RIFLESSIONI SU CONSENSO INFORMATO E TESTAMENTO

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ASSOCIAZIONE NAZIONALE AVVOCATI ITALIANI
Il Presidente
RIFLESSIONI SU CONSENSO INFORMATO E TESTAMENTO BIOLOGICO
1. Il consenso informato e il rifiuto delle cure
Vi sono diritti e doveri del malato, tra cui quello di lottare con tutte le proprie forze
contro la malattia. Vi sono, poi, diritti e doveri della scienza medica, tra cui quello di
aiutare una persona a vivere il più a lungo possibile. Al medico spetta il delicato
compito di mediare tra i diritti e i doveri del malato e i diritti e i doveri della
medicina. Ma l’ultima parola spetta comunque al malato.
Sono parole di Giandomenico Pisapia, uno dei più grandi giuristi che ha avuto il
nostro paese, che Umberto Veronesi ricorda nella introduzione al libro “La parola al
paziente. Consenso informato e rifiuto delle cure”.
La tematica è di grande attualità e riguarda non solo la piena legittimazione, con il
consenso informato, del trattamento sanitario, ma anche il rifiuto della alimentazione
e idratazione artificiale (vedi i recenti casi di Englaro e di Welby) e di riflesso il
testamento biologico.
Riguardo al consenso informato va osservato che la legittimazione di un trattamento
medico sanitario deve fare i conti con la informazione del medico (ed anche della
struttura sanitaria) al malato e il suo consenso all’intervento.
Il principio generale è l’autodeterminazione del paziente ad accettare l’intervento del
medico.
Solo in casi eccezionali, rimessi alla valutazione ponderata del legislatore, è possibile
“curare” una persona anche contro la sua volontà, evidentemente perché il diritto alla
salute dal singolo si intreccia con la salute collettiva (v. art. 32, comma secondo, della
Costituzione).
Il consenso informato assurge a criterio regolatore della relazione medico-paziente e
a principio fondamentale in materia di tutela della salute (Corte Costituzionale 15
dicembre 2008 n. 438).
L’attività medica, quindi, non può svolgersi contro la volontà dell’interessato neppure
quando ne sia in gioco la vita (Cassazione 16 ottobre 2007 n. 21478), integrando
altrimenti il delitto di violenza privata (art. 610 cod. penale; Cassazione 18 dicembre
2008 n. 2437).
Salva la ipotesi derogatoria, nessuno può essere sottoposto coercitivamente a un
determinato trattamento sanitario.
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La ipotesi derogatoria ricorre ad esempio in tema di vaccinazioni obbligatorie,
secondo cui la legge impositiva di un trattamento sanitario non è incompatibile con
l’art. 32 Cost. se il trattamento sia diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato
di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri,
giacché è proprio tale ulteriore scopo, attinente alla salute come interesse della
collettività, a giustificare la compressione del principio di autodeterminazione
dell’individuo (Corte Cost. 22 giugno 1990 n. 307).
I trattamenti sanitari possono, quindi, essere richiesti solo in necessaria correlazione
con l’esigenza di tutelare la salute della collettività in generale e, comunque, trovano
un limite non valicabile nel rispetto della dignità della persona che vi può essere
sottoposta (Corte Cost. 2 giugno 1994 n. 218).
Ciò detto, va rilevato che affinché il consenso informato sia valido e renda lecito
l’intervento del medico è indispensabile che presenti determinati requisiti: più
specificamente esso deve essere libero, cosciente, attuale, revocabile e consapevole.
Storicamente l’evoluzione normativa che conduce al pieno diritto del malato ad
essere informato e prestare il consenso all’intervento del medico è avvenuta a partire
dalla seconda metà del XX secolo laddove si è avuta una progressiva valorizzazione
della persona umana e, quindi, un potenziamento della sua determinazione (che porta
anche alla conseguente legittimazione del testamento biologico). Nel contempo si è
avuto un imponente progresso della scienza che ha reso possibili interventi medici
molto complessi e delicati, per far fronte a patologie un tempo invincibili. Il paziente,
dunque, si è trovato a dover acconsentire non solo a interventi di routine bensì anche
altamente rischiosi e con significative ripercussioni sulle proprie condizioni psicofisiche.
Di qui la promozione del “modello condiviso”: la scelta del trattamento medicosanitario deve essere condivisa dal medico e dal paziente rappresentando l’esito dello
svolgersi di una relazione ispirata a canoni fondamentali e imprescindibili:
l’informazione, la comunicazione, l’ascolto e il silenzio.
Elementi che consentono di instaurare un’alleanza terapeutica tra medico e paziente.
