno” (Bleuler, 1911). Dall’autismo deriverebbe anche l’assenza di volizione e l’apatia. In questa sede 7 consideriamo l’autismo come una strategia difensiva necessaria al soggetto psicotico per mantenere al minimo il livello protomentale e rintracciabile anche in altre manifestazioni patologiche. Qualsiasi forma di relazione o più semplicemente la presenza dell’altro da sé implicherebbe, infatti, la possibilità di reagire emotivamente ad esso dovendo creare rappresentazioni coerenti e stabili di sé e della relazione. Di fronte all’impossibilità di sintetizzare elementi emotivi confusi ed indefiniti, lo psicotico deciderebbe di escludere il mondo esterno dal proprio spazio vitale evitando, tramite l’indifferenza, l’apatia e l’anedonia, qualsiasi contatto con esso. In una prospettiva ampia, quindi, consideriamo l’autismo non solo come ritiro ed isolamento ma come “attacco al legame” o assenza di relazioni affettive (Ballerini, 2002). 2.3 L’ambivalenza L’ambivalenza descritta da Bleuler come “tendenza ad attribuire contemporaneamente a psichismi diversi segni positivi e negativi”(Bleuler, 1911), sarebbe sia funzionale al mantenimento della quota protomentale minima, in quanto impedirebbe al soggetto la volizione, l’azione e l’emozone (ambivalenza emotiva, della volontà, dell’intelletto) e quindi il contatto e l’interazione con il mondo, sia espressione dell’assente funzione alfa. E’ come se il soggetto, sottoposto ad una pressione ambientale, manifestasse la propria frammentazione, dovuta a sua volta all’assente funzione alfa, e questa stessa frammentazione costituisse una sorta di attacco al legame tale da mantenere l’emotività minima. Il “voglio ma non voglio”, “amo ed odio” “sono il tale X e non sono lui” escluderebbero la possibilità di interagire con il mondo ed allo stesso tempo rappresenterebbero l’emergere di un inconscio frammentato dopo una richiesta di interazione. 8 2.4 L’allentamento dei nessi associativi L’allentamento dei nessi associativi potrebbe essere visto sotto la stessa ottica dell’ambivalenza: ogniqualvolta uno stimolo agisce sul livello emotivo del soggetto generando l’emergere di memorie emotive automatiche, questo si troverebbe di fronte all’impossibilità di creare rappresentazioni dei propri moti interni, di conseguenza emergerebbero “rappresentazioni” interne frammentate e disconnesse; tale alterazione, a sua volta, condurrebbe ad una “relazione impossibile” e quindi all’attacco al legame funzionale all’equilibrio stabile (Lago, 2006). Un elemento importante della perdita dei nessi associativi potrebbe essere la presenza di un filo conduttore delle varie “immaginiframmenti” riportate dal soggetto. Se infatti tali immagini fossero attivate da uno stimolo agente sull’inconscio emotivo generando l’emergere di memorie automatiche implicite legate a tale stimolo, se le rappresentazioni attivate riguardassero configurazioni disconnesse a causa dell’assente funzione alfa, allora le associazioni del soggetto potrebbero riguardare l’affetto elicitato dallo stimolo. Il problema è che, nei pazienti psicotici, mancando un senso di sé fondato sull’emozione del momento ovvero il sé nucleare presente nei borderline (Damasio, 1999), anche l’emozione del momento sarebbe confusa ed indefinita rendendo difficoltoso rintracciare il filo conduttore delle associazioni. Tale filo potrebbe infatti essere dato da un misto di rabbia, amore, e paura confuso ed indefinito. Un paziente ad esempio, di fronte ad un rimprovero paterno, riportò una serie di esperienze ed aneddoti legati tra loro forse, da un marasma emotivo di rabbia, abbandono, amore, solitudine. Il rimprovero aveva forse alterato la quota protomentale generando l’emergere prima di memorie emotive implicite poi di immagini frammentate legate a tali memorie in alcuni casi deliranti. Cominciò quindi a parlare della ex fidanzata che lo aveva lasciato, dell’episodio del rimprovero, della morte del padre, del vicino di casa (probabilmente a lui ostile), delle 9 cene di Natale, della preparazione dei pasti ecc…In questo caso, comunque, più che di dissociazione sarebbe opportuno parlare di frammentazione: le immagini-frammenti, infatti, non sono solo vagamente disconnesse o ricomponibili ma elementi di realtà psichica mai sintetizzati. 2.5 Le schizofrenie Bleuler distingue, inoltre, tra le varie forme di schizofrenia quella “simplex” (Bleuler, 1911), caratterizzata dalla sola presenza di sintomi fondamentali, da altre forme in cui oltre ai sintomi fondamentali sono presenti altre alterazioni non necessarie alla diagnosi. Consideriamo la schizofrenia semplice la forma più vicina ai disturbi di personalità schizoidi e schizotipici in quanto caratterizzata da stili difensivi fondati sul disinteresse, sulla chiusura, apatia, isolamento ecc. La forma “paranoide”(ivi) sarebbe, invece, diversa da un punto di vista sintomatico rispetto alla forma semplice in quanto caratterizzata dalla presenza di sintomi positivi, ma simile da un punto di vista psicodinamico: il soggetto, infatti, di fronte all’impossibilità di mentalizzare stimoli emotivi provenienti dalla realtà, invece di disinteressarsi ad essa per difendersi, sceglierebbe di costruirne una presenterebbe, a lui più secondo congeniale. Bleuler, La dopo forma fasi di catatonica si eccitamento schizofrenico. Questo punto rinforza la visione del sintomo catatonico come strategia per ridurre al minimo l’emotività. Detto questo e considerando che, lo studio di Bleuler evidenzia le caratteristiche di casi già conclamati di psicosi, ci chiediamo quali siano le caratteristiche salienti degli esordi e se, in queste fasi, sia possibile attuare l’intervento. 