La sospensione della prestazione di lavoro

La sospensione della prestazione di lavoro
Riccardo Del Punta
Sommario: 1. Gli eventi sospensivi della prestazione di lavoro: struttura e funzione. 2. Malattia e
infortunio. 2.1. La malattia come incapacità al lavoro. 2.2. Comunicazione e certificazione della malattia.
2.3. Il contenuto della certificazione. 2.4. La facoltà datoriale di valutazione della certificazione medica.
2.5. Lo svolgimento di attività da parte del lavoratore malato. 2.6. Rapporti tra certificato privato e
pubblico. 2.7. Il controllo della malattia: l’art. 5 dello Statuto dei lavoratori. 2.8. Le «fasce orarie» di
reperibilità: l’illecito. 2.9. Segue: la sanzione. 2.10. Il diritto del lavoratore alla conservazione del posto.
2.11. Comporto per sommatoria e giudizio di equità. 2.12. Il licenziamento in pendenza di malattia. 2.13.
Periodo di comporto e licenziamento. 2.14. Il trattamento economico di malattia. 3. I congedi parentali.
3.1. I lavori vietati. 3.2. Il divieto di lavoro notturno. 3.3. Il congedo di maternità. 3.4. Il congedo di
paternità. 3.5. Adozione e affidamento. 3.6. Il trattamento dei congedi di maternità e paternità. 3.7. I
congedi parentali. 3.8. I riposi giornalieri (e i permessi per assistenza a figli con handicap grave). 3.9. I
congedi per la malattia del figlio. 3.10. Il divieto di licenziamento. 3.11. Le dimissioni della lavoratrice
madre. 4. Il servizio militare. 5. Aspettative e permessi per funzioni pubbliche. 5.1. L’aspettativa per
funzioni pubbliche elettive. 5.2. I permessi per funzioni pubbliche elettive. 5.3. I permessi per motivi
elettorali. 6. Aspettative e permessi per ragioni personali. 6.1. I permessi per motivi di studio. 6.2. I
congedi formativi. 6.3. I congedi per eventi e cause particolari. 6.4. I riposi giornalieri per i donatori di
sangue. 6.5. I permessi per i donatori di midollo osseo. 6.6. L’aspettativa per lo svolgimento di attività di
volontariato nei paesi in via di sviluppo.
***
1. Gli eventi sospensivi della prestazione di lavoro: struttura e funzione.
Il destino della locuzione “sospensione del rapporto di lavoro” è sempre stato, in
certo senso, paradossale: tanto utilizzata, come categoria riassuntiva di istituti che
trovavano il proprio emblema nella malattia e nella maternità1, quanto intrisa di
criticità, nella misura in cui pretendeva di trarre, dall’asserita “alienità” funzionale
degli interessi sottesi ai predetti, rispetto all’impianto causale del rapporto di lavoro,
la conseguenza, strutturale, che fosse il rapporto stesso a vivere, in corrispondenza,
uno stato di quiescenza.
Questa posizione, peraltro, ha finito col tempo per apparire insostenibile2, allorché
ci si è resi conto (ma ciò ha richiesto un non irrilevante lavorio interpretativo, in
specie sulla nozione di retribuzione3) che, al di là della non attuazione della
prestazione facente carico al lavoratore (ergo, della sospensione del lavoro), il
rapporto di lavoro subordinato continuava a produrre effetti giuridici di rilievo, ivi
compresi, nelle ipotesi maggiormente “protette” dall’ordinamento, quelli economico e
previdenziale.
1
In generale sulla “sospensione”, oltre agli AA. citati nelle note successive, v. M. Dell’Olio, Sospensione del rapporto di
lavoro, in Digesto Comm., Torino, 1988, XV, 2 ss.; M. Rusciano, Sospensione del rapporto di lavoro, in Enc. giur. Treccani,
vol. XXX, Roma 1993; R. Santucci, La sospensione del rapporto di lavoro: spunti ricostruttivi, in Lav. dir., 1989, 389; M.J.
Vaccaro, La sospensione del rapporto di lavoro, Napoli, 1983. Per trattazioni più risalenti, v. G. Branca, La sospensione
nelle vicende del rapporto di lavoro, Padova, 1971; G. Lavagnini, La sospensione del rapporto di lavoro, Milano, 1961.
2
Il che valga anche come autocritica, in riferimento al titolo della monografia dello scrivente su La sospensione del rapporto
di lavoro, Il Codice civile. Commentario, diretto da P. Schlesinger, sub artt. 2110 e 2111, Milano,1992, ove pure, a p. 20, si
precisava che l’espressione doveva essere riferita, ellitticamente, non al rapporto come tale, ma alla prestazione di lavoro.
3
Tappa fondamentale è stata, al riguardo, la riflessione di T.Treu, Onerosità e corrispettività nel rapporto di lavoro, Milano,
1968. In una prospettiva parzialmente diversa, di tendenziale superamento della corrispettività, in nome dei contenuti
personali intrisi nel rapporto di lavoro, v. L. Zoppoli, La corrispettività nel contratto di lavoro, Napoli, 1991. Per una
ricostruzione critica del dibattito in materia, rimando a R. Del Punta, op.cit., p. 397 ss. Da ultimo, il tema è stato ripreso da
L. Calafà, Congedi e rapporto di lavoro, Padova, 2004, p. 123 ss.
Il denominatore comune di tali istituti, da tempo non più circoscritti alle classiche
fattispecie degli artt. 2110 e 2111 del codice civile, è stato quindi ravvisato nell’effetto
modificativo del normale andamento del rapporto di lavoro, in virtù della tutela di
interessi legati a scelte o condizioni personali del lavoratore4, di massima connotati,
in qualche modo, dal crisma costituzionale, e capaci, come tali, di imporsi alle
esigenze dell’imprenditore, sino al punto di addossargli una responsabilità sociale (o,
direbbe Pietro Ichino, un onere assicurativo) in ordine al finanziamento di quelle
situazioni.
Ciò ha condotto taluni, per l’appunto, a varcare il guado sino a ritenere inutile il
ricorso alla nozione di “sospensione”, ed a configurare gli eventi in questione come
momenti di attuazione del “programma contrattuale” 5, quale scolpito dal sinallagma
genetico legalmente prefigurato.
In tale visione v’è, al fondo, un’evidenza quasi tautologica, ma forse anche
un’opzione non del tutto accettabile di equiparazione fra gli interessi che insistono
nel “cuore” della struttura causale del rapporto di lavoro subordinato, e quelli che
sono alla base degli istituti sospensivi. Si è suggerito, invece, che è più realistico e
lineare, dal punto di vista ricostruttivo, continuare a concepire i contenuti delle
sospensioni per quello che esteriormente appaiono e sono percepiti da entrambe le
parti, ossia come contenuti irriducibilmente e radicalmente personali, che non
allargano l’ambito del contratto, ma che piuttosto (e pur dall’interno) si impongono ad
esso6.
Ciò non significa certo espungere gli istituti in discorso dal sinallagma genetico,
bensì coltivare un’immagine della causa del contratto di lavoro, che pur a partire
dall’integrazione ormai acquisita delle vicende sospensive, eviti di porre sullo stesso
piano quello che permane essenziale per l’attuazione del rapporto e quello che invece,
e significativamente nel rispetto di precise condizioni di accesso e rigidi limiti
temporali, è semplicemente tollerato da esso, in misura direttamente proporzionale
alla meritevolezza dell’interesse sotteso.
Tra l’altro, questa visione, che postula una permanente permeabilità del rapporto
di lavoro subordinato al riconoscimento di interessi “altri”, fatta salva la modulazione
dei presupposti e dei limiti di tale apertura, sembra maggiormente in sintonia con le
evoluzioni più recenti e significative della tematica in esame, che, soprattutto in
relazione alle novità recate dalla legge 8 marzo 2000, n. 53, sui congedi parentali,
familiari e formativi, ha messo l’ordinamento, per la prima volta, in una pur iniziale
posizione di dialogo con la discussione da tempo in corso sulle nuove prospettive di
conciliazione tra tempi di lavoro, di formazione e di vita7.
E, al di là dei frutti ancora incerti (per ragioni che non possono essere discusse
qui) di tale riorganizzazione culturale, resta il fatto che negli istituti sospensivi di più
recente generazione sembra essersi consumato un tendenziale scivolamento dalla
4
Restano pertanto escluse dalla presente disamina, come da tradizione, le c.d. sospensioni “nell’interesse dell’impresa”, a
cominciare da quelle nascenti dall’intervento della Cassa integrazione guadagni.
5
V., ad es., M. Cinelli, I permessi nelle vicende del rapporto di lavoro, Milano, 1984, 203 ss. Ma v. già, pur con
implicazioni in parte diverse, ad es. nel senso del superamento della tradizionale distinzione tra “sospensioni” e “pause” del
lavoro, in vista di una personale classificazione, P. Ichino, Il tempo della prestazione nel rapporto di lavoro, I, Milano, 1984,
73 ss. ; dello stesso A., con una sostanziale conferma delle posizioni già espresse, ma con un ricorso molto netto ed
onnicomprensivo (tanto da includervi anche lo sciopero) alla categoria della “sospensione della prestazione di lavoro”, v. Il
contratto di lavoro, in Trattato di Diritto civile e commerciale già diretto da A. Cicu, F. Messineo e L. Mengoni, e
continuato a P. Schlesinger, III, Milano, 2003, 1 ss.
6
V. R. Del Punta, op.cit., 397 ss. In tale ordine di idee, in esito ad un riesame critico del dibattito sul tema, v. anche L.
Calafà, op.cit., 123-174.
7
V. in generale L. Calafà, op.cit., 9 ss. e 235 ss.
necessità alla libertà. Se nei “vecchi” istituti, come malattia e servizio militare,
dominava la categoria della necessità, come dimostrato dal ricorso (pur da taluni
criticato) alla categoria dell’impossibilità della prestazione, e se nella stessa disciplina
di tutela delle lavoratrici madri, pur volta ad assecondare la libera decisione della
maternità, il sostegno normativo era comunque limitato allo stretto essenziale e
soggettivamente circoscritto alla posizione della madre (riportandola di fatto, in molti
casi, alla “necessità” di una scelta tra maternità e lavoro), la cifra dominante dei
“nuovi” istituti (a cominciare dalla rivisitazione della disciplina del genitore
lavoratore) sembra (o aspira ad) essere quella della valorizzazione della libertà di
scelta del lavoratore (ad es. circa l’articolazione dell’alternanza fra istruzioneformazione e lavoro, quale si evince anche da istituti pur apparentemente lontani dal
tema in discussione, come l’apprendistato per l’espletamento del diritto-dovere di
istruzione e formazione), tanto da configurare sospensioni meramente potestative8.
Persino nella malattia l’accento non cade più sull’impossibilità di prestare, bensì,
in positivo, sulla tutela del diritto alla salute del lavoratore; e giacché a sua volta la
salute, come si vedrà fra poco, non è semplicemente assenza di malattia (un indizio
significativo essendo rappresentato, ad es., dall’apertura della nozione di malattia
alla rilevanza di esigenze terapeutiche), sono da prevedere ulteriori evoluzioni, che
arricchiranno vieppiù la fotografia di un rapporto meno che mai chiuso in un recinto,
ma contemplante (anche sull’onda di una flessibilità oramai a tutto tondo) crescenti
livelli di interazione con altri valori costituzionalmente protetti.
Ciò premesso, ed avvertito altresì che la trattazione prenderà in considerazione i
soli istituti di fonte legale9, uno sguardo sinottico alle costanti strutturali della
fattispecie sospensiva, ricavato induttivamente dall’esame degli istituti ad essa
riconducibili, mostra come essa sia leggibile attraverso una griglia concettuale, alla
quale cercheremo di restare fedeli – pur con le varianti imposte dalla particolarità dei
vari istituti - nel prosieguo, anche perché è proprio in virtù di essa che si legittima il
ricorso alla categoria della “sospensione della prestazione di lavoro”:
a) definizione dell’evento sospensivo;
b) modalità di produzione dell’effetto sospensivo, sulla base di una mera
attestazione dell’evento tutelato nella sua oggettività (con i connessi problemi di
accertamento, e in particolare di controllo, in particolare nella malattia), ovvero
dell’esercizio di un diritto potestativo condizionato alla sussistenza (ed eventualmente
alla documentazione) del presupposto, e talvolta, se pur raramente, anche
all’inesistenza di esigenze aziendali ostative;
c) intensità della protezione dell’interesse del lavoratore alla conservazione del
posto, limitata alla (scontata) giustificazione dell’assenza dal lavoro, o amplificata
sino ad istituire una posizione di franchigia del lavoratore dal recesso della parte
datoriale;
d) estensione temporale di tale protezione;
e) riconoscimento o no della retribuzione, pur in assenza della prestazione
corrispettiva, e/o di una prestazione previdenziale integrativa o sostitutiva, nonché,
ai vari fini per cui essa può rilevare, dell’anzianità di servizio.
2. Malattia e infortunio.
2.1. La malattia come incapacità al lavoro.
8
9
V. L. Calafà, op.cit., 187 ss.
Con l’esclusione, peraltro, dei permessi e dell’aspettativa per ragioni sindacali.
La “classicità” della malattia, nel novero degli eventi sospensivi, si fa apprezzare
tanto in senso qualitativo, essendo l’istituto finalizzato alla protezione di un bene di
elevato rango costituzionale quale la salute del cittadino lavoratore, quanto su quello
empirico, trattandosi dell’ipotesi di più frequente realizzazione nella dinamica
quotidiana delle relazioni di lavoro.
Nondimeno, quelli di malattia e di salute sono concetti non equivalenti. Come
fissato una volta per tutte nel Preambolo costitutivo dell'Organizzazione Mondiale
della Sanità, ”la salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e
non consiste solamente in una assenza di malattia o di infermità”.
Ciò acquisito in positivo (con delega alla normativa di tutela dell’ambiente di
lavoro dell’istanza di prevenzione dei rischi legati al lavoro, ma anche, in prospettiva,
di promozione del “benessere” del lavoratore), rimane da qualificare, in negativo, lo
stato di malattia. Per la scienza medica, è tale una qualsiasi alterazione morfologica
e/o funzionale di una o più parti dell'organismo, o dell'organismo in toto. Era logico
che questa definizione rappresentasse, come è in effetti accaduto, un termine di
riferimento imprescindibile per il diritto, il quale ha peraltro elaborato, di ritorno,
una pluralità di nozioni di malattia, più o meno tributari della definizione portante,
ma mai del tutto coincidenti con essa.
Ai fini in esame rileva, segnatamente, l’art. 2110 del codice civile, il quale si
limita, peraltro, ad enunciare l’evento, senza definirlo10. Il relativo onere si è così
spostato sugli interpreti, fra i quali è emerso, da tempo, il riferimento ad una nozione
più ristretta di quella medica e/o medico-legale generale, tale da comprendere non
ogni alterazione dello stato psico-fisico del lavoratore, ma esclusivamente quelle
situazioni nelle quali l'infermità abbia determinato, per intrinseca gravità e/o per
incidenza sulle mansioni normalmente svolte dal dipendente, una concreta ed
attuale (seppure transitoria) incapacità al lavoro del medesimo11.
Questa nozione si è affermata anche sul terreno previdenziale, nel quadro
dell'assicurazione contro le malattie comuni12, come positivamente confermato (senza
risalire a più remoti precedenti) dall'art. 2, 1° co., della l. 29 febbraio 1980, n. 33, il
quale, nel prescrivere modalità e termini di trasmissione del certificato medico di
malattia all'INPS ed al datore di lavoro, ha riguardo ai “casi di infermità comportanti
incapacità lavorativa”.
In sé, la questione definitoria si pone negli stessi termini per la malattia di origine
professionale, di certo compresa nell'ambito precettivo dell'art. 2110, ove non si
distingue a proposito dell'eziologia, lavorativa o no, dell'evento. Peraltro, data la
presenza trainante di un dispositivo di assicurazione obbligatoria (d.P.R. 30 giugno
10
Tributaria di tale nozione deve pure ritenersi la pur scarna disciplina di tutela introdotta per l’ipotesi di malattia o di
infortunio del collaboratore a progetto o a programma (art. 66, 1° e 2° co, d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276), che per la
prima volta ha portato un frammento della normativa al di là delle “colonne d’Ercole” del lavoro subordinato.
11
V., per mera esemplificazione, Cass. 27 maggio 2004, n. 10215; Cass. 14 dicembre 1999, n. 14065, in Foro it. , 2000, I,
51; Cass. 23 agosto 1997, n. 7908, in Mass. giur. lav., 1997, 871; Trib. Parma 7 novembre 1996, in Riv. it. dir. lav., 1997, II,
120. In dottrina, anche per ulteriori riferimenti, v. R. Del Punta, La sospensione del rapporto di lavoro, cit., 21 ss.; P. Ichino,
Malattia del lavoratore subordinato, in Enc. giur. Treccani, XIX, Roma, 1990; G. Loy, La capacità fisica nel rapporto di
lavoro, Milano, 1993, 237 ss.; A. Pandolfo, La malattia nel rapporto di lavoro, Milano, 1991, 130 ss.; M. Tatarelli, La
malattia nel rapporto di lavoro privato e pubblico, Padova, 2002, 37 ss.; M. J. Vaccaro, La sospensione del rapporto di
lavoro, cit. , 8 ss.
12
Su cui v., in generale, M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, Torino, 2007, 370 ss. ; G. Dondi, L'indennità di
malattia dopo la riforma sanitaria, Padova, 1981, passim; R. Pessi, Lezioni di Diritto della previdenza sociale, Padova,
2006, 383 ss.
1965, n. 1124, novellato dal d.lgs. 23 febbraio 2000, n. 38)13, la rilevanza privatistica
di queste malattie, per i benefici che di solito ne derivano (ad es., un periodo di
comporto più lungo), è spesso condizionata, talora per esplicita previsione di
contratto collettivo, talaltra di fatto (ma, in questo caso, senza un vincolo giuridico),
al riconoscimento delle medesime da parte dell'INAIL, fatta salva la verifica giudiziale.
Per altro verso, il passaggio ormai acquisito ad un sistema “misto”, che lascia al
lavoratore la facoltà di provare (in primis verso l'INAIL) l'eziologia professionale di ogni
malattia, pur se non tabellata, o derivante da lavorazioni non tabellate14, ha
riproposto il problema dell’individuazione dell'evento assicurato, fermo restandone,
peraltro, l’aggancio al concetto di inabilità al lavoro (cfr. art. 68 del d.P.R. n.
1124/1965).
La questione si pone in termini non diversi per l'infortunio del lavoratore
subordinato (anch’esso non definito dall’art. 2110), la cui disciplina è differenziata
esclusivamente in rapporto all’eziologia dell'evento. Tanto che l'infortunio extralavorativo è normalmente accorpato dai contratti collettivi alla malattia comune, e
quello sul lavoro, sulla scia dell’assicurazione pubblica, alla malattia professionale.
Ai fini della presente ricognizione, merita comunque sottolineare che uno dei tre
classici elementi che descrivono la nozione di infortunio ai fini INAIL (artt. 2 e 210,
d.P.R. n. 1124/1965) è appunto quello dell'inabilità al lavoro, permanente o
temporanea, conseguente all'evento; gli altri due essendo la “causa violenta”15 e il
nesso di occasionalità con il lavoro16 (concetto più ampio della “causalità”, richiesta
nella malattia professionale17).
Le ragioni che hanno portato in auge il concetto di “incapacità al lavoro” sono
state, fondamentalmente, endogene alla disciplina. É intuitivo che in un rapporto
obbligatorio incentrato sull'utilizzazione continuativa delle energie lavorative della
persona del debitore, il primo criterio di delimitazione delle ipotesi di legittima
esenzione (per motivi di salute) dalla prestazione di lavoro non possa che guardare
alle situazioni nelle quali il lavoratore non sia ragionevolmente in grado di svolgere,
ostandovi le sue condizioni fisiche o psichiche, tale prestazione.
Nondimeno, allorquando la riflessione su malattia e contratto di lavoro muoveva i
primi passi, essendo ancora molto sentito il legame sistematico col diritto privato
“comune”, si avvertiva l’esigenza di un inquadramento dogmatico, ai fini del quale è
stato ineluttabile il ricorso alla categoria dell’impossibilità sopravvenuta18; già servita,
agli albori della materia, al limitato scopo di escludere che la malattia potesse dar
13
Su cui v., soprattutto (anche a proposito degli infortuni sul lavoro), A. De Matteis - S. Giubboni, Infortuni sul lavoro e
malattie professionali, Milano, 2005. Cfr. anche lo “storico” G. Alibrandi, Infortuni sul lavoro e malattie professionali,
Milano, 2002 ; F. Facello (a cura di), Il sistema di tutela degli infortuni e delle malattie professionali, Milano, 2005. Sulla
nozione di malattia professionale nel nuovo sistema “misto”, v. da ultimo Cass. 15 maggio 2007, n. 11087; Cass. 21 giugno
2006, n. 14308.
14
V. Corte cost. 18 febbraio 1988, n. 179.
15
Cfr. Cass. 26 maggio 2006, n. 12559.
16
Sull’”occasione di lavoro” v., fra le tante, Cass. 4 agosto 2005, n. 16417, relativo ad un caso di incidente occorso durante
la deambulazione nel luogo di lavoro. Sul concetto di “rischio elettivo”, inteso come “scelta di un comportamento abnorme,
volontario e arbitrario da parte del lavoratore, tale da condurlo ad affrontare rischi diversi da quelli inerenti alla normale
attività”, v. Cass. 3 agosto 2005, n. 16282; Cass. 8 settembre 2003, n. 13110; Cass. 27 febbraio 2002, n. 2942; Cass. 4
dicembre 2001, n. 15312. Sulla penetrazione strisciante di tale concetto, in quanto sostanzialmente equivalente all’esimente
dell’art. 1218 c.c., nello spazio dell’azione di responsabilità promossa da lavoratori infortunati o ammalati per il risarcimento
del danno biologico, v. ad es. Cass. 2 gennaio 2002, n. 5, peraltro in un caso in cui è stato ricondotto alla responsabilità
datoriale l’incidente stradale occorso a un dipendente in servizio, in quanto dovuto allo stress da superlavoro.
17
A tale ampiezza si deve, tra l’altro, la riconducibilità all’evento assicurato dell’infortunio in itinere, sul quale si sono
manifestate, da un certo momento, tendenze giurisprudenziali estensive, poi recepite dall’art. 12 del d. lgs. n. 38/2000: v. ad
es. Cass. 28 aprile 2006, n. 9982; Cass. 3 agosto 2005, n. 16282; Cass. 8 giugno 2005, n. 11950.
18
Per tutti, anche per l'accurata ricostruzione storica, v. A. Pandolfo, op. cit., 37 ss.
luogo ad una responsabilità contrattuale del prestatore di lavoro, così da
scongiurarne, quantomeno, il licenziamento in tronco.
La concezione della malattia come impossibilità di prestare è rimasta a lungo
incontrastata, anche se con un rilievo limitato al piano dogmatico, visto che la
disposizione del codice civile aveva disciplinato esaustivamente gli effetti
fondamentali della fattispecie (diritto alla retribuzione e alla conservazione del posto),
ed entrambi, fra l’altro, in chiave derogatoria, o quantomeno specializzata, rispetto al
regime comune.
In elaborazioni più recenti, peraltro, essa è stata oggetto di perplessità,
suggerendosi il ricorso alla categoria (priva, tuttavia, di riscontri positivi)
dell'inesigibilità, con l’intento di porre in luce la presenza, nella situazione, di un
conflitto fra interessi, arbitrato dall’ordinamento con l’assegnazione di un’interinale
preminenza all'interesse del debitore ad essere esonerato dalla prestazione per
salvaguardia della salute19.
Altri hanno preferito insistere sull’impossibilità, ma con l'indispensabile
precisazione, di ascendenza mengoniana, che la relativa valutazione, inerendo alla
persona, non può che risolversi in un giudizio di valore, e, segnatamente, in una
comparazione tra interessi: la prestazione deve reputarsi “impossibile” tutte le volte
che, ove continuasse a lavorare, il dipendente metterebbe a repentaglio la salute e la
guarigione. Pertanto, in concreto, rileva la constatazione di un’incompatibilità fra lo
svolgimento delle mansioni di pertinenza del lavoratore20 e la sanità del medesimo. In
questa prospettiva, che sospinge in seconda fila la mediazione, pur ancora proficua,
delle categorie civilistiche21, a campeggiare non è più la prestazione, bensì la
persona, e con essa il principio costituzionale di tutela della salute.
Da questa base concettuale e di valore si dipanano implicazioni, che permettono
di precisare l’ambito oggettivo della nozione di malattia, canale di accesso alla
disciplina di tutela.
Anzitutto, proprio perché ruotante attorno alla salute della persona, il diritto ad
astenersi dal lavoro può anche derivare (non da una condizione inabilitante in atto,
ma) dalla mera esigenza di sottoporsi tempestivamente ad una terapia che sia, in
concreto, incompatibile con la continuazione del lavoro22.
Un riscontro positivo di tale opzione è stato offerto dalla disciplina dei permessi
per cure idrotermali, che dopo tormentate oscillazioni legislative (scandite dalla
sentenza 18 dicembre 1987, n. 559, della Corte costituzionale, la quale si distinse
per una lettura molto ampia della nozione di malattia, pur riassorbita, in qualche
misura, dalla giurisprudenza successiva), si è attestata sull’art. 16 della legge 30
dicembre 1991, n. 412, secondo cui, per poter essere goduti al di fuori delle ferie (ed
essere, in tal caso, retribuiti), i permessi in questione debbono essere giustificati da
una motivata attestazione di un medico specialista, che dia atto del carattere
“determinante” del trattamento idrotermale, nonché, soprattutto, dell’esigenza di una
19
V. soprattutto (ma sulla scia di spunti di C. Smuraglia) P. Ichino, Malattia, assenteismo e giustificato motivo di
licenziamento, in Riv. giur. lav., 1976, I, 278- 279, e più di recente Il contratto di lavoro, cit., 31 ss.; M. J. Vaccaro, op. cit. ,
15.
20
Cfr. R. Del Punta, op. cit., 40 ss.; A. Pandolfo, op. cit., 142 ss.
21
V. però, ad es., Cass. 28 giugno 2006, n. 14891: “La risoluzione del rapporto costituisce la conseguenza di un caso di
impossibilità parziale sopravvenuta dell’adempimento”.
22
Tanto è stato affermato chiaramente da Corte cost. 18 dicembre 1987, n. 559, in Riv. it. dir. lav. 1988, II, 3, su cui v.
ancora infra, nel testo. Con riguardo ad una malattia professionale, v. Cass. 23 giugno 2005, n. 13479. Per il caso di un
lavoratore necessitante di periodici trattamenti per emodialisi, v. Pret. Abbiategrasso 19 febbraio 1986, in Lav. '80, 1986,
625. V. anche R. Del Punta, op. cit., 48-49, sia pure con alcuni distinguo. In senso contrario, ove non si provi l'opportunità
della visita per prevenire un processo morboso, v. Pret. Padova 29 luglio 1982, in Giust. civ., 1983, I, 678.
sua fruizione “tempestiva”23. Al di là di questa ipotesi classica, il problema
dell’applicazione della disciplina della malattia in caso di procedure diagnostiche e/o
terapeutiche sembra destinato a porsi, in prospettiva, in misura crescente, in specie
a proposito di prestazioni sanitarie nuove (e già previste a livello sperimentale da
varie Regioni), come il Day Service ambulatoriale24.
Il fatto che nel corpo dell’art. 2110 la conservazione del posto sia garantita al
lavoratore malato o infortunato soltanto per un periodo delimitato di tempo ha
facilmente consentito, altresì, di attribuire allo stato di malattia o di infortunio il
necessario
attributo
della
“temporaneità”
(rapportabile
alla
categoria
dell’impossibilità parziale ratione temporis), realizzandosi altrimenti la diversa (per il
diritto, più che per il linguaggio) condizione dell’inidoneità, come tale definitiva, al
lavoro. In questo caso non trova applicazione la disciplina della malattia25, ma quella
“comune” dell’impossibilità definitiva della prestazione, filtrata sul piano lavoristico
(pur in modo spurio, e comunque alla condizione dell’inutilizzabilità aliunde del
dipendente) tramite il giustificato motivo obiettivo di licenziamento26.
Il nodo delicato è se intendere l’inidoneità come una condizione già in atto e senza
alcuna aspettativa di miglioramento27, ovvero, più estensivamente (a detrimento del
lavoratore), anche in termini previsionali e probabilistici, secondo un approccio che
ha avuto qualche riscontro nella giurisprudenza28, ma che non si è affatto
consolidato29. Del resto, il fatto di non riconoscere, ad un lavoratore colpito da un
evento di portata ancora più grave, l’applicazione dei pur transitori benefici collegati
23
Un’ulteriore, e pur particolare (anche come disciplina, tanto da non poter essere ricondotta all’art. 2110) ipotesi nella quale
l’esigenza di sottoporsi a un trattamento terapeutico è stata presa in considerazione dal legislatore come motivo di legittima
astensione del dipendente dalla prestazione è quella della tossicodipendenza (art. 124 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309), la
quale, se accertata, può comportare il diritto all’accesso ai programmi terapeutici e di riabilitazione presso i servizi sanitari
delle ASL o di altre strutture, con diritto alla conservazione del posto per il periodo del trattamento o comunque per un
periodo non superiore a tre anni. Durante tale aspettativa (che può essere richiesta anche da un familiare del
tossicodipendente) non è prevista, peraltro, la corresponsione del trattamento retributivo, a meno di più favorevoli discipline
contrattuali. Sono comunque fatte salve le disposizioni che prevedono, per ragioni di ordine pubblico, particolari requisiti
psico-fisici e attitudinali per l’accesso all’impiego. Sul regime di questa (meno assistita, rispetto alla malattia, data la carenza
retributiva, ma) innovativa ipotesi sospensiva, v. Pret. Milano 5 novembre 1993, in Riv. crit. dir. lav. , 1994, 363, con nota di
F. Scarpelli, Lavoratore tossicodipendente e licenziamento. Cfr. anche G. Pera, Disposizioni per la tossicodipendenza e
l'AIDS nel rapporto di lavoro, in Riv. it. dir. lav. , 1990, III, 198; A. Topo, La tutela del lavoratore tossicodipendente, ivi,
1993, I, 247.