Il trattamento medico-sanitario non è più calato dall’alto, come se si trattasse di un
dogma, bensì è l’esito di un confronto in cui ciascuno dà il proprio fondamentale e
insostituibile contributo.
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Il paziente dismette, così, le vesti di “bambino dipendente dal suo maestro”,
delegando al medico ogni decisione sulla propria volontà e rinunciando a priori a
“capire” e “scegliere” consapevolmente.
È per altro necessario che egli, con coraggio e consapevolezza delle proprie capacità
e, soprattutto, dell’importanza del bene coinvolto, esiga e si mostri disponibile ad
acquisire informazioni in vista di un contributo attivo che consente di personalizzare
il trattamento medico-sanitario.
Il medico, dal canto suo, deve comportarsi in modo leale e corretto, al fine di
pervenire ad una soluzione realmente condivisa; a ben vedere, l’attuazione del
consenso informato dipende principalmente dalla sua onestà intellettuale e
professionale.
In primo luogo, il medico deve fornire al paziente un’informazione corretta, completa
ed adeguata al livello di comprensione del medesimo.
Diversamente, la comunicazione sarebbe soltanto fittizia e servirebbe unicamente ad
ottenere il placet dell’interessato rispetto ad una decisione “preconfezionata” dal
professionista secondo il suo personale punto di vista. Il medico non deve convincere
il paziente della bontà della sua posizione, bensì deve guidarlo verso una decisione
libera e consapevole.
La informazione deve essere completa e riguardare la scelta diagnostica e terapeutica,
le conseguenze possibili e probabili e eventuali alternative, gli eventuali rischi
anomali.
In secondo luogo, il medico deve mettere a proprio agio il paziente, creare
un’atmosfera rilassata, confidenziale, in modo da consentirgli di esprimere senza
alcun timore o soggezione i suoi dubbi, le sue ansie, le sue aspettative.
Infine, il medico deve essere in grado di fronteggiare la naturale e prevedibile
emotività del paziente, tranquillizzandolo, concedendogli tempo per riflettere,
sconsigliandogli di prendere decisioni rapide in preda all’ansia.
Proprio per tale ragione il medico si deve sentire impegnato ad impiegare, da un
canto, tutta la diligenza esigibile in vista della sua realizzazione, e dall’altro rendere
noto al paziente quante “chance” di successo realmente ci siano e, quindi, fino a che
punto sia realmente conseguibile il risultato sperato.
Come altra faccia della medaglia si deve ricordare che al diritto di sapere del paziente
si contrappone il diritto di non sapere.
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La libertà psico-fisica trova la sua massima, seppure anomala, estrinsecazione nel
riconoscimento al paziente del diritto di non sapere.
In tal caso la volontà negativa del paziente va ovviamente documentata. Ed è
possibile conferire delega ad una persona di fiducia a ricevere tutte le informazioni
del medico e della struttura sanitaria.
Dai valori costitutivi del consenso informato discende che l’autodeterminazione
del paziente in merito alla propria libertà psico-fisica può esprimersi anche nel
dissenso all’intervento sanitario e, quindi, nel rifiuto di cure.
Non può, quindi, escludersi che il paziente decida di non sottoporsi al prescritto
trattamento sanitario. Il che accade spesso a fronte della scarsa possibilità di
guarigione e alla luce dei gravi effetti collaterali che finirebbero per compromettere
in modo significativo la qualità della sua esistenza. È questa una libera ed
insindacabile scelta.
La dottrina e la giurisprudenza hanno osservato che il rifiuto di cure costituisce un
vero e proprio diritto soggettivo del paziente, perfetto e costituzionalmente garantito
(artt. 13 e 32 della Costituzione).
La Costituzione offre una precisa risposta alla questione nel senso di ritenere che il
diritto all’autodeterminazione rispetto ai trattamenti sanitari è un diritto inviolabile
dell’uomo. Rientra fra i valori espressi che l’ordinamento garantisce a favore della
persona. Anche se va armonizzato col diritto alla vita, nei confronti del quale, però,
non si pone affatto in posizione inferiore, con la conseguenza che deve ammettersi la
liceità della volontà del malato di respingere anche una terapia indispensabile alla sua
sopravvivenza.
All’individuo deve essere riconosciuto il diritto di scegliere tra le diverse possibilità
di trattamento medico e di terapia, di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere
consapevolmente di interrompere la terapia, in tutte le fasi della vita, anche in quella
terminale, in cui deve ritenersi riconosciuta all’individuo la libertà di scelta del come
e del quando concludere il ciclo vitale, quando oramai lo spegnimento della vita è
ineluttabile.