3. Lo sviluppo della personalità vulnerabile alle psicosi Diversi studi evidenziano la relazione tra stile d’attaccamento infantile e lo sviluppo di varie forme di psicopatologia in età adulta. 10 Alcuni tra questi evidenziano la stretta connessione tra uno stile di attaccamento disorganizzato e sviluppo psicotico. Rivisitando tale relazione alla luce del modello dell’IRPPI, appare abbastanza evidente l’impossibilità in soggetti con attaccamento disorganizzato di affidarsi ad un “altro da sé” capace di contenere e sintetizzare il proprio livello emotivo e quindi di favorire la formazione di immagini stabili di sé e dell’altro da sé. L’assente funzione di “rệverie” materna o l’assenza di una “base sicura” (Bowlby, 1969), l’assente capacità del care-giver di “contenere” gli stati emotivi del figlio (Bion, 1962), la mancanza di una “relazione di empatia” (Kohut, 1971), e l’incapacità di scoprire il mondo imitando l’altro e di riconoscere il sé negli occhi dell’altro, condurrebbero alla carente formazione di immagini e all’impossibilità di “mentalizzare” (Fonagy, Target, 1997) il livello emotivo detto protomentale che si sviluppa nei primi 2 anni di vita (Lago 2006). La “funzione riflessiva”, ovvero la capacità del bambino di “leggere” la mente altrui e di derivare lo stato del Sé dalla percezione dello stato mentale dell’altro da sé, permetterebbe, infatti, tramite la percezione dello stato mentale del caregiver, lo sviluppo dell’immagine di sé e dell’altro (Fonagy, Target, 1997). Fondamentale al fine dell’elaborazione di un’immagine non distorta di sé e dell’altro da sé è, quindi, la capacità del genitore di fornire la cosiddetta base sicura (Bowlby, 1969) o contenimento (Bion, 1962) o relazione d’empatia (Kohut, 1971). La teoria dell’attaccamento e quella della mentalizzazione, ci permettono inoltre, di fornire nuovi significati al concetto di “doppio legame” schizofrenogeno (Bateson, 1972). La presenza di una comunicazione alterata tra il bambino ed il care-giver, ovvero contraddittoria rispetto ai messaggi collocati su diversi piani d’astrazione, il possibile rinforzo negativo di fronte ad una corretta decodificazione di entrambi i messaggi, non permetterebbero al bambino di organizzare uno stile d’attaccamento stabile né di contenere il proprio livello emotivo. Soprattutto a risultare alterata 11 sarebbe la capacità del bambino di pensare o di creare immagini mentali: se lui infatti, di fronte ad un rifiuto non verbale della madre, creasse una rappresentazione di lei come incapace di contenere i suoi stati emotivi (attaccamento evitante) potrebbe ricevere un rinforzo negativo (verbale) volto a smentire questo pensiero. Se, invece, decidesse di prendere la comunicazione verbale della madre, pensando a lei come capace di prendersi cura di lui (attaccamento sicuro) verrebbe allontanato. Il risultato di questa comunicazione abnorme sarebbe quindi il blocco della mentalizzazione: il bambino non può trasformare le sue impressioni emotive in immagine perché qualsiasi rappresentazione sarebbe punita. Col tempo ogni pensiero dovrà essere distrutto dal soggetto proprio come nel corso dell’infanzia, in quanto potenziale fonte di angoscia. Non solo il protomentale sarebbe in eccesso, ma il soggetto avrebbe la necessità, proprio come impresso nelle prime memorie implicite, di mantenere la distanza dall’altro, escludere la possibilità della relazione empatica e frammentare qualsiasi immagine derivante dall’interazione con l’esterno. Tale condizione di partenza sembrerebbe analoga a quella di soggetti che sviluppano altri tipi di disturbi come ad esempio i disturbi di personalità: il problema è definire, contenere, sintetizzare e trasformare una quota di protomentale eccessiva per il soggetto. Mentre nel soggetto borderline troviamo la tendenza a lasciare che i corto-circuiti emotivi scattino automaticamente dando luogo a vissuti emotivi instabili che determinano l’instabilità della percezione esterna, nello psicotico il problema verrebbe risolto alla radice: escludendo la relazione, l’altro ed il mondo esterno il soggetto eviterebbe qualsiasi moto emotivo di rabbia, dolore, perdita ed angoscia. Quello che ne deriverebbe sarebbe la chiusura autistica e l’assenza di emotività. La realtà esterna verrebbe quindi “dementalizzata” (Lago, 2006) ovvero gli oggetti perderebbero il loro spessore diventando sagome (ivi) o come dice Bion “oggetti bizzarri”. 12 Le esperienze nuove di attaccamento, che potrebbero costituire nuove immagini verrebbero degradate generandone la frammentazione. La lassità delle connessioni neurali propria della frammentazione psicotica rimanderebbe quindi anche al concetto di lassità delle connessioni umane (ivi). Dunque, considerando lo “scopo” o meglio la funzionalità difensiva dell’organizzazione psicotica, quello che resta da chiedersi è quando, ed in che modo, nell’impossibilità di mentalizzare il protomentale, lo psicotico nel corso dello sviluppo decida di ridurlo al minimo e di dementalizzare il mondo esterno. Certi che il nostro “quando” è solo una linea immaginaria o un contenitore dalle dimensioni variabili, vorremmo comunque considerarlo al fine di immaginarci una psicosi prima che sia psicosi ed un intervento che non sia un etichetta su ciò che non è psicosi. Ma qui il problema si complica nuovamente perchè i modi possibili per arrivare alle psicosi potrebbero essere diversi tra loro, quindi non un unico percorso in cui rintracciare il nostro “quando” ma una vasta gamma di strade. Ecco quindi giunti al concetto di “percorsi psicotici” (Ballerini, 2002). 