Per le mansioni che comportano rischi per la sicurezza, l’incolumità e la salute dei terzi, come individuate da un d.m., sono
inoltre previsti (art. 125) accertamenti di assenza dello stato di tossicodipendenza (svolti dal medico competente), i quali
comportano, se positivi, un giudizio di inidoneità temporanea al lavoro, con avviamento del lavoratore al Sert
territorialmente competente, e comunque con cessazione dell’assegnazione alla mansione e affidamento, ove possibile, di
mansioni diverse; le intese preliminari per l’emanazione del d.m. in questione sono state fissate, il 30 ottobre 2007, in
un’intesa della Conferenza Stato-Regioni (per un commento alla quale v. M. Marrucci, Test antidroga per mansioni a rischi:
pubblicata l’intesa Stato-Regioni, in Guida al lav., n. 47/2007).
24
L’INPS ha cominciato ad occuparsene con il messaggio 12 febbraio 2008, n. 3701 (cfr. P. Gremigni, Day Service
ambulatoriale e trattamenti di malattia, in Guida al lav., n. 8/2008).
25
Per un riscontro nel diritto comunitario, v. Corte di Giustizia C.E., 11 luglio 2006, C-13/05, secondo cui per il diritto
comunitario handicap e malattia non sono assimilabili, sì che un lavoratore licenziato per causa di malattia non può invocare
la tutela offerta ai disabili dalla direttiva n. 2000/78/CE, contro le discriminazioni sul luogo di lavoro.
26
Sul punto, che presuppone l’esame del regime del licenziamento in pendenza di malattia, v. § 2.13.
27
Nel senso che l’inidoneità, a differenza di quella nascente dalla malattia, ha carattere permanente, o “quantomeno durata
indeterminata o indeterminabile”, v. Cass. 24 gennaio 2005, n. 1373.
28
V., ad es., Cass. 17 maggio 1997, n. 5416; Cass. 2 aprile 1996, n. 3040, in Not. giur. lav. ,1996, 618. Per l’ulteriore
precisazione che l’inidoneità si deve valutare in relazione al pregiudizio, anche probabile, arrecato al dipendente dall’attività
lavorativa svolta, v. Cass. 13 dicembre 2000, n. 15688.
29
Si v., ad es., la ragionevole precisazione (Cass. 13 aprile 1992, n. 4507, in Not. giur. lav. 1992, 659) per cui rileva, ai fini
risolutori (§ 2.13), soltanto un’inidoneità fisica “di grado elevato residuata alla completa guarigione o alla stabilizzazione
della parziale remissione della malattia”.
alla malattia, comporta difficoltà sul versante dell’equità30.
In linea di principio, la nozione di malattia dovrebbe essere “tarata” sulle concrete
mansioni normalmente espletate dal dipendente, di guisa che potrebbe persino darsi
il caso di un lavoratore incapace di svolgere certe mansioni, ma non altre, alle quali
potrebbe essere legittimamente assegnato, eventualmente sulla base di una
prescrizione medica “articolata” (così come accade, ma lì per evitare il licenziamento,
nel caso di inidoneità). Ma nell’esperienza italiana una siffatta prassi è, a dir poco,
rara31, a monte di tutto essendovi la tradizionale riluttanza della classe medica (che
pure, va riconosciuto, non dispone di adeguati strumenti di conoscenza nel
passaggio cruciale del controllo, ed è spesso costretta ad affidarsi alle informazioni
più o meno complete fornite dal dipendente32) a rapportare la valutazione medica alle
mansioni effettivamente svolte33.
Altrettanto infrequente è che il problema dell’effettività dell’incapacità al lavoro
emerga nell’esperienza giudiziaria. Qualche segnale in controtendenza, a partire da
alcuni vicende esemplari34, ha cominciato tuttavia a registrarsi sin dagli anni ’80 del
secolo scorso, quasi sempre per il tramite di inferenze logiche desunte dall’acclarato
svolgimento di altre attività (lavorative o di altra natura) da parte del lavoratore
malato35. Infatti, senza il “grimaldello” di condotte abusive (che tuttavia, essendo
all’oscuro della diagnosi della malattia, il datore ha difficoltà a valutare), l’incapacità
al lavoro rimane una cassaforte difficile da penetrare.
Infine, non è in discussione che la disciplina dell’art. 2110 (al pari di quella
previdenziale36) trovi applicazione anche nelle ipotesi di malattie o infortuni
determinati da colpa del lavoratore37.
30
Non è un caso che tale garanzia, quanto meno per la prima tranche (18 mesi) del periodo di comporto, sia assicurata da
tutti i contratti collettivi dei comparti pubblici.
31
Si collega a questo, in certo senso, l’affermazione che, non venendo meno durante la malattia i doveri di diligenza, buona
fede e corretta, è giustificato il licenziamento intimato a un dirigente che abbia rifiutato, sol perché malato, ogni
comunicazione con il datore di lavoro, rendendosi irreperibile e non dando riscontro a una richiesta di informazioni: v. Cass.
20 novembre 2006, n. 24591.
32
Nel senso che non costituisce prova idonea dell’infermità un certificato nel quale il medico curante si sia limitato ad
attestare la dichiarazione del lavoratore circa il proprio disturbo, v. però App. Roma 16 gennaio 2004, in Riv. it. dir. lav.,
2004,II,61.
33
Tanto che, forse per troncare gli abusi alla radice, si era suggerito che la valutazione sull'impedimento al lavoro esulasse
dalla competenza del medico: così la tesi minoritaria di P. Ichino, Diritto alla riservatezza e diritto al segreto nel rapporto di
lavoro, Milano, 1979, 94, sulla quale, criticamente, R. Del Punta, op. cit., 48.
34
V. ad es. Trib. Milano 31 gennaio 1997, in Riv. it. dir. lav., 1998, II, 791; Trib. Parma 7 novembre 1996, ivi, 1997, II, 120,
a conferma di Pret. Parma 22 luglio 1995, ivi, 1995,II,876 (ed a propria volta confermata da Cass. 5 maggio 2000, n. 5622),
che aveva ritenuto effettivamente sussistente la lombalgia cronica certificata dal medico curante, ma ha escluso il suo preteso
effetto inabilitante; Pret. Parma 27 giugno 1989, ivi, 1989, II, 404 (sul punto che la stessa inidoneità permanente sulla quale
si è fondato l’avviamento obbligatorio al lavoro non può giustificare l’astensione, occorrendo un’infermità in fase acuta);
Pret. Milano 3 febbraio 1989, ivi, 298, nel caso di una centralinista col mignolo ingessato, escludendosi la malattia a dispetto
del diverso parere di tre successivi medici USL, in quanto la lavoratrice continuava ad essere in grado di attendere alle
proprie normali; Pret. Torino 19 gennaio 1989, ivi, deducendosi l'inesistenza di un'infermità anche dall'osservazione diretta
dell'aspetto del lavoratore nel corso dell'udienza convocata in costanza dell'allegata malattia. Nel senso che la sindrome
premestruale può dar luogo a malattia, nella misura in cui si accompagna a concreti disturbi (come cefalea, nausea e vomito),
v. Cass. 27 marzo 1991, n. 3332, in Not. giur. lav., 1991, 141. Per altre citazioni, relative ai vari momenti del controllo sulla
malattia, v. infra, nel testo.
35
§ 2.5.
36
Per l’infortunio sul lavoro, gli artt. 11, 3° co., e 65 del d.p.r. n. 1124/1965, escludono il diritto alle prestazioni soltanto nel
caso di infortunio doloso (o autolesionistico), e non anche colposo (peraltro, il concetto di “rischio elettivo” è evocativo di
una colpa particolarmente grave).
37
V., in tal senso, R. Del Punta, op. cit. , 96 ss.; P. Ichino, Malattia del lavoratore subordinato, cit., 6; A. Pandolfo, op. cit.,
96 ss. La questione fu dibattuta a proposito dell'indennità previdenziale di malattia, ritenuta spettante anche in caso di
malattia colposa, v. Corte cost. 28 aprile 1976, n. 91, in Riv. giur. lav. 1976, III, 132; Cass. 13 febbraio 1997, n. 1314, in
Giust. civ., 1997, I, 1545, con nota di G. Pera; G. Dondi, op. cit., 45 ss. La soluzione di cui al testo è rimasta ferma anche
Ma è in circolazione, nella materia, anche un’altra nozione di malattia, non del
tutto coincidente con quella sin qui discussa. Ne è la fonte non l’art. 2110, bensì
l’art. 2109 c.c., letto alla luce della sentenza 30 dicembre 1987, n. 616, della Corte
costituzionale38, che ne ha dichiarato la parziale illegittimità, nella parte in cui non
prevede che la malattia insorta durante il periodo di ferie ne sospenda il decorso.
Piuttosto che l’incapacità al lavoro, rileva, a questi fini, l’incapacità al riposo, vale a
dire l’incompatibilità dell’evento morboso con la funzione di recupero delle energie
psico-fisiche (id est, anche puramente ricreativa), propria dell’istituto feriale39.
Nella difficoltà di munirsi di gestibili criteri di identificazione della fattispecie (oltre
che di contare su accertamenti efficaci), dopo iniziali tentativi fuori misura40 i
contratti collettivi si sono di massima affidati, pragmaticamente, a soglie temporali
minime di durata della malattia (ad es. tre giorni)41.
2.2. Comunicazione e certificazione della malattia.
Nel procedimento di accertamento della malattia si distinguono due momenti
separati: quello rivolto a portare a debita conoscenza il datore di lavoro della
sopravvenienza della malattia, tramite la comunicazione e la certificazione della
medesima, e quello (eventuale) del controllo.
La fonte dell’obbligo di comunicazione, al di là della sua rispondenza al generale
dovere di correttezza42, è la contrattazione collettiva. Pressoché tutti i contratti,
privati e pubblici, pongono a carico del lavoratore l'obbligo di giustificare la malattia
e l’infortunio extra-lavorativo mediante la presentazione tempestiva di un certificato
medico, ma anteponendo di solito a detto obbligo un autonomo e distinto obbligo di
dare comunicazione, a breve (ad es. 24 ore), dell'evento inabilitante occorso43.
Oltre che per consentire la sostituzione del dipendente malato, l'avviso dovrebbe
servire al datore anche per disporre l'eventuale visita di controllo. Nella prassi,
tuttavia, onde incidere anche sulle malattie di brevissima durata, tale visita è spesso
richiesta quando ancora non sono ufficialmente noti i motivi dell'assenza del
lavoratore, ergo sulla base di una mera supposizione in ordine agli stessi44.
E’ sempre la normativa collettiva, in secondo luogo, ad abilitare il lavoratore a
provare (interinalmente) la malattia inviando una certificazione del proprio medico di
dopo l’emanazione dell'art. 5, 1° co., del d.lgs. 19 settembre 1994 n. 626 (oggi trasposto nell’art. 20, 1° co., del d. lgs. 9
aprile 2008, n. 81), il quale ha imputato a ciascun lavoratore il dovere generale di prendersi cura della propria salute (oltre
che di quella dei colleghi di lavoro).
38
Poi ulteriormente precisata da Corte cost. 19 giugno 1990, n. 297, anche per evitare il corto circuito giuridico che avrebbe
potuto altrimenti condurre a riconoscere efficacia sospensiva delle ferie anche alle cure idrotermali.
39
V., ad es., Cass. 6 aprile 2006, n. 8016, osservando altresì che l’effetto sospensivo si determina dalla data della conoscenza
della comunicazione della malattia da parte del datore di lavoro; Trib. Milano 26 ottobre 2005, in Or. giur. lav., 2005, I, 982.
40
Come la limitazione dell’efficacia sospensiva alle malattie comportanti un ricovero ospedaliero, ritenuta non accettabile
dalla Cassazione: v. Cass. 3 agosto 1999, n. 8408.
41
Anche qui, pertanto, nel dissenso, pur meno consolidato, della Suprema Corte: v. Cass. 14 dicembre 2000, n. 15768.
42
Nel senso che, anche in mancanza di espresse prescrizioni contrattuali, il lavoratore dovrebbe ritenersi tenuto a comunicare
tempestivamente la malattia secondo correttezza e buona fede, v. Cass. 26 marzo 1984, n. 1977, in Giust. civ. , 1984, I, 2170,
in un caso riguardante un pilota di aereo che era stato licenziato perché, comunicando la malattia soltanto nell'imminenza del
volo, aveva provocato notevoli disservizi.
43
Sull’informalità di tale avviso v., ad es., Trib. Firenze 3 marzo 1987, in Toscana lavoro giur., 1987, 488.
44
Ciò fu avallato dalla Cassazione: v. Cass. 5 maggio 1979, n. 2156, in Riv. giur. lav., 1980, II, 89. V. anche Trib. Milano 23
luglio 1974, in Mass. giur. lav., 1974, 511, a riforma di Pret. Milano 16 aprile 1974, in Or. giur. lav. 1974, 346.
fiducia45, dotata di una valenza probatoria non inesistente (dato il dovere
deontologico), ma realisticamente debole.
Occorre aggiungere, peraltro, che per i soli lavoratori dipendenti da
amministrazioni pubbliche, l’art. 71, 3° co., della legge 6 agosto 2008, n. 133, ha
disposto che “nell’ipotesi di assenza per malattia protratta per un periodo superiore a
dieci giorni (ivi compresa l’ipotesi di una malattia originariamente certificata per un
periodo inferiore ma poi protrattasi oltre il decimo giorno, tramite un certificato di
proroga, senza soluzione di continuità, n.d.a.) e, in ogni caso, dopo il secondo evento
di malattia nell’anno solare l’assenza viene giustificata esclusivamente mediante
presentazione di certificazione medica rilasciata da struttura sanitaria pubblica”. Con
circolare n. 7/2008 del Ministro per la funzione pubblica, è stato precisato, peraltro,
che è certificato idoneo allo scopo anche quello rilasciato da un medico
convenzionato con il Servizio sanitario nazionale.
L'invio del certificato non costituisce soltanto lo strumento per soddisfare un
onere probatorio (avente ad oggetto l'evento malattia), che il lavoratore può comunque
assolvere in qualsiasi momento (anche, al limite, in giudizio), ma è pure il contenuto
di un obbligo, concernente un comportamento strumentale a rilevanza
organizzatoria, a prescindere dal fatto che la malattia possa essere nota altrimenti al
datore di lavoro46. Le vecchie diatribe dogmatiche sulla natura della posizione
soggettiva del dipendente possono ritenersi assorbite dalla rilevazione di una
compresenza di una duplicità di situazioni soggettive, che si collocano su piani
diversi47.
In quanto obbligo strumentale, il suo rispetto è assoggettato a termini, da
intendersi perentori, prescritti dai contratti collettivi (due - tre giorni dall’inizio della
malattia). Di fatto, invece, non viene quasi mai in gioco il rispetto del termine ex art.
2 l. n. 33/1980, che obbliga il lavoratore ad inviare all'INPS il certificato di malattia,
e al datore di lavoro un attestato di malattia48, entro due giorni dal rilascio, ma che
vale soprattutto sul piano dell’autonomo rapporto previdenziale lavoratore - INPS,
cioè ai fini del conseguimento dell'indennità economica di malattia49, corrisposta
materialmente dal datore di lavoro, ma come mero adiectus solutionis causa50.
Qualora gli obblighi di tempestivo invio dell'avviso e/o della certificazione di
malattia non vengano rispettati, la relativa assenza dal lavoro è di solito qualificata
dai contratti collettivi come ingiustificata, con la conseguente applicabilità delle
sanzioni disciplinari (sino al licenziamento) previste per tali ipotesi (in aggiunta alla
possibile trattenuta della retribuzione51, in applicazione del principio di
45
La trasmissione dell'avviso non esonera ovviamente dall'invio del successivo certificato, che rappresenta la prova della
malattia, ma l'invio in tempi brevissimi del certificato assorbe l'avviso: v. Cass. 21 marzo 1997, n. 2494, e, per la
giurisprudenza di merito, Trib. Milano 8 marzo 1977, in Or. giur. lav., 1977, 414.
46
In questo ordine di idee, v. R. Del Punta, op. cit., 107 ss.; A. Pandolfo, op. cit., 365-366; L. Salutini, Profili probatori,
disciplinari e contrattuali nella malattia del lavoratore, in Riv. dir. lav., 1977, I, 171. Per il rilievo che l'infrazione
commessa dal lavoratore non va “derubricata” a mero inadempimento formale, v. invece O. Mazzotta, Accertamenti sanitari,
eccessiva morbilità e contratto di lavoro, in Giorn. dir. lav. rel. ind. , 1983, 1 ss. , qui 5.
47
Per una completa ricostruzione del dibattito, v. R. Del Punta, op. loc. cit.
48
Ma, per l’affermazione per cui i principi di correttezza e buona fede impongono di applicare la regola di cui alla legge n.
33/1980 anche all’ipotesi di malattia contratta all’estero, v. Cass. 24 giugno 2005, n. 13622, in Mass. giur. lav., 2006, 40.
49
Cfr. R. Del Punta, op. cit. , 116 ss.; per la rilevanza anche privatistica della norma, v. invece G. Dondi, op. cit., 61 ss.
Sulla finalizzazione del certificato al conseguimento dell'indennità di malattia, v. infra, nel testo.
50
In argomento, v. G. Dondi, op. cit., 92 ss.
51
Alla quale corrisponde, sul piano previdenziale, la sanzione della perdita dell’indennità di malattia per i giorni di ritardo
(rispetto al termine ex art. 2 l. n. 33/1980) nell’invio della certificazione (v. ,ad es., Cass. 8 febbraio 1995, n. 1420), fatta
salva l’esistenza di un giustificato motivo che abbia materialmente impedito tale invio (v. Corte cost. 29 dicembre 1988, n.
1143, in Mass. giur. lav. ,1988, 796).
corrispettività). Tali sanzioni prescindono dal'effettività dello stato di malattia, per cui
non sono scongiurabili offrendone la prova (ferma la necessità, per il datore di lavoro,
di tenere conto di tutti gli elementi, anche soggettivi, del caso). L'unica chance, per il
lavoratore, è provare di essere stato impedito, da circostanze cogenti (id est rilevanti
come causa di impossibilità ex art. 1218 c.c.), persino ad inviare il certificato medico,
come nella situazione di un lavoratore privo di congiunti prossimi che sia rimasto
privo di sensi a causa dell’infermità, o che sia stato ricoverato in ospedale senza
contatti con l’esterno52.
2.3. Il contenuto della certificazione.
Il già menzionato art. 2, l. n. 33/1980, dispone che il certificato di malattia, che il
lavoratore deve inviare all'INPS, contenga diagnosi e prognosi rese dal medico
curante, e che invece la certificazione o attestazione da inviare al datore di lavoro
rechi esclusivamente la prognosi della malattia. Questa regola, pensata per
proteggere (ante litteram) la riservatezza del lavoratore, è stata criticata dalla
dottrina53, in quanto la mancata conoscenza (se non, talora, in via di fatto) della
natura della malattia sottrae al datore di lavoro buona parte della sua legittima
facoltà di valutazione circa la sussistenza dello stato di incapacità e la congruità
della prognosi54.
In alcune evenienze, peraltro, può essere il lavoratore ad avere interesse a rendere
nota al datore di lavoro la natura della malattia, ad es. per usufruire di particolari
termini di comporto, come quelli previsti in caso di neoplasie55.
Si potrebbe ipotizzare, infine, che in presenza di malattie di natura infettiva56, al
di là dell’eventuale dovere di denuncia all’autorità sanitaria, la riservatezza del
lavoratore ceda nei confronti dell’interesse dei colleghi a proteggersi dal pericolo di
un contagio, rilevante anche sotto il profilo dell’obbligo “di sicurezza” ex art. 2087,
con conseguente (ma problematica) ipotizzabilità di un dovere di comunicazione
secondo buona fede. Esso è stato positivamente escluso, peraltro (artt. 5 e 6, l. 5
giugno 1990 n. 135), per i soggetti colpiti da infezione da HIV, il cui anonimato è
rigorosamente protetto57.
2.4. La facoltà datoriale di valutazione della certificazione medica.
Il datore di lavoro, cui sia stata tempestivamente comunicata e certificata una
malattia, ha la possibilità di accettare la certificazione, senza neppure disporre una
visita di controllo, o viceversa di contestarne l’attendibilità.
A questo secondo fine, anzitutto, non è imprescindibile passare per l'espletamento
di una visita “fiscale” di controllo58, che pure rappresenta la soluzione più prudente,
52
V., ad es., Cass. 24 giugno 2005, n. 13622.; Cass. 9 giugno 1993, n. 6416. Per due casi nei quali il lavoratore non aveva
potuto comunicare la malattia, per uno stato di demenza alcoolica, v. Cass. 13 febbraio 1997, n. 1314, in Giust. civ., 1997, I,
1545 con nota di G. Pera, e Trib. Sassari 4 settembre 1993, in Giur. merito ,1994, 8.
53
Cfr. R. Del Punta, op. cit., 155-156, sviluppando uno spunto di P. Ichino, Diritto alla riservatezza, cit., 95-96.
54
§ 2.4.
55
V. Cass. 19 novembre 2001, n. 14475, che ne ha tratto la conseguenza della legittimità del licenziamento intimato, dopo la
scadenza del comporto ordinario, dal datore ignaro della natura della malattia.
56
In argomento, v. R. Del Punta, op. cit., 118 nt. 29; A. Pandolfo, op. cit., 88.
57
V. però Corte cost. 2 giugno 1994, n. 218, in Dir. lav. 1994, II, 478.
58
Per la non imprescindibilità della visita di controllo fiscale, anche in virtù di argomentazioni di carattere costituzionale, v.
e di fatto (al di là dei suoi incerti, e di solito frustranti, esiti) più seguita. Possono
darsi, infatti, casi in cui il datore di lavoro, senza aver disposto la visita di controllo,
ha a disposizione elementi che permettano di considerare inattendibile il certificato di
parte, consentendo la comminazione di sanzioni disciplinari, motivate dall'assenza
ingiustificata del lavoratore. Così, se un certificato non è regolare dal punto di vista
formale (ivi incluse le indicazioni minime di contenuto), l'onere di certificazione, id est
di prova della malattia, non può considerarsi validamente assolto, e la conseguenza –
sempre rovesciabile, peraltro, in giudizio – è l'ingiustificatezza dell'assenza dal lavoro.
E’ il caso di un certificato oggettivamente indecifrabile59, o comunque carente di
qualsiasi dato apprezzabile e riconoscibile in ordine all’esistenza di una condizione
inabilitante60, alla prognosi, o alla provenienza del medesimo da un medico61. A
queste irregolarità si affianca, come ipotesi aggravata, la falsificazione del certificato,
che per la sua carica fraudolenta integra, di massima, gli estremi della giusta causa
di licenziamento62.
Ma il certificato può essere esteriormente regolare, e tuttavia inattendibile. V’è,
anzitutto, la teorica possibilità di una valutazione interna, tecnica, della congruità
della certificazione. Non si potrà ritenere attendibile, ad es., un certificato che
contenga una prognosi, fatta risalire dal medico ad un momento eccessivamente
anteriore al giorno di effettuazione della visita medica. Ma quale sia il lasso
temporale oltre il quale simili certificati perdono attendibilità non può essere stabilito
una volta per tutte, anche perché variabile da malattia a malattia63.
Per il datore di lavoro è invece arduo, almeno in questa fase, valutare se la
malattia denunciata comporti o no un’effettiva e concreta incapacità al lavoro, e
ancor più se la prognosi indicata sia congrua. Tale disagio è dovuto, primariamente,
alla non conoscenza della diagnosi, che è pure all’origine della difficoltà di valutare lo
svolgimento, da parte del malato, di altre attività, lavorative o di altra natura. Una
casistica potenzialmente interessante, sebbene limitata, è emersa, tuttavia, nella
giurisprudenza di merito64; dovendosi tener conto che, se la scelta di irrogare il
provvedimento disciplinare è, in larga misura, “al buio”, durante il processo la
barriera della riservatezza salta e tutte le carte difensive debbono essere messe sul
tavolo65.
Ma più frequente, per intuibili ragioni, è che il datore di lavoro ritenga di
desumere l’inesistenza della malattia, e quindi – a monte - l’inattendibilità della
Cass. 30 gennaio 1990, n. 609; Cass. 26 febbraio 1985, n. 1674, in Mass. giur. lav., 1985, 234 (a proposito della visita
preassuntiva di idoneità fisica, il cui non esperimento non preclude un successivo accertamento giudiziale); R. Del Punta, op.
ult. cit., 156. Per la superata opinione per cui, se non ha disposto la visita di controllo, il datore di lavoro non può più
contestare la malattia, v. invece Cass. 17 gennaio 1986, n. 309, in Mass. giur. lav., 1986, 200.
59
Come in un caso in cui è stato ritenuto legittimo il licenziamento comminato ad un lavoratore che aveva inviato per fax un
certificato redatto a mano, in lingua portoghese, e nell’insieme indecifrabile, nonché privo di indicazioni circa il luogo ove
effettuare l’eventuale visita di controllo: Cass. 24 giugno 2005, n. 13622.
60
Non è idoneo a giustificare l’assenza un certificato con la dizione “Il sig. X necessita di ulteriori giorni di riposo e di
cura”: Trib. Milano 31 gennaio 1997, in Lav. giur., 1997, 595.
61
Non è indispensabile, peraltro, che il certificato sia redatto facendo uso della corrente modulistica.
62
V. Cass. 5 febbraio 1985, n.816, in Giust. civ., 1986,I,1339; App. Milano 27 settembre 2007, in Riv. it. dir. lav., 2008, II,
130. Per un caso nel quale la falsità del certificato è stata considerata sintomo evidente dell’arbitrarietà dell’assenza, v. Cass.
19 luglio 1985, n.4283, ivi, 1267. Ma in un’occasione è stato adottato, paradossalmente, un approccio meno severo in casi in
cui il falso era stato talmente grossolano da essere facilmente riconoscibile: v. Cass. 1° marzo 1985, n.1784.
63
In una pur rara occasione nel quale il problema si è posto, non si è ritenuta eccessiva, ragionevolmente, una prognosi
estesa al giorno precedente la visita di un giorno: v. Cass. 27 marzo 1991, n. 3332; Pret. Lecco 30 aprile 1998, in Giust.civ.,
1988,I,2422.
64
A partire dalla casistica già citata retro, § 2.1.
65
A quel punto anche la prognosi è sindacabile: per il caso di un’assenza di più di un anno, motivata da un modesto strappo
muscolare, v. Trib.Milano 6 ottobre 1989, in Riv.it.dir.lav., 1990,II,414.
certificazione, da circostanze esterne, di natura extra-sanitaria, dalle quali tragga,
presuntivamente, tale conseguenza. Il caso più frequente è quello del malato
impegnato in altre attività66. Ma qualunque circostanza indiziaria, di qualsivoglia
natura (come il comportamento del lavoratore anteriormente alla collocazione in
malattia67 o durante la stessa68), è potenzialmente in grado di acquisire rilevanza a
tali fini. Del pari, è possibile che l’inattendibilità del certificato venga desunta
dall’incongruenza fra i dati diagnostici e prognostici e le terapie prescritte al
dipendente, come da altri concomitanti elementi69.
2.5. Lo svolgimento di attività da parte del lavoratore malato.
Lo svolgimento, da parte del lavoratore, di attività extra-lavorative in pendenza
dello stato di malattia, può avere almeno tre diverse valenze giuridiche:
a)
può dimostrare che il lavoratore non era effettivamente malato, o
comunque inabile al lavoro, e che dunque la sua assenza dal lavoro era da
ritenersi ingiustificata;
anche ammessa l’autenticità della malattia, può rivelare la violazione del
b)
dovere, incombente sul lavoratore, di non pregiudicare il recupero delle
energie lavorative;
c)
può integrare un’assenza domiciliare nelle fasce orarie di reperibilità.
Il profilo sub c) sarà trattato a sé70, e deve essere distinto dai primi due, che
invece tendono a sovrapporsi, pur essendo anch’essi differenziati tra loro.
Così, in primo luogo, qualora il datore di lavoro venga a conoscenza, o per aver
disposto appositi accertamenti o finanche casualmente, che il lavoratore ha posto in
essere comportamenti incompatibili con la malattia denunciata (nel senso di
dimostrarne la non veridicità), può contestare l’assenza ingiustificata, quand’anche
la visita di controllo abbia confermato la prognosi del medico di fiducia71.
Le informazioni sullo svolgimento di altre attività possono essere state acquisite
tramite appositi accertamenti extra-sanitari, come quelli condotti a mezzo di agenzie
investigative; sulla liceità dei quali, anche al cospetto dell’art. 8 St. lav., non vi sono
ormai più dubbi nella giurisprudenza72, ivi incluse le indagini svolte da addetti alla
66
§ 2.5.
V. Trib. Milano 3 luglio 1991, in Riv.it.dir.lav., 1992,II, 396, in un caso in cui il lavoratore aveva inviato una
certificazione di emicrania,dopo essersi visto ripetutamente rifiutare un permesso,e la Corte ha ritenuto legittimo il
licenziamento per assenza ingiustificata.
68
Per un caso in cui un’assenza protrattasi per quattro anni consecutivi, con un collage di diversi motivi di impedimento, e
con uno spostamento di residenza in località lontanissima da quella di lavoro, non è stata ritenuta giustificata, v. Trib. Milano
22 gennaio 2007, in Riv. it. dir. lav., 2008, II, 130.