Le decisioni esistenziali che riguardano i trattamenti sanitari possono essere
inquadrate e valutate, dal punto di vista giuridico, alla luce del più ampio concetto e
valore della dignità umana, riconosciuto dalla nostra Carta costituzionale, sia pure
non espressamente, all’art. 2, e suggellato, in maniera esplicita, tanto nella Carta
europea dei diritti, all’art. 1, quanto nei diversi Atti internazionali, anche riguardanti
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la biomedicina, compresa la Convenzione di Oviedo, che lo contempla all’art. 1
comma 1.
Come ha puntualmente sostenuto Federico Gustavo Pizzetti, in una sua recente opera,
la dignità umana deve essere ritenuta, più ancora che un diritto fondamentale in sé, la
base stessa, la sostanza stessa, di tutti i diritti fondamentali. Non si può, di fronte agli
straordinari progressi che la tecnologia medica guadagna ogni giorno che passa,
saldare l’esistenza in vita assicurata dalle macchine in modo totalmente artificiale alla
dignità “oggettivizzata” della sopravvivenza per se stessa.
Con la perversa conseguenza di rimettere l’apprezzamento della “dignità” stessa
dell’uomo alla potenza della scienza e della tecnica che consente quella
sopravvivenza artificiale, in una prospettiva a quel punto squisitamente “tecnologica”
e non più profondamente “antropologica”.
La questione va estesa al convincimento che la “ratio” di questo diritto è la medesima
che giustifica il principio del consenso informato e la sussistenza di un diritto naturale
al testamento biologico.
A questo punto si deve ricordare il concetto essenziale che è stato sancito dalla Corte
di cassazione con la sentenza n. 27082/2007. Che, cioè, il diritto di
autodeterminazione del malato, anche se incapace, si racchiude nella valorizzazione,
sul piano giuridico, della preminenza della persona umana e della sua potestà di
autodeterminazione terapeutica, che hanno un diretto fondamento normativo proprio
in norme di rango costituzionale (artt. 2, 3, 13 e 32 cost.).
Il valore uomo (nel suo essere “dato” e nel suo essere “presupposto”, come “valore
etico in sé”) non può essere disgiunto dagli stessi diritti che l’ordinamento
costituzionale repubblicano gli riconosce. Tale correlazione si esprime anche rispetto
al diritto alla salute e alla vita.
Secondo la Suprema Corte la prosecuzione della vita non può essere imposta a nessun
malato, mediante trattamenti artificiali, quando il malato stesso liberamente decida di
rifiutarli, od abbia deciso in base a direttiva anticipata.
Con un’ulteriore analoga decisione (16 ottobre 2007 n. 21748) la Corte di cassazione
ha affermato che uno Stato come il nostro, organizzato, per fondamentali scelte
vergate dalla Corte costituzionale, sulla pluralità di valori, e che mette al centro del
rapporto tra paziente e medico il principio di autodeterminazione e la libertà di scelta,
non può che rispettare anche la scelta di chi, legando indissolubilmente la propria
dignità alla vita di esperienza e questa alla coscienza, ritiene che sia assolutamente
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contrario ai propri convincimenti sopravvivere indefinitivamente in una condizione di
vita priva della percezione del mondo esterno.
In proposito, il menzionato prof. Pizzetti ha puntualmente richiamato il principio del
pluralismo democratico osservando che mentre un malato, conformemente alla
propria personalissima visione della vita, delle condizioni del corpo, della speranza
(tanto nell’aldiquà, quanto secondo il proprio modo religioso nell’oltremondo) può
manifestare la volontà permanente favorevole alla prosecuzione delle terapie,
prediligendo un tipo di vita clinicamente sostenuta mediante potenti macchine
“simbionti”, un altro malato, invece, può ritenere che sia assolutamente contrario alla
propria concezione della dignità dell’esistenza proseguire in una vita che è tale solo
“artificialmente”.
Un ordinamento fondato sul principio pluralista, che riconosce, secondo la
prospettiva della “piramide rovesciata”, il primato alla persona, non può imporre una
o un’altra particolare visione del mondo all’individuo soprattutto quando si tratta
della sua dimensione profondamente esistenziale.
L’accettazione del pluralismo non si identifica con il relativismo, come troppo spesso
sostengono i critici. La libertà della ricerca, l’autonomia delle persone, l’equità, sono
per i laici dei valori irrinunciabili. E sono valori sufficientemente forti da costituire la
base di regole di comportamento che sono insieme giusti ed efficaci.
Il pericolo che si può correre è che la “vita umana”, grazie ai progressi della scienza e
della tecnica, possa commutarsi di tratti fortemente artificiali e non più naturali.