4. I percorsi psicotici Una nuova linea di pensiero, riattualizzata e sviluppata ipotesi e modelli sulla schizofrenia quali quello “diatesi-stress” (P.E.Meehl,1962,1989) o il paradigma della “vulnerabilità” (J.Zubin, B.Spring 1977;K.H.Neuchterlein 1987), sottolineano come la patologia psicotica si sviluppi dall’incontro fra profilo vulnerabile ed esperienze ambientali. In linea con tali teorie, Ballerini (2002) tratta l’ingresso nella schizofrenia come “un passaggio da esperienze sintomatiche non specifiche, fino alla costruzione di un mondo completamente artistico” (ivi). La schizofrenia sarebbe, quindi, una condizione a cui si arriva tramite percorsi diversi nati dall’incontro tra la persona con le sue vulnerabilità ed esperienze di vita; percorsi che non sempre conducono alla psicosi e che potrebbero portare ad 13 esiti diversi. Intervenire precocemente, più che essere un modo per migliorare la prognosi diverrebbe una “maniera affinché il disturbo non si sviluppi affatto”. Egli considera la condizione schizofrenica non come una patologia avente caratteristiche peculiari, come evidenzia il DSM, ma come uno “spettro di disturbi che vanno dai disturbi di personalità alle psicosi aventi però come tratto comune la costruzione di un mondo artistico” (ivi). La vulnerabilità autistica, intesa come difficoltà a stabilire contatti affettivi e non solo come chiusura ed isolamento, secondo Ballerini, potrebbe portare allo sviluppo di uno spettro schizofrenico (dal disturbo di personalità fino alla psicosi) accomunato dall’assenza di contatti affettivi. Di conseguenza gli esordi, sarebbero “fasi che spaziano dal punto di vista nosologico dal disturbo di personalità, a disturbi deliranti a disturbi dell’umore, tutti accomunati non da un vettore verso la cronicità ma verso un modo di essere, resistente o meno alle terapie, completamente o in parte autistico” (ivi). In linea con il concetto di percorso psicotico non prestabilito ovvero non definito rispetto all’esordio, decorso ed esodo, consideriamo la fase pre-psicotica o l’esordio come un momento caratterizzato dalla necessità di ridurre un protomentale eccessivo, confuso e doloroso. L’autismo, considerato da Ballerini come esclusione dell’altro ed assenza di contatti empatici, costituirebbe l’iniziale tentativo del paziente di ridurre tale emotività. Ciò che noi chiamiamo esordio, riprendendo questo paradigma, potrebbe quindi spaziare dal punto di vista nosologico dal disturbo di personalità al disturbo dell’umore alla bouffée delirante, ma essere nello stesso tempo un momento critico per l’evoluzione psicotica a causa della “vulnerabilità autistica” all’esordio, quindi, (ivi). Data l’eterogeneità dei sintomi potrebbero esistere diversi percorsi psicotici conducenti alla patologia conclamata o allo spettro di patologie nel nostro caso accomunate dall’appiattimento affettivo. Tali percorsi, nonostante diversi tra loro, sarebbero accomunati dalla necessità di ridurre la quota protomentale operando forme di chiusura o distacco 14 dal mondo che solo nelle psicosi diverrebbero stabili a tal punto da condurre all’appiattimento affettivo. L’elemento di iniziale “attacco al legame”, o la specifica atmosfera schizofrenica in cui sono immersi i sintomi pre-psicotici, costituirebbe quindi l’elemento di differenziazione dell’esordio psicotico da altre condizioni caratterizzate dal protomentale in eccesso. 4.1 Gli esordi e i percorsi prepsicotici Abbiamo definito esordio psicotico, una fase critica di quei percorsi che potrebbero, (Ballerini, 2002) condurre alla psicosi intesa come appiattimento affettivo e distacco dalla realtà (Bleuler, 1911) ed in cui potenzialmente poter dispiegare l’intervento terapeutico (Birchwood, 2005). I percorsi che dall’esordio condurrebbero alla psicosi conclamata potrebbero essere diversi. In alcuni casi potremmo avere un evoluzione lenta e graduale caratterizzata dall’assenza di sintomi positivi e da una progressiva “esclusione dell’altro” e “disumanizzazione dell’ambiente”. In questi casi il soggetto cercherebbe di ridurre la quota protomentale eccessiva tramite la progressiva chiusura e l’isolamento. Il protomentale in eccesso sarebbe rintracciabile in tutti quei momenti di angoscia da frammentazione a cui il soggetto risponderebbe consolidando i meccanismi di chiusura e distacco. In altri casi, potremmo trovare una lunga lotta pre-psicotica angosciante, drammatica e terrorizzante. Questi casi sarebbero quelli descritti da Correale o da Grivois caratterizzati da sintomi aspecifici finalizzati a ridurre la quota protomentale. Troveremo quindi una forte angoscia a cui il soggetto cercherebbe di rispondere tramite ad esempio la depersonalizzazione, l’ipocondria, i sintomi ossessivi la derealizzazione fino il delirio ecc. I sintomi “prepsicotici” rappresenterebbero, quindi, tracce