69
Come i dati anamnestici, la concomitanza spontanea tra l’insorgenza della patologia denunciata e la comunicazione di un
trasferimento, il difetto di indagini e dati diagnostici specifici dai quali diagnosi e prognosi non avrebbero potuto
prescindere: v. Trib. Roma 17 novembre 2005, in Riv. it dir. lav., 2006, II, 307. Nel senso che è scarsamente attendibile un
certificato col quale il medico curante giustifichi un’astensione dal lavoro, a ridosso di due giorni di festa, con la diagnosi di
tachicardia e ipertensione, ma prescrivendo un semplice tranquillante, v. App. Milano 27 settembre 2007, cit. Sulla non
credibilità di una malattia ansioso-depressiva manifestatasi in istantanea concomitanza con un trasferimento contestato dal
lavoratore, v. Trib. Torino 7 febbraio 2005, in Riv. it. dir. lav., 2005, II, 405, con osserv. di P. Ichino.
70
§ 2.8.
71
Quasi sempre, nei conseguenti giudizi, l’indagine si sviluppa tramite una CTU medico-legale, ma si è ritenuto
inammissibile il ricorso ad essa in mancanza dell’indicazione, da parte del datore di lavoro, di elementi di fatto tali da
rendere persuasiva la contestazione mossa al dipendente: v. Trib. Milano 14 marzo 2007, in Riv. crit. dir. lav., 2007, 533.
72
V. Cass. 14 aprile 1987, n. 3704; Cass. 11 ottobre 1983, n. 5356; Trib. Perugia 17 settembre 2005, in Riv. it. dir. lav.,
2006, II, 101, pur ribadendo il rispetto dei limiti generali di riservatezza; Trib. Roma 22 febbraio 1996, in Or.
giur.lav.,1996,241; Trib. Roma 16 giugno 1995; contra, Cass. 26 febbraio 1982, n.1241. Si è altresì escluso che tali
67
vigilanza aziendale73.
Una volta superato lo scoglio preliminare in ordine all’acquisizione dei dati, si
apre il ventaglio di un’ampia casistica incentrata sulla verifica ex post dello stato di
malattia denunciato74.
Ma lo svolgimento di altre attività in pendenza di malattia – v. sub b) – può essere
ritenuto contrattualmente illegittimo a prescindere dal fatto di far dubitare della
veridicità della malattia, nella misura in cui concreta una violazione di quel dovere
preparatorio all’adempimento che consiste nel dovere di non pregiudicare il recupero
delle energie lavorative, sì da rimettersi in condizione di adempiere la prestazione75.
La giurisprudenza fa discendere tale dovere dall’obbligo di fedeltà, ma letto come
mera sintesi dei doveri generali di correttezza e buona fede, ed è solita reputare
irrogabile, in caso di violazione, il licenziamento per giusta causa76.
Ciò implica che ad essere precluso non è lo svolgimento di qualunque attività,
anche lavorativa77, bensì esclusivamente quello di attività incompatibili con lo stato di
malattia denunciato78, nel senso di comportarne un aggravamento79, del quale è
ulteriormente dibattuto se debba essere effettivo80 o, secondo una valutazione ex
accertamenti entrino in collisione con l’art. 5 St.lav., sol perché hanno compreso la manifestazione di impedimenti nei
movimenti, ma sulla base della mera osservazione del comportamento quotidiano del lavoratore: v. Cass. 3 maggio 2001, n.
6236, in Riv.it.dir.lav., 2002,II,345, con nota di S. Bartalotta.
73
V. Cass. 26 febbraio 1994, n. 1974, in Dir.lav., 1994,II,152, nel caso di un dipendente scoperto a lavorare nella sua bottega
artigiana.
74
Per un caso in cui un lavoratore si era assentato per una lombosciatalgia, con prognosi confermata dal medico fiscale, ma
l’indagine aveva permesso di accertare che egli aveva condotto una vita perfettamente normale, senza manifestare alcuna
limitazione funzionale, guidando l’auto per tragitti anche di 30-50 km., camminando, aprendo e chiudendo cancelli,
trasportando sacchi e sporte, partecipando con impegno all’organizzazione di un club privato della moglie,v. Cass. 3 maggio
2001, n. 6236, cit., con licenziamento confermato nei tre gradi. Cfr. anche Pret. Milano 21 agosto 1984, in Or.giur.lav.,
1984,1129, sul caso di un lavoratore sofferente di lombaggine ed epatopatia che aveva partecipato, vincendoli, ai campionati
nazionali di culturismo. Per il caso della dipendente sorpresa a prostituirsi, v., con opposte valutazioni, Pret.Milano 26
giugno 1989, in Riv.it.dir.lav., 1989,II,644, e Trib. Milano 6 agosto 1993, in Riv.crit.dir.lav., 1994,189.
75
Per la prospettazione congiunta, come chiave di valutazione del caso, dell’ipotesi della simulazione e di quella
dell’aggravamento, v. Cass. 6 ottobre 2005, n. 19414; Trib. Bergamo 21 luglio 2006, in Or. giur. lav., 2006,I,620; Trib.
Vasto 7 marzo 2003.
76
V. Cass. 6 giugno 2005, n. 11747, cassandosi la decisione che, sulla base del solo certificato medico confermato in via
testimoniale, aveva annullato il licenziamento di un lavoratore assente per depressione che di notte faceva il sorvegliante di
discoteche; Cass. 10 agosto 1996, n. 7434; Cass.3 febbraio 1996, n. 922. Peraltro, nei codici disciplinari contenuti nei
contratti collettivi dei comparti pubblici per tale ipotesi è comminata, al massimo, la sanzione della sospensione, fatta salva
la recidiva.
77
Il corrente orientamento ebbe inizio con Cass. 16 giugno 1976, n. 2244, in Mass.giur.lav., 1976,573.
78
Con l’onere di provare la compatibilità a carico del lavoratore: v. Cass. 19 dicembre 2000, n. 15916. Più elastica Cass. 27
luglio 1994, n. 6982, secondo cui il dipendente potrebbe limitarsi ad allegare le caratteristiche della malattia,sì che sia
possibile valutarne la compatibilità con l’attività di lavoro espletata.
79
Così, ex multis, Cass. 11 dicembre 2001, n. 15621: “Lo svolgimento di altra attività da parte del lavoratore assente per
malattia, documentata con certificato medico, costituisce motivo di licenziamento disciplinare…solo ove il dipendente abbia
agito simulando la malattia, si sia comportato in modo da compromettere o ritardare la propria guarigione, abbia svolto
un’attività oggettivamente incompatibile con lo stato di malattia oppure l’abbia esplicata in violazione del divieto di
concorrenza” (peraltro escludendosi, nel caso, gli estremi del licenziamento disciplinare, essendo emerso che il lavoratore,
durante la malattia, aveva restaurato mobili presso la propria abitazione, ma in modo “quasi amatoriale”). A dimostrazione
della difficoltà della valutazione, v. Cass. 19 dicembre 2000, n. 15916, confermativa di una sentenza che aveva annullato il
licenziamento di una lavoratrice, affetta da depressione a seguito di una dermatite, la quale si era limitata ad uno sporadico
aiuto presso il bar della figlia, ritenuto semmai idoneo a coadiuvare la guarigione.
80
V. Cass. 9 marzo 1987, n. 2452, in Foro it., 1987,I,3082. Per un caso, all’apparenza discutibile, nel quale si è ritenuto
ingiustificato un licenziamento disciplinare di un lavoratore addetto a servizi ecologici, che, assente dal lavoro per infortunio
ad un ginocchio, durante l’astensione era stato visto in numerose occasioni circolare a piedi, con autovettura o scooter, e in
un’occasione partecipare ad una seduta di allenamento in un campo di calcio, essendo risultato dalla CTU che dette attività
non avevano ritardato la guarigione, v. Trib. Pisa 16 luglio 2005, in Riv. it. dir. lav., 2006, II, 460, con osserv. di P. Ichino.
ante, meramente potenziale81.
Né mancano esempi di valutazioni generose. In un pur non recente caso, nel
quale un lavoratore, ammalato per un’affezione agli occhi, aveva svolto un’attività
sportiva di istruttore di judo, che il perito aveva accertato essere pericolosa, si
ritenne ingiustificato il licenziamento, anche in considerazione del particolare
interesse sempre mostrato dal soggetto per quella disciplina sportiva82. Può essere
invece accettabile tener conto, nella valutazione complessiva della responsabilità
disciplinare, dell’assenza di un intento speculativo da parte del lavoratore, sorpreso
per l’appunto a svolgere un’attività sportiva83.
In uno spirito di rigore, si è invece affermato che se il lavoratore malato intende
svolgere un’altra attività presso terzi, non incompatibile con la malattia e non tale da
ritardare la guarigione, deve preventivamente offrire tale prestazione al proprio
datore di lavoro, il quale – esercitando lo ius variandi – potrebbe assegnare il
dipendente alle mansioni, diverse da quelle abituali, che sia in condizione, in quello
stato, di svolgere84.
2.6. Rapporti tra certificato privato e pubblico.
L’ipotesi normale, peraltro, è quella in cui il datore di lavoro esercita la sua facoltà
di verifica sulla certificazione di malattia disponendo la visita fiscale di controllo, nel
rispetto dell’art. 5 St. lav. e della normativa sulle “fasce orarie” di reperibilità. Quali
possono essere, in tale caso, i successivi svolgimenti (supponendo per ora che il
lavoratore sia stato regolarmente trovato in casa o comunque che si sia sottoposto
alla visita di controllo,anche ambulatoriale)?
Può accadere, anzitutto, che il medico di controllo confermi la prognosi resa dal
medico curante. Ma ciò non impedisce al datore di contestare la
certificazione,qualora sia in possesso di elementi di prova che ne dimostrino
l’inattendibilità. E’ pacifico, infatti, che la certificazione del medico pubblico è
sindacabile in giudizio, senza bisogno di querela di falso, non avendo il referto valore
di prova legale, salvo che per le circostanze estrinseche in esso attestate85.
Problemi non meno delicati, per entrambe le parti, si propongono là dove si sia
creato un conflitto fra il certificato privato e quello pubblico,avendo il medico di
controllo ridotto la prognosi già resa dal primo, od avendo negato in radice la
sussistenza della malattia. Qui la scelta spetta anzitutto al lavoratore, che potrà
decidere,prudentemente,di attenersi alla più ridotta prognosi del medico fiscale,
ovvero di prolungare l’assenza fino alla scadenza della prognosi originaria. Ove opti
per la seconda soluzione, ciò che potrà essergli rimproverato, in ipotesi, non è
l’inadempimento dell’obbligo formale di giustificare il prolungamento della malattia
81
V. Cass. 1° luglio 2005, n. 14046, essendo irrilevante la tempestiva ripresa di servizio al termine della prognosi originaria;
Cass. 17 luglio 1991, n. 7915.
82
V. Cass.12 aprile 1985, n. 2434, in Giust.civ., 1985,I,1913, con osserv. di G.Pera. Per il caso, anch’esso risolto a favore del
dipendente, di una lavoratrice afflitta da coliche addominali, che aveva partecipato ad una trasmissione televisiva come
cantante amatoriale, v. Cass. 27 febbraio 2008, n. 5106.
83
V. Cass. 20 settembre 1991, n. 9803, in Riv.it.dir.lav., 1992,II,676, peraltro soltanto ai fini della derubricazione di un
licenziamento per giusta causa in uno per giustificato motivo soggettivo.
84
V. Cass. 29 luglio 1998, n. 7467.
85
V., fra le tante, Cass. 13 febbraio 1990, n.1044, in Not.giur.lav., 1990,228; Cass.10 gennaio 1984, n. 155. Cfr. anche
quanto affermato da Trib.Napoli 9 giugno 1988, in Lav.’80, 1988,988, circa il fatto che la non contestazione a verbale, da
parte del lavoratore, dell’esito della visita domiciliare (come consentito dal d.m. 8 gennaio 1985), non preclude ulteriori
contestazioni in altra sede; contra, Trib. Treviso 12 gennaio 1993, in Inf. prev., 1994,1004.
(non essendovi alcun prolungamento, ma soltanto un’unica malattia valutata
diversamente da due medici), quanto l'assenza ingiustificata per i giorni eccedenti86.
Ciò, salvo che, dopo la scadenza della prognosi indicata dal medico di controllo, il
lavoratore abbia inviato un nuovo certificato attestante il prolungamento della
malattia (o, più “opportunamente” – cioè intendendo mettere in maggiore difficoltà il
datore di lavoro -, l’inizio di una nuova malattia), giacché in tal caso sarà il datore a
doverne provare l’inattendibilità tramite una nuova visita di controllo o altri
elementi87.
Peraltro, per il principio della parità di valore fra certificazione privata e
pubblica,enunciato da una giurisprudenza ormai consolidata88, il lavoratore
mantiene la possibilità di impugnare la sanzione disciplinare, dimostrando la
sussistenza della malattia o la correttezza della prognosi cui si è attenuto. In
coerenza, una pronuncia di Cassazione ha ritenuto corretta la valutazione di
legittimità del licenziamento di un lavoratore che aveva protratto l’assenza senza
attenersi alla prognosi ridotta dal medico fiscale, con l’argomento che imporgli di
comunicare tale protrarsi avrebbe implicato l’inammissibile conferimento di
un’efficacia “privilegiata e sostitutiva” al certificato pubblico89.
Peraltro, a dispetto della teorica parità, nella prassi giudiziale la certificazione
pubblica può finire col rappresentare, per il sentore di imparzialità, il prevalente
appiglio del magistrato90, in specie qualora il c.t.u. non sia stato in grado, magari alla
luce del tempo trascorso91, di pronunciarsi sulla malattia.
Il problema, in ultima analisi, è di calcolo dei rischi per entrambe le parti, secondo
l’intrinseca logica di un sistema che, non accordando efficacia legale preclusiva ad
alcuna certificazione, consente che essa possa essere smentita sulla base di altri
elementi di prova. Un sistema, quindi, nel quale nulla è mai definitivamente
pregiudicato né garantito, sino alla sentenza definitiva, ed il valore della giustizia
probatoria fa aggio su quello della certezza. Per l’impresa, un meccanismo così
concepito non manca di comportare notevoli difficoltà gestionali; ma può
86
V. Pret. Torino 27 marzo 1992, in Giur.piem.,1993,93,in un caso in cui due visite di controllo avevano accorciato la
prognosi,e la lavoratrice si era fatta rilasciare un altro certificato dal sostituto del proprio medico curante.
87
V. Cass. 3 dicembre 1994, n. 10370. Ma, in un caso in cui il nuovo certificato del medico curante, rilasciato il pomeriggio
a fronte di due visite effettuate al mattino da medici INPS - che avevano escluso l’inesistenza di infermità, e avevano
attestato che il dipendente poteva rientrare al lavoro – aveva attestato la sussistenza di una malattia (anche se nuova) sin dal
giorno precedente, entrando così in collisione con i due certificati pubblici (giacché, se essa vi fosse stata, i medici di
controllo avrebbero dovuto diagnosticarla), l’assenza dal lavoro è stata ritenuta ingiustificata: v. App. Firenze 4 novembre
2003, Mitsuba F.N. Europe c. X, ined. Ad ennesima dimostrazione di come, al di là delle ragioni – più o meno valide – per
cui il datore di lavoro, allo stato delle sue conoscenze in quel momento, ha disatteso la certificazione inviata dal lavoratore,
in giudizio si riparta poco più che da zero, e il vero artefice della decisione sia, quasi sempre, il consulente nominato dal
giudice in sede di impugnativa della sanzione irrogata al lavoratore.
88
V., ad es., Cass. 1°ottobre 1991, n. 10190, in Dir. prat. lav., 1991,3139. A maggior ragione, se il medico di controllo ha
commesso un errore materiale che ha inficiato l’attendibilità del certificato, rimane pienamente probante la certificazione del
medico di fiducia del dipendente: Pret. Torino 11 gennaio 1994, in Riv. it. dir. lav., 1995,II,371. Risente del principio di
parità fra le due certificazioni la conclusione di Cass. pen. 4 maggio 1994, n.5123, in Mass. giur. lav., 1994, 357, che ha
assolto un lavoratore che era stato imputato – a torto – di aver tratto in inganno il medico curante, inducendolo a certificare
una falsa malattia; secondo la S.C., i giudici di merito avevano sbagliato a dare più credito alle valutazioni del medico
fiscale, che anzi, al limite, aveva una minore conoscenza specifica del paziente.
89
V. Cass. 1° settembre 1987, n.7167, in Or.giur.lav., 1987,695, con i commenti critici di M. Di Ruocco e F.Toffoletto, ivi,
1987, 1044 e 1048.
90
Cfr. App. L’Aquila 26 settembre 2002, in Guida al lav., n. 42/2002: “In mancanza di apposita istanza istruttoria,le
valutazioni del medico curante sulla durata della malattia cedono di fronte agli accertamenti compiuti da una struttura
pubblica (nella specie il medico dell’INPS) che abbia ritenuto il lavoratore idoneo alla ripresa del lavoro”.
91
E neppure la c.t.u. è vincolante, ovviamente, per il giudice: lo ha puntualizzato, in un caso in cui il giudice di appello
aveva riconosciuto maggiore credibilità ad una diagnosi di malattia effettuata dal medico INPS piuttosto che ad una c.t.u.
eseguita a tre anni dall’evento, Cass. 5 marzo 2007, n. 5032, in Riv. it. dir. lav., 2007, II, 980.
comportarne, e forse di più gravi, anche per il lavoratore.
2.7. Il controllo della malattia: l’art. 5 dello Statuto dei lavoratori.
L'art. 5 della legge n.300/1970 ha vietato al datore di lavoro di disporre visite
di controllo, sull'infermità per malattia o infortunio92 o sull'idoneità fisica93 del
lavoratore dipendente, tramite medici di propria fiducia, ivi compresi i c.d. medici di
fabbrica94. In conformità con la ratio della norma, tesa a garantire l'imparzialità del
controllo medico95, il datore di lavoro è obbligato a servirsi degli “enti previdenziali
competenti” (2° co.) per gli accertamenti sull'infermità, e di “enti pubblici ed istituti
specializzati di diritto pubblico” (3° co.), per gli accertamenti sull’idoneità del
lavoratore (ma su questa seconda tipologia di accertamenti, è intervenuta, come si
vedrà fra poco, un’importante novità). Con la riforma sanitaria del 1978, queste
funzioni furono affidate alle USL (oggi Aziende USL), ma successivamente è stato reso
possibile anche il ricorso, da parte del datore di lavoro e degli istituti previdenziali
interessati, ai medici iscritti in “liste speciali” istituite dall'INPS. La competenza sugli
infortuni sul lavoro e sulle malattie professionali spetta, invece, all'INAIL.
Su questo assetto è però venuto ad incidere in modo significativo, sebbene
limitatamente agli accertamenti sull’idoneità dei lavoratori, il d.lgs. n. 626 del 1994,
che nell'ambito di una riforma generale della normativa prevenzionistica, ha previsto,
e circondato di particolari compiti e responsabilità, la figura del “medico competente”,
che può essere un medico di una struttura ospedaliera, un libero professionista, od
anche un dipendente del datore di lavoro: col compito (art. 16) di effettuare la
“sorveglianza sanitaria”, comprendente “a) accertamenti preventivi intesi a constatare
l'assenza di controindicazioni al lavoro cui i lavoratori sono destinati, ai fini della
valutazione della loro idoneità alla mansione specifica; b) accertamenti periodici per
controllare lo stato di salute dei lavoratori ed esprimere il giudizio d'idoneità alla
mansione specifica”. Secondo la lettura più convincente, la previsione sub b) ha
determinato l’effetto radicale dell’abrogazione implicita dell’art. 5, 3° co., l. n.
300/1970; come confermato anche dall'art. 17, 1° co., lett. c), e 3° co., del d.lgs. n.
626/1994. Si è quindi consumata una svolta in una direzione non pre-statutaria, ma
certamente meno condizionata da un'ostilità di principio nei confronti dei servizi
sanitari aziendali96.
La normativa appena illustrata è stata sostanzialmente confermata (anche se con
maggiori dettagli sui compiti del medico competente) dall’art. 41, 2° co., del d.lgs. 9
aprile 2008, n. 81, che ha abrogato il d.lgs. n. 626 del 1994.
92
Nel senso che l'art. 5 vieta anche gli accertamenti datoriali sui lavoratori infortunati, v. Cass. 2 giugno 1998, n. 5414, in
Riv. it. dir. lav., 1998, II, 341; Cass. pen. 4 maggio 1995, n. 5047.
93
Pret. Torino 15 febbraio 1996, in Riv. crit. dir. lav. 1996, 1052. Il divieto relativo alle visite di idoneità riguarda anche le
visite preassuntive: v. Cass. 5 novembre 1985, n. 5387, in Not. giur. lav. 1986, 318; Cass. 4 maggio 1984, n. 2729, in Giust.
civ., 1985, I, 119. Contra, Cass. 8 gennaio 1998, n. 2635, in Riv. it. dir. lav., 1998, II, 280, con nota di G. Pera; in Dir. proc.
pen., 1998, 614, con nota di F. Palazzo.
94
Cfr. G. Suppiej, Il potere direttivo dell'imprenditore e i limiti derivanti dallo statuto dei lavoratori, in Riv. dir. lav., 1972,
I, 3, 16; A. Pandolfo, op. cit., 382-383. Sulla legittimità costituzionale dell'art. 5, v. Corte cost. 5 febbraio 1975, n. 23, in Riv.
dir. lav. 1975, II, 45. In giurisprudenza, Cass. 27 dicembre 1997, n. 13056, in Riv. it. dir. lav., 1998, II, 530.
95
Cfr. O. Mazzotta, op. cit., 16-17. E’ imparziale anche il controllo medico esperito tramite lo strumento dell’accertamento
tecnico preventivo, ma esso richiede, ex art. 696, 1° co., c.p.c., il consenso del dipendente: v. Trib. Milano 2 ottobre 2006, in
Riv. crit. dir. lav., 2007, 156.
96
Un temperamento nei confronti dei pur innegabili rischi di abuso (e non si dimentichi che un accertamento di inidoneità
può valere un licenziamento per g.m. obiettivo) è ravvisabile nella previsione di un possibile ricorso amministrativo
all’organo di vigilanza (art. 41, 9° co., d.lgs. n. 81/2008, già art. 17, 4° co., d.lgs. n. 626/1994).
A parte questa “mutilazione”, la violazione del divieto ex art. 5 (ovviamente
imperativo) comporta l'inutilizzabilità degli accertamenti irritualmente effettuati97,
nonché l'applicazione della sanzione penale di cui al susseguente art. 38.
La norma statutaria ha tracciato una linea di non ritorno per tutta l'esperienza
successiva, in nome di valori di imparzialità da reputarsi tuttora irrinunciabili.
Sarebbe stato ingiusto, d'altra parte, far ricadere sull’art. 5 le responsabilità
imputabili al fallimento organizzativo degli apparati ispettivi. Nondimeno, rimaneva
urgente, pur senza tradire lo spirito statutario, rendere più efficace il servizio di
controllo, prevedendo prescrizioni strumentali finalizzate a tale scopo. La soluzione
prescelta, anche col concorso sindacale, è stata quella di delimitare temporalmente le
visite fiscali, imponendo al lavoratore malato un obbligo di reperibilità domiciliare,
autonomamente sanzionato, all'interno di “fasce orarie” distese su quattro ore (10-12
e 17-19) giornaliere (giorni festivi e non lavorativi compresi). Questa normativa,
introdotta dall'art. 5 della legge 11 novembre 1983, n. 63898, è stata poi riprodotta
(ma non ve ne sarebbe stato il bisogno, avendo essa rilevanza anche privatistica) da
tutti i contratti collettivi99.
Peraltro, al dichiarato scopo di combattere gli anomali tassi di assenteismo dei
lavoratori dipendenti da amministrazioni pubbliche, l’art. 71, 4° co., della legge 6
agosto 2008, n. 133, ha notevolmente ampliato, per questi soli lavoratori (il che
susciterà prevedibilmente contestazioni sul piano della legittimità costituzionale), le
fasce orarie di reperibilità giornaliera, portandole dalle 8 alle 13 e dalle 14 alle 20 di
tutti i giorni, compresi i non lavorativi e festivi.
2.8. Le “fasce orarie” di reperibilità: l’illecito.
Le fasce orarie di reperibilità domiciliare sono previste per l’ipotesi di malattia e di
infortunio extra-lavorativo, e debbono essere rispettate anche in caso di assenza per
malattia di un solo giorno (come espressamente precisato per i lavoratori pubblici,
con sollecitazione all’Amministrazione a disporre il relativo controllo, dall’art. 71, 3°
co., legge n. 133/2008).
Per converso, le fasce non valgono nel caso di assenze dovute a infortuni sul
lavoro: così la Cassazione100, con l’argomento che la norma deve essere letta
restrittivamente, data l’incidenza sulla libertà di movimento garantita dall’art. 16
Cost. Ma altra decisione ha precisato che un obbligo di reperibilità del tipo può
essere introdotto per via contrattuale, trattandosi di una prescrizione di favore per il
lavoratore101.
L’oggetto dell’obbligo è la reperibilità domiciliare all’interno delle fasce
predeterminate102, anche in riferimento alle assenze per malattia di un solo giorno
97
Cfr. R. Del Punta, op. cit., 172.
Ma essa entrò effettivamente in vigore soltanto con l’emanazione dei d.m. ivi previsti: v., per tutte, Cass. 8 gennaio 1992
n. 105, in Giust. civ., 1992, I, 630.
99
Nel senso della rilevanza privatistica della sanzione, v., in motivazione, Cass. 17 novembre 1993, n. 11358, in Riv. it. dir.
lav. 1994, II, 734. Per un'articolata argomentazione in termini, v. R. Del Punta, op. cit., 163 ss. Nel senso della rilevanza
esclusivamente previdenziale, v. invece M. Papaleoni, Malattia del lavoratore e fasce orarie di reperibilità, in Mass. giur.
lav. , 1988, 222; F. Santoni, Sulla legittimità dei controlli delle assenze per malattia dei lavoratori nella disciplina della l. 11
novembre 1983, n. 638, in Riv. it. dir. lav. , 1983, II, 82-83.
100
V. Cass. 30 gennaio 2002, n.1247, in Not.giur.lav., 2002, 206.
101
Al quale, in assenza di una limitazione temporale preventiva, potrebbe essere altrimenti richiesto in ogni momento
l’adempimento dell’obbligo di sottostare al controllo: v. Cass. 9 novembre 2002, n. 15773.
102
Ciò comporta, ovviamente, che trattasi di un obbligo puramente strumentale all’effettuazione del controllo medico, che
nulla ha a vedere con l’esistenza obiettiva dello stato di malattia, la quale, dunque, non vale ad escludere l’illecito.
98
(come espressamente precisato per cui l’illecito non è sanabile, a rigore, dalla
successiva sottoposizione alla visita ambulatoriale cui il lavoratore non reperito sia
stato – come da prassi – invitato a presentarsi103. Ciò non toglie che, essendo la
posizione del lavoratore di fronte al diritto di controllo qualificabile in termini di
obbligo, ove questi si sottragga anche alla visita ambulatoriale, e quindi impedisca un
qualsiasi controllo sulla malattia, può patire altre conseguenze: una sanzione
disciplinare “comune”, rapportata a questo specifico comportamento104, oppure una
sanzione per assenza ingiustificata, nella misura in cui la sottrazione in assoluto al
controllo può inficiare l’attendibilità della certificazione medica “di parte”, fatta salva
la verifica giudiziale105.
Nonostante il referto negativo, rimane al lavoratore la possibilità di negare, in date
circostanze, la commissione dell’illecito. Ove la negazione investa i fatti storici
attestati dal medico pubblico (ad es. l’ora della visita), essa abbisogna però della
querela di falso106. La proposizione della querela è necessaria anche per contestare le
affermazioni del medico circa il rifiuto della visita107.
Più sottile è la questione del valore da attribuire all’attestazione dello stesso
medico circa l’assenza da casa del lavoratore. In sé anche questo è un fatto storico,
coperto dal valore di prova legale. Ma è stato chiarito che tale efficacia può
riguardare soltanto i fatti o comportamenti che il medico attesti di aver positivamente
accertato o posto in essere, ad es. di essersi recato quel dato giorno in quel dato
luogo e di aver suonato il campanello, di aver lasciato l’avviso nella cassetta delle
lettere, etc.; non può invece riguardare i fatti che si situano logicamente al di là di
tale attestazione, in quanto il medico non può averli positivamente verificati108.
Pertanto, al lavoratore rimane la facoltà di sostenere e dimostrare che: era in realtà
in casa e il medico non si era attivato quanto avrebbe dovuto per rintracciarlo109; si
trovava in una pertinenza dell’abitazione, raggiungibile in cinque minuti110; il
campanello era guasto111; al momento della visita egli era addormentato a causa dei
farmaci che aveva dovuto assumere per curarsi112.
La proliferazione di queste contestazioni ha indotto la giurisprudenza a precisare
l’ambito della condotta esigibile in virtù dell’obbligo di reperibilità, imputando al
103
V. ad es. Cass. 7 ottobre 1997, n.9731, in Foro it., 1988,I,94; Cass.23 marzo 1996, n.2351; Cass.19 dicembre 1995, n.
12952. Per l’ulteriore precisazione che la sanzione legale non è estensibile all’ipotesi della mancata presentazione del
lavoratore alla visita ambulatoriale, v. Cass.22 ottobre 1992, n.11534.
104
V. Cass. 20 marzo 2007, n. 6618, secondo cui non consentire il controllo sullo stato di malattia, senza dare prova di
un’adeguata ragione di impedimento, integra una giusta causa, quando la condotta del lavoratore, per le modalità che la
caratterizzano, sia in conflitto con i doveri di correttezza e buona fede.