È principio fondamentale che il valore della dignità umana non può condurre a forme
di assoggettamento della persona umana al potere della scienza e della tecnica
biomediche (art. 2 e art. 3 cost.).
È assurdo poi affermare che la persona, in certe condizioni di vita sostenute
artificialmente, è totalmente priva della capacità di provare alcun tipo di sensazione
consapevole e, quindi, non può valutare alcun interesse alla propria identità.
Sussiste un fondamento costituzionale sia per le scelte attuali, sia per quelle scelte
future che si esprimono attraverso la formazione di un progetto di vita.
La identità appare strettamente connessa con la libertà.
2. Testamento biologico come evoluzione del consenso informato e del rifiuto di
cure.
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Dal consenso informato e dal rifiuto delle cure discende come evoluzione la piena
legittimità del testamento biologico.
Attraverso il testamento biologico e attraverso la compilazione di direttive anticipate,
un individuo può liberamente indicare i trattamenti sanitari che vuole ricevere e quelli
cui intende rinunciare quando non sarà più in grado di prendere decisioni
autonomamente. E ciò anche per evitare che altri decidano per lui.
Con il testamento biologico la scelta di fine vita viene intimamente collegata alle
dichiarazioni anticipate di trattamento. Denominazione questa che, unitamente ad
altre analoghe (living will, direttive anticipate, testamento di vita), fa riferimento “ad
un documento con il quale una persona, dotata di piena capacità, esprime la sua
volontà circa i trattamenti ai quali desidera o non desidera essere sottoposto nel caso
in cui, nel decorso di una malattia o a causa di traumi improvvisi, non fosse in grado
di esprimere il proprio consenso o il proprio dissenso informato”.
Da questa definizione si può ricavare da subito che è errato ritenere che le
dichiarazioni anticipate implichino di per sé l’ammissibilità dell’eutanasia. Le
dichiarazioni e l’eutanasia rientrano nella vicenda di fine vita, ma sono due problemi
diversi, logicamente indipendenti e vanno trattati separatamente. Le dichiarazioni
anticipate servono a dare indicazioni in merito alla volontà del paziente, utilizzabili
quando questi non può far valere di persona le proprie scelte. In questo senso esse
sono uno strumento dell’autonomia dei malati e non hanno alcuna possibile
implicazione eutanasica.
Va chiarito che le dichiarazioni anticipate possono contenere anche indicazioni di una
prosecuzione delle cure al di là delle cautele suggerite al medico affinché si eviti
l’accanimento terapeutico (Lorenzo D’Avack).
Ancor più drasticamente si è sostenuto che quando si parla di dichiarazioni di volontà
anticipate non ci si riferisce all’eutanasia, perché non si richiede né il comportamento
attivo di terzi per ottenere il risultato di mettere fine alla vita, né si richiede la passiva
partecipazione di terzi, in quanto oggetto di tali dichiarazioni è il rifiuto del
trattamento medico. Anche se cristallizzato nel tempo, tale rifiuto vale ad esercitare il
diritto alla salute di cui all’art. 32 cost., che può consistere, nel caso di adulti,
nell’esercizio negativo del diritto (Guido Alpa).
A prescindere dalle problematiche sull’eutanasia le dichiarazioni anticipate sono
certamente un efficace strumento che rafforza l’autonomia individuale e il consenso
informato nelle scelte mediche o terapeutiche tanto più che, grazie alla Carta dei
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diritti fondamentali dell’Unione Europea (artt. 1 e 3) e alla Convenzione sui diritti
dell’Uomo e la biomedicina (artt. 5, 6 e 9), questi principi acquisiscono nuovo e
maggior rilievo, non soltanto coinvolgendo i doveri professionali del medico e la
legittimazione dell’atto medico, ma dando sostanza al diritto del cittadino all’integrità
della persona e al rispetto delle sue decisioni.
Vale la pena di ricordare l’intervento del Comitato nazionale per la Bioetica (18
dicembre 2003) con il quale si è affermato che le “dichiarazioni anticipate di
trattamento” si iscrivono in un positivo processo di adeguamento della nostra
concezione dell’atto medico ai principi di autonomia decisionale del paziente. Le
dichiarazioni possono essere intese sia come un’estensione della cultura che ha
introdotto, nel rapporto medico-paziente, il modello del consenso informato, sia come
spinta per agevolare il rapporto personale tra il medico e il paziente proprio in quelle
situazioni estreme in cui non sembra poter sussistere alcun legame tra la solitudine di
chi non può esprimersi e la solitudine di chi deve decidere.