emotivoaffettive non mentalizzate che il soggetto, di fronte al loro “debordare”, sposterebbe ora sul corpo, ora sulla realtà ora su pensieri ossessivi tanto da generare una prima ed iniziale forma di 15 distacco finalizzata alla riduzione della quota protomentale. In ultimo esisterebbero delle forme di psicosi secondaria che si evolverebbero dai disturbi di personalità (Lago, 2006). In tal caso il soggetto, dopo aver cercato di difendersi dal protomentale in eccesso tramite la scissione, l’idealizzazione e l’identificazione proiettiva, e di fronte all’impossibilità di mentalizzare il protomentale metterebbe in atto stili difensivi psicotici fondati sul distacco della realtà. Altri esordi potrebbero essere caratterizzati da manifestazioni analoghe ai disturbi dell’umore, ai disturbi deliranti ed altri. La peculiarità di queste manifestazioni sarebbe data, negli esordi psicotici, dall’iniziale dispiegamento di stili difensivi fondati sull’autismo e sul distacco dalla realtà finalizzati alla riduzione del protomentale. Questi meccanismi contribuirebbero a generare l’atmosfera psicotica o la sensazione di “incomprensibilità” (Jaspers, 1959) legata all’impossibilità di rivivere dentro sé l’esperienza altrui. Considerando l’esordio come un momento nella vasta gamma di percorsi prepsicotici nati dall’incontro tra una personalità vulnerabile ed una o più esperienze perturbanti, ed i percorsi come strade eterogenee che potrebbero condurre alle psicosi, non resta che tracciare ulteriori punti o linee nei nostri percorsi al fine di mappare il nostro oscuro territorio . Per personalità vulnerabile intendiamo una organizzazione caratterizzata dal protomentale in eccesso e dalla difficoltà di protomentale “mentalizzare” sintetizzando (Fonagy, esperienze Target, 1997) emotive il nuove. livello Tale condizione di partenza potrebbe essere analoga a gruppi eterogenei di disturbi e condurre ad esiti diversi a seconda delle esperienze di vita successive. L’intervento sulla personalità vulnerabile avrebbe quindi lo scopo di evitare “l’esordio” non solo delle psicosi ma di una serie di disturbi che vanno da quelli di personalità, ai disturbi depressivi ecc. Gli esordi psicotici sarebbero invece quelle fasi dei percorsi, nati dall’incontro tra personalità vulnerabile ed esperienze, caratterizzate da sintomi aspecifici che cominciano ad acquistare 16 però la loro specificità psicotica grazie alla valenza “autistica” dei sintomi (Ballerini, 2002). La vulnerabilità, indotta dal difetto di mentalizzazione, ad esempio, potrebbe generare dei vissuti soggettivi di depersonalizzazione che in alcuni casi potrebbero rimanere stabili, come nel tipo borderline (Klosterkotter, 1992), in altri, potrebbero evolvere verso la psicosi. L’esordio sarebbe il momento critico dello sviluppo in cui il soggetto, di fronte ad un’eccessiva alterazione del protomentale indotta dall’esperienza, decide di ridurlo adottando stili difensivi fondati sul distacco dalla realtà. In tale momento, la depersonalizzazione acquisirebbe una valenza autistica e quindi non sarebbe solo indice di vulnerabile alla patologia ma di vulnerabile alla psicosi. Diversamente ancora il primo episodio sarebbe il momento del percorso in cui tale “costruzione autistica” diverrebbe evidente ed i sintomi manifesti. L’intervento precoce, potrebbe, quindi essere inteso sia come intervento sulla vulnerabilità, che sull’esordio, che sul primo episodio. L’identificazione precoce dei sintomi di base (Huber, 1957), sarebbe un primo passo nell’isolare quei fattori di vulnerabilità che, come evidenzia Ballerini, inseriti in una “cornice autistica” (esordio) potrebbero condurre alla psicosi. Riportiamo quindi, di seguito i sintomi di base di Huber come possibili indicatori di vulnerabilità alle psicosi. 5 La vulnerabilità alle psicosi: i sintomi di base Il modello di vulnerabilità stress-coping della schizofrenia (Neuchterlein, 1987) dell’interazione tra considera vulnerabilità la psicosi biologiche come stressor il frutto ambientali (ambiente familiare, contesto di vita, eventi stressanti) e fattori protettivi personali (meccanismi di difesa o strategie di coping) e ambientali. In tale modello sono anche stati iscritti i sintomi di base di Huber intesi, quindi, non come possibili predittori della schizofrenia ma come segni di vulnerabilità che, in relazione alle esperienze di vita, potrebbero evolvere verso la psicosi. In alcuni soggetti, infatti, i 17 sintomi di base rimarrebbero stabili nel corso dello sviluppo, mentre in altri si modificherebbero per condurre al disturbo conclamato. Non potendo considerare i sintomi di base come i prodromi della schizofrenia li iscriviamo, rifacendoci al paradigma stress-coping, come fattori di vulnerabilità che solo in alcuni casi potrebbero degenerare verso il disturbo. Ci rifacciamo, inoltre, all’impostazione di Ballerini il quale considera questi segni come manifestazioni che acquistano una valenza pre-psicotica solo quando inseriti in una cornice autistica. I fattori di vulnerabilità costituirebbero, quindi, l’aspetto osservabile della personalità precedentemente descritta, non resta, quindi, che comprendere il senso “psicodinamico” di queste esperienze soggettive. Per sintomi di base, innanzitutto, si considerano esperienze soggettive, ovvero riportate dai pazienti, percepite molti anni prima delle