105
E’ da registrare, tuttavia, l’orientamento dell’INPS, incline a sospendere l’applicazione della sanzione (e quindi a ritenere
“sanato” l’illecito) dal momento in cui il lavoratore si è sottoposto alla visita ambulatoriale: v. in tal senso anche Cass.21
ottobre 1995, n.10965, in Orient. giur. lav., 1996,394, che non ha ritenuto legittima l’irrogazione della seconda tranche della
sanzione,nel caso in cui fra le due visite domiciliari andate a vuoto fosse intervenuta una visita ambulatoriale, la quale aveva
accertato l’esistenza della malattia.
106
V., ad es., Pret.Milano 5 luglio 1985, in Lav.’80, 1985,1149.
107
V. Cass.12 giugno 1995, n.6618, in Foro it., 1995,I,3494.
108
Criticabile, quindi, Pret.Milano 9 gennaio 1985, in Not. giur. lav., 1985,531, che ritenne inammissibile, per mancanza
della querela di falso, la richiesta del lavoratore di provare per testi che si trovava in casa al momento della visita e che non
aveva potuto raggiungere la porta a causa delle sue condizioni fisiche.
109
V., ad es., Pret. Brindisi 25 luglio1995, in Inf. prev., 1995,1253; Pret. Milano 23 maggio 1988, in Or.giur.lav., 1988,1206.
110
V. Pret. Milano 20 settembre 1996, in Lav. giur., 1997,155.
111
V., ad es., Cass. 16 giugno 1995, n. 6618; Pret. Milano 21 giugno 1984, in Lav.’80, 1984,1100.
112
V., ad es.,Pret. Firenze 16 maggio 1985, in Giust. civ., 1986,I, 1519. Per una valutazione sfavorevole al lavoratore, in un
caso analogo, v. Pret. Firenze 16 ottobre 1984, in Not. giurispr. lav., 1985,531.
lavoratore una obbligo di “rendersi disponibile” al controllo fiscale113, comprendente
l’adozione di ragionevoli accorgimenti atti a consentire al medico di reperirlo ed al
malato di rispondere positivamente al suo accesso. Di conseguenza, ricorrono i
presupposti dell’illecito non solo quando il lavoratore sia assente tout court, ma
altresì quando, pur presente, renda in concreto impossibile, per incuria, negligenza o
altro non apprezzabile motivo, il controllo sanitario114. Né, per liberarsi, gli basterà
protestare una generica diligenza, essendogli richiesta la prova dell’impossibilità non
imputabile ex art.1218 c.c.115.
Dai casi appena trattati si deve concettualmente distinguere (non escludendosi
qui l’assenza da casa, ma pretendendosi che essa sia giustificata), per quanto
anch’essa sia rapportabile allo schema dell’art. 1218, l’ipotesi in cui il lavoratore
faccia valere un ”giustificato motivo” dell’assenza domiciliare, che esclude, a norma di
legge, l’illecito. Di tale concetto (per la specificazione del quale sono di ausilio le
previsioni dei contratti collettivi, pur non vincolanti) la giurisprudenza ha sempre
offerto una lettura ampia (come pendant del maggior rigore professato in tema di
“collaborazione al controllo”), tale da includere non soltanto i casi di vera e propria
forza maggiore, ma ogni seria e valida ragione che, ancorché non insuperabile e
nemmeno tale da determinare la lesione di beni primari, abbia reso indifferibile116 la
presenza altrove dell’assicurato117. Peraltro, quantomeno nelle situazioni meno
impellenti (visite dal medico curante, ma talvolta anche dallo specialista118, visite
odontoiatriche, accessi in farmacia), si tende a richiedere al lavoratore anche la prova
di non essersi potuto recare presso l’ambulatorio, o in farmacia, in un altro momento
della giornata, se non sopportando disagi irragionevoli119.
Sono da ritenersi legittime, in quanto contenenti prescrizioni di carattere
esecutivo120, previsioni collettive che richiedono al lavoratore, a pena di
ingiustificatezza dell’assenza domiciliare, di comunicare preventivamente la necessità
113
V. ad es., oltre alle sentenze citate nel prosieguo, Cass. 22 maggio 1999, n. 5000; Cass. 14 maggio 1997, n.4216; Cass. 30
luglio 1993, n.8484, ivi, relativa ad un caso in cui il dipendente si era recato in cantina senza avvertire nessuno e non aveva
udito il campanello; Cass. 1° agosto 1991, n.8490, in Foro it., 1992,I,1165, in un caso in cui il lavoratore non aveva udito il
campanello essendo impegnato ad ascoltare musica con la cuffia.
114
V. Cass. 25 marzo 2002, n.4233, in un caso in cui nella pulsantiera del campanello era segnalato soltanto il cognome del
marito della dipendente.
115
V. Cass. 4 gennaio 2002, n.50, in Not. giur. lav., 2002, 206, in un caso in cui il lavoratore aveva sostenuto, vanamente
per i giudici anche di legittimità, di essere in casa e aveva contestato in giudizio la mancata prova dell’assenza, avendo la
moglie dichiarato che al momento della visita il marito era in casa.
116
In nome del perseguimento di interessi meritevoli di tutela, fra i quali è stato incluso anche lo svolgimento di attività di
volontariato: v. Cass.30 marzo 1990, n.2604, in Giust. civ., 1991, I, 700. E’ stata ritenuta socialmente apprezzabile anche
l’assenza motivata dal desiderio di far constatare la guarigione, proprio per poter tornare al lavoro: Cass. 6 aprile 2006, n.
8012.
117
V., ad es., Cass. 20 febbraio 2007, n. 3921; Cass. 29 novembre 2002, n. 16966.
118
Per un caso in cui, peraltro, la S.C. ha ritenuto censurabile la valutazione di merito circa l’ingiustificatezza dell’assenza di
un lavoratore dovuta al prolungarsi dei tempi connessi a una visita specialistica, v. Cass. 23 novembre 2004, n. 22065.
119
V. Cass. 2 agosto 2004, n. 14735, in un caso in cui una lavoratrice non aveva provato l’indifferibilità di un trattamento
fisioterapico; Cass. 2 marzo 2004, n. 4247; Cass.23 febbraio 2001, n.2624, secondo cui la sottoposizione a visita presso
l’ambulatorio del medico curante non giustifica l’assenza ove l’orario dell’ambulatorio proseguiva oltre le fasce; Cass. 26
maggio 1999, n. 5150. Non integra comunque un giustificato motivo l’essersi recato dal medico soltanto per fargli esaminare
una radiografia: v. Cass. 7 ottobre 1997, n.9731, in Foro it., 1998,I,94. In linea di principio, non si può neppure escludere un
esonero “generale” dal rispetto delle fasce, per lavoratori affetti da malattie psichiatriche o disturbi psicologici: ma la relativa
certificazione medica dovrà essere particolarmente solida, essendo altissimo il rischio di abusi, e gli interessati dovranno
sottoporsi, quanto meno, al controllo ambulatoriale.
120
V. Cass. 9 marzo 1995, n.2756, in Riv. it. dir. lav., 1996,II,133, con nota di F. Bano; Cass. 17 novembre 1993, n.11358, in
Riv. it. dir. lav., 1994,II,734, ma con la precisazione che le clausole in questione debbono essere applicate secondo buona
fede e ragionevolezza. Per l’illegittimità delle clausole medesime, v. però Cass. 3 maggio 1990, n.3681, in motivazione.
di assentarsi durante le fasce per un motivo giustificato121. Non è invece ammissibile
obbligare il lavoratore, pur in presenza di un giustificato motivo, a garantire
comunque una presenza in fasce diverse da quelle canoniche122.
Potrebbe teoricamente rientrare nell’illecito (conseguendone, in pratica,
l’irreperibilità) anche l’ipotesi in cui la visita non abbia potuto essere effettuata a
causa della mancata indicazione, nella certificazione iniziale, del luogo (diverso da
quello abituale) di residenza o dimora del lavoratore durante la malattia123. Ma la
giurisprudenza, per lo più in casi concernenti il rapporto previdenziale124, ha
prevalentemente ritenuto applicabile non la sanzione ex art. 5 legge n. 638/1983,
bensì quella (in pratica quasi coincidente) della perdita dell’indennità di malattia sino
a quando la visita non sia stata effettuata125; ferma la possibilità del lavoratore di
provare che l’ente avrebbe potuto procedere egualmente all’accertamento in base a
dati in proprio possesso o facilmente acquisibili126.
Si è posta, infine, la questione se l’obbligo di reperibilità permanga una volta che è
stata effettuata una visita di controllo (anche confermativa della prognosi del medico
curante), insomma se sia lecito disporre più visite all’interno di un medesimo periodo
di prognosi. Più precisamente, è da domandarsi se sia lecito disporre tre o più visite
di controllo, in quanto la possibilità di una seconda visita è stata scolpita dalla Corte
costituzionale, ai fini dell’irrogazione della seconda tranche della sanzione127.
L’espressa esclusione della decadenza dalla percezione del trattamento di malattia
per i giorni già accertati da precedente controllo (oltre che per quelli di ricovero
ospedaliero), in una con la ratio della norma, che dovrebbe essere quella di rendere
effettivo il controllo, e non di “tenere sulla corda” il lavoratore, potrebbero giustificare
un’opinione negativa.
Tuttavia, la giurisprudenza si è schierata nel senso di consentire tali visite, ergo di
ritenere persistente – a monte - l’obbligo di reperibilità anche a controllo medico già
espletato128; ma, più di recente, con la puntualizzazione129 che la richiesta datoriale
di più visite di controllo (talora derivante, in verità, anche dalla mancata
informazione circa l’esito di visite precedenti) non deve essersi concretata in un
comportamento vessatorio, altrimenti ricadendosi, possibilmente (ma di massima in
121
V., ad es., Pret. Milano 13 luglio 1992 , in Or. giur. lav., 1993,72. Per un caso in cui, durante la malattia, il lavoratore era
stato costretto ad assentarsi trasferendosi presso altra abitazione, informando il datore ma non l’INPS, e si è ritenuta legittima
la perdita dell’indennità, nonostante una comunicazione successiva, v. Cass. 9 novembre 2002, n.15766, in Guida al lav.,
3/2003. Peraltro anche l’obbligo di comunicazione preventiva è escluso dalla presenza di ragioni indifferibili, come
un’urgenza sanitaria: Trib. Milano 10 febbraio 2006, in Riv. crit. dir. lav., 2006, 497.
122
V. Pret. Milano 28 marzo 1986, in Or. giur. lav., 1986,718.
123
Un caso diverso è quello in cui sia stato indicato un domicilio non facilmente raggiungibile. Ma la Cassazione (4 aprile
2001, n.5023) ha risolutamente affermato, nei riguardi dell’INPS, che una volta indicato il luogo del proprio domicilio
durante la malattia e ivi resosi reperibile, il lavoratore ha adempiuto gli oneri a suo carico, ancorché abbia trascorso il
periodo di malattia in un’isolata località montana raggiungibile con un’ora e mezzo di cammino. Si deve infatti presumere
che la P.A. sia in grado di espletare i propri compiti istituzionali in qualunque parte del territorio nazionale.
124
Ma trattasi, a rigore, di affermazioni che possono valere anche per il trattamento economico a carico del datore di lavoro,
qualora non sia stato indicato l’indirizzo nel certificato inviato all’impresa: v. infatti Pret. Bergamo 20 maggio 1992, in
Inf.prev., 1992,666.
125
V., fra le altre, Cass. 28 agosto 1997, n. 7909; Cass. 21 settembre 1991, n. 9877. Nel senso, minoritario, che la sanzione
da applicare sarebbe quella per la mancata reperibilità domiciliare, v. invece Cass. 3 agosto 1991, n. 8520; nonché le
circolari INPS 11 aprile 1985 n. 84, e 26 marzo 1987 n. 76.
126
V. Cass. 14 giugno 1999, n. 5894; Cass. , sez. un., 2 febbraio 1993, n. 1283, in Or. giur. lav., 1993,482.
127
§ 2.9.
128
V. Cass. 15 gennaio 1990, n.116; Cass. 30 ottobre 1989, n. 4538; nonché la circolare INPS 8 agosto 1984, n.1344421
A.G.O. Per la negativa, v. invece Cass. 21 ottobre 1995, n.10965; Cass. 20 maggio 1994, n. 4940; Cass. 10 marzo 1990, n.
1942.
129
V., ad es., Cass. 19 gennaio 1999, n. 475; Cass. 20 maggio 1994, n. 4940; Cass. 15 gennaio 1990, n. 116.
concorso con altri elementi), nella fattispecie del mobbing, con la conseguente
risarcibilità dei danni non patrimoniali (biologico, esistenziale, etc.) patiti dal
lavoratore.
2.9. Segue: la sanzione.
La delimitazione dell’obbligo consente di precisare l’area dell’illecito, e dunque i
presupposti di irrogazione della sanzione legalmente prevista. Peraltro, in virtù di un
intervento additivo della Corte costituzionale, il regime della sanzione è stato
modificato proprio intervenendo, a monte, sull’obbligo, la cui intensità è stata
alleggerita. La sentenza 26 gennaio 1988, n. 78130, ha infatti statuito che occorre che
si sia verificata una seconda assenza domiciliare131 ai fini dell’irrogazione della
tranche di sanzione (al 50%) relativa ai giorni successivi al decimo dall’inizio della
malattia132.
L’oggetto della sanzione è duplice, essendo costituito dall’indennità di malattia a
carico dell’INPS, ove spettante133, e dal trattamento di malattia a carico del datore di
lavoro. Le due quote debbono ritenersi autonome, ciascuno dei due “debitori”
essendo sovrano nella propria sfera134. Ne segue che il datore non è legittimato a
trattenere di propria iniziativa l’indennità INPS135, né a richiederne la restituzione al
lavoratore136.
Sul piano del rapporto di lavoro, si è escluso, in prevalenza, che la sanzione abbia
natura disciplinare137, con inapplicabilità dell’art. 7 St. lav. 138. Da ciò è stata fatta
discendere anche l’irrogabilità di sanzioni disciplinari ulteriori139 (da ritenersi invece
preclusa, per sproporzione, ove già alla sanzione legale sia attribuita natura
disciplinare), purché sia stato predeterminato il relativo illecito da parte del contratto
collettivo140. Potrà trattarsi, al massimo, di una sanzione conservativa, restando
esclusa l’irrogazione di un licenziamento141. Ma è più grave, ovviamente, il caso in
130
V. in Riv. it. dir. lav., 1988,II,305.
Non dovrebbe valere, ai fini, l’assenza alla visita ambulatoriale, malgrado quanto sostenuto dall’INPS nella circolare n.
166 del 26 luglio 1988.
132
V., in tal senso, Cass. 22 ottobre 1992, n. 11534; Cass. 9 ottobre 1991, n.10586. V. però Cass. 21 ottobre 1995, n.10965,
cit., che ritenne che la sottoposizione del lavoratore, con esito confermativo, alla visita ambulatoriale, intervenuta dopo
l’assenza domiciliare, escludesse che una successiva assenza a visita domiciliare potesse valere come recidiva ai fini della
perdita del 50% del trattamento dopo il decimo giorno.
133
Rimangono quindi escluse le ipotesi nelle quali non sono dovute prestazioni economiche da parte dell’INPS, perché la
malattia si è esaurita nei primi tre giorni di “carenza” o non è indennizzabile per superamento del periodo massimo, o perché
trattasi di lavoratori non assicurati: cfr. la circolare INPS n. 84 dell’11 aprile 1985.
134
V., in tale ordine di idee, Cass. 14 luglio 1994, n. 6597, in Not.giur.lav., 1994,624, in riferimento ad una sanzione
“contrattuale” riproducente quella legale. Per remoti precedenti di segno contrario, v. Trib. Milano 5 ottobre 1988, in
Lav.’80, 1989,152.
135
V. Cass. 4 giugno 1996, n. 5185, in Riv. it. dir. lav., 1997,II,134.
136
V. Cass. 15 novembre 2002, n. 16140.
137
V. ad es. Cass. 9 agosto 1996, n.7370, in Riv.it.dir.lav., 1997,II,553.
138
V. Cass. 20 maggio 1991, n.5639, in Foro it., 1991,I, 2376; Pret. Milano 16 ottobre 1996, in Riv.it.dir.lav., 1997,II,138.
V. però Cass. n. 6597/1994, cit., secondo cui se una sanzione, avente contenuto identico a quello di cui alla legge, è prevista
dal contratto collettivo, essa acquista carattere disciplinare, ai fini dell’applicazione della relativa procedura.
139
V. Cass. 3 maggio 1997, n. 3387; Cass. 27 aprile 1996, n. 3915, in Not.giur.lav., 1996,579.
140
V. Cass. 9 agosto 1996, n. 7370, in Riv. it. dir. lav., 1997,II,553. Ma più di recente si è ritenuta sufficiente l’esistenza, nel
codice disciplinare, di formule di chiusura circa l’inosservanza degli obblighi del rapporto: v. Cass. 22 aprile 2004, n. 7691.
141
V. Cass. 17 agosto 2001, n. 11153, in Riv. crit. dir. lav., 2002, 189, oltretutto nei confronti di una lavoratrice sofferente di
amnesie, e che si era poi sottoposta (ciò attenuandone la responsabilità soggettiva) al controllo ambulatoriale. Per un altro
caso ove si è ritenuto eccessivo un licenziamento per giusta causa motivato da una sottrazione al controllo, essendovi state
molteplici visite domiciliari, v. Pret. Parma 30 giugno 1992, in Riv. crit. dir. lav., 1993, 430.
131
cui il lavoratore si sia rifiutato intenzionalmente di sottoporsi alla visita di
controllo142.
2.10. Il diritto del lavoratore alla conservazione del posto.
Il 2° comma dell'art. 2110 stabilisce che il lavoratore malato od infortunato, anche
in prova143, ha diritto di assentarsi e conservare il posto di lavoro144 per un periodo
(c.d. di comporto), la cui determinazione è lasciata ad altre fonti, individuate nelle
leggi speciali, nei contratti collettivi, negli usi e nell'equità145. Secondo l'opinione
tradizionale, tale regime è derogatorio rispetto al diritto comune dei contratti, in
quanto impedisce che l'impossibilità della prestazione possa condurre alla
risoluzione del rapporto, entro limiti temporali commisurati, oltre che all'interesse del
datore di lavoro a ricevere la prestazione (cfr. art. 1464 c.c.), ad un'istanza di tutela
della salute del lavoratore, che non può trovare riconoscimento nel diritto comune146.
Un comporto di fonte legale è tuttora vigente147 (ma applicabile soltanto se più
favorevole di quello contrattuale) per il solo personale impiegatizio (cui adde i
quadri), in virtù del pur remoto art. 6, 4° co., r.d.l. 13 novembre 1924, n. 1825, in
base al quale, ”nei casi di interruzione dal servizio dovuta ad infortunio o malattia il
principale conserva il posto al dipendente per il periodo di: a) tre mesi, se questi abbia
un'anzianità di servizio non superiore a dieci anni; b) sei mesi, se abbia un'anzianità di
servizio di oltre dieci anni”148.
Inoltre, pur non rientrando nel quadro dell’art. 2110, merita qui ricordare il
termine di comporto, pari a un sesto della durata del contratto, se determinata, od a
30 giorni se determinabile, previsto, dall’art. 66, 2° co., del d. lgs. n. 276/2003, per
l’ipotesi di malattia di un collaboratore a progetto o a programma (ferma restando
l’estinzione del contratto, pur pendendo una malattia, alla naturale scadenza).
La funzione di determinare il periodo di comporto è assolta, di regola, dai contratti
collettivi, che contengono previsioni variamente congegnate (e con termini di
comporto diversificati, in ragione di fattori eterogenei, come l'anzianità del
dipendente, la particolare natura o gravità della malattia, etc.), ma riconducibili ai
142
V., ad es., Cass. n. 8124/1987, cit., ravvisandosi nella condotta gli estremi del licenziamento.
Nel senso dell’applicazione dell’art. 2110 al lavoratore in prova, ma con l’effetto aggiuntivo della sospensione del
decorso del termine massimo della prova, v. Cass. 10 ottobre 2006, n. 21698.
144
Sull’inesistenza, invece, di un dovere di assentarsi dal lavoro, v. A. Pandolfo, op. cit., 257; ma con la necessaria e
condivisibile precisazione (ivi, 259) che se il malato non vuole astenersi dal lavoro (o vuole rientrare al lavoro prima della
scadenza della prognosi), il datore di lavoro (responsabile ex art. 2087) può rifiutarne la prestazione senza essere considerato
in mora.
145
Per i lavoratori a part-time, l’art. 4, 2° co., lett. a), del d.lgs. 28 febbraio 2000, n. 62, ha confermato che un
riproporzionamento del comporto può aversi, al massimo, in caso di tempo parziale di tipo verticale, e dietro specifica
previsione dei contratti collettivi. Per la spettanza dell’ordinario comporto in caso di part-time verticale su base settimanale,
v. comunque Cass. 11 aprile 1990, n. 3063, in Giust. civ. , 1990, I, 2013.
146
V., ad es., A. Pandolfo, ivi, 278-279, e retro, 235 ss., per un'esauriente ricostruzione storica del tema. Nel senso che
nell'art. 2110 dovrebbe piuttosto vedersi un “adattamento”, piuttosto che una deroga, al diritto comune, v. invece O.
Mazzotta, op. cit., 29, con cui conviene R. Del Punta, op. cit., 247.
147
V. Cass. 4 dicembre 1985, n. 6080.
148
Un comporto speciale di fonte legale è altresì previsto a favore dei lavoratori affetti da tubercolosi, ai quali l'art. 10 della
l. 6 agosto 1975, n. 419, garantisce il diritto alla conservazione del posto ”fino a sei mesi dopo la data di dimissione dal
luogo di cura per avvenuta guarigione o stabilizzazione”. Nel senso che i sei mesi finali di cui alla l. n. 419/1975 decorrono
soltanto dal momento di effettiva cessazione delle cure mediche, anche se praticate in ambulatorio od in qualsiasi altro luogo
opportunamente attrezzato, v. Cass. 9 gennaio 1997, n. 134; Cass. 28 agosto 1986, n. 5289. Su questa normativa, cfr. R. Del
Punta, op. cit., 353 ss.
143
modelli base del comporto secco e del comporto frazionato o per sommatoria149. Di
solito, nei contratti è contemplato un comporto per la malattia comune e l'infortunio
extra-lavorativo, ed uno distinto e più lungo (sino a coincidere con l'intera durata
dello stato di inabilità) per l'infortunio sul lavoro e la malattia professionale; ma può
essere previsto anche un comporto unico150.
Si può considerare sostanzialmente superato (per cui merita soltanto un cenno
utile a comprendere gli sviluppi successivi) il dibattito svoltosi negli anni '70 del
secolo scorso sulla riconducibilità della c.d. eccessiva morbilità al giustificato motivo
obiettivo di licenziamento151. Il problema nasceva dal fatto che in alcuni settori
produttivi (fra cui il metalmeccanico) i contratti collettivi contenevano clausole di
comporto secco, ma tacevano su quello frazionato. Il comporto poteva essere
consumato, quindi, soltanto da malattie continuative, regalando facili occasioni di
abuso agli assenteisti di professione. Una parte della giurisprudenza tentò allora di
apprestare un correttivo, sostenendo che, pur non avendo superato il comporto
secco, il lavoratore protagonista di assenze reiterate poteva essere licenziato per i
pregiudizi organizzativi arrecati all’azienda, ex art. 3, sec. parte, l. n. 604/1966.
Questo orientamento, che supponeva l'inapplicabilità dell'art. 2110 all'ipotesi di
malattie brevi e reiterate, ebbe anche il supporto della Cassazione152, ma con esiti di
grande incertezza nel trattamento dei singoli casi. A questo indirizzo si
contrapponeva quello che non riteneva possibile sfuggire alle maglie dell'art. 2110,
con applicazione rigorosa delle clausole di comporto secco, là dove esse fossero le
sole previste dal contratto collettivo153.
Il superamento di questa contrapposizione, avviato da alcune sentenze di merito e
poi anche di legittimità154, fu realizzato da alcune sentenze delle Sezioni Unite della
Cassazione155, che impressero un marchio su tutta la successiva evoluzione, e che
hanno altresì incontrato, ma dopo iniziali diffidenze e perplessità, l’approvazione
della dottrina156.
I passaggi essenziali del ragionamento interpretativo proposto dalle S.U. possono
così riassumersi: non è vero che l'art. 2110 riguardi soltanto il caso di malattia
continuativa, nulla ostando a che esso trovi applicazione anche nel caso del
succedersi di più malattie discontinue; il nodo dell'eccessiva morbilità deve essere
sciolto, pertanto, nel quadro dell'art. 2110, che prevale, in quanto norma “speciale”,
sia sulla normativa generale del recesso, che su quella in tema di impossibilità della
149
La stragrande maggioranza dei contratti collettivi di categoria contiene ormai clausole di comporto per sommatoria,
congegnate secondo varie tecniche. La tornata di rinnovi contrattuali del 1994 portò la grande novità – poi consolidatasi
nelle tornate successive - della previsione di un comporto per sommatoria da parte del CCNL per l'industria metalmeccanica
privata, tramite una piena recezione dell’insegnamento giurisprudenziale.
150
V., ad es., Cass. 28 gennaio 1997, n. 860, in Riv. infort. mal. prof. , 1997, II, 37, sottolineando come la nozione di malattia
di cui all' art. 2110 non sia vincolante per l' autodeterminazione sindacale; Cass. 12 ottobre 1988, n. 5501, in Or. giur. lav.
1989, 166. Per un caso, relativo al CCNL 28 marzo 1987 per i dipendenti di aziende commerciali, in cui i periodi di
comporto per malattia e per infortunio sono stati ritenuti distinti e non cumulabili, v. però Cass. 10 giugno 1993, n. 6478, in
Riv. it. dir. lav., 1994, II, 723.
151
Per una completa ricostruzione del dibattito, v. R. Del Punta, op. cit., 256 ss.
152
V. Cass. 29 dicembre 1977, n. 5752, in Mass. giur. lav., 1978, 185.
153
V., ad es., Pret. Milano 11 febbraio 1980, in Orient. giur. lav., 1980, 662.
154
V. Cass. 10 novembre 1978, n. 5165, in Foro it. , 1978, I, 2377; Cass. 22 maggio 1979, n. 2971, in Mass. giur. lav. 1979,
267.
155
V. Cass., S.U., 29 marzo 1980, n. 2072, in Giur. it., 1980, I, 1, 1438, con nota di G. Ardau; 29 marzo 1980, n. 2073, in
Giust. civ., 1980, I, 1526, con nota di U. Carnevali; 29 marzo 1980, n. 2074, in Mass. giur. lav. , 1980, 419, con nota di L.
Riva Sanseverino.
156
V., ad es., M. D'Antona, Norme «incomplete» ed equità giudiziale: l'art. 2110 e la determinazione del periodo di
comporto, in Giust. civ. , 1983, II, 258; O. Mazzotta, op. cit. V. anche M. Cecchetti e M. Cupido (a cura di), Eccessiva
morbilità e accertamenti sanitari, Milano, 1983.
prestazione; per cui, qualora un contratto collettivo preveda soltanto un comporto
secco, si ha una lacuna di disciplina per la situazione (meritevole di una
regolamentazione autonoma ed appropriata) di pluralità di malattie, che deve essere
colmata dal giudice facendo ricorso alle fonti suppletive previste dallo stesso art.
2110, e cioè, in assenza di usi, determinando il comporto per sommatoria in via di
equità.
In questo modo la norma è stata ricondotta alla propria genuina funzione di
contemperamento fra l'interesse del datore di lavoro a non sopportare assenze e costi
economici indefiniti nel tempo, e quello del lavoratore a conservare il posto in una
situazione di particolare bisogno. L’assolvimento di tale funzione richiede
necessariamente la predisposizione di un comporto appropriato all'ipotesi della
pluralità di malattie. Ciò si può razionalizzare come l'esito di una (doverosa)
interpretazione evolutiva dell'art. 2110, derivante dal mutamento del quadro giuridico
nel quale esso era stata concepito, quale si è realizzato a seguito dell'introduzione
della disciplina limitativa del recesso157. Nella vigenza e nella piena operatività
dell'art. 2118, infatti, lo strumento di reazione nei confronti dell'eccessiva morbilità
era, semplicemente, il diritto di recesso ad nutum, al quale il datore poteva facilmente
ricorrere negli intervalli di presenza al lavoro, senza bisogno di disporre di clausole di
sommatoria. Dopo la legge n. 604 del 1966 e l'art. 18 St. lav. queste operazioni di
aggiramento hanno cessato di essere possibili. La norma non può più essere elusa,
ma proprio per questo deve predisporre – rectius, sollecitare i contratti collettivi a
predisporre - una disciplina equilibrata.
2.11. Comporto per sommatoria e giudizio di equità.
La valorizzazione del giudizio di equità è stato l'”uovo di Colombo” che ha
permesso alla giurisprudenza di affrancarsi dalle forzature dei precedenti approcci,
offrendo una soluzione che non ha impiegato molto a consolidarsi, e che ha visto
anche sciogliersi rapidamente alcuni interrogativi del primo momento. Così, sul
presupposto che il giudizio equitativo può aver corso soltanto in presenza di una
lacuna di disciplina della sommatoria di più malattie158, restando preclusa, salvo che
per un’opinione minoritaria159, la sindacabilità per via di equità delle clausole di
sommatoria esistenti, vi furono diatribe iniziali sul se alcuni contratti collettivi
contenessero o no un comporto frazionato160, o sulla sorte di eventuali clausole di
esclusione positiva della sommatoria161, che però non hanno tardato a perdere
attualità.
Ciò premesso, l’operatività della soluzione viene a dipendere dai criteri di
svolgimento del giudizio di equità, di norma reputato sindacabile in Cassazione, in
quanto espressione di equità integrativa, ex art. 1374 c.c., soltanto nell'ambito
157
Cfr. R. Del Punta, op. cit., 344 ss.
V., ex multis, Cass. 20 agosto 1996, n. 7660 ; M. D'Antona, op. cit.; G. Pera, replica, in Eccessiva morbilità e
accertamenti sanitari, cit.
159
Per tale tesi, v. O. Mazzotta, op. cit., 33 ss.