Uno dei principali problemi è che, nell’attualità, con il progresso della tecnologia
medica ci impone di prendere decisioni che non eravamo obbligati a prendere
qualche tempo fa. E talvolta le decisioni andrebbero prese quando non si è, per
incapacità, in grado di prenderle.
Su questa preliminare osservazione vi è da segnalare che secondo un noto bioetico
(David Lamb, L’etica alle frontiere della vita, Il Mulino 1998) la sospensione o la
mancata somministrazione di terapie di prolungamento della vita sono un normale
esercizio dell’attività medica e non equivalgono all’eutanasia o al suicidio medico
assistito. In quest’ambito viene, tra l’altro, in evidenza il concetto di futilità medica.
Per futilità si intende una terapia che non è in grado di portare un cambiamento
fisiologico, ma anche una terapia che non è in grado di portare miglioramenti alla
qualità della vita.
Il ricorso al criterio della futilità del trattamento è usato frequentemente negli Stati
Uniti e in Gran Bretagna. Alla futilità si ricorre generalmente quando il medico e i
familiari concordano di non utilizzare più una particolare terapia soprattutto quando
si tratta di supporto artificiale di mantenimento in vita. In molti casi il ricorso a
questo criterio è stato utilizzato come difesa contro l’accusa di omicidio o di terapie
di mantenimento in vita.
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In molti casi la terapia del mantenimento in vita viene continuata contro la volontà
del paziente, in circostanze talmente gravi da far pensare che si stia negando al
malato una morte dignitosa, prolungandogli una sofferenza ormai insostenibile.
È, quindi, fuorviante parlare di “lasciar morire” quando si sottrae il paziente
terminale a un trattamento ormai inutile. In alcuni casi, infatti, il medico si trova
senza alternative. L’espressione “l’ho lasciato morire” avrebbe senso solo se vi fosse
stata una qualunque possibilità di mantenere il paziente in vita, ma quando la morte è
ineluttabile non si può più scegliere tra la vita e la morte; l’unica scelta possibile è
come il paziente deve morire (D. Lamb, op. cit., 38).
Come accertare la “vera” volontà del paziente quando è in condizioni fisiche e
psicologiche tali che altra sarebbe la sua volontà in condizioni diverse? Quale peso
dare alla sua volontà espressa al suo posto, o in conflitto con le sue, dai parenti più
stretti? Esiste uno standard al quale fare riferimento per valutare la ragionevolezza di
certe scelte, sia in ordine al tipo di intervento terapeutico che si è disposto ad
affrontare, sia in ordine alla “qualità della vita” che si è disposti ad accettare?
Il testamento di vita può rispondere a questi interrogativi con la indicazione di alcuni
limiti o incentivi finalizzati ad un preventivo consenso o dissenso al trattamento
sanitario.
Non è da trascurare il rilievo che le discussioni sul peso morale da attribuire a eventuali atti o omissioni che rendono la vita relativamente più breve, oppure le
discussioni sulla distinzione tra terapia straordinaria e ordinaria, poco importano ai
fini della considerazione delle alternative per il trattamento di ammalati terminali.
Bisogna dire chiaramente che “sospensione della terapia” non è sinonimo di
“cessazione di ogni trattamento”. Se viene inteso correttamente, il concetto capta
quegli aspetti che rientrano nel buon esercizio della pratica medica, riconoscendo che
vi sono stadi nei quali il processo di morte dovrebbe venir reso più “sostenibile” per il
paziente. C’è un ampio consenso sul fatto che non vi sia alcun imperativo di ordine
etico che imponga di sottoporre un paziente a ripetuti tentativi di rianimazione, ad un
futile regime di alimentazione introvenosa, a dialisi, al mantenimento farmacodipendente della pressione sanguigna, a profilassi antibiotica, o al controllo
elettrocardiografico del battito cardiaco, al mero fine di tenere in vita il malato
terminale per un altro paio di giorni o una settimana. La cosa più importante da fare,
in questi casi, è adoperarsi per dare sollievo al malato.
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Capita in medicina, per esempio durante il trattamento di pazienti allo stadio
terminale della malattia (o di neonati anencefalici senza speranza), che il trattamento
in preparazione della morte sia l’unico intervento moralmente accettabile, mentre
infliggere una qualsiasi forma di terapia per mantenere in vita il paziente nelle
condizioni in cui versa appare moralmente ingiustificato.