prime manifestazioni. Questi sintomi furono considerati “segni precoci del disturbo”. Attualmente, vengono concettualizzati come manifestazioni aspecifiche che potrebbero evolvere verso la psicosi ma anche in altri tipi di patologia. Alcuni dei sintomi descritti da Huber riguardano la percezione del proprio corpo e della realtà. Fanno parte di questo gruppo: i cambiamenti della percezione del volto, le micro-macropsie, il cambiamento nella percezione dei colori e nelle percezioni acustiche, la sensazione di movimento degli oggetti percepiti, i cambiamenti nella percezione del proprio volto, i cambiamenti nelle percezioni gustative, le metamorfopsie, la visione parziale ecc… Tutti questi sintomi riguardano fenomeni di irrealtà riguardanti il proprio corpo e l’ambiente. Generalmente vengono anche nominati fenomeni di “depersonalizzazione” e “derealizzazione”. Tali vissuti, seguendo il modello dell’IRPPI e la visione della personalità vulnerabile, sarebbero indotti da un eccesso di protomentale e di elementi emotivi “liberi” (elementi beta) ovvero 18 slegati dalle rappresentazioni e dalla sintesi delle immagini che, nell’impossibilità di essere mentalizzati, genererebbero un senso di estraneità. Di fronte ad un evento perturbante, quindi, il soggetto al fine di ridurre l’eccessivo livello emotivo indotto dall’evento, cercherebbe di cancellarlo non eliminando completamente la realtà (come nel delirio o nell’autismo) ma operando delle piccole modificazioni percettive tali da ridurre l’affettività. Il fenomeno diverrebbe prepsicotico nella misura in cui si avvertissero le prime tracce dell’autismo, ovvero nella misura in cui il fenomeno condurrebbe alle prime forme di “freddezza prepsicotica”. Altri sintomi di base riguardano i pensieri e i processi cognitivi. In particolare i soggetti potrebbero avvertire disturbi della concentrazione, interferenza dei pensieri, ossessioni, blocco dei pensieri, disturbi della memoria, pensieri ritardati, disturbi della intenzionalità del pensiero, ecc… Tali fenomeni sarebbero direttamente collegati all’assenza di mentalizzazione, all’eccesso di emotività prepsicotica ed alla funzione alfa alterata. Mentre i disturbi della memoria e della concentrazione sarebbero indotti dal livello d’ansia il quale, generando un incremento dell’attenzione del soggetto per i fenomeni del proprio mondo interno ridurrebbero quella per il mondo esterno, il blocco dei pensieri così come la loro interferenza sarebbero indotti dal ridotto livello di mentalizzazione. Le perseveranze ossessive rappresenterebbero, invece, meccanismi di difesa con cui il soggetto si difenderebbe dai propri livelli di angoscia. Per intravedere il potenziale prepsicotico sarebbe opportuno valutare la loro valenza “autistica” ovvero considerare quanto questi sintomi giustifichino “l’assenza di relazione affettiva”. Altri sintomi si manifestano invece come alterazioni del linguaggio sia espressivo che ricettivo. Non ci resta difficile, considerando la stretta relazione tra linguaggio e pensiero, intuire che un’alterazione 19 di quest’ultimo possa esprimersi direttamente, oltre che nel linguaggio corporeo gestito come “pensiero verbale” (Lago, 2006), anche nel linguaggio verbale. E’ in questa dimensione, infatti che il pensiero e quindi il livello emotivo sottostante, si “incarna nella parola che rappresenta nel presente attuale ciò che la persona era e quella che è nel momento in cui si esprime” (ivi). Il linguaggio è la rappresentazione interna del paziente, quindi estremamente ricco di elementi emotivi qualora il soggetto abbia quote emotive eccessive, o “disconnesso” qualora sia già presente una frammentazione o più semplicemente fatuo, ovvero copiato passivamente dall’esterno qualora si percepisca una organizzazione manieristica. Abbiamo, infine dei sintomi di base che coinvolgono il corpo e le esperienze motorie. Sono tutti i sintomi che riguardano le sensazioni di debolezza, le sensazioni termiche o di anomala pesantezza, i blocchi motori ecc… Anche in questo caso potremmo parlare di quote emotive che non riuscendo ad imboccare la strada della mentalizzazione verrebbero vissute come debolezza “corporea”. Una notazione particolare, invece, va fatta per l’ipocondria dove spesso, il senso di frammentazione del sé viene vissuto a livello corporeo come senso di catastrofe o malattia. Qui, in un certo senso, potremmo già parlare di esordio (Lago, 2006). E’ bene ricordare che, nella personalità vulnerabile, tutti questi vissuti potrebbero costituire solo dei fenomeni isolati e preceduti da un evento stressante che causa l’aumento del protomentale. Solo di fronte all’impossibilità di creare nuove immagini, e di fronte ad una quota protomentale divenuta ormai intollerabile il soggetto potrebbe organizzare delle chiusure autistiche. In questo caso si potrebbe parlare di esordio psicotico. 