160
Soprattutto il CCNL del settore creditizio, là dove si limitava a prevedere che all’ultima assenza continuativa si potessero
sommare anche le assenze effettuate nei sei o quattro mesi precedenti, prevalendo la tesi (v., ad es., Cass. 20 agosto 1996, n.
7660) che non si trattasse di un comporto per sommatoria.
161
A proposito del quale, era probabilmente errata sia la tesi che proponeva, per un caso del genere, un “ripescaggio”
occasionale del licenziamento per g.m. obiettivo (v. Cass. 8 gennaio 1993, n. 90), che quella asserente la nullità di siffatte
clausole (v. Cass. 18 agosto 1986, n. 4963), in realtà migliorative per il lavoratore. Nell’ipotesi, non rimaneva, e non rimane,
che fare applicazione del comporto secco: v., in tal senso, G. Pera, La cessazione del rapporto di lavoro, Padova, 1980, 315.
158
dell'art. 360, n. 5, c.p.c., e non anche del n. 3162. Questa posizione risente, peraltro,
di un'idea dell'equità che non pare avere molti contatti con l'impiego che ne è stato
fatto, nello specifico, dalla giurisprudenza. L’equità ex art. 2110 è infatti stata, nella
giurisprudenza, una sorta di equità “normativa” (accostata da taluno,
funzionalmente, ad una clausola generale), legata a parametri non individualizzati e
non commisurati al caso concreto, ma generali e astratti, sì da essere potenzialmente
validi per tutti i lavoratori163. Alla luce di questa dinamica interna, la proclamata
limitazione del sindacato di legittimità alla sola completezza e correttezza della
motivazione giudiziale non consegna una fotografia fedele della realtà di un indirizzo
giurisprudenziale che ha dato luogo, consapevolmente, alla creazione di vere regole
giuridiche, le quali hanno saputo imporsi, nel tempo, alla generalità degli operatori e
dei giudici.
Circa il termine interno del comporto per sommatoria (cioè la soglia complessiva di
durata delle assenze), la giurisprudenza è ormai consolidata nel senso che si deve
aver riguardo al termine previsto dal contratto collettivo del settore per il comporto
secco, anche perché non deve applicarsi alla pluralità di malattie una soluzione
deteriore rispetto al caso della malattia unica164. Si ritiene altresì non consentito
eludere il riferimento a tale comporto tramite l’applicazione in via analogica del
comporto per sommatoria previsto da altri contratti collettivi165.
Quanto al termine esterno del comporto in discorso, ossia alla determinazione
dell'arco temporale entro il quale si può procedere alla sommatoria delle assenze, la
giurisprudenza è altrettanto consolidata nel riferirsi ad un periodo di tre anni,
calcolato a ritroso dalla data del licenziamento166. Tale termine fu desunto, all’epoca,
dalla durata media dei contratti collettivi (precedentemente al protocollo del 23 luglio
1993); è stata invece abbandonata (anche perché fonte di erratiche disparità di
trattamento, a favore di chi si ammali “a cavallo” fra un CCNL e quello successivo) la
versione primitiva di questa tesi, che identificava l'arco temporale nell'ambito di
vigenza del CCNL applicabile nel caso167.
2.12. Il licenziamento in pendenza di malattia.
In base al 2° co. dell'art. 2110, il lavoratore malato ha diritto non soltanto di
assentarsi dal lavoro, ma anche di non essere licenziato durante il periodo di
comporto168. Non si tratta, quindi, di una mera ipotesi di esonero dalla responsabilità
per mancato adempimento della prestazione lavorativa, ma anche di un divieto
temporaneo di recesso, pur in presenza dei motivi (con l'eccezione della giusta causa:
162
V., da ultimo, Cass. 23 giugno 2006, n. 14633. Fra le prime sul punto, v. Cass. 22 marzo 1986, n. 2056, in Riv. it. dir. lav.
1987, II, 180, con nota di A. Vallebona; Cass. 19 maggio 1984, n. 3088, in Giust. civ. 1985, I, 850, con nota di M.Bove.In un
caso relativo al personale della navigazione, al quale non si applica l'art. 2110, i giudici si appellarono direttamente all'art.
1374 per estendere ad un arco temporale più ampio il comporto secco previsto dal contratto collettivo: v. l’interessante Cass.
13 gennaio 1989, n. 119, in Giust. civ., 1989, I, 861, con nota di V. Marino.
163
Cfr. R. Del Punta, op. cit., 306 ss.
164
Come esempi di questo orientamento, più che consolidato, v. Cass. 16 novembre 2001, n. 14337, in Not. giur. lav., 2002,
215; Cass. 2 maggio 2000, n. 5485, in Riv. giur. lav., 2001, II, 595.
165
V., ad es., Cass. 13 novembre 1986, n. 6669, in Not. giur. lav. 1987, 53; Cass. 19 aprile 1985, n. 2599, in Mass. giur. lav.
1985, 387. In senso contrario, v. Cass. 20 luglio 1989, n. 3426.
166
Fra le tante, sulla scia di Cass. n. 2072/1980, cit., v. Cass. 9 agosto 1996, n. 7381; Cass. 20 giugno 1994, n. 5924. In
dottrina, v. R. Del Punta , op. cit., 338 ss.; A. Pandolfo , op. cit., 291-292.
167
V., ad es., Trib. Oristano 3 febbraio 1998, in Not. giur. lav. , 1998, 435; Cass. 8 maggio 1985, n. 2868, in Foro it. 1985, I,
2618. Nel senso oramai consolidato, v. Cass. 23 giugno 2006, n. 14633.
168
Cfr. R. Del Punta, op. cit. , 363 ss.; A. Pandolfo, op. cit., 235 ss.
v. infra) che consentono il valido esercizio del potere di licenziamento.
Tuttavia, il regime sanzionatorio del licenziamento intimato in pendenza del
comporto, implica, in realtà, una duplicità di conseguenze, a seconda del tipo di
offesa all'ordinamento, perpetrata con l’atto datoriale. In sostanza, se il licenziamento
si pone in diretta antitesi col bene protetto dall'art. 2110, il che si verifica quando
esso è stato determinato (ovviamente, anche in modo occulto) dallo stesso stato di
malattia (ivi incluso anche il licenziamento sviato da un erroneo calcolo del
comporto), la sanzione applicabile non può che essere quella della nullità, per
contrasto con precetto imperativo169, da ricondursi sotto la sfera onnicomprensiva
dell'art. 18 St. lav. (o dell'art. 8 l. n. 604/1966)170, la cui (pur affievolita) “forza
espansiva” lo rende suscettivo di applicazione anche ad ipotesi non direttamente
prese in considerazione, purché accomunate a quelle regolate da un'identità di
ratio171. Tale è certamente il caso del licenziamento per malattia, come suggerito
dalla stessa esperienza giurisprudenziale, che in situazioni del genere ha dato per
scontata, per lo più, l'applicazione dell'ordinario regime del licenziamento illegittimo
(forse anche perché la giurisprudenza tende a considerare il superamento del
comporto, di fatto, come un autonomo “giustificato motivo”: v. § 2.13).
Per quanto attiene, invece, al licenziamento intimato in pendenza del comporto,
ma per ragioni estranee allo stato di malattia, la giurisprudenza applica una
sanzione più debole, reputandolo provvisoriamente inefficace sino al termine della
malattia172; con una soluzione173 indirettamente rafforzata dalla diversa scelta
normativa operata a proposito del licenziamento in pendenza di maternità174.
A tale principio corrisponde concettualmente quello, altrettanto consolidato, per
cui l’insorgenza di uno stato di malattia ha un effetto sospensivo sul decorso del
termine di preavviso di un licenziamento già irrogato175.
Tuttavia, esistono casi nei quali può aversi, anche durante la malattia, una valida
ed immediata risoluzione del rapporto di lavoro176. Ciò, anzitutto, se il dipendente ha
commesso fatti che integrano una giusta causa di recesso177; è inibito, invece, il
169
V. Cass. 9 dicembre 1991, n. 9869, in Not. giur. lav. 1992, 225; R. Del Punta, op. cit., 366. Per il ricorso alla nullità per
illiceità del motivo, v. Pret. Milano 26 ottobre 1987, in Lav. '80 1988, 258. Per l'estensione a questa ipotesi dell'inefficacia
temporanea, v. però Cass. 10 febbraio 1993, n. 1657, in Giust. civ., 1993, I, 2421.
170
V. anche, in tal senso, A. Pandolfo, op. cit., 211 ss.
171
In termini, in un caso di erroneo calcolo del comporto, v. Trib. Bergamo 25 febbraio 2002, in Guida al lav., n. 50/2002;
Pret. Lucca, sez. Pietrasanta, 27 ottobre 1994, in Or. giur. lav., 1994, 845.
172
V., in tal senso, Cass. 4 luglio 2001, n. 9037, ivi invocandosi anche il principio di conservazione degli atti negoziali ex
art. 1367 c.c.; Cass. 16 maggio 2000, n. 6348; Cass. 20 dicembre 1997, n. 12915, in Not. giur. lav., 1998, 46; Trib. Milano
24 novembre 2001, in Guida al lav., n. 8/2002. Per l’applicazione dell’inefficacia anche al caso di una malattia insorta prima
del licenziamento, anche se comunicata successivamente allo stesso, v. Cass. 20 giugno 2003, n. 9896. In dottrina, v. già G.
F. Mancini, Il recesso unilaterale e i rapporti di lavoro, I, Milano, 1962, 282 ss.; R. Del Punta, op. cit. , 367 ss. Per la tesi
della nullità, v. invece l'isolata Cass. 12 febbraio 1981, n. 875, in Foro it. 1982, I, 1392; F. Mazziotti, Il licenziamento
illegittimo, Napoli, 1982, 198-199; M. Napoli, La stabilità reale del rapporto di lavoro, Milano, 1980, 374. Dubbi sulla tesi
dell'inefficacia anche in A. Pandolfo, op. cit., 217.
173
Che non esclude, comunque, la decorrenza sin dal momento della ricezione dell’atto del termine di decadenza ex art. 6
legge n. 604/1966: v. Cass. 22 marzo 2007, n. 7049.
174
Il tema sarà trattato infra, § 3.10.
175
V., esplicitamente sull’omogeneità fra i due principi (inefficacia e sospensione del preavviso), al punto da ritenerli due
facce di una medesima domanda giudiziale, Cass. 11 aprile 2005, n. 7369. V. anche Cass. 27 giugno 2003, n. 10272.
176
Fra essi non rientra quello del superamento dei limiti di età, ove non previsto come causa automatica di scioglimento del
rapporto: v. Cass. n. 7868/1994, cit.
177
V. Cass. 6 agosto 2001, n. 10881; Cass. 20 ottobre 2000, n. 13903, anche nel caso in cui la cognizione datoriale dei fatti
sia anteriore all’inizio della malattia, e la contestazione sia successiva alla stessa; Cass. 27 febbraio 1998, n. 2209, in Not.
giur. lav. 1998, 446; R. Del Punta, op. cit., 370-371. Contra, Pret. Milano 8 ottobre 1979, in Or. giur. lav. 1979, 1479.
licenziamento per giustificato motivo soggettivo178. A questa adde le ipotesi della
cessazione totale dell'attività dell'impresa179 e della risoluzione del rapporto per
naturale scadenza del termine180.
L’unico spazio residuo per un licenziamento per giustificato motivo obiettivo si ha,
come si è anticipato181, nel caso che sia ritenuta realizzata non la fattispecie della
malattia, bensì quella, diversa182, dell’inidoneità definitiva al lavoro183, di solito (ma
non necessariamente) accertata tramite il medico competente184.
In origine, in presenza di tale condizione (che può anche essere derivata da un
infortunio sul lavoro o da una malattia professionale), la giurisprudenza non
riconosceva neppure al dipendente - con una contraddizione rispetto al principio
affermato in tema di giustificato motivo obiettivo - il diritto ad essere assegnato a
mansioni alternative185. In seguito, pur facendosi salva l’immediata licenziabilità
ante-comporto, il principio dell’extrema ratio è penetrato anche in questo filone: la
svolta, dovuta a una pronuncia della Cassazione a Sezioni Unite del 1998186, si è poi
consolidata187 attorno al principio per cui il dipendente divenuto inidoneo ha diritto
di essere utilizzato, prima di essere licenziato, in altre mansioni, anche (col suo
consenso) inferiori188, purché reperibili all’interno dell’organizzazione aziendale
fissata dall’imprenditore.
Parallelamente, alla regola dell’extrema ratio è stato dato anche un
riconoscimento normativo. La legge 12 marzo 1999, n.68, di riforma della disciplina
delle assunzioni obbligatorie dei disabili, si è espressa in modo netto a tale riguardo.
Con riguardo a lavoratori originariamente abili, ma divenuti disabili in corso di
rapporto in conseguenza di infortunio o malattia, l’art. 4, 4° co., ha sancito che “per i
predetti lavoratori l’infortunio o la malattia non costituiscono giustificato motivo di
licenziamento nel caso in cui essi possano essere adibiti a mansioni equivalenti ovvero,
in mancanza, a mansioni inferiori. Nel caso di destinazione a mansioni inferiori essi
178
V. Cass.20 dicembre 1997, n. 12915, in Not. giur. lav., 1998,46, che ha peraltro respinto l’eccezione di tardività opposta
contro un licenziamento, la cui contestazione di addebito era avvenuta in pendenza di malattia, ma che era stato irrogato
dopo la fine della stessa, e al rientro al lavoro del dipendente malato; ciò, senza che il decorso del tempo possa ingenerare nel
lavoratore l’affidamento circa l’accoglimento delle giustificazioni precedentemente comunicate. A prescindere dal caso di
specie, la Cassazione non ha affermato a chiare lettere che la procedura disciplinare è sospesa durante la malattia, sembrando
lasciare aperte,in sostanza, tutte le opzioni: contestare e sospendere, de facto, la procedura (purché non vi sia, come nel caso
non v’era, un termine contrattuale per la conclusione del procedimento); contestare e licenziare in pendenza di malattia;
attendere, per la contestazione (ponendo il giustificato motivo soggettivo minori problemi di immediatezza), il rientro al
lavoro del dipendente malato.
179
V. Trib. Milano 11 giugno 1971, in Mass. giur. lav. 1971, 432.
180
V. Trib. Brescia 15 luglio 1977, in Or. giur. lav. 1977, 955.
181
§ 2.1.
182
Al punto che, stante il principio di immutabilità della motivazione, un licenziamento per superamento del comporto non
può essere trasformato in un licenziamento per inidoneità fisica: Cass. 18 febbraio 1997, n. 1458.
183
Parve comunque uscire dai giusti binari una pronuncia di Pret. Milano 18 luglio 1994, in Or. giur. lav. 1994, 548, allorché
ebbe ad appellarsi - per ritenere legittimo un licenziamento - (anche) ad un'impossibilità definitiva della prestazione
derivante non da un'inidoneità (esclusa, anzi, dal c.t.u.), bensì dal fatto che l'affidabilità del dipendente doveva ritenersi
“assolutamente zero, sicché si deve ritenere che la prestazione lavorativa non rivesta più alcun interesse per il datore di
lavoro”. Forse la retorica giuridica avrebbe offerto qualche altra possibilità per far coincidere la giustizia materiale (quel
dipendente aveva effettuato 1.596 giorni di assenza in sei anni!) con quella processuale.
184
§ 2.7.
185
V. Cass. 13 dicembre 2000, n. 15688; Cass. 13 dicembre 1996, n. 11127, in Mass. giur. lav. 1997, 269. In argomento, v.
G. Loy, La capacità fisica nel rapporto di lavoro, cit., 282 ss.
186
V. Cass., S.U., 7 agosto 1998, n. 7755, in Mass. giur. lav. , 1998, 876, con nota di M. Papaleoni.
187
V. Cass. 27 febbraio 2004, n. 4050; Cass. 19 aprile 2003, n. 6378; Cass. 17 febbraio 2003, n. 2353; App. Milano 21
febbraio 2003, in Or. giur. lav., 2003, I, 201.
188
V. Cass. 10 ottobre 2005, n. 19686, anche nel senso della legittimità, in tale caso, del “patto di demansionamento”. Il che
implica che, ove siano disponibili mansioni inferiori, l’assegnazione alle stesse debba essere comunque proposta al
lavoratore.
hanno diritto alla conservazione del più favorevole trattamento corrispondente alle
mansioni di provenienza”189.
2.13. Periodo di comporto e licenziamento.
Il periodo c.d. di “comporto” ha posto, anzitutto, problemi di computo temporale.
Al riguardo è consolidato l'orientamento, secondo cui, sia il comporto espresso in
mesi od in giorni, debbono includersi in esso (salve diverse previsioni contrattuali)
anche i giorni festivi o non lavorativi, o comunque di fatto non lavorati in
quell'azienda, operando una presunzione di continuità dell'episodio morboso, che
può essere esclusa soltanto dalla prova del rientro in servizio del dipendente190. Ma
debbono essere tenuti fuori dal computo i giorni festivi antecedenti ai giorni iniziali o
successivi a quelli finali della prognosi di malattia, purché seguiti, i secondi, dal
rientro in servizio191. Inoltre, se l'ultimo giorno del comporto cade nell'ultimo giorno
lavorativo della settimana, il comporto può dirsi superato soltanto il lunedì
successivo192.
Quanto al computo dei mesi, esso deve essere operato in base al calendario
comune, per quanto desumibile degli artt. 2693, 4° co., c.c., e 155, 2° co., c.p.c.193.
Si riflette sul tema anche un importante principio che si è ormai imposto nella
giurisprudenza: quello per cui non sono computabili, ai fini del comporto, le malattie
che siano state causate dalla violazione dell’obbligo di protezione dell’integrità fisica
e/o della personalità morale del lavoratore ex art. 2087 c.c. , anche in relazione alle
scelte effettuate dal datore di lavoro in ordine all’assegnazione della mansioni e/o al
mancato reperimento, nell’organizzazione aziendale, di altro posto più consono alle
precarie condizioni di salute del lavoratore194. Con ciò si è sostanzialmente
interferito, anche se limitatamente all’ipotesi della malattia “imputabile” al datore di
lavoro, sul regime di conservazione del posto previsto dai contratti collettivi per la
malattia professionale.
Si è altresì posto l’interrogativo se il lavoratore malato possa pretendere di essere
collocato in ferie per bloccare il decorso del comporto, o di scomputare a posteriori i
giorni di ferie non goduti dal comporto, al fine di invalidare il licenziamento disposto
189
Coerentemente, per l’ipotesi in cui un lavoratore già disabile subisca un aggravamento delle condizioni di salute, od
abbia a patire le conseguenze di significative variazioni nell’organizzazione del lavoro, l’art. 10, 3°co., della legge n.
68/1999, ha disposto che si dia corso, eventualmente con sospensione non retribuita del lavoro nella fase interinale, ad un
accertamento medico, in esito al quale il rapporto di lavoro del disabile può essere risolto (soltanto) “nel caso in cui, anche
attuando i possibili adattamenti dell’organizzazione del lavoro, la…commissione accerti la definitiva impossibilità di
reinserire il disabile all’interno dell’azienda”. In tema, si tenga altresì conto che anche i lavoratori disabili, assunti
obbligatoriamente, sono assoggettati alla disciplina comune del comporto per malattia, purché sia da escludere la
riconducibilità della malattia a colpa del datore di lavoro, che abbia assegnato l'invalido a mansioni incompatibili con le sue
condizioni: v. Trib. Roma 18 luglio 1991, in Riv. it. dir. lav. 1992, II, 878.
190
V., fra le tante, Cass. 23 giugno 2006, n. 14633; Cass. 10 novembre 2004, n. 21385.
191
V. Cass. 12 agosto 1994, n. 7405; Pret. Milano 4 novembre 1983, in Or. giur. lav., 1984, 124.
192
V. Cass. 10 febbraio 1993, n. 1657.
193
V., ad es., Cass. 30 maggio 1986, n. 3675; Pret. Firenze 24 novembre 1995, in Toscana giur., 1996, 112; Pret. Novara 14
novembre 1989, in Giust. civ., 1990, I, 3018.
194
V. Cass. 23 aprile 2004, n. 7730; Cass. 7 aprile 2003, n. 5413; Cass. 21 gennaio 2002, n. 572, in Riv. crit. dir. lav., 2002,
426 (nel caso, avendo il Tribunale accertato che il lavoratore era affetto da sindrome depressiva acuta di tipo nevrotico,
soggetta a riacutizzazione non solo per la lontananza dalla famiglia, ma per il tipo di attività svolta – riscossione di tributi,
accessi nelle abitazioni dei contribuenti, pignoramenti -, individuata come la causa scatenante, la S.C. ha ritenuto violato
l’art. 2087 in quanto, a fronte del carattere stressante delle mansioni, non ha mai tentato di venire incontro alle ripetute
istanze del lavoratore, assegnandogli mansioni diverse); Cass. 18 aprile 2000, n. 5066. Sulla non computabilità, ai fini del
comporto, della malattia “determinata da gravidanza”, v. infra, nt. 244.
per il superamento dello stesso. La tradizionale posizione negativa della
giurisprudenza195 è stata, ormai, sostanzialmente rovesciata nei termini seguenti:
non può prospettarsi, anzitutto, una proroga automatica del comporto, occorrendo
necessariamente una richiesta del lavoratore, anteriore alla scadenza del
medesimo196, a fronte della quale il datore è onerato, comunque, di una risposta, che
dovrà corrispondere ad un esercizio corretto del potere di stabilire la collocazione del
periodo feriale, basato cioè su una considerazione adeguata della posizione del
lavoratore, in contemperamento con le esigenze dell’impresa. Il datore, pertanto, può
anche teoricamente rigettare l’istanza, purché riesca a (motivare e in seguito a)
dimostrare in giudizio l’esistenza di un interesse aziendale tale da giustificare il
sacrificio di quello del lavoratore197. Ma è da supporre che non possano essere molti i
casi del genere, posto che, rispetto ad un lavoratore già assente per malattia, non è
facile addurre una ragione organizzativa per non concedere un prolungamento
dell’assenza sotto altro titolo198.
Il dipendente in procinto di esaurire il comporto può evitare il licenziamento
anche fruendo di un istituto previsto da numerosi contratti collettivi, l'aspettativa per
malattia199, il quale consente, sulla base di una semplice manifestazione di volontà
del lavoratore, da ricondurre alla categoria del diritto potestativo200, la conservazione
del posto (pur non retribuito) per un periodo ulteriore. L'aspettativa deve essere
richiesta, di solito (ma i contratti sono sovrani), prima della maturazione del
comporto201, potendo ciò determinare problemi pratici al dipendente, che non sia in
grado di calcolare esattamente i tempi di scadenza. La giurisprudenza esclude,
tuttavia, che il datore sia tenuto a preavvertire il lavoratore dell'imminente scadenza
del comporto e della conseguente possibilità di fruizione dell'aspettativa202 (o di ferie
non godute). Si ammette, al massimo, che siano dovute al lavoratore, secondo
correttezza e buona fede (e talvolta per previsione esplicita di CCNL), le informazioni
che egli abbia richiesto in merito al totale delle assenze ed al comporto203.
Una volta avvenuto il superamento del comporto, il lavoratore è liberamente
195
V., per memoria, Cass. 30 agosto 1983, n. 5504; Cass. 5 luglio 1968, n. 2277, in Riv. dir. lav. 1969, II, 249.
V. Cass. 22 aprile 2002, n. 5824; Cass. 11 maggio 2000, n. 6043.
197
V. , in diverse fattispecie, Cass. 9 aprile 2003, n. 5521; Cass. 27 febbraio 2003, n. 3028; Cass. 17 maggio 2000, n. 1774;
Cass. 28 gennaio 1997, n. 873, in Riv. it. dir. lav., 1997, II, 545.
198
Peraltro, si è anche affermato, con una parziale retromarcia, che un obbligo del datore di lavoro di concedere le ferie non
è configurabile quando il lavoratore possa richiedere l’aspettativa non retribuita: v. Cass. 22 marzo 2005, n. 6143; Cass. 9
aprile 2003, n. 5521. Ma in un caso in cui il lavoratore aveva richiesto le ferie durante il comporto e poi l’aspettativa non
retribuita,Cass. 17 dicembre 2001, n. 15954, ha cassato la sentenza che aveva ritenuto che con la richiesta dell’aspettativa la
lavoratrice avesse inteso rinunciare alla richiesta di ferie; ciò in quanto la rinuncia alle ferie residue deve essere provata in
maniera particolare e univoca, atteso il valore costituzionale del diritto alle ferie.
199
In generale sull'istituto, v. R. Del Punta, op. cit., 386 ss.
200
V. Trib. Bergamo 19 aprile 2004, in Guida al lav., n. 8/2005.
201
V., ad es., Cass. 15 settembre 1997, n. 9175; Cass. 10 aprile 1996, n. 3351, in Not. giur. lav., 1997, 218. È ovvio, in ogni
caso, che la richiesta di aspettativa deve essere effettuata prima del licenziamento: Cass. 20 novembre 1985, n. 5741.
202
V. Cass. 28 giugno 2006, n. 14891, ponendosi l’accento, con un pizzico di cattiveria, che tale comunicazione servirebbe
al lavoratore per porre in essere iniziative elusive come la richiesta di ferie o di aspettativa (ma queste sono richieste
legittime; ad essere elusivo, ci pare, è l’assenteismo); Cass. 10 aprile 1996, n. 3351; Cass. 18 febbraio 1995, n. 1757; Pret.
Milano 10 maggio 1997, in Or. giur. lav. 1997, 491. In senso contrario, v. Pret. Milano 23 marzo 1993, in Lav. prev. oggi,
1994, 805. Per un caso particolare, nel quale il datore aveva indotto il lavoratore a ritenersi già licenziato prima
dell’insorgenza dell’ultima malattia, pur non essendo il comporto ancora scaduto, e si è ritenuto il licenziamento legittimo,
ma accordando al lavoratore un risarcimento dei danni patiti a causa del comportamento scorretto del datore, v. Pret. Milano
9 aprile 1997, in Lav. giur. , 1997, 685.
203
V. Cass. 21 maggio 1998, n. 5091, ivi negandosi l’esistenza di un obbligo di preavvertire il sindacato dell'approssimarsi
della scadenza del periodo di comporto, nonostante che un contratto collettivo aziendale contempli, per un caso del genere,
un obbligo del datore di lavoro di consultare le strutture sindacali; Trib. Milano 3 settembre 1994, cit.
196
licenziabile, fatto salvo il diritto al preavviso204 (di massima non lavorato, a meno che
il dipendente non sia rientrato, nel frattempo, in servizio). L'ipotesi di recesso
configurata dall'art. 2110, 2° co., che contiene un esplicito rinvio all'art. 2118, è
difatti considerata un'ipotesi speciale, sopravvissuta al tramonto del recesso ad
nutum. Una buona ragione a supporto di tale conclusione è che, sostanzialmente, il
superamento del comporto si configura come una sorta di ipotesi a sé di
giustificazione del licenziamento205. E’ quindi incongruo richiedere al datore, dopo
l'esaurimento del comporto, la dimostrazione di un giustificato motivo obiettivo
ulteriore, secondo una tesi sostenuta da un dimenticato filone di merito206, e che
aveva ricevuto consensi in dottrina207, ma poi respinta dalla Cassazione208.
Con riguardo alla forma del recesso, a fronte di remote pronunce che ritenevano
necessario enunciare, nella lettera di licenziamento, la somma delle assenze
effettuate209, si è poi formato un orientamento, secondo il quale ciò sarebbe
indispensabile soltanto in caso di richiesta del lavoratore, sul modello dell’art. 2 della
l. n. 604/1966 210. Resta escluso, comunque, l’obbligo di rispettare la procedura
dell'art. 7 St. lav.211. Per altro verso, il datore può riqualificare, con riferimento alla
maturazione del comporto, un licenziamento intimato per giustificato motivo
obiettivo, senza che possa dirsi violato il principio di immutabilità della
motivazione212.
Ci si è interrogati, infine, sulla collocazione temporale del licenziamento per
superato comporto. La risposta prevalente è che, ferma ovviamente la recedibilità nel
perdurare dell’assenza213, il licenziamento può essere disposto anche se il dipendente
è tornato, nelle more, in servizio, purché non sia trascorso un tempo eccessivo dalla
scadenza del comporto, tale da configurare (per la lunghezza dell’attesa o per altri
elementi) non un tollerato spatium deliberandi, bensì una rinuncia implicita al
recesso214. Si esclude, peraltro, che il datore sia gravato (come nella giusta causa) da
un vero e proprio dovere di immediatezza, con onere della prova - dell’incompatibilità
del comportamento datoriale con la volontà di porre fine al rapporto – posto a carico
204
V., ad es., Cass. 27 giugno 1996, n. 5927, in Not. giur. lav. 1996, 858; Cass. 12 dicembre 1986, n. 7435. In dottrina, v. R.
Del Punta, op. cit., 376 ss.
205
Cfr., più diffusamente, R. Del Punta, ivi.
206
V., ad es., Pret. Milano 20 febbraio 1982, in Or. giur. lav. 1982, 462.
207
V. P. Ichino, Malattia, assenteismo etc., cit.; A. Pandolfo, op. cit., 293 ss; e, nella sostanza, M. Napoli, op. cit., 383- 385.
208
V. Cass. 1° giugno 1992, n. 6599, in Giur. it., 1995, I, 1, 1133.
209
V., in tal senso, Cass. 13 agosto 1996, n. 7525, in Not. giur. lav., 1996, 741.
210
V. Cass. 10 gennaio 2008, n. 278, anche sul punto della necessaria specificazione, in caso di richiesta, dei giorni di
assenza (su cui v. anche Cass. 20 dicembre 2002, n. 18199); Cass. 5 novembre 2007, n. 23070; Cass. 3 aprile 2004, n. 14873.
211
V. Cass. 10 gennaio 2008, n. 278.
212
V., in tal senso, Cass. 28 marzo 1990, n. 2496; Cass. 11 giugno 1986, n. 3878.