Numerose forme di sospensione della terapia, anche a rischio di mettere in pericolo la
sopravvivenza del paziente, sono pur sempre compatibili con i principi di buona
pratica della medicina e con il rispetto dell’individuo. Quando vengono rivolte nella
giusta direzione, le decisioni per la sospensione della terapia dovrebbero poter
soppiantare gli argomenti sull’eutanasia, in quanto il contenuto morale essenziale
della questione si incentra su quale forma di terapia sia appropriata dal punto di vista
etico, e non sul mero interrogativo se far continuare la vita sia eticamente
appropriato. Ma se l’eutanasia è incompatibile con i principi del buon esercizio della
pratica medica, infliggere una terapia per il mantenimento in vita con il solo risultato
di aumentare la sofferenza del paziente è altrettanto deplorevole. Se l’argomento più
convincente a favore dell’eutanasia è alleviare la persona da inutili sofferenze, gli
oppositori dell’eutanasia sbagliano nella difesa a oltranza del mantenimento in vita di
un paziente, anche a costo di infliggergli terribili sofferenze.
Per comprendere meglio i termini del dibattito provo a riportare alcune
argomentazioni di David Lamb (op. cit., 47) secondo il quale la linea che divide
l’interruzione della terapia dall’eutanasia risulta spesso poco chiara a causa della
confusione che si viene a creare nel corso della discussione sul rapporto tra azioni che
arrecano la morte (far morire) e le omissioni che portano alla morte (lasciar morire).
Così molti simpatizzanti dell’eutanasia descrivono la distinzione fra eutanasia attiva e
passiva, far morire e lasciar morire, come moralmente irrilevante, e su questa linea
proseguono, equiparando sotto l’aspetto morale l’eutanasia all’interruzione della
terapia di sostegno vitale. Il puro richiamo alle conseguenze dei vari tipi di azione,
astratto dal contesto nel quale la terapia viene applicata, negata o interrotta,
servirebbe solo a farci capire che tale distinzione è in realtà squisitamente semantica.
Al contrario, attraverso uno sguardo più attento al contesto nel quale vengono prese
le decisioni riguardo alla terapia da effettuare, si evince che molti argomenti ed esempi che vengono citati per far ricadere l’attenzione sulle conseguenze di un atto o
omissione sono di scarso rilievo morale, rappresentando spesso e volentieri
l’intrusione forzata di un semplicistico dogma filosofico nell’etica medica.
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Esistono motivi convincenti perché l’atto col quale si nega l’applicazione di una
terapia di mantenimento in vita e l’atto col quale si causa il decesso del paziente
vengano distinti. È importante avere la consapevolezza che la discussione intorno al
tipo di terapia che si nega o si applica appartiene ad una categoria morale ben diversa
dagli argomenti relativi all’atto di “consentire” o “causare” la morte (David Lamb,
op. cit., 52).
Nell’ambito delle tesi che favoriscono la introduzione negli ordinamenti giuridici di
norme che disciplinano il “testamento biologico” è agevole affermare che ogni
persona ha diritto alla non interferenza sulle scelte che riguardano gli aspetti più
intimi della sua vita. Le scelte relative alla salute sono fondamentali perché
concernono il valore centrale del benessere del paziente.
La salute e il prolungamento della vita non sono infatti dei valori in sé, ma solo in
quanto facilitano il perseguimento dei proprio piano di vita: perciò, “in molti casi la
decisione di quale tra i trattamenti alternativi, compresa la scelta di nessun trattamento, promuova meglio il benessere di un paziente non può essere determinata
oggettivamente, indipendentemente dalle preferenze e dai valori del paziente stesso”.
In prossimità della morte sono particolarmente forti, da un lato, il pericolo di andare
incontro a sofferenze incoercibili, dall’altro quello di perdere il controllo su di sé e di
vedere perciò compromessa la propria dignità; dunque, l’affermazione di un “diritto
di morire” equivale a riconoscere a individui autonomi, in possesso delle proprie
facoltà, la libertà di decidere che la loro qualità di vita è così fortemente compromessa da rendere privo di senso continuare a vivere (Massimo Reichlin, L’etica e
la buona morte, Edizioni di Comunità, Torino 2002, 109).