20 6 Dall’esordio psicotico alla comparsa del delirio Il nascere della psicosi viene spesso descritto come un momento carico di angoscia, un’angoscia che implica la sensazione che qualcosa di terribile stia per accadere, che il soggetto stia per perdere il senso delle cose ed il contatto con esse, un’angoscia che implica la lotta ed il non arrendersi “all’inermità” (Correale, 2000). E’ interessante considerare l’angoscia nelle sue diverse sfaccettature: da un lato abbiamo, infatti, l’aumento eccessivo del protomentale dovuto alla riattivazione di memorie implicite, dall’altro la sensazione di “perdita di contatto” e quindi la paura. Quando un evento esterno agisce infatti sul protomentale del soggetto, non essendo questo mai stato trasformato in rappresentazione coerente, si ha un emergere di stati emotivi confusi che il soggetto non riesce a spiegare né a descrivere ma solo ad agire, somatizzare o controllare. Se questi elementi slegati venissero “spostati” sulla realtà esterna o sul proprio corpo ne emergerebbero delle piccole alterazioni percettive. Ma tale meccanismo potrebbe produrre un ulteriore incremento di angoscia: la sensazione di estraneità infatti potrebbe indurre il soggetto ad avvertire la paura di perdere il contatto che a sua volta potrebbe aumentare l’angoscia. Paradossalmente, quindi, la prima forma di distacco operata dal soggetto condurrebbe ad un ulteriore senso di angoscia. Il persistere nel tempo della depersonalizzazione e dell’angoscia di inermità potrebbe portare all’angoscia di frammentazione. Questo concetto viene descritto molto bene da Correale (ivi). “Prima ancora di sapere chi è l’altro ovvero di percepirlo cognitivamente ognuno di noi è alle prese col fatto che l’altro esiste. (….) il fatto che l’oggetto si imponga nella sua pienezza (…) e la funzione alfa danneggiata (…) porta alla presenza di elementi che si propongono alla mente come privi di collegamenti (….) Quindi dotati di una realtà psichica insolita. L’angoscia che ne deriverebbe sarebbe una angoscia di passività di impotenza e di estraneità. L’angoscia di frammentazione potrebbe subentrare da un lato quando 21 l’angoscia di inermità perduri troppo a lungo, dall’altro in presenza di richieste molto pressanti dell’ambiente. Solo in un momento successivo si avrebbe la passività intesa come la perdita di speranze che il soggetto aveva tanto temuto” (ivi). L’esordio sarebbe quindi caratterizzato da un lato dall’emergere di elementi preriflessivi dall’altro, il perdurare della sensazione di irrealtà potrebbe condurre ad un esperienza ancora più terrificante che è il senso di frammentazione. Questa esperienza viene descritta molto bene da Pao il quale utilizza il termine “panico” per evidenziare la drammaticità del terrore prepsicotico. Anch’egli, in un certo senso, ricolloca il concetto di angoscia nel quadro delle memorie implicite registrate nei primi anni di vita. Il “panico organismico” sarebbe legato all’incapacità della madre e del bambino di costituire una “segnalazione reciproca” e quindi all’impossibilità del bambino di alleviare le proprie tensioni grazie alle cure empatiche della madre. Infine Grivois descrive l’angoscia prepsicotica come un “debordare di elementi pre-riflessivi e pre-verbali”. Dunque l’angoscia prepsicotica o l’esordio sarebbe dato, riprendendo questi autori, non da un emergere di emozioni ben precise, ma di quel tessuto che sta prima della funzione riflessiva, che viene iscritto nella memoria implicita e che non è verbalizzabile proprio in quanto pre-verbale. Considerando quindi la personalità vulnerabile come una personalità con un deficit di mentalizzazione, diciamo che l’esordio sarebbe indotto da un‘esperienza esterna peculiare rispetto alla possibilità di attivare il protomentale, capace di produrre un incremento del livello emotivo. La personalità metterebbe vulnerabile, in atto incapace delle di prime mentalizzare l’evento, forme distacco di (depersonalizzazione) finalizzate a ridurre la quota. Di fronte, però al perdurare delle pressioni ambientali, al continuo incremento del protomentale, con relativa impossibilità di trasformarlo in pensiero, ed alla successiva angoscia che deriverebbe dal senso di irrealtà, si avrebbe l’angoscia di frammentazione ed il dispiegamento 22 dell’autismo. A questo punto potrebbe nascere il delirio. Il delirio, che potrebbe anche assumere il carattere di allucinazioni (in tal caso un delirio fuori di sé), per essere considerato tale deve essere caratterizzato da: 1 “la convinzione assoluta della persona sull'idea delirante” (Balbi, 1998) 2 “il fatto che nonostante la maggioranza delle persone e le prove contrarie che possono essere portate indichino che l'idea è falsa, c'è il convincimento che quest'idea sia sempre valida. Non c'è quindi possibilità di criticare il delirio” (ivi). 3 “che l'idea sia falsa, perché se è vera è una convinzione, non è un delirio”. (ivi). Il delirio secondo Balbi sarebbe il tentativo del soggetto di ricostruire se stesso, dopo il senso di frammentazione, in modo che si ripristini la sensazione di continuità del sé. “Nel delirio, quindi il mondo viene ricostruito in una modalità diversa in cui si ridetermina questo senso di continuità, questo senso di poter distinguere in qualche modo e naturalmente non del tutto, l'interno dall'esterno, una continuità di se stessi anche se c'è stato un enorme cambiamento. Cambiamento che riguarda il mondo esterno, ma che riguarda - ed è importante sottolinearlo - contestualmente se stessi (ivi). “La costruzione delirante ha il significato di proteggere se stessi da una percezione intollerabile di se stessi” (ivi). Di fronte, quindi, all’incremento della quota emotiva, caratterizzata dall’indefinizione delle emozioni e da una serie di elementi confusi e terrorizzanti, il soggetto impossibilitato nella mentalizzazione e quindi di un riconoscimento dei propri vissuti e del proprio senso di sé fondato su questi, deciderebbe di ricostruire il mondo esterno distaccandosi profondamente da esso. La nuova costruzione di sé e del mondo avrebbe lo scopo di difendere il soggetto dalla percezione terrorizzante del sé e della realtà. Nel caso in cui tale condizione divenisse stabile l’autismo sarebbe conclamato. 