213
Condizione imprescindibile del recesso secondo una tesi dottrinale che non ha mai attecchito in giurisprudenza: v. G.
Pera, replica, in Eccessiva morbilità e accertamenti sanitari, cit., 385; R. Del Punta, op. cit., 383 ss.; A. Pandolfo, op. cit.,
304-305.
214
V., come esempi delle mutevoli valutazioni giudiziali nell'ambito di questo orientamento, Cass. 17 giugno 1998, n. 6057;
Cass. 1° giugno 1992, n. 6599; Cass. 12 gennaio 1991, n. 267, in Dir. prat. lav. 1991, 1229, censurandosi una sentenza di
merito che aveva ritenuto tempestivo un licenziamento intimato dopo tre mesi dalla scadenza del comporto appellandosi
genericamente alla complessità delle verifiche da effettuare; Cass. 27 febbraio 1990, n. 1524, in Giust. civ., 1991, I, 430, che
ha viceversa cassato una pronuncia che aveva ritenuto intempestivo un licenziamento intimato cinque mesi dopo la scadenza
del comporto, ma in un caso in cui il lavoratore aveva continuato la sua assenza con un'altra causale; Pret. Milano 15
novembre 1997, in Lav. giur., 1998, 329; Trib. Milano 16 novembre 1996, ivi, 1997, 330, ritenendosi legittimo un
licenziamento irrogato dopo cinque mesi dalla superamento del comporto. E’ ovvio, infine, che ai fini del superamento del
comporto per sommatoria, il termine finale del triennio, essendo mobile, si sposta di giorno in giorno, per cui la non
immediatezza del recesso non può essere letta come rinuncia: Pret. Milano 29 gennaio 1997, Lav. giur., 1997, 507.
del lavoratore215.
2.14. Il trattamento economico di malattia.
L'art. 2110, 1° co., prevede l'obbligo del datore di lavoro di corrispondere al
lavoratore malato o infortunato, nei limiti quantitativi e temporali previsti da leggi,
contratti collettivi, usi o equità, e nelle situazioni non coperte da fondi equivalenti di
previdenza o di assistenza, la retribuzione o una indennità.
La concezione ormai affermatasi, in connessione alle riflessioni della dottrina in
tema di aggiornamento del principio di corrispettività216 sia in dottrina che in
giurisprudenza, è quella di riconoscere al trattamento di malattia natura
propriamente retributiva, leggendosi la disposizione in commento come l'espressione
di una deroga all'art. 1463 c.c. , giustificata dalla particolare funzione assolta dalla
retribuzione, non soltanto di corrispettivo ma anche di mezzo di sostentamento del
lavoratore e della sua famiglia 217.
Un’implicazione della concezione retributiva è l'assoggettamento del trattamento
di malattia a contribuzione previdenziale218; ma la conclusione non muterebbe, in
verità, anche attribuendo al predetto natura indennitaria219. Inoltre, i datori di lavoro
erano tenuti a una specifica contribuzione destinata a finanziare l’indennità di
malattia erogata dall’INPS, e ciò, in nome del principio di solidarietà contributiva,
anche nel caso in cui il trattamento di malattia sia interamente a carico del datore di
lavoro220; ma tale onere contributivo è venuto meno per effetto della disposizione di
interpretazione autentica (dell’art. 6, 2° co, della legge 11 gennaio 1943, n. 138) di
cui all’art. 20, 1° co, della legge 6 agosto 2008, n. 133.
La concreta determinazione del trattamento “privatistico” di malattia è operata, di
base, dai contratti collettivi, ai quali la disposizione rinvia; essi pongono un obbligo
retributivo esclusivo, là dove manca la copertura previdenziale (es. per i soggetti
esclusi dall'assicurazione, come gli impiegati ed i quadri dell'industria, i dirigenti, i
lavoratori del credito e delle assicurazioni, o per i primi tre giorni di “carenza”
assicurativa), ovvero integrativo dell'indennità corrisposta dall'INPS221, sino a
raggiungere l'80-100% della normale retribuzione222.
215
V., fra le tante, Cass. 23 gennaio 2008, n. 1438, in un caso in cui il dipendente era tornato a lavorare per quattro mesi, ed
aveva pure ottenuto un congedo parentale; Cass. 28 novembre 2007, n. 24270; Cass. 7 gennaio 2005, n. 253, in Riv. it. dir.
lav., ritenendosi correttamente motivata, nel caso, una sentenza che aveva fatto decorrere lo spatium deliberandi dal rientro
in servizio al termine della malattia, piuttosto che dal superamento in sé del comporto.
216
V. già retro, § 1.
217
V., per tutti, T. Treu, Onerosità e corrispettività nel contratto di lavoro, cit. , spec. cap. IV, cui adde R. Del Punta, op.
cit., 437 ss.; A. Pandolfo, op. cit., 323 ss.; M. Roccella, I salari, Bologna, 1986, 184 ss.; Cass. n. 2072/1980, cit. A favore
della tesi indennitaria, v. M. J. Vaccaro, op. cit., 166 ss.
218
V. Cass. 20 novembre 1985, n. 6570; Cass. 9 dicembre 1981, n. 6513. Sorprende, pertanto, l’affermazione per cui nel
trattamento corrisposto dal datore dovrebbe essere incluso anche quanto è normalmente trattenuto dall’INPS, non
operandosi, in tale periodo, trattenute contributive: v. Cass. 22 luglio 1992, n. 8834, in Riv. it. dir. lav. 1993, II, 299.
219
V. infatti M.J. Vaccaro, op. cit., 174 ss.
220
V. Cass., S.U. , 27 giugno 2003, n. 10232, che appunto in nome del principio di solidarietà aveva ritenuto la legittimità
costituzionale del regime descritto nel testo. Di essa aveva di nuovo dubitato, peraltro, Trib. Milano 27 ottobre 2006, ord., e
altri giudici di merito, ma la questione di legittimità era stata ritenuta infondata da Corte cost. 4 marzo 2008, n. 47.
221
Posta la già rilevata autonomia dei due rapporti, il termine annuale di prescrizione previsto per l'indennità di malattia
dall'art. 6, 6° co., della l. 11 gennaio 1943, n. 138, non vale per il trattamento privatistico, che rimane assoggettato alla
normale prescrizione quinquennale: v. Trib. Milano 20 aprile 1988, in Lav '80, 1988, 984; contra, Pret. Busto Arsizio 19
gennaio 1990, in Or. giur. lav. 1990, 207.
222
In argomento, v. diffusamente R. Del Punta , op. cit., 479 ss. Sul regime dell'assicurazione sociale di malattia, v.
soprattutto G. Dondi, L'indennità di malattia dopo la riforma sanitaria, cit.
Il regime descritto vale anche per l'infortunio sul lavoro e la malattia professionale
(l’assicurazione contro i quali prevede un'indennità per inabilità temporanea di
misura più elevata); fermo restando, ex art. 73 del d.P.R. n. 1124/1965, l’obbligo del
datore di lavoro di corrispondere al lavoratore l'intera retribuzione per il primo
giorno, e il 60% per i giorni successivi, sino a quando perdura (quarto giorno) la
carenza assicurativa.
La misura e la durata del trattamento di malattia sono previste dai contratti
collettivi, che ne hanno la libera disponibilità, essendo superata, anche con
riferimento a questo istituto223, la tesi della c.d. onnicomprensività retributiva.
Nondimeno, resta l’esigenza teorica di definire una base minima ed immancabile del
trattamento di malattia, anche in relazione al principio costituzionale della
retribuzione “sufficiente”224.
Peraltro, i contratti sono soliti dettare nozioni assai ampie della base del
trattamento di malattia (ad es., “retribuzione normale di fatto”, “normale trattamento
economico complessivo netto”, “retribuzione di fatto”, “intera retribuzione globale”), da
interpretare di volta in volta, per valutare se includano trattamenti come lo
straordinario continuativo, l'indennità per lavoro notturno, il contributo pasto, etc.
Si deve altresì considerare che, per quanto concerne, in particolare, i lavoratori
dipendenti da amministrazioni pubbliche, nel quadro delle già menzionate misure
anti-assenteismo, l’art. 71, 1° co., della legge 6 agosto 2008, n. 133, ha disposto che
per i periodi di assenza per malattia, di qualunque durata, dei predetti dipendenti,
nei primi dieci giorni di assenza è corrisposto il trattamento economico fondamentale
“con esclusione di ogni indennità o emolumento, comunque denominati, aventi
carattere fisso e continuativo, nonché di ogni altro trattamento accessorio”. La norma è
esplicitamente dichiarata non derogabile in melius dai contratti collettivi (art. 71, 6°
co.). Resta salvo, comunque, il trattamento più favorevole eventualmente previsto dai
contratti collettivi o dalle specifiche normative di settore per le assenze dovute ad
infortunio sul lavoro o a causa di servizio, oppure a ricovero ospedaliero o a day
hospital, nonché per le assenze dovute a patologie gravi che richiedano terapie
salvavita.
Ci si interroga su come debbano applicarsi le previsioni contrattuali sul
trattamento economico nell'ipotesi del succedersi di più malattie, considerato che, per
i contratti collettivi, la misura del trattamento economico è di solito decrescente nel
tempo. Iniziando ogni volta un nuovo periodo di malattia, il lavoratore non
raggiungerebbe mai né il tetto temporale del trattamento, né quei tetti intermedi oltre
i quali si ha una riduzione percentuale del medesimo. La questione è se, in assenza
di esplicite prescrizioni contrattuali225, per valutare il raggiungimento di quei tetti sia
lecito sommare i diversi periodi (discontinui) di assenza, quantomeno entro i limiti
delle assenze verificatesi nel triennio. V’è, sul punto, un risalente contrasto
giurisprudenziale, sebbene con una strisciante prevalenza della tesi affermativa 226.
Merita infine ricordare alcuni orientamenti “di zona”, come quelli per cui nel caso
di sciopero la retribuzione può essere negata anche ai lavoratori assenti per
malattia227; o le integrazioni contrattuali di malattia cessano di essere dovute nel
223
V. Cass., S.U., 13 febbraio 1984, n. 1069.
Cfr. R. Del Punta, op. cit. , 508 ss.
225
Come quella introdotta dal rinnovo del 1994 del CCNL per l’industria metalmeccanica.
226
Sulla legittimità della sommatoria, v. Cass. 22 novembre 2001, n. 14808; Pret. Milano 20 aprile 1984, in Or. giur. lav.
1984, 734; R. Del Punta, op. cit. ,531-532; A. Pandolfo, op. cit., 334-335. Per l’esclusione della sommatoria, più favorevole
al lavoratore, v. invece Cass. 15 giugno 1992, n. 7319.
227
V. Cass. 7 febbraio 1991, n. 1256, in Dir. prat. lav., 1991, 1420. In senso contrario, con egregia motivazione, Pret.
Catania 26 novembre 1993, in Foro it., 1994, I, 2283.
224
caso che il malato sia posto in Cassa integrazione guadagni, sia straordinaria (v. art.
3, 2° co., l. n. 464/1972) che ordinaria (cui si ritiene applicabile per analogia la
predetta disposizione)228.
Il regime dell’istituto è completato dal 3° co. dell'art. 2110, secondo il quale
durante la malattia o l'infortunio si ha decorso dell'anzianità di servizio ai fini dei vari
diritti per cui essa rileva, siano essi di genesi legale o contrattuale (ad es. scatti
periodici di anzianità e mensilità aggiuntive)229; come confermato, per il trattamento
di fine rapporto, dall'art. 2120, 3° co., c.c.
Naturalmente, gli effetti in questione si estendono a tutti gli istituti per i quali può
dirsi rilevante il mero decorso del tempo; là dove, invece, un dato effetto sia ancorato
alla prestazione di un servizio effettivo (come per certe progressioni di carriera), il
periodo di malattia non può essere considerato utile.
In questo quadro, si è discusso se durante la malattia vi sia maturazione del
diritto alle ferie. La giurisprudenza, anche di legittimità, è stata a lungo divisa230, ma
ha prevalso, alla fine, la tesi affermativa231, che si correla all’evoluzione subita
dall’istituto feriale (specialmente dopo la pietra miliare, rappresentata dal principio
della sospensione delle ferie in caso di malattia), sempre più inteso come tempo
libero dal lavoro, e non, riduttivamente, come riposo.
3. I congedi parentali.
La normativa relativa a questa (altrettanto) importante ipotesi di sospensione del
lavoro ha sempre goduto di una posizione peculiare nell’ordinamento lavoristico.
Incardinata nella struttura del contratto di lavoro attraverso l’art. 2110 del codice
civile, di fatto essa è stata sempre demandata alla legislazione speciale, del resto già
esistente al momento dell’emanazione del codice. Non è qui il caso neppure di
riassumere una lunga e complessa storia transitata, per limitarsi alle tappe più
recenti, attraverso le leggi n. 1204 del 1971 e n. 903 del 1977232, ed approdata, da
ultimo, alla legge 8 marzo 2000, n. 53, in seguito recepita, con un’opera di
razionalizzazione che però non ha disdegnato qualche intervento correttivo (a rischio
di “eccesso di delega”), nel T.U. emanato con d. lgs. 26 marzo 2001, n. 151, poi
ritoccato dal d. lgs. 23 aprile 2003, n. 115233.
Nel frattempo, il 3 giugno 1996, la Comunità Europea aveva adottato la direttiva
96/34 CE, che peraltro non aveva messo in particolare difficoltà la nostra
228
V. Cass. 17 febbraio 1987, n. 1709, in Or. giur. lav. 1987, 546.
Cfr. R. Del Punta, op. cit., 545 ss.
230
Nel senso della maturazione delle ferie anche durante la malattia, v. Cass. 23 gennaio 1997, n. 704; R. Del Punta, op. cit.,
551 ss., sia pure con distinguo; P. Ichino, L'orario di lavoro e i riposi, Il Codice civile. Commentario, diretto da P.
Schlesinger, sub artt. 2107-2109, Milano, 1987, 177-178; M. J. Vaccaro, op. cit., 225 ss. In senso opposto, v. Cass. 19
ottobre 1996, n. 9125; Cass. 13 febbraio 1992, n. 1786, in Giust. civ. , 1992, I, 895.
231
V. Cass., sez. un. , 12 novembre 2001, n. 14020, in Riv. it. dir. lav., 2002, II, 557; sulle implicazioni teoriche della quale,
v. l’approfondimento di L. Calafà, op. cit., 161 ss.
232
Per una ricostruzione della normativa previgente, v. R. Del Punta, op. cit., 569 ss.
233
Sulla normativa del 2000-2001 v., tra gli altri, L. Calafà, Congedi e rapporti di lavoro , cit.; R. Del Punta, La nuova
disciplina dei congedi parentali, familiari e formativi, in Riv. it. dir. lav., 2000, I, 149; R. Del Punta – D. Gottardi, (a cura
di), I nuovi congedi, Milano, 2001; R. Del Punta – L. Lazzeroni – M. L. Vallauri, I congedi parentali, Milano, 2000; D.
Gottardi, voce Congedi parentali, in Dig. Comm., agg. , Torino, 2000, 185; M. Miscione (a cura di), I congedi parentali,
Milano, 2001; M. Napoli (a cura di), Congedi parentali, formativi e tempi delle città, Commentario al D. Lgs. 26 marzo
2001 n. 151, in Nuove leggi civ. comm., 2001, 1215.
229
legislazione, già largamente rispondente, salvo eccezioni, agli standard comunitari234.
A partire dalla protezione del diritto fondamentale alla maternità, la normativa ha
subito, nel tempo, profonde “torsioni”, che hanno portato in risalto, in primis,
l’interesse del bambino, inteso anche in un’accezione relazionale ed affettiva (e tale,
per ciò, da abbracciare le delicate vicende delle adozioni e degli affidamenti), e che
hanno incarnato, in secondo luogo, il tentativo di creare condizioni più favorevoli ad
un’effettiva conciliazione tra il diritto alla (e più ampiamente il desiderio di) maternità
e il diritto al lavoro. In questa direzione si è cercato, sin dalla legge n. 903 del 1977
ma poi, soprattutto, dalla n. 53 del 2000, di rendere la maggior parte degli istituti di
protezione pienamente utilizzabili tanto dalla madre quanto dal padre, così da far
emergere, come referente centrale della normativa, la figura del genitore lavoratore.
Dal punto di vista strettamente normativo, progressi ulteriori sono difficilmente
ipotizzabili. Il livello di protezione raggiunto sembra complessivamente soddisfacente,
al di là di perfezionamenti sempre possibili, ad esempio sul terreno della normativa
promozionale di soluzioni gestionali volte a facilitare la conciliazione fra tempi di
lavoro e tempi di cura235. Altro potrà essere fatto (ed è talora stato fatto) dalla
contrattazione collettiva, ma, nell’insieme, le norme hanno dato tutto molto di quello
che potevano dare. Il resto spetta alle imprese, alle amministrazioni, ai lavoratori e
alle lavoratrici (ad es. sul terreno della redistribuzione dei carichi familiari e delle
opportunità professionali), alle associazioni sindacali, le istituzioni statali e locali
preposte all’erogazione di servizi di assistenza alle famiglie236. La prospettiva che si
apre è di grande importanza per il futuro della nostra società, notoriamente gravata
da un’insufficiente natalità, e persino della nostra economia, caratterizzata da un
basso tasso di occupazione femminile.
Ciò premesso, prima di inoltrarsi nell’analisi, è da segnalare che la normativa non
riguarda soltanto lavoratrici o lavoratori dipendenti. Anzitutto, per quanto attiene ai
congedi (e dunque ai profili di incidenza sul rapporto di lavoro), essa si applica anche
alle lavoratrici e ai lavoratori a domicilio (art. 61), ai quali aveva fatto da battistrada la
Corte costituzionale237.
E’ stata l’apertura di una breccia che, col d. lgs. 10 settembre 2003, n. 276 (art.
66, 1° e 3° co.), ha condotto a configurare un diritto alla sospensione del lavoro per
centottanta giorni, con proroga del termine finale del rapporto, a favore delle
collaboratrici a progetto o a programma (eredi, come è noto, delle collaboratrici
coordinate e continuative). Successivamente, da parte dell’art. 1 del d. m. 12 luglio
2007, adottato dal Ministro del Lavoro di concerto con quello dell’Economia, e di
attuazione dell’art. 1, 791 co., della legge n. 296/2006 (Finanziaria 2007), il divieto di
adibizione delle donne al lavoro durante i periodi corrispondenti al congedo di
maternità, determinati a norma degli artt. 16 e 17 del d.lg. n. 151/2001 (v. infra, §
3.1-3.3), è stato esteso ai “committenti di lavoratrici a progetto e categorie assimilate
iscritte alla gestione separata” ex art. 2, 26° co., l. n. 335/1995 (principalmente le
collaboratrici coordinate e continuative e le incaricate di vendite a domicilio), nonché
alle associate in partecipazione con apporto di lavoro.
A favore delle lavoratrici parasubordinate (art. 64, 1° co.), di quelle autonome,
artigiane ed esercenti attività commerciali (art. 66 ss.) e delle libere professioniste
234
V. R. Nunin, La direttiva n. 96/34/CE sui congedi parentali ed il suo recepimento nell’ordinamento italiano, in Dir.lav.,
2000, I, 207.
235
Come primo esempio, v. l’art. 9 della legge n. 53 del 2000, attuato con d. m. 15 maggio 2001.
236
In particolare, per un’ampia analisi del nuovo rapporto tra lavoro e paternità, in una prospettiva di conciliazione
condivisa, v. L. Calafà (a cura di), Paternità e lavoro, Bologna, 2007.
237
V. Corte cost. 26 luglio 2000, n. 360, in Mass. giur. lav., 2001, 392, con nota di P.Morgera.
(art. 70 ss.) è stata altresì prevista una tutela previdenziale di natura economica per i
periodi di astensione dal lavoro a cavallo del parto.
Tanto osservato a livello di quadro generale, occorre procedere all’esame dei singoli
istituti, che si giovano di un variegato apparato di tecniche protettive, le quali
rendono il quadro normativo più articolato di quello esaminato con riguardo alla
malattia e all’infortunio. Una prima differenza consiste, segnatamente, nella
previsione non di un’unica, bensì di una pluralità di ipotesi sospensive, diversamente
congegnate nei presupposti, nelle modalità di esercizio, nel trattamento. Inoltre,
mentre la protezione del lavoratore malato od infortunato si focalizza esclusivamente
sui periodi di assenza dal lavoro, quella della lavoratrice madre (a cominciare dal
divieto di licenziamento) si estende a periodi caratterizzati dallo svolgimento della
prestazione lavorativa; per questa parte, la disciplina fuoriesce dalla tematica della
sospensione, strettamente intesa.
3.1. I lavori vietati.
Il capo II del d.lgs. n. 151 del 2001 prevede una serie di misure relative alla tutela
della salute e della sicurezza della lavoratrice durante il periodo di gravidanza e sino
a sette mesi di età del figlio, che abbia informato il datore di lavoro del proprio stato
(cfr. art. 6). Esse sono inerenti al contenuto (oltre che alle modalità temporali) della
prestazione lavorativa, onde garantire che l’esecuzione del lavoro non comporti
pregiudizi di sorta alla salute della lavoratrice (pur essendo ovviamente protetta,
segnatamente durante la gravidanza, anche la salute del nascituro). La tutela si
applica, altresì, alle lavoratrici che hanno ricevuto bambini in adozione o in
affidamento, sino al compimento dei sette mesi di età (art. 6, 2° co.).
La prescrizione principale è quella del divieto di adibizione a determinati lavori
ritenuti pregiudizievoli. L’art. 7 contiene, anzitutto, un generico divieto di adibire le
lavoratrici al trasporto e al sollevamento di pesi, e, in secondo luogo, un divieto di
assegnazione ai lavori ”pericolosi, faticosi e insalubri”, di cui all’elenco contenuto nella
vecchia disciplina regolamentare (art. 5, d.P.R. 25 novembre 1976, n. 1026), riportata
nell'all. A del Testo unico, e sottoposta ad aggiornamenti periodici238. Un ulteriore
divieto può scaturire da un provvedimento amministrativo costitutivo, adottato dal
servizio ispettivo del Ministero del lavoro, allorché questi accerti, d’ufficio o su istanza
della lavoratrice, che “le condizioni di lavoro o ambientali sono pregiudizievoli alla
salute della donna” (art. 7, 4° co.).
Ma tali divieti239 non esauriscono la gamma delle protezioni (cfr. art. 12, 3° co.),
giacché il datore di lavoro è tenuto, nell’ambito della prevenzione imposta dal d.lgs. n.
626 del 1994, e segnatamente della valutazione dei rischi di cui all’art. 4, 1° co., ad
effettuare una valutazione specifica dei rischi alla sicurezza ed alla salute delle
lavoratrici240, individuando le misure di prevenzione e protezione da adottare (art. 11,
1° co.), nonché informando le lavoratrici dei risultati di tale valutazione e delle misure
adottate (art. 11, 2° co.).
In esito alla valutazione, qualora essa riveli l’esistenza di rischi, il datore è tenuto
ad adottare quelle che la legge (art. 12, 1° co.) definisce, genericamente, le “misure
238
Tra i lavori pericolosi, faticosi ed insalubri sono altresì inclusi (art. 7, 3° co.) quelli che comportano il rischio di
esposizione agli agenti ed alle condizioni di lavoro, indicati nell’elenco di cui all’allegato B.
239
Cui adde il divieto di esposizione a radiazioni ionizzanti, sancito dall’art. 8.
240
Ciò, in particolare, per i rischi di esposizione ad agenti fisici, chimici o biologici, processi o condizioni di lavoro di cui
all’allegato C al d. lgs. n. 151/2001.
necessarie affinché l’esposizione al rischio sia evitata”, modificando temporaneamente
”le condizioni o l’orario di lavoro” delle lavoratrici.
In questi casi – ossia quando la lavoratrice sia addetta a mansioni vietate (art. 7,
3° co.), o i servizi ispettivi accertino che le condizioni di lavoro o ambientali sono
pregiudizievoli (art. 7, 4° co.), o la modifica delle condizioni o dell’orario di lavoro non
sia possibile ”per motivi organizzativi o produttivi” -, la lavoratrice è addetta (id est,
deve essere spostata) ad altre mansioni241. Tale mutamento forzato non è
assoggettato al limite dell’equivalenza professionale di cui all’art. 2103 c.c., nel senso
che – come si evince dall’art. 7, 5° co.- può indirizzarsi anche verso mansioni di
contenuto professionale inferiore alle ultime effettivamente svolte. Ma l’eccezione è
duplice, giacché in tal caso, e sempre in virtù del 5° co., la lavoratrice ha comunque
diritto a conservare la retribuzione corrispondente alle mansioni precedenti, nonché
la qualifica originaria. Si applica il regime ordinario, invece, nel caso in cui la
lavoratrice sia adibita a mansioni equivalenti o superiori.
La previsione deve essere coordinata con quella di cui all’art. 7, 6° co. (riprodotta,
per il caso ivi considerato, dall’art. 12, 2° co.), per la quale “quando la lavoratrice non
possa essere spostata ad altre mansioni, il servizio ispettivo del Ministero del lavoro,
competente per territorio, può disporre l’interdizione dal lavoro per tutto il periodo di cui
al presente Capo, in attuazione di quanto previsto dall’art. 17”.
Specularmente, l’art. 17, 2° co., lett. c), include, fra le ipotesi in cui il servizio
ispettivo del Ministero del lavoro può disporre l’interdizione anticipata dal lavoro (fino
all’inizio del congedo di maternità), quella in cui la lavoratrice non possa essere
spostata ad altre mansioni, secondo quanto previsto dagli artt. 7 e 12. In verità,
l’interdizione (di norma) anticipata può anche risolversi in un’interdizione posticipata,
giacché tanto l’art. 7, 6° co., quanto l’art. 12, 2° co., fanno esplicito richiamo a tutto il
periodo previsto dal Capo II (l’art. 7) o dall’art. 6, 1° co. (l’art. 12), che si estende
potenzialmente sino al 7° mese di età del figlio.
Il coordinamento con l’art. 7, 5° co., induce a ritenere che l’impossibilità di
assegnazione ad altre mansioni, che rappresenta il presupposto di adozione del
provvedimento in discorso, debba intendersi riferita alla disponibilità di mansioni non
soltanto equivalenti, ma anche inferiori. Ciò significa che, se mansioni inferiori fossero
disponibili, e la lavoratrice fosse in grado di svolgerle, ella dovrebbe esservi adibita e
non dovrebbe farsi luogo ad un’interdizione dal lavoro.
Più delicata è la questione se il diritto della lavoratrice al mutamento delle proprie
mansioni si estenda a mansioni professionalmente superiori, e dunque se, ove queste
siano disponibili, il servizio ispettivo possa rifiutarsi di disporre l’interdizione
(anticipata o posticipata) del lavoro. Si tenga conto che, al di là del maggior costo, da
un’assegnazione protratta per più di tre mesi nascerebbe un diritto all’assegnazione
del superiore livello di inquadramento (cfr. art. 17, 5° co., ult. inciso), il che pare
eccessivo.
L’inosservanza delle disposizioni esaminate è penalmente sanzionata, essendo
punita con l’arresto sino a sei mesi (artt. 7, 7° co., e 12, 4° co.).
3.2. Il divieto di lavoro notturno.
241
L’art. 12, 2° co., dispone infatti che, ove la modifica delle condizioni o dell’orario di lavoro non sia possibile, il datore di
lavoro applica quanto stabilito dall’art. 7, co. 3°, 4° (un richiamo, questo, poco comprensibile), e 5°, dandone contestuale
informazione scritta al servizio ispettivo del Ministero del lavoro competente per territorio, ai fini di un’eventuale
interdizione anticipata dal lavoro.
Un ulteriore divieto, dotato di un’autonoma estensione, riguarda una particolare
modalità temporale di esecuzione della prestazione lavorativa, considerata
pregiudizievole: il lavoro notturno, inteso per tale quello dalle 24 alle 6 del mattino242.
Esso è assolutamente vietato, per le lavoratrici gestanti e puerpere, dall’accertamento
dello stato di gravidanza (dunque, non dal suo inizio) sino al compimento di un anno
di età del bambino. Ciò era stato prescritto, a suo tempo, dall’art. 5 della legge 9
dicembre 1977 n. 903, ed è stato ribadito dall’art. 53, 1° co., del d.lgs. n. 151/2001,
a propria volta duplicato dall’art. 11 , 2° co., del d.lgs. 8 aprile 2003, n. 66.
Dal divieto consegue che la lavoratrice dovrebbe essere assegnata ad una
posizione di lavoro diurno, in altre mansioni equivalenti, qualora esistenti e
disponibili (cfr. l’art. 15, 1° co., del d.lgs. n. 66/2003), ovvero inferiori (arg. dalla
possibile applicazione analogica dell’art. 7, 5° co.), ma in tal caso con conservazione
della qualifica e della retribuzione superiori. Ove non vi fossero mansioni diurne
disponibili, dovrebbero essere ritenuti sussistenti i presupposti di adozione del
provvedimento di cui all’art. 17, 4° co.
Non v’è invece un divieto assoluto e bilaterale, ma semplicemente il diritto di
rifiutare la prestazione di lavoro notturno, qualora richiesta, per: la lavoratrice madre
di un figlio di età inferiore a tre anni o, in alternativa, il lavoratore padre convivente
con la stessa, e la lavoratrice o il lavoratore che sia l'unico genitore affidatario di un
figlio convivente di età inferiore a dodici anni (art. 53, 2° co.); la lavoratrice o il
lavoratore con a carico un disabile ai sensi della legge 5 febbraio 1992, n. 104 (art.
53, 3° co.).
Anche tale previsione è stata ripresa, senza variazioni, dall’art. 11, 2° co., del
d.lgs. n. 66/2003. Tale decreto, nella versione integrata dal d.lgs. 19 luglio 2004, n.