Va segnalato che in alcuni Stati americani si fa ricorso a una procura speciale,
attraverso la quale il rappresentato nomina un procuratore affinché agisca per suo
conto in un qualsiasi momento successivo alla perdita della propria capacità di
autodeterminazione. Sotto taluni aspetti l’istituto del fiduciario per così dire “della
salute” è un meccanismo che mette il paziente in grado di indicare al medico chi
dovrebbe essere il proprio delegato o sostituto. Si ritiene che l’efficacia giuridica di
tali strumenti sia superiore a quella del testamento di vita. L’autorità del procuratore
può, infatti, prevalere sulle obiezioni sollevate dai familiari. Accomunate in un’unica
categoria, il “testamento di vita” e la “procura per la salute” rientrano nella categoria
delle “direttive anticipate”. Nel Regno Unito l’opinione dei giuristi è leggermente
diversa da quella prevalente negli Stati Uniti. La Law Commission of England
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interpreta le “direttive anticipate” come decisioni anticipatorie, distinguendole dal
testamento di vita che essa definisce come “la direttiva anticipata concernente il rifiuto di procedure per il mantenimento in vita nel caso eventuale di uno stadio
terminale della malattia”. Ma tanto negli Stati Uniti quanto nel Regno Unito la
legittimazione morale delle direttive anticipate consiste nel promuovere l’autonomia
individuale, e sebbene il documento possa talvolta indicare la scelta di ricevere o
meno specifiche forme di terapia, le direttive anticipate, secondo il senso comune,
sono associate all’opportunità di rifiutare l’ultima terapia di fronte alla percezione del
timore di un accanimento terapeutico, come del resto si evince da molte
argomentazioni volte a promuoverle.
La questione del testamento biologico va affrontata anche sotto l’aspetto etico e
religioso.
In proposito vorrei richiamare una magistrale espressione del Cardinale Dionigi Tettamanzi (riportata da Eugenio Lecaldano nel volume “Bioetica – Le scelte morali”,
Laterza 1999, 67) che facendo appello al “morire con dignità umana e cristiana”
sottolinea che “l’uomo è "uomo" anche di fronte alla morte e nella morte stessa:
questa da “evento inevitabile” è chiamata a divenire per l’uomo un “fatto personale”,
un fatto da assumere e da vivere (vivere la morte!) da uomo, ossia coscientemente e
liberamente, dunque responsabilmente. In questo senso, morire con “dignità umana”
significa affrontare la morte con serenità e coraggio” (Tettamanzi, 1990, p. 461).
A questo ispirato pensiero del Cardinale Tettamanzi (che affronta la questione sotto il
profilo ontologico), Lecaldano obietta che ben diverso è il quadro in cui la dignità del
morire umano è collegato con la libertà della scelta del morente. In questo caso
emerge ancora chiaramente quell’uso della nozione di dignità alternativo a quello
appena richiamato, ovvero l’uso non più ancorato ad una concezione ontologica di
ciò che è la natura umana o di quella che è la vita propria della persona umana in
generale, ma più peculiarmente a quelli che sono i tratti distintivi della vita
individuale della persona della cui dignità o meno si tratta.
Da una prospettiva teologica il cristiano può riconoscere che Dio “si attende
dall’uomo libertà e responsabilità per la sua vita” e dunque “ha anche lasciato
all’uomo che è in procinto di morire la responsabilità e la libertà di coscienza e di
decidere il modo e il tempo della sua morte” (Küng e Jens, 1996, p. 86).
3. Potere e limiti del legislatore.
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La delicatezza della problematica in esame spiega la lenta e tuttora persistente
latitanza del legislatore il quale ha talvolta preferito tacere, assistere passivo agli
eventi, nella speranza magari che ad un certo punto sia la realtà stessa a suggerire la
soluzione migliore o peggiore, dopo essere stata a fondo elaborata e meditata dalla
coscienza sociale. Ma così non è, e la dimostrazione è data dal dibattito acceso sui
casi Welby e Englaro.
A questo punto una risposta normativa appare indispensabile. Che regoli la questione,
ma non intervenga per escludere un diritto già esistente.
Una legge è necessaria per restituire la giusta serenità alla professione sanitaria, per
garantire concretamente il rispetto della dignità del paziente e della sua
autodeterminazione; infine, per offrire un criterio guida sicuro ai giudici che, a
differenza del legislatore, devono invece “decidere” la sorte delle persone che si
trovano coinvolte a vario titolo in vicende talvolta drammatiche.
Una legge è necessaria anche per risolvere la disputa tra eutanasia attiva e passiva.
L’unica vera eutanasia è quella attiva. Al contrario, quella che viene a torto definita
eutanasia passiva, a ben vedere non è altro che un rifiuto delle cure da parte del
paziente, il quale decide di esercitare il suo diritto di autodeterminazione nella
esplicazione della libertà psico-fisica, chiedendo l’interruzione del trattamento
sanitario in corso, anche a costo di lasciarsi morire.
In realtà, l’espressione “eutanasia passiva” è adoperata in un’accezione negativa da
parte di coloro che reputano illegittimo il “rifiuto di cure salvavita” e, pertanto,
cercano di assimilarlo linguisticamente a una pratica, l’eutanasia attiva, molto
deprecata nella coscienza sociale del nostro paese.
La legittima richiesta di “staccare la spina” deriva dalla manifestazione di volontà del
diretto interessato, qualora questi, nonostante la grande patologia di cui è affetto, è in
grado di autodeterminarsi consapevolmente, oppure perché ha manifestato anzitempo
tale volontà con la compilazione di un testamento biologico.