23 Potremmo continuare il nostro percorso o i nostri percorsi per arrivare a nuove vicissitudini nate dall’incontro tra esperienze e persone, potremmo raccontare ancora nuovi pezzi di storie con nuove difese e nuovi distacchi, ma allora la nostra mappa sarebbe immensa e non ulteriormente esplicativa dei percorsi, degli esordi, dei livelli emotivi e dei distaccamenti autistici. Ci accontentiamo di aver tracciato una linea immaginaria che lascia pensare alla nascita di qualcosa che potrebbe ma non necessariamente condurre alla fine del percorso. 7 Frammenti di un percorso psicotico Dopo aver descritto le fasi dei percorsi psicotici ed il momento critico chiamato esordio vorremmo esporre alcuni passi di un racconto dove ben si percepiscono alcuni concetti chiave. Il testo è tratto dal libro “Diario di una schizofrenica” (Sechehaye, 1955). Il percorso di Renè verso la psicosi appare come una lotta lenta ed angosciante contro il senso di irrealtà. I primi segni di vulnerabilità compaiono già all’età di 5 anni quando la paziente ha il primo episodio di derealizzazione. In seguito, all’età di 12 anni, abbiamo altri elementi di vulnerabilità. L’esordio appare non come un punto ma come un lento dispiegarsi della vulnerabilità autistica. All’età di 12 anni Renè comincia a presentare un calo del rendimento scolastico dovuto a difficoltà di attenzione, alla perdita della prospettiva, alla mancanza di senso pratico ed ai disturbi percettivi. Possiamo qui rintracciare i sintomi di base indice della vulnerabilità psicotica: Le lezioni di canto: “Il professore contava su di me come a solo (…) ma ben presto si accorse che stonavo(…) quando non stavo attenta (…) non riuscivo a 24 battere il tempo ed ogni lezione mi dava un’angoscia inesprimibile (…)” Lezioni di ginnastica: “ Non capivo gli ordini sinistra destra e li confondevo” Disegno: “Avevo perso il senso della prospettiva quindi copiavo il modello della mia compagna” Nello stesso periodo abbiamo i primi vissuti di estraneità. Nelle parole di Renè troviamo sia l’angoscia prepsicotica, sia il dispiegarsi di stili difensivi fondati sull’autismo. Qui potremmo già parlare di esordio vista la necessità della paziente di creare un distacco dalla realtà angosciante (le lezioni di scuola) al fine di ridurre il protomentale. La difesa autistica sembra inizialmente limitata ad alcune situazioni che richiedono una capacità di mentalizzare l’emotività, fino a coinvolgere tutta la vita di Renè. “Durante le lezioni sentivo i rumori provenienti dalla strada (…) sembrava che ognuno di questi rumori si staccasse dalla realtà per rimanere inciso nell’aria immobile e senza senso (…) E sempre quel silenzio impressionante (…) e quel sole implacabile che scaldava l’aula e quell’immobilità senza vita. Una paura senza limite mi afferrava (…)”. Gradualmente Renè comincia a distaccarsi anche dalle persone, la loro esistenza o come dice Correale il fatto che l’altro si imponga nella sua pienezza, determina la necessità di distaccarsi da esso al fine di ridurre la risposta emotiva legata alla relazione. L’autismo quindi, viene sempre maggiormente usato come difesa dal protomentale. “ Vedo i suoi denti bianchi, luccicanti, guardo i suoi occhi bruni che mi guardano e mi accorgo che ho una statua accanto a me, un 25 manichino che partecipa a un mondo di finzione (…) . Il mio isolamento e la mia solitudine aumentano (…)”. Con il tempo la lotta contro la follia diventa la ragione di vita di Renè. Una lotta potremmo dire contro l’inermità ma gradualmente contro la frammentazione. L’autismo, la solitudine e la chiusura che si dispiegano gradualmente, staccando la paziente dal mondo e dagli affetti, diventano sempre più chiari. “ Ora lottavo disperatamente per non soccombere, per non essere sommersa dalla “luce” (…) Era un’immensità senza limiti. Desolata squallida; un paese minerale, lunare, gelido come le steppe del nord. In questo paese tutto è immutabile cristallizzato, (…) gli oggetti sono sparsi qua e là.(…) Le persone sono fantasmi che vagano in questa landa senza confini. Io ero sperduta là dentro isolata, fredda, nuda sotto la luce e senza scopo (…)”. Gradualmente l’angoscia di inermità diventa angoscia di frammentazione “In quel silenzio terribile avevo l’impressione che qualcosa di terribile stesse per accadere per rompere il silenzio e che uno sconvolgimento atroce dovesse sopravvenire”. L’angoscia o il protomentale hanno quindi raggiunto livelli che la paziente non riesce più a controllare. La semplice presenza dell’altro, con il suo mondo di affetti, provoca della risposte emotive che Renè non può mentalizzare, elementi slegati creano un vissuto di frammentazione a cui non c’è più modo di rispondere se non ricostruendo una realtà che dia senso al distacco dal mondo. Paradossalmente il delirio acquista una valenza di senso che permette alla paziente di distaccarsi dal mondo, evitare l’emotività 26 che ne deriva e ristabilire un senso di continuità di sé. La