213, ha peraltro dettato la sanzione penale applicabile in caso di inosservanza del
divieto di lavoro notturno delle gestanti e puerpere (art. 53, 1° co.), nonché in quello
di adibizione al lavoro notturno, nonostante il loro espresso dissenso, delle lavoratrici
e dei lavoratori di cui all’art. 11, 2° co., del d. lgs. n. 66/2003 (e all’art. 53, 2° e 3° co.,
d.lgs. n. 151/2001): l’arresto da due a quattro mesi o l’ammenda da 516 a 2.582
euro.
3.3. Il congedo di maternità.
Il cuore della normativa protettiva consiste, tuttora, nella previsione di un periodo
nel quale vige un divieto assoluto di adibizione al lavoro della lavoratrice madre, per
ragioni insuperabili, e di ordine pubblico, inerenti alla tutela della salute della
lavoratrice e del bambino. Per esso è stata adottata, anzitutto, una nuova
denominazione: non più, come in passato, “astensione obbligatoria”, dato che il suo
inizio, come vedremo subito, è variabile, e può dipendere, entro certi limiti, da una
scelta della lavoratrice, e possono fruirne pure i padri e i genitori adottivi e affidatari,
senza che nei loro confronti l’astensione dal lavoro abbia carattere di obbligatorietà.
Nei confronti della madre naturale permane, tuttavia, l’assolutezza in sé del
divieto, la cui violazione è penalmente sanzionata, con l’arresto fino a sei mesi (art.
18). Ciò premesso, l’art. 16 vieta di adibire al lavoro la donna:
a)
nei due mesi precedenti la data presunta del parto;
b) ove il parto avvenga oltre tale data, per il periodo intercorrente la data
presunta e la data effettiva;
242
V., invece, l’art. 1, 2° co., lett. d), del d.lgs. n. 66/2003, che colloca il “periodo notturno” fra le 24 e le 5 del mattino.
c)
nei tre mesi dopo il parto (o quattro nel caso di posticipazione del
momento iniziale del congedo, ex art. 20) ;
d)
negli ultimi giorni non goduti prima del parto - qualora esso sia
prematuro-, da aggiungersi al congedo post-partum; ponendosi rimedio, con
ciò, al deficit di tutela verificatosi nel vecchio regime, poi stigmatizzato dalla
Corte costituzionale243, la quale aveva lasciato al legislatore la scelta fra due
soluzioni, una delle quali è stata adottata244.
Se quelle descritte sono la collocazione e l’estensione normali del congedo di
maternità (la cui attivazione è resa possibile dall’onere della lavoratrice di consegnare
al datore, oltre che all’INPS, il certificato medico attestante la data presunta del parto,
e, entro trenta giorni dal medesimo, il certificato di nascita del figlio o una
dichiarazione sostitutiva di responsabilità245), esse sono però soggette a varianti, e
cioè, nei casi previsti dall’art. 17, ad un’anticipazione o ad un’estensione del congedo.
In base all’art. 17, 1° co., il divieto è anticipato a tre mesi dalla data presunta del
parto quando le lavoratrici siano occupati in lavori gravosi o pregiudizievoli,
identificati da decreti del Ministero del lavoro, sentite le organizzazioni sindacali
nazionali maggiormente rappresentative. Non essendovi però stata, sinora,
emanazione dei decreti, l’anticipazione del divieto di lavoro è di competenza del
servizio ispettivo del Ministero del lavoro.
L’art. 17, 2° co., stabilisce altresì che il medesimo servizio ispettivo possa
disporre246 l’interdizione anticipata (o, in un’ipotesi, posticipata) dal lavoro delle
lavoratrici in stato di gravidanza, sino all’inizio normale del periodo di congedo
(l’ottavo mese), o fino ai periodi di astensione di cui agli artt. 7, 6° co., e 12, 2° co.,
per uno o più periodi, da determinarsi dal servizio stesso, per i seguenti motivi:
a) gravi complicanze della gestazione o di preesistenti forme morbose che si
presume possano essere aggravate dallo stato di gravidanza. Il relativo
provvedimento247 presuppone un conforme accertamento medico, le cui indicazioni
debbono essere seguite dal servizio ispettivo (arg. dall’indicativo “è disposta”), e per il
quale esso è sollecitato ad avvalersi, come di consueto, dei competenti organi del
Servizio sanitario nazionale (art. 17, 3° co.);
b) quando le condizioni di lavoro o ambientali siano ritenute pregiudizievoli alla
salute della donna e del bambino, nonché
c) quando la lavoratrice sia adibita a lavori pregiudizievoli (art. 7)248 o rischiosi
(art. 12), e non sia trasferibile ad altre mansioni, anche inferiori249, per inesistenza
obiettiva delle medesime.
243
V. Corte cost. 24 giugno 1999, n. 270, in Dir. prat. lav., n. 35/1999, a seguito della quale era stata emanata la circolare
INPS n. 231 del 28 dicembre 1999. Alcuni contratti collettivi del settore pubblico prevedono ulteriori miglioramenti: ad es. il
CNNL Regioni-Enti locali attribuisce alla madre la facoltà di richiedere che il restante periodo di congedo non fruito decorra
dal rientro a casa effettivo del figlio, con rientro al lavoro (purché il medico lo consenta) nel periodo intermedio.
244
Al parto prematuro è equiparata l’interruzione della gravidanza verificatasi dopo il 180° giorno dall’inizio della
gestazione. Tanto si desume, a contrario, dall’art. 19, 1° co., il quale prevede che l’interruzione, spontanea o volontaria, nei
casi previsti dagli artt. 4, 5 e 6 della legge 22 maggio 1978, n. 194, sia considerata a tutti gli effetti malattia; una malattia,
peraltro, “determinata da gravidanza”, che pertanto non rileva, a norma del tuttora applicabile art. 20 del d.P.R. 25
novembre 1976, n. 1026, ai fini del decorso del periodo di comporto.
245
V. art. 21, 1° e 2° co.
246
Con provvedimento amministrativo qualificato “definitivo”, ossia non ricorribile in sede amministrativa, dall’art. 17, 5°
co.
247
Da emanarsi, ricorrendone le condizioni, entro sette giorni dalla ricezione dell’istanza della lavoratrice (art. 17, 3° co.).
248
Per un caso in cui è stato ritenuto legittimo il diniego dell’anticipazione del congedo obbligatorio, richiesta dalla
lavoratrice a motivo del fatto di svolgere un lavoro che la costringeva a stare in piedi per 1/3 della durata, in quanto il d.P.R.
n. 1026/1976 include fra i lavori non consentiti quelli che comportano una stazione eretta per più di metà dell’orario di
lavoro, v. TAR Trentino Alto Adige, sez. Bolzano, 6 novembre 2001, n. 281.
249
V. già retro, § 3.1.
Nelle ipotesi sub b) e c) l’astensione ”può essere disposta” dal servizio ispettivo
nella propria ordinaria attività di vigilanza250, e dunque a prescindere da un
accertamento medico, d’ufficio o su istanza della lavoratrice (art. 17, 4° co.). In quella
sub c), in particolare, il provvedimento può riguardare anche una lavoratrice
puerpera, sino al settimo mese di età del figlio, stante il necessario coordinamento fra
il disposto in esame, l’art. 7, 6° co., l’art. 12, 2° co., e infine, risalendo la catena dei
rinvii, l’art. 6, 1° co.
A fronte di tali ipotesi, la legge n. 53 del 2000, riversata per questo aspetto nell’art.
20, 1° co., del T.U., ha introdotto una possibile posticipazione del congedo, che però
riguarda soltanto la collocazione temporale del medesimo: ”Ferma restando la durata
complessiva dell’astensione, le lavoratrici hanno la facoltà di astenersi dal lavoro a
partire dal mese precedente la data presunta del parto e nei quattro mesi successivi, a
condizione che il medico specialista del Servizio sanitario nazionale o con esso
convenzionato e il medico competente ai fini della prevenzione e tutela della salute nei
luoghi di lavoro attestino che tale opzione non arrechi pregiudizio alla salute della
gestante e del nascituro”. In sostanza, la lavoratrice che intenda rimanere al lavoro
sino al nono mese di gravidanza deve munirsi di un duplice e conforme accertamento
medico attestante l’inesistenza di pregiudizi.
La disposizione non precisa il termine entro il quale la lavoratrice debba
comunicare la volontà di posticipare il congedo. Al riguardo, una circolare
ministeriale251 ha precisato – ma forse praeter legem - che la lavoratrice debba
presentare un’istanza scritta prima della scadenza del settimo mese di gravidanza.
Una successiva circolare dell’INPS ha corretto il tiro, stabilendo che la domanda di
posticipazione è accoglibile anche se presentata oltre tale momento, purché le relative
attestazioni ginecologiche siano state acquisite entro il settimo mese; qualora siano
state acquisite dopo, la domanda è accoglibile per i giorni successivi al rilascio delle
stesse252.
Sono escluse dalla facoltà in discorso (art. 20, 2° co.), comunque, le lavoratrici
addette ai lavori individuati, sentite le parti sociali, da un decreto del Ministero del
lavoro, adottato di concerto con i Ministri della sanità e per la solidarietà sociale. Tale
decreto non è stato ancora emanato, ma ciò non osta all’immediata precettività della
norma253.
3.4. Il congedo di paternità.
In casi eccezionali, il congedo in discorso può spettare, in luogo della madre, al
padre lavoratore, ma perdendo il connotato dell’obbligatorietà, ed assumendo quello
del diritto (potestativo, ma) condizionato alla sussistenza di dati presupposti. Il padre
ha diritto di astenersi nei primi tre mesi dalla nascita del figlio o per la parte residua
che sarebbe spettata alla lavoratrice (più di tre mesi, ad es., nel caso di parto
prematuro), in caso di morte o grave infermità della madre ovvero di abbandono da
parte della madre, nonché in caso di affidamento esclusivo del bambino al padre (art.
28, 1° co.).
La previsione, rivolta palesemente alla tutela – più che urgente - dell’interesse del
250
Per chiarimenti su vari aspetti del regime dell’interdizione anticipata, v. le risposte ad interpello del Min. lavoro, del 1°
giugno 2006, prot. n. 97; 19 luglio 2006, prot. 1865; 28 novembre 2006, prot. n. 6584.
251
V. la circolare Min. Lavoro 6 dicembre 2000, n. 86.
252
V. la circolare INPS n. 8/2003.
253
V., in tal senso, le circolari Min. lavoro 7 luglio 2000, n. 43, e INPS 4 settembre 2000, n. 152.
neonato, recepisce in pieno la statuizione della Corte costituzionale, emessa in
riferimento alla legge n. 1204/1971254, e conferma l’introduzione di ulteriori
presupposti del congedo, rispetto alla morte o alla grave infermità, già operata dalla
legge n. 53/2000.
Il padre lavoratore che intenda avvalersi del diritto di cui al primo comma è tenuto
a presentare al datore di lavoro la certificazione relativa alle condizioni ivi previste. In
caso di abbandono, peraltro, egli può limitarsi a presentare una dichiarazione
sostitutiva di atto di notorietà (art. 28, 2° co.).
3.5. Adozione e affidamenti.
Il congedo post partum può altresì essere richiesto (anche qui trattasi di diritto, e
non di obbligo/divieto) dalla lavoratrice che abbia adottato, o ottenuto in affidamento
(anche provvisorio e non soltanto preadottivo) un bambino (art. 26 co.).
La legge 24 dicembre 2007, n. 244 (legge Finanziaria 2008)255, ha modificato in
modo sostanziale il regime di tutela dei genitori lavoratori, adottivi ed affidatari,
avvicinando ancora di più le posizioni di genitori naturali e genitori adottivi, e quelle
di genitori adottivi di minore nazionale e genitori adottivi di minore straniero.
Il nuovo art. 26256, che accorpa l’art. 27 (espressamente abrogato), è così
formulato: “1. Il congedo di maternità come regolato dal presente Capo spetta, per un
periodo massimo di cinque mesi, anche alle lavoratrici che abbiano adottato un minore.
2. In caso di adozione nazionale, il congedo deve essere fruito durante i primi cinque
mesi successivi all’effettivo ingresso del minore nella famiglia della lavoratrice. 3. In
caso di adozione internazionale, il congedo può essere fruito prima dell’ingresso del
minore in Italia, durante il periodo di permanenza all’estero richiesto per l’incontro con
il minore e gli adempimenti relativi alla procedura adottiva. Ferma restando la durata
complessiva del congedo, questo può essere fruito entro i cinque mesi successivi
all’ingresso del minore in Italia. 4. La lavoratrice che, per il periodo di permanenza
all’estero di cui al comma 3, non richieda o richieda solo in parte il congedo di
maternità, può fruire di un congedo non retribuito, senza diritto ad indennità. 5. L’ente
autorizzato che ha ricevuto l’incarico di curare la procedura di adozione certifica la
durata del periodo di permanenza all’estero della lavoratrice. 6. Nel caso di
affidamento di minore, il congedo può essere fruito entro cinque mesi dall’affidamento,
per un periodo massimo di tre mesi”
La riforma (che si applica alle adozioni e agli affidamenti rispetto ai quali
l’ingresso in famiglia sia avvenuto o avvenga dopo il 1° gennaio 2008, e nel caso di
ingressi che siano avvenuti o avvengano nel 2007, ma rispetto ai quali non sia
decorso l’arco temporale di cinque mesi dall’ingresso in famiglia e comunque con
254
V. Corte cost. 14 gennaio 1987, n. 1, in Mass. giur. lav., 1987,155. Più diffusamente, v. R. Del Punta, op. cit., 743 ss.
Precisamente l’art. 2, co. 452, 453, 454. 455, 456.
256
In precedenza il congedo doveva essere fruito durante i primi tre mesi successivi all’effettivo ingresso del bambino nella
famiglia della lavoratrice (art. 26, 2° co.). Nel caso di adozioni e affidamenti (questa volta soltanto preadottivi)
internazionali (art. 27, 1° co.), il T.U. aveva integrato nella disciplina le novità della legge n. 476 del 1998. Così, il congedo
di tre mesi spettava anche se il minore adottato o affidato avesse superato i sei anni e (il punto era incerto nella precedente
formulazione) sino al compimento del 18° anno di età. Sempre in caso di adozione internazionale (art. 27, 2° co.), la
lavoratrice aveva diritto a fruire anche di un congedo di durata corrispondente al periodo di permanenza nello Stato straniero,
richiesto ai fini dell’adozione o dell’affidamento. Questo figura di congedo era anch’essa riportabile al diritto potestativo, ma
non comportava né indennità né retribuzione. Infine, questi congedi (compreso quello per recarsi all’estero), ove non
richiesti dalla lavoratrice (cui va dunque la priorità), spettavano, alle medesime condizioni, al lavoratore padre adottivo o
affidatario (art. 31, 1° e 2° co.).
255
riferimento al periodo di congedo non ancora fruito257) ha, innanzitutto, eliminato
ogni limite alla fruizione del congedo connesso all’età del minore, così che esso sarà
fruibile anche dal genitore il cui figlio abbia più di sei anni al momento dell’ingresso
in famiglia.
In caso di adozione nazionale (anche quando al momento dell’adozione il
minore si trovi in stato di affidamento preadottivo), la lavoratrice può astenersi dal
lavoro per un periodo di cinque mesi, a partire dal giorno successivo all’ingresso del
minore in famiglia.
Il congedo è indennizzato; la disposizione, infatti, richiama per intero la
regolamentazione contenuta nell’intero Capo III dedicato al congedo di maternità, e
dunque anche gli artt. 22 e ss.
Anche in caso di adozione internazionale258 la lavoratrice ha diritto a fruire del
congedo di maternità per un periodo pari a cinque mesi, in questo caso però a partire
dal giorno successivo all’ingresso del minore in Italia (anziché dal giorno successivo
all’ingresso in famiglia, che solitamente avviene nel paese di provenienza
dell’adottato), a prescindere dall’età che il minore ha all’atto dell’adozione; esso
spetta per intero anche se durante il congedo il minore raggiunga la maggiore età.
La data dell’ingresso in Italia si ricava dall’autorizzazione rilasciata dalla
Commissione per le adozioni internazionali istituita presso la Presidenza del
Consiglio dei Ministri (ai sensi dell’art. 32, legge n. 184/1983).
Ferma la durata massima di cinque mesi, la lavoratrice può fruire del congedo,
anche solo in parte, prima dell’ingresso del minore in Italia, al fine di recarsi nel
paese di origine del figlio per accoglierlo nella famiglia e concludere l’iter di adozione.
In questa fase il congedo può essere frazionato in considerazione del fatto che
possono essere necessari più viaggi nel paese estero.
Della quota di congedo non fruita prima dell’ingresso del minore in Italia, la
lavoratrice potrà godere nell’arco dei cinque mesi successivi a tale momento.
A differenza di quanto originariamente previsto, anche il periodo di congedo
fruito prima dell’ingresso del minore in Italia, oggi, è indennizzato. Tuttavia, il
legislatore consente ancora alla lavoratrice di optare, nella fase preadottiva, per la
fruizione di un congedo non retribuito, così da utilizzare il congedo di maternità
indennizzato della durata di cinque mesi interamente all’indomani dell’ingresso del
figlio in Italia (4° co.).
Come già prevedeva l’art. 27, oggi abrogato, spetta all’Ente autorizzato che ha
ricevuto l’incarico di curare la procedura di adozione certificare i periodi di
permanenza all’estero259.
Nel caso di affidamento (non preadottivo, ai sensi degli artt. 2 e ss. l. 184/1983)
la lavoratrice ha diritto ad un congedo, continuativo o frazionato, della durata di tre
mesi, da fruire nell’arco dei primi cinque mesi successivi all’ingresso del minore in
famiglia, a prescindere dall’età del minore (e dunque, diversamente da quanto
avveniva prima della modifica, anche quando il minore abbia superato i sei anni di
257
Art. 2, co. 504, l. 244/2007. Sul punto, v. circolare INPS 4 febbraio 2008, n. 16, la quale specifica anche che qualora la
lavoratrice, durante il 2008, si sia astenuta dal lavoro ad altro titolo, “potrà commutare il titolo dell’assenza in congedo di
maternità”, avendo diritto a fruire del relativo trattamento economico; a tal fine la lavoratrice deve presentare apposita
domanda entro il termine annuale di prescrizione decorrente dal giorno successivo alla fine del periodo indennizzabile a
titolo di maternità.
258
Le medesime regole valgono quando il minore al momento dell’ingresso in Italia si trovi in stato di affidamento
preadottivo (ossia quando l’adozione debba essere pronunciata dal Tribunale dei minori italiano, territorialmente
competente).
259
A questo proposito la Circolare INPS n. 16 del 4 febbraio 2008 ha precisato che la domanda di corresponsione della
relativa indennità debba essere corredata dell’attestazione dell’Ente.
età)260.
La riforma (art. 2, co. 454, legge 244/2007) ha mutato pure la posizione del
lavoratore padre adottivo o affidatario, riscrivendo l’art. 31 del d.lgs. n. 151/2001.
Oggi la disposizione prevede che “1. Il congedo di cui all’articolo 26, commi 1, 2 e 3,
che non sia stato chiesto dalla lavoratrice spetta, alle medesime condizioni, al
lavoratore. 2. Il congedo di cui all’articolo 26, comma 4, spetta, alle medesime
condizioni, al lavoratore. L’ente autorizzato che ha ricevuto l’incarico di curare la
procedura di adozione certifica la durata del periodo di permanenza all’estero del
lavoratore.”
Il padre adottivo o affidatario, dunque, può fruire del congedo di paternità
all’unica condizione che la madre non abbia richiesto a sua volta di godere del
corrispondente congedo di maternità, come disciplinato dall’art. 26 co. 1, 2 e 3261.
Peraltro, allorquando si verifichino le condizioni indicate all’art. 28 sorge il diritto
(potestativo) del padre al congedo di paternità, previa certificazione della condizione
in cui versa la madre.
In caso di adozione internazionale, il congedo di durata corrispondente al
periodo di permanenza nello Stato straniero necessario ai fini dell’adozione (art. 26 co.
4°), spetta anche al padre nella stessa misura (ossia quella necessaria e certificata
dall’ente autorizzato che cura la procedura) e alle stesse condizioni della lavoratrice:
ne discende che entrambi i genitori possono fruire di un congedo indennizzato
(all’80%) nel periodo, necessario a completare l’iter dell’adozione, di permanenza nel
paese di origine del minore.
3.6. Il trattamento dei congedi di maternità e paternità.
Dispone l’art. 22, 1° co., che per tutto il periodo del congedo di maternità, la
lavoratrice ha diritto a un’indennità pari all’80% della retribuzione, che è a carico
dell’INPS (art.22, 2° co.), o, per i lavoratori del settore pubblico, della stessa
amministrazione. Si versa quindi in un caso in cui il datore di lavoro (privato) è
sollevato dall’obbligo retributivo dall’esistenza di forme equivalenti di previdenza (cfr.
art. 2110, 1° co., c.c.)262. I contratti collettivi possono prevedere integrazioni a carico
del datore di lavoro (ad es., nei contratti pubblici, sino al 100%).
Per effetto della formulazione del primo comma (v. i riferimenti agli artt. 7, 6° co., e
12, 2° co.), che tiene conto della sentenza n. 972/1988 della Corte costituzionale, la
copertura economica può giungere sino al settimo mese dopo il parto, ossia
estendersi ai casi in cui la lavoratrice, non potendo continuare a svolgere le normali
mansioni, pregiudizievoli o rischiose per la sua salute, e non potendo neppure essere
spostata ad altre mansioni, sia costretta ad assentarsi per provvedimento della
competente sezione ispettiva del Ministero del lavoro.
L’indennità di maternità, comprensiva di ogni altra indennità spettante per
malattia, è corrisposta con le modalità e con i criteri previsti per l’indennità erogata a
carico dell’assicurazione obbligatoria contro le malattie (art. 22, 2° co.).
L’art. 23 detta una serie di criteri ai fini del calcolo dell’indennità prevista in caso
260
Anche in questo caso, per gli affidamenti avvenuti nel 2007, rispetto ai quali non sia stato fruito il congedo (ad esempio
perché il minore aveva più di sei anni), quest’ultimo può essere fruito nel 2008, pur sempre entro i primi cinque mesi dalla
data di affidamento.
261
Nel senso che il congedo al padre adottivo è dovuto anche se la madre è lavoratrice autonoma v., con un’interpretazione
estensiva dell’art. 31, Trib. Brindisi 24 ottobre 2001, ord., in Riv. it. dir. lav., 2002, II, 862, con nota di R. Nunin.
262
Nel senso che l’indennità deve essere corrisposta anche nel caso in cui la lavoratrice fosse già in stato interessante al
momento dell’assunzione e non abbia mai iniziato l’attività lavorativa, essendo passata direttamente al periodo di congedo di
maternità; e ciò anche se assunta a tempo determinato, v. Cass. 9 ottobre 1997, n. 9800.
di congedo, a cominciare da quello (1° co.) per cui per retribuzione si intende la
retribuzione media globale giornaliera del periodo di paga quadrisettimanale o
mensile scaduto ed immediatamente precedente a quello nel corso del quale ha avuto
inizio il periodo di maternità263. A tal proposito, la Corte di Giustizia europea ha
statuito che il principio della parità di retribuzione tra lavoratori e lavoratrici
comporta che nella determinazione della retribuzione, assunta a riferimento
dell’indennità di maternità, debbono essere considerati anche gli eventuali aumenti
intervenuti fra l’inizio e la fine del congedo264.
L’art. 24 prevede, a sua volta, una serie di ipotesi nelle quali è prevista la
spettanza dell’indennità di maternità, anche se il rapporto di lavoro versi in una
condizione di quiescenza, ovvero sia stato persino risolto. Così, anzitutto, in base al
testo originario dell’art. 24, 1° co., l’indennità deve essere corrisposta qualora la
lavoratrice sia licenziata durante il periodo protetto dal divieto di licenziamento, per
cessazione di attività dell’azienda o per ultimazione della prestazione per la quale la
lavoratrice è stata assunta, ovvero il suo rapporto si sia risolto, durante il periodo in
discorso, per scadenza del termine. A tali ipotesi la sentenza 3 dicembre 2001, n.
405, della Corte costituzionale, ha aggiunto quella della lavoratrice licenziata per
giusta causa, inizialmente esclusa per una malintesa ragione punitiva.
Inoltre, l’indennità spetta nel caso in cui le lavoratrici gestanti si trovino, all’inizio
del periodo di congedo di maternità, sospese (ad es. in CIG), assenti dal lavoro senza
retribuzione, ovvero disoccupate, purché tra l’inizio della sospensione, dell’assenza o
della disoccupazione e quello di detto periodo non siano decorsi più di sessanta giorni
(art. 24, 2° co.)265. Circa la disoccupazione, si suppone evidentemente che la
lavoratrice sia stata licenziata o si sia dimessa non più di sessanta giorni prima
dell’inizio del congedo di maternità, anche anticipato266; questa ipotesi può quindi
sovrapporsi, almeno in parte, con quella di cui al 1° co.
Ma anche al di là della deadline dei sessanta giorni, la lavoratrice ha titolo a
percepire l’indennità in discorso qualora ella fruisca dell’indennità di CIG (art. 24, 6°
co.), dell’indennità ordinaria di disoccupazione (art. 24, 4° co.), o dell’indennità di
mobilità (art. 24, 7° co.). Tali trattamenti sono sostituiti dall’indennità di maternità.
Quanto al regime previdenziale, per i periodi di congedo di maternità in costanza
di rapporto di lavoro, non è richiesta alcuna anzianità contributiva e v’è pieno
accreditamento di una contribuzione figurativa (art. 25, 1° co.); al di fuori del
rapporto di lavoro, invece, per conseguire la contribuzione figurativa la lavoratrice
deve poter far valere, all’atto della domanda, almeno cinque anni di contribuzione
versata in costanza di rapporto di lavoro (art. 25, 2° co.).
Il descritto trattamento economico e normativo (peraltro limitatamente al regime
“ordinario” di cui agli artt.22 e 23: v. art. 29), nonché previdenziale (art. 30), spetta
anche al padre lavoratore, qualora egli fruisca del congedo di paternità.
Non vi sono invece differenze di trattamento fra madre e padre, relativamente al
congedo in caso di adozioni e affidamenti, che vede entrambi nella medesima
263
Sul calcolo dell’indennità, e sul legittimo affidamento dell’assicurato al rispetto delle circolari emesse dall’INPS, v. Cass.
19 aprile 2007, n. 9341.
264
V. Corte Giust. CE, 30 marzo 2004, C-147/02.
265
Ai fini del computo dei sessanta giorni, non si deve tenere conto di alcuni periodi contrassegnati da qualificati eventi
sospensivi, quali le assenze per malattia o per infortunio sul lavoro (art. 24, 3° co.).
266
Peraltro, sulla base di un parere del Consiglio di Stato (n. 460/2004, reso dalla II Sez. l’11 febbraio 2004), tanto il
Ministero del lavoro (circolare n. 70/2004) quanto l’INPS (circolare n. 50/2005) hanno affermato che l’indennità di maternità
non può essere erogata dopo la cessazione del rapporto di lavoro per i periodi di interdizione (anticipata o prorogata) del
lavoro riconosciuti dalle Direzioni provinciali del lavoro secondo le lett. b) e c) dell’art. 17, 2° co., del d.lgs. n. 151/2001;
l’unica ipotesi riconosciuta, al fine, è quella della lett.a).
posizione, al di là della priorità spettante alla madre267.
I periodi di congedo in discorso debbono essere computati nell’anzianità di
servizio a tutti gli effetti268, compresi quelli relativi alla tredicesima mensilità o
gratifica natalizia e alle ferie (art. 22, 3° co.)269. Essi debbono essere altresì
considerati come periodi di attività lavorativa ai fini della progressione di carriera,
salvo che i contratti collettivi richiedano, allo scopo, particolari requisiti (art. 23, 5°
co.). Infine, i medesimi periodi non si computano ai fini del raggiungimento dei limiti
di permanenza nella lista di mobilità, di cui all’art. 7 della legge n. 223/1991, fermi
restando i limiti temporali di fruizione dell’indennità di mobilità; essi si computano,
invece, ai fini del raggiungimento del limite minimo di sei mesi di lavoro
effettivamente prestato per poter beneficiare dell’indennità di mobilità (art. 22, 4° co.).
Per quanto riguarda, infine, il rientro dai periodi di congedo di maternità e
paternità, anche anticipati (art. 56, 1° e 2° co.), la lavoratrice e il lavoratore hanno
diritto di conservare il posto di lavoro (ovvio) e, salvo che espressamente vi rinuncino
(margine concesso all’autonomia individuale), di rientrare nella stessa unità
produttiva ove erano occupate all’inizio del periodo di gravidanza, e di permanervi
fino al compimento di un anno di età del bambino. Essi hanno altresì diritto (ma la
previsione è superflua, al lume dell’art. 2103 c.c.) ad essere adibite alle mansioni da
ultimo svolte o a mansioni equivalenti.
Tali garanzie valgono anche nel caso di adozione e di affidamento, fino ad un anno
dall’ingresso del minore nel nucleo familiare (art. 56, 4° co.).
L’inosservanza delle disposizioni in tema di rientro è punita con la stessa sanzione
amministrativa prevista per la violazione di quelle relative al divieto di licenziamento,
di importo variabile fra due e cinque milioni di lire (art. 56, co. 4°-bis).
3.7. I congedi parentali.
L’istituto dei congedi parentali è uno dei più innovativi ed emblematici della
normativa introdotta dalla legge n. 53 del 2000, e successivamente condensata nel
T.U. Modificando profondamente la vecchia ”astensione facoltativa”, e portando a
termine il processo di equiparazione, ai fini de quibus, fra madre e padre, già avviato
dall’art. 7 della legge n. 903 del 1977, gli artt.32 e ss. hanno lanciato un messaggio
culturale di grande momento: quello della piena parificazione dei ruoli, all’interno
della coppia genitoriale, per quanto riguarda la cura dei figli, una volta trascorso lo
stretto periodo post-partum.