Vi è una forte differenza tra rifiuto delle cure e accanimento terapeutico.
Il rifiuto delle cure rimanda ad una impedimento di carattere soggettivo; il divieto di
accanimento terapeutico è di carattere oggettivo.
Vanno, quindi, considerate erronee quelle posizioni che reputano legittimo il rifiuto
di cure salvavita solo se sussistono gli estremi dell’accanimento terapeutico.
Vi è il rischio che il medico possa, in perfetta scienza e coscienza, considerare
accanimento terapeutico ciò che invece il paziente reputerebbe terapia proporzionata.
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ASSOCIAZIONE NAZIONALE AVVOCATI ITALIANI
Il Presidente
Il tentativo di contestare la legittimità delle direttive anticipate, attraverso
l’invocazione del canone di autosufficienza dell’accanimento terapeutico, non
costituisce soltanto un errore concettuale, ma rischia di prospettare un percorso molto
duro per i malati che intendano sottrarre se stessi ed i propri cari ai tormenti di una
difficile fase terminale della vita.
L’accanimento terapeutico (v. codice di deontologia medica) va considerato come
figura residuale, applicabile solo quando il paziente non ha dato istruzioni anticipate.
Si può infine evidenziare che la problematica del “rifiuto di cure” è complessa
investendo non solo la biochimica, ma anche il mondo dei “valori”, ovverosia le
personali convenzioni etiche, religiose, filosofiche che ogni uomo ha della “vita” e
della “morte”. Per questo motivo, tra gli stessi giudici, tra gli stessi medici, tra gli
stessi cattolici, tra gli stessi laici, c’è chi la pensa diversamente dall’altro.
In realtà la scelta dell’individuo è laica. Sotto tale riguardo il concetto di laicità non
deve essere guardato con sospetto, quasi come se fosse espressione di indifferenza
laica. In realtà si tratta di un principio fondamentale che svolge un’essenziale
funzione garantista: attribuire valore giuridico soltanto a taluni valori essenziali, in
quanto patrimonio comune dell’intera collettività, significa che tutti gli altri valori
sono rimessi alla libera scelta individuale e, per quanto possano essere tra loro
eterogenei ed anche minoritari, sempre che non contrastanti con i primi, devono
essere rispettati dall’ordinamento giuridico.
La laicità, allora, lungi dall’essere sintomatica di una carenza di valori, è invece
espressione di grande civiltà e di enorme rispetto della personalità individuale.
Solo assicurando che nessuna “ideologia” estranea al quadro dei valori costituzionali
si imponga giuridicamente, dominando su tutte le altre, quasi come se fosse
espressione di una “verità universale”, si rende effettivo il diritto di ciascun uomo ad
avere un patrimonio culturale, ideologico, etico, religioso, filosofico, al quale
improntare il proprio stile di vita e ogni singola azione, senza il timore di interferenze
e imposizioni dall’esterno.
In nome della laicità del diritto, bisogna evitare posizioni drastiche, rigide, che non
lascino vie di uscita, come sarebbe quella di ritenere giusto non staccare la spina a
dispetto della disperazione del caso concreto, del sistema di valori desumibile dalla
vita del malato, del tempo trascorso e delle scarsissime e nulle chance di guarigione.
Poter scegliere, per quanto difficile e drammatico sia, è già un passo in avanti nella
ricerca della possibile soluzione.
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ASSOCIAZIONE NAZIONALE AVVOCATI ITALIANI
Il Presidente
Quel che è, in ogni caso, certo è che nessuna norma può sancire l’esistenza di un
dovere di vivere.
Per altro, il diritto di rifiutare le terapie, anche se salvifiche, non significa disporre
della propria vita. Vuol dire, invece, disporre del bene salute e scegliere di accettare il
naturale decorso della malattia e della propria esistenza.
Sarebbe costituzionalmente illegittima una legge che disconosca il consenso
informato e il diritto di rifiutare le cure, nonché di limitare la proposta e l’efficacia
del testamento biologico.
La nuova legge sul testamento biologico all’esame del Parlamento dovrà tener conto
degli esposti principi di diritto, e non potrà quindi essere liberticida.
La legittima richiesta di “staccare la spina” deriva dalla manifestazione di volontà del
diretto interessato, qualora questi, nonostante la grande patologia di cui è affetto, è in
grado di autodeterminarsi consapevolmente, oppure perché ha manifestato anzitempo
tale volontà con la compilazione di un testamento biologico.
Maurizio de Tilla
(Presidente A.N.A.I.)
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