costruzione delirante ha lo scopo di proteggere se stessi da una percezione intollerabile di se stessi. “ Avevo un senso di colpa terribile per l’ostilità che provavo verso tutti (…) sognavo di costruire un congegno elettrico che avrebbe fatto saltare la terra (…) Col tempo non mi sentii più colpevole per queste fantasie, le consideravo legittime (…) la punizione più sadica consisteva nell’essere colpevoli (…) Un giorno scrissi una lettera al mio persecutore (…) Qualche tempo dopo scoprii che il persecutore non era atri che il sistema che mi puniva(…) Lo concepivo come una gerarchia mondiale che accomunava tutti gli uomini (…) alla cui sommità c’erano quelli che comandavano, che davano punizioni (…) Tutto il mondo ne faceva parte ma pochi ne erano coscienti ed erano gli illuminati come me. (…)A questo punto la cosa era chiara: il paese della luce era il sistema ed entrare in lui significava divenire insensibili a tutto (…)”. La frammentazione psicotica appare evidente quando la paziente parla del rapporto con la sua analista. La vicinanza emotiva diventa intollerabile ed anche in questo contesto Renè ha bisogno di operare un distacco, anche questa figura entrerà a far parte del delirio. “ Vedevo le parti del suo viso separate, indipendenti (…) prima c’erano i denti, poi il naso, e le guance (…) e la paura e la folle angoscia aumentavano in me (….) sto affogando, sono nel gelo (…) perché lei si lascia comandare dal sistema?” Il problema dell’affettività appare chiaramente nel racconto quando Renè afferma di non riuscire a tollerare l’uso della prima persona. Il parlare dell’analista in terza persona le permetteva, 27 probabilmente, di fuggire alla relazione intersoggettiva e quindi all’affettività “Mi dava gran sollievo il fatto che lei parlasse in terza persona. Quando per sbaglio mi parlava in prima persona improvvisamente non la riconoscevo più”. Gradualmente le difese della paziente conducono alla riduzione dell’affettività, una sorta di anestesia per non sentire il dolore e l’angoscia “ Ho terribilmente freddo e non riesco a scaldarmi (….) Più tardi mi rimandarono a casa dove caddi in un profondo stato di indifferenza (…) benché soffrissi molto meno di angoscia e di paura (…)” Qui possiamo ritrovare le tracce del protomentale in difetto e dell’appiattimento ed indifferenza. Ma la psicosi è cominciata molto prima, dove ed in quale momento preciso risulta un po’ difficile dirlo. Abbiamo tracciato la nostra line immaginaria nel punto in cui abbiamo percepito il tentativo di operare un distacco come difesa dall’angoscia (autismo, protomentale in eccesso) ma abbiamo anche visto un dispiegarsi lento della difesa autistica che dalle cose e le situazioni angoscianti ha coinvolto le persone fino alla ricostruzione di una realtà delirante. Se il problema allora è intervenire precocemente affinché tutto questo non si verifichi potremmo già farlo nel momento di vulnerabilità. Certo in questo punto ancora non saremmo certi che l’insieme dei sintomi siano segni prepsicotici, ma forse questo è meno importante. Conclusioni Concludendo il nostro percorso attraverso le psicosi, possiamo ancora una volta evidenziare la natura estremamente eterogenea del disturbo, dei percorsi, degli esordi ecc. Certi che qualsiasi visione è comunque una foto parziale di un fenomeno complesso, abbiamo 28 comunque voluto tracciare alcune linee o punti nel percorso per giustificare un intervento precoce. Abbiamo scelto tra le tante griglie di lettura possibili quella che vede l’affettività come fulcro “dell’organizzazione psicotica” . La nostra scelta ha implicato il dover pensare ad un momento precedente all’equilibrio stabile (Lago, 2006) dove poter rintracciare viva ed evidente la sofferenza e l’angoscia prepsicotica, prima per così dire della rottura con il mondo ma in un luogo dove poterla già immaginare o semplicemente sentire. Abbiamo dovuto ipotizzare un primo momento di rottura in quanto il termine “esordio” fa riferimento alla nascita di qualcosa e oggi non abbiamo la certezza che i segni e sintomi che si osservano nei pazienti prima della psicosi evolveranno verso la patologia conclamata. Abbiamo, quindi, ipotizzato che questi segni facciano parte di una personalità vulnerabile, ma non abbiamo escluso la possibilità di intervenire, ovviamente senza etichettare, già a questo livello. La nostra visione dell’esordio ci permette inoltre di guardare alle psicosi con un occhio positivo: il protomentale in eccesso, la sofferenza, l’angoscia sono indici di lotta ed implicano il desiderio di continuare a “sentire” o continuare ad “esserci”. E’ qui, in questo momento ed in questa angosciante ricerca della distanza dall’altro e della misura e perché no, anche di aiuto, che potrebbe ancora dispiegarsi un intervento che rispetti il mondo del paziente e ciò che egli ha “ricostruito” o allontanato. Qui, dove abbiamo collocato l’esordio, l’angoscia, il terrore; qui dove abbiamo collocato il paziente vorremmo anche pensarci insieme a lui. 29 Bibliografia Balbi A (1998) Il delirio. Esposizione presso l’Istituto Romano Psicoterapia Psicodinamica Integrtata anno 2005/2006. Ballerini A (2002) Autismo e Schizofrenia: una proposta. Tratto da “Patologia di un eremitaggio. Uno studio sull’autismo schizofrenico” (Capitolo 8). Bollati Boringhieri, Torino. 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