E’ ovvio che fra il messaggio e la sua traduzione capillare nella realtà delle
267
In verità, nei confronti del padre affidatario, al quale Corte cost. n. 341/1991 aveva ritenuto doveroso estendere il congedo
ex art. 7 legge n. 903/1977, l’INPS ha opposto resistenza a concedere la copertura economica, per il rilievo meramente
formale, e poco consistente, dell’abrogazione dell’art. 7 da parte della legge n. 53 del 2000.
268
Nel senso della nullità della clausola collettiva che escluda la rilevanza dei periodi di astensione obbligatoria, ora congedo
di maternità, ai fini della produzione di un effetto associato alla mera anzianità di servizio, v. Cass. 3 aprile 1993, n. 4022, in
Riv. it. dir. lav., 1994, II, 384. Ove però l’assenza abbia impedito lo svolgimento di quelle specifiche attività cui la
contrattazione collettiva ricollega l’acquisizione delle qualità professionali necessarie per l’attribuzione di una determinata
qualifica, non è esclusa la rilevanza negativa dei periodi di astensione obbligatoria: v. Cass. 27 gennaio 1989, n. 514. Sulla
necessità che la madre non sia pregiudicata nella progressione di carriera, v. anche Corte Giust. CE 16 febbraio 2006, C294/04.
269
Peraltro, le ferie, così come altre legittime assenze della lavoratrice, non possono sovrapporsi con i periodi di congedo di
maternità (art. 22, 6° co.). Ciò significa che, come affermato da Corte Giust. CE 18 marzo 2004, C-342/01, la lavoratrice in
congedo deve poter fruire in un periodo diverso delle ferie, anche in caso di coincidenza fra il congedo di maternità e la
chiusura dell’azienda per ferie collettive; aggiungendosi altresì che il diritto non è limitato alle quattro settimane di cui alla
norma comunitaria, ma al maggior periodo eventualmente stabilito dalle norme interne.
situazioni familiari e lavorative, la distanza è ancora grande. Non è un caso che i
primi dati sull’utilizzazione dell’istituto da parte dei padri siano ancora deludenti,
specialmente nel settore privato, mentre qualche segnale diverso giunge dalle
pubbliche amministrazioni270. Giocano in tal senso resistenze culturali, ostacoli
frapposti dalle imprese, differenze di partenza nei livelli di reddito. Questo bilancio
ancora carente non rende meno importante, tuttavia, il fatto che l’istituto sia stato
introdotto.
A norma dell’art. 32, 1° co., la titolarità del diritto spetta a “ciascun genitore”, il
quale ha titolo ad astenersi dal lavoro, in un arco di tempo che si estende ai primi
otto anni di vita del bambino, per un periodo massimo che, di base, è di sei mesi per
ciascuno dei due genitori. Tuttavia, qualora entrambi i genitori siano lavoratori
dipendenti da diversi datori di lavoro (o anche dal medesimo datore), e dunque siano
potenziali beneficiari del congedo, i rispettivi massimali individuali debbono
combinarsi in modo tale da non superare un massimale “di coppia” pari a dieci mesi
complessivi.
Ciò comporta, per il padre, un netto salto di qualità rispetto al meccanismo
dell’art. 7 della legge n. 903/1977, che prevedeva anch’esso una spettanza al padre
dell’astensione facoltativa iure proprio, ma condizionata alla rinuncia da parte della
madre, supposta lavoratrice subordinata, che doveva essere formalizzata in un certo
modo. Adesso l’esercizio del diritto da parte di ciascun genitore prescinde da una
rinuncia dell’altro271. Un nesso di incidenza reciproco fra i due genitori riemerge
invece sul diverso piano della quantificazione del diritto. Ciò consente ai genitori di
fruire del congedo, in certi periodi, anche assieme (e al padre anche durante il
congedo di maternità della madre), in modo da assicurare al figlio la presenza
completa della coppia.
Su questa norma si è innestato un dispositivo promozionale, finalizzato a
incentivare la fruizione del congedo da parte del padre: l’art. 32, 2° co., stabilisce che
”qualora il padre lavoratore eserciti il diritto di astenersi dal lavoro per un periodo
continuativo o frazionato non inferiore a tre mesi, (il suo massimale individuale è
elevato a sette mesi, e) il limite complessivo dei congedi parentali dei genitori è elevato
a undici mesi”. Su un simile, inedito, dispositivo, era stato sollevato inizialmente
qualche dubbio, da un punto di vista schiettamente liberale, di non ingerenza della
legge in scelte private 272; ma è da riconoscere la sussistenza di una giustificazione
sociale per una norma che rimane, comunque, meramente promozionale e non
invasiva dell’autonomia familiare.
Il descritto meccanismo di imputazione del diritto al congedo ha aperto il
problema operativo di come ottenere l’informazione, e soprattutto la prova, della
fruizione del congedo, per un dato tempo, da parte dell’altro genitore. La normativa
non ha risolto il punto, per cui la prassi si è indirizzata nel senso di richiedere una
dichiarazione non autenticata dell'altro genitore, relativa ai periodi di congedo
270
Sull’applicazione dell’istituto nel lavoro pubblico, v. la circolare Pres. Cons. Min. , Dip. Funz. Pubbl., 16 novembre 2000,
n. 14. In generale sul tema, anche per un confronto comparato, v. L. Calafà (a cura di), Paternità e lavoro, cit.
271
Un meccanismo ancora incentrato sulla fruizione del congedo da parte del padre, ma in alternativa alla madre, e dunque
sulla base di una rinuncia (formalizzata o de facto) da parte di questa, continua a valere, invece, per il diritto al
“prolungamento” del congedo parentale fino a tre anni complessivi (decorrente dal termine del periodo corrispondente alla
durata massima del congedo parentale spettante al richiedente ex art. 32), per il caso (disciplinato dall’art. 33) in cui il
minore versi in una condizione di handicap grave ai sensi dell’art. 4, 1° co., della legge 5 febbraio 1992, n. 104; ciò, a
condizione che il bambino non sia ricoverato a tempo pieno presso istituti specializzati. Peraltro anche tale congedo
prolungato, come quello dell’art. 32, spetta al genitore richiedente anche qualora l’altro genitore non ne abbia diritto.
272
V. R. Del Punta, La nuova disciplina dei congedi parentali, familiari e formativi, cit., 160 ss.
parentale fruiti o alla sua qualità di non avente titolo273. Un’alternativa potrebbe
essere di domandare l’informazione al datore di lavoro da cui è dipendente l’altro
genitore, peraltro non tenuto a fornirla.
A tale regola si fa eccezione nel caso che, come recita la lett. c) della disposizione
menzionata, “vi sia un solo genitore”, ossia una sola persona che ne eserciti
effettivamente le funzioni, che ha titolo all’intera dotazione di dieci mesi: ciò in casi
come il decesso dell’altro genitore, l’abbandono del figlio da parte di questi, il
riconoscimento del figlio da parte di un solo genitore274, o il suo affidamento esclusivo
a uno dei genitori (mutatis mutandis, sono le situazioni già considerate dall’art. 28, 1°
co.). Non rientrano nella fattispecie, invece, le ipotesi di separazione personale o
divorzio fra i due genitori, per l’ovvia ragione che tali eventi non fanno venir meno la
potestà genitoriale.
A maggior ragione, la lett. c) non può leggersi come se vi fosse scritto “qualora vi
sia un solo genitore che ne ha diritto”, per essere l’altro/a lavoratore autonomo o
professionista o imprenditore, o per non svolgere egli/ella alcuna attività lavorativa.
Per tale ipotesi, invero, l’art. 32, 4° co., ha fatto compiere un importante passo in
avanti: superando l’orientamento giurisprudenziale che escludeva la spettanza al
padre dell’astensione facoltativa qualora la madre non fosse una lavoratrice
subordinata (e non avesse rinunciato al diritto)275, esso ha stabilito, in coerenza con
l’abbandono del postulato della titolarità principale del diritto in capo alla madre, che
“il congedo parentale spetta al lavoratore richiedente anche qualora l’altro genitore non
ne abbia diritto”. In tale ipotesi, peraltro, il congedo spetta nella misura massima di
sei mesi (o, nel caso del padre, sette).
E’ altresì da puntualizzare che, come chiaramente affermato, in più luoghi,
dall’art. 32276, i periodi temporali dei quali si è trattato sin qui possono essere tanto
continuativi quanto frazionati.
Per quanto riguarda, invece, la modalità di esercizio del diritto, essa è un corollario
della natura potestativa dello stesso, tale da porre la controparte in uno stato di
soggezione, senza necessità di alcuna forma di autorizzazione o concessione da parte
di questi. Tanto si desume chiaramente dall’art. 32, 3° co., secondo cui, ai fini
dell’esercizio del diritto, il genitore è tenuto, salvo casi di oggettiva impossibilità,
semplicemente a preavvisare il datore di lavoro secondo le modalità e i criteri definiti
dai contratti collettivi, e comunque con un preavviso non inferiore a quindici giorni.
Ne segue che il titolare del congedo è libero di scegliere quando fruirne, e che il datore
non può differirne la “concessione” (che tale non è) per esigenze di servizio, purché il
lavoratore abbia rispettato il preavviso277.
Nel caso che il soggetto che fruisce del congedo cada in malattia, si può ritenere
che possa mutare il titolo dell’assenza, imputandola a malattia278.
Il congedo parentale spetta, inoltre, ai genitori adottivi ed affidatari, anche di
minore straniero. La legge n. 244/2007 (art. 2, co. 455 e 456), riformulando l’art. 36
e abrogando l’art. 37, ha apportato quelle modifiche all’originario regime di tutela279
273
Cfr. la circolare INPS 6 giugno 2000, n. 109.
V. , in termini, la circolare INPS n. 8/2003.
275
V, per tutte, Corte cost. 21 aprile 1994, n. 150, in Foro it., 1994, I, 1651.
276
V. già l’art. 8 del d.p.r. 25 novembre 1976, n. 1026.
277
In tal senso v., in un caso in cui il congedo era stato negato, a torto, al padre, per essere la madre assente per ferie, v.
Trib. Venezia 7 settembre 2001, in Lav. giur. , n. 11/2001.
278
V., in tal senso, la circolare INPS n. 8/2003.
279
Secondo l’originaria versione dell’art. 36 il congedo parentale spettava anche in caso di adozione ed affidamento nei
seguenti termini; qualora il minore adottato o in affidamento avesse avuto meno di sei anni, il congedo parentale poteva
essere fruito dai genitori fino al compimento dell’ottavo anno; qualora, invece, il minore avesse avuto un’età compresa fra i
274
idonee a portare a compimento il progetto di parificazione delle posizioni dei genitori
adottivi di minore italiano e dei genitori adottivi di minore straniero. In entrambi i
casi, infatti, come pure in quello di affidamento (anche non preadottivo), i genitori
possono fruire del congedo parentale entro i primi otto anni dall’ingresso del minore
nel nucleo familiare (ma non oltre il compimento del 18° anno di età) a prescindere
dall’età del bambino al momento dell’adozione.
Le modifiche sin qui descritte hanno comportato correttivi al regime economico e
previdenziale. Così, in base all’art. 34, 1° co. e al nuovo art. 36, 3° co., per i periodi di
congedo parentale di cui all’art. 32280, alle lavoratrici ed ai lavoratori è dovuta,
rispettivamente sino al terzo anno di vita del bambino o sino al terzo anno
dall’ingresso in famiglia, un’indennità pari al 30% della retribuzione, e ciò per un
periodo massimo complessivo tra i genitori di sei mesi281. Il relativo periodo è coperto,
a norma dell’art. 35, 1° co., dall’accredito di una contribuzione figurativa piena, in
conformità a quanto previsto per il congedo di maternità dall’art. 25, 1° co.
Per i periodi di congedo ulteriori, rispetto a quanto previsto dall’art. 34, 1° co. –
cioè eccedenti i sei mesi complessivi per coppia genitoriale, nonché per i congedi fruiti
oltre il terzo e sino all’ottavo anno di età del bambino -, l’indennità del 30% compete
nella sola ipotesi in cui il reddito individuale dell’interessato (e non già quello
familiare) sia inferiore a 2,5 volte l’importo del trattamento minimo di pensione a
carico dell’A.G.O. In questo caso la contribuzione figurativa, a norma dell’art. 35, 2°
co., è calcolata secondo un (meno favorevole rispetto al precedente) criterio
convenzionale.
Il congedo in discorso continua a comportare, pertanto, un certo sacrificio
retributivo, anche se talora i contratti collettivi, specialmente pubblici, prevedono,
quantomeno per un certo periodo, integrazioni retributive a carico del datore di
lavoro.
I periodi in esame sono computati nell'anzianità di servizio, esclusi (là dove nei
congedi obbligatori erano inclusi) gli effetti relativi alle ferie ed alla tredicesima
mensilità o alla gratifica natalizia (art. 34, 5° co.)282.
Infine, il rifiuto, l’opposizione o l’ostacolo all’esercizio dei diritti di assenza dal
lavoro a titolo di congedo parentale, sono puniti con una sanzione amministrativa, di
importo variabile tra 516 e 2.582 euro (art. 38).
Per il rientro dal congedo parentale, l’art. 56, 3° co., dispone che la lavoratrice e il
lavoratore hanno diritto alla conservazione del posto e, salvo che espressamente vi
rinuncino (ancora uno spazio lasciato all’autonomia individuale), al rientro nella
stessa unità produttiva ove erano occupati al momento della richiesta di astensione o
di congedo o in altra ubicata nel medesimo comune; hanno altresì diritto di essere
adibiti alle mansioni da ultimo svolte o a mansioni equivalenti. La differenza con il
congedo di maternità o di paternità si riduce alla mancata previsione di un diritto di
sei e i dodici anni il congedo poteva essere goduto nei primi tre anni dall’ingresso del minore in famiglia (e dunque, al limite,
fino al compimento del quindicesimo anno). La stessa diversificazione riguardava anche il diritto al trattamento economico;
sul punto era intervenuta la Circolare INPS n. 33 del 17 febbraio 2004, la quale aveva chiarito che l’indennità spettasse a) se
il minore all’atto dell’adozione avesse avuto meno di sei anni e fino al compimento di tale età, nei primi tre anni
dall’ingresso in famiglia; b) fra i sei anni e gli otto anni del minore, ma a condizione che la richiesta di fruizione del congedo
fosse stata avanzata entro i tre anni dall’ingresso del minore in famiglia; c) se il minore all’atto dell’adozione avesse avuto
un’età compresa fra i sei e i dodici anni, purché il genitore ne avesse fatto richiesta entro i primi tre anni dall’ingresso in
famiglia del minore.
280
Ad essi sono totalmente equiparati i periodi di “prolungamento” del congedo, di cui all’art. 33.
281
Quanto ai criteri di computo dell’indennità, valgono quelli previsti dall’art. 23 per il congedo di maternità, fatto salvo il 2°
co. (relativo al computo dei ratei delle mensilità aggiuntive, che non maturano durante questo congedo).
282
Si applica al congedo parentale, altresì, quanto previsto dagli artt. 22, 4°, 6° e 7° co., già considerato retro. Nel senso
dell’utilità dei periodi dell’ex-astensione facoltativa ai fini del TFR, v. Cass. 22 febbraio 1993, n. 2114.
permanenza nell’unità di provenienza sino al compimento del primo anno di età del
bambino. La garanzia cessa, insomma, nello stesso momento in cui il rientro avviene,
potendosi tornare ad esercitare, subito dopo – fatta salva l’eventuale applicazione
della normativa antidiscriminatoria -, il potere di trasferimento283.
2.8. I riposi giornalieri (e i permessi per assistenza a figli con handicap
grave).
E’ il terzo, e tradizionale, istituto del “pacchetto” delle tutele. La prima titolare del
diritto (anche come eredità dell’originario istituto dei riposi “per allattamento”) è, in
questo caso, la madre (art. 39). Il datore deve consentire alle lavoratrici madri,
durante il primo anno di vita del bambino, due periodi di riposo, di un’ora ciascuno
(che però si riduce a mezz’ora qualora la lavoratrice fruisca dell’asilo nido o di altra
unità idonea, costituiti dal datore nell’unità produttiva o nelle vicinanze di essa),
anche cumulabili durante la giornata. Il riposo è invece uno solo se l’orario
giornaliero di lavoro (si dovrebbe qui intendere l’orario praticato in quell’azienda) è
inferiore a sei ore284.
L’esercizio del diritto de quo dà titolo alla donna ad uscire dall’azienda: si tratta,
puramente e semplicemente, di un permesso, anch’esso strutturato secondo la logica
del diritto potestativo.
L’estensione dei riposi in discorso al padre lavoratore ha conosciuto varie
vicissitudini. Già la Corte costituzionale aveva dichiarato illegittimo il previgente art.
7 della legge n. 903/1977, nella parte in cui non estendeva, in via generale, e in ogni
ipotesi, al padre lavoratore, in alternativa alla madre lavoratrice consenziente, il
diritto ai riposi giornalieri previsti nel primo anno di vita del bambino285.
Sulla scia, l’art. 40 dispone che i riposi sono riconosciuti al padre lavoratore: se i
figli sono affidati al solo padre; in alternativa alla madre lavoratrice dipendente che
non se ne avvalga; qualora la madre non sia lavoratrice dipendente (si noti la
formulazione più restrittiva: non nel caso in cui la madre non ne abbia diritto, bensì
soltanto in quello in cui sia una lavoratrice, ma autonoma286); in caso di morte o di
grave infermità della madre.
Non v’è totale chiarezza sulla possibilità di fruire dei riposi in pendenza di
fruizione del congedo da parte dell’altro genitore: non ponendo la legge limitazioni
specifiche, l’ultima voce dell’INPS (interessato in quanto ente erogatore dell’assistenza
economica) è quella per cui la madre potrebbe fruire dei riposi anche durante il
congedo parentale del padre, ma il padre non potrebbe fruirne durante il congedo di
maternità, o parentale, della madre287.
La normativa ha risolto (art. 41) anche la vexata quaestio del parto plurimo. In tale
caso i periodi di riposo sono raddoppiati (anche se il parto è plurigemellare), e le ore
aggiuntive rispetto alle due normali (anch’esse due) sono fruibili anche dal padre288.
Anche l’inosservanza di tale disposizione è punita con la sanzione amministrativa di cui all’art. 56, co. 4°-bis.
Non v’è però, nella legge, un limite minimo, di guisa che un’ora di riposo spetta anche al lavoratore a part-time
orizzontale per un’ora al giorno: v. la circolare INPS 6 settembre 2006, n. 95 (sulla quale R. Nunin, Recenti chiarimenti
dell’INPS in tema di riposi giornalieri per i genitori lavoratori, in Lav. e giur. , 11/2006, 1086 ss.).
285
V. Corte cost., 21 aprile 1993, n. 179, in Foro it., 1993, I, 1333.
286
Se la madre è lavoratrice autonoma, il padre può fruire dei riposi dal giorno successivo a quello finale del periodo di
trattamento economico spettante alla madre dopo il parto: circolare INPS n. 8/2003.
287
V. la circolare INPS n. 8/2003.
288
Anche nel caso in cui la madre sia lavoratrice non dipendente: v., a correzione del precedente e più restrittivo indirizzo, la
circolare INPS 6 settembre 2006, n. 95.
283
284
I riposi in discorso spettano anche in caso di adozione e di affidamento, ma non
soltanto entro il primo anno di vita del bambino, come originariamente previsto
dall’art. 45, 1° co., bensì – per effetto della sentenza additiva 26 marzo 2003 n. 104
della Corte costituzionale289 - entro un anno dall’ingresso del minore nel nucleo
familiare. D’altra parte, nella quasi totalità dei casi, i bambini dati in affidamento
preadottivo o in adozione entrano nella famiglia quando hanno già compiuto il primo
anno di età.
Una normativa particolare (art. 42) è prevista, infine, per i riposi e i permessi
spettanti ai genitori di figli con handicap grave290. Sino al terzo anno di vita del
bambino con handicap grave e in alternativa al prolungamento del congedo parentale
sino a tre anni ex art. 33, 1° co., spettano alla lavoratrice madre o, in alternativa, al
lavoratore padre (anche se la madre non ne ha diritto: v. il 6° comma), anche adottivi,
le due ore di riposo giornaliero retribuito (peraltro con “fiscalizzazione” a carico
dell’INPS: v. infra) previste dall’art. 33, 2° co., della legge 5 febbraio 1992, n. 104 (art.
42, 1° co.).
Dopo il terzo anno, i soggetti di cui sopra, nonché colui che assiste una persona
con handicap grave, con la quale sia legata da relazioni di parentela o affinità sino al
terzo grado, hanno diritto a tre giorni di permesso mensile coperti da contribuzione
figurativa, fruibili anche in maniera continuativa, e a condizione che la persona
portatrice di handicap non sia ricoverata a tempo pieno (art. 42, 2° co., il quale rinvia
all'art. 33, 3° co., legge n. 104/1992)291.
Successivamente al raggiungimento della maggiore età da parte del figlio, il diritto
ai permessi permane, ma purché vi sia convivenza o, in assenza di convivenza,
l’assistenza al figlio sia continuativa ed esclusiva (art. 42, 3° co.). In altre parole, i
requisiti della convivenza o dell’assistenza continuativa ed esclusiva non sono
specificamente richiesti sin quando il figlio è minore, essendo evidentemente ritenuti
impliciti nella titolarità della potestà genitoriale e della connessa responsabilità.
I riposi e i permessi in discorso, che spettano anche in caso di adozione e di
affidamento di soggetti con handicap in condizione di gravità (art. 45, 2° co.), possono
essere cumulati con il congedo parentale e con il congedo per malattia del figlio (art.
42, 4° co.)292.
La retribuzione spettante per le ore di riposo e di permesso di cui al presente
paragrafo è integralmente coperta da un’equivalente indennità posta a carico dell’ente
assicuratore (art. 43, 1° co.). Essa è anticipata dal datore di lavoro, e posta a
conguaglio con gli apporti contributivi dovuti all’ente assicuratore.
289
V. in Mass. giur. lav., 2003, 454. A seguito della pronuncia, la circolare INPS 26 maggio 2003, n. 91, ha precisato che il
principio è da riferirsi sia al caso di affidamento preadottivo che provvisorio, e che i riposi devono potersi fruire, entro l’anno
dall’ingresso del minore, fino alla sua maggiore età. Per un’interpretazione anticipatoria, v. Trib. Milano 6 giugno 2002, in
Dir. prat. lav., 2002, 1987.
290
V., in generale, le circolari INPS 17 luglio 2000 n. 133 e 15 gennaio 2007, n. 14.
291
V. Cass. 16 maggio 2003, n. 7701.
292
Infine, per la lavoratrice madre o per il lavoratore padre o, dopo la morte di questi (ma anche quando questi siano
impossibilitati ad assistere il figlio handicappato perché totalmente inabile: Corte Cost. 16 giugno 2003, n. 233), per uno dei
fratelli o sorelle conviventi di soggetto con handicap grave (che abbiano titolo a fruire dei riposi e permessi di cui sopra) e,
in via prioritaria, per il coniuge convivente con il portatore di handicap (Corte cost. 8 maggio 2007, n. 158), è previsto
dall’art. 42, 5° co. (ma l’istituto è stato introdotto dalla legge Finanziaria 2001), il diritto a fruire di un congedo non
superiore a due anni (intesi come tetto complessivo per entrambi i genitori), per gravi e documentati motivi familiari, entro
sessanta giorni dalla richiesta (trattasi quindi, anche in questo caso, di un diritto potestativo). L’art. 3, 106° co. , della legge
n. 350/2003 ha soppresso le parole “almeno da cinque anni” che erano presenti nella disposizione de qua, di fatto
alleggerendo i requisiti richiesti per accedere ai riposi in questione. Per tale periodo l’INPS è tenuto a corrispondere
un’indennità pari all’ultima retribuzione ed il periodo è coperto da contribuzione figurativa, entro un massimale rivalutato
annualmente. Il congedo non è cumulabile con i tre giorni di permesso mensile, di cui all’art. 33, 3° co., legge n. 104/1992.
Su questo comma v. la circolare INPS 3 agosto 2007, n. 112.
Per le ore in questione si ha decorso dell’anzianità, esclusi gli effetti relativi alle
ferie ed alla tredicesima mensilità o gratifica natalizia, come nel congedo parentale
(art. 43, 2° co.; cfr. anche art. 39, 2° co.).
E’ prevista, altresì, una copertura contributiva parziale, calcolata secondo i criteri
convenzionali che valgono per il congedo parentale fruito da genitori a basso reddito
(art. 44, 1° co., ove si rinvia all’art. 35, 2° co., su cui retro).
L’inosservanza delle norme in materia di riposi giornalieri (e non anche di
permessi, non essendo richiamato l’art. 42) è punita con una sanzione
amministrativa di importo variabile tra uno e cinque milioni di lire (art. 46).
La legge 24 dicembre 2003, n. 350 (Finanziaria 2004), art. 3, 105° co., ha
introdotto ex novo l’art. 42-bis, in base al quale il genitore con figli minori fino a tre
anni di età293, dipendente di amministrazioni pubbliche (ex art. 1, 2° co., d.lgs. n.
165/2001294) può essere assegnato, qualora lo richieda, ad una sede di servizio
ubicata nella stessa provincia o regione nella quale l’altro genitore esercita la propria
attività lavorativa. Il diritto al trasferimento è subordinato alla sussistenza di un
posto vacante e disponibile di corrispondente posizione retributiva e previo assenso
delle amministrazioni di provenienza e destinazione; l’eventuale dissenso deve essere
motivato. Il trasferimento non è definitivo, potendo protrarsi al massimo per tre anni,
e il posto (temporaneamente) lasciato libero non può essere coperto con una nuova
assunzione.
3.9. I congedi per la malattia del figlio.
Per questi permessi, o congedi che dir si voglia, esisteva già, precedentemente alla
legge n. 53 del 2000, un regime di alternatività fra i genitori, ma nella versione
limitata dell’art. 7 legge n. 903 del 1977, oggi abrogato. In virtù del nuovo art. 47,
entrambi i genitori, alternativamente, hanno diritto di astenersi durante le malattie di
ciascun figlio di età non superiore a otto anni.
Qualora il figlio abbia sino a tre anni di età, il congedo è accordato senza
limitazioni temporali (primo comma); fra i tre e gli otto anni, nel limite di cinque
giorni lavorativi all’anno per ciascun genitore (2° co.). Il congedo spetta anche se
l'altro genitore non ne ha diritto (6° co.).
Per dare conto della malattia, l’interessato ha l’onere di presentare una conforme
certificazione medica, rilasciata da un medico specialista del S.S.N. o con esso
convenzionato (3° co.). Il fatto che la norma richiedesse, già nella versione di cui alla
legge n. 53/2000, la certificazione di uno specialista pubblico faceva pensare che
essa avesse risolto negativamente la questione, già molto dibattuta, relativa alla
possibilità di una visita fiscale: in effetti, l’art. 47, 5° co., ha chiarito che ai congedi in
questione non si applicano le disposizioni sul controllo della malattia del lavoratore.
La malattia del bambino, che dia luogo a ricovero ospedaliero (la nozione è qui più
ristretta di quella corrente295) interrompe il decorso del periodo di ferie in godimento
da parte del genitore, a richiesta di questi (4° co.). Evidentemente, il fatto del ricovero
dovrà essere documentato al datore di lavoro.
293
Secondo Trib. Lecce 30 giugno 2005, il compimento dei tre anni vale solo come termine ultimo entro il quale deve essere
presentata l’istanza e non indica il limite entro il quale deve necessariamente concludersi l’assegnazione provvisoria).
294
Ma la disposizione è stata ritenuta applicabile anche alle Forze di Polizia (TAR Marche 23 marzo 2004), nonostante che
esse siano destinatarie di una legislazione speciale che non consentirebbe di transitare temporaneamente in amministrazioni
diverse da quella di appartenenza, e ai Magistrati (TAR Lazio, sez. I, 4 gennaio 2006, n. 57, D&G, 2006, 56), mentre ne sono
stati espressamente esclusi il personale della Guardia di finanza (Cons. St., 10 luglio 2007, n. 3876) e dei Carabinieri (Cons.
St., 28 dicembre 2005, n. 7472, in Foro amm., 2005, 3625).
295
V. retro, § 2.1.
Ai fini della fruizione del congedo, la lavoratrice ed il lavoratore sono tenuti a
presentare una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà attestante che l’altro
genitore (ove possibile titolare del congedo) non è assente dal lavoro negli stessi giorni
per il medesimo motivo (art. 51)296.
Una novità è rappresentata dalla spettanza dei congedi in questione anche in caso
di adozione e di affidamento. Ricostruendo la disciplina dettata, al riguardo, dall’art.
50, risulta che:
a) il congedo illimitato spetta nel caso di minori sino a sei anni, e non tre, di
età;
b) fra i sei e i dodici anni, il congedo spetta nei limiti di cinque giorni lavorativi
all’anno. Tuttavia, essendo contemporaneamente previsto che qualora,
all’atto dell’adozione o dell’affidamento, il minore abbia un’età compresa fra i
sei e i dodici anni, il congedo è fruito, nei limiti già detti, nei primi tre anni
dall'ingresso del minore nel nucleo familiare, in pratica il congedo potrà
essere fruito sino alle soglie del 15°anno di età del minore.
I congedi in oggetto non danno titolo a retribuzione, ma debbono essere
computati (art. 48, 1° co.) nell’anzianità di servizio, esclusi gli effetti relativi alle ferie
e alla tredicesima mensilità o gratifica natalizia (come accade nel caso del congedo
parentale e dei riposi giornalieri)297.
E’ previsto, peraltro, l’accredito di una contribuzione figurativa piena fino al terzo
anno di età del bambino (art. 49, 1°co.); e, fra il terzo e l’ottavo anno, una copertura
contributiva parziale, calcolata secondo i già noti criteri convenzionali (art. 49, 2° co.,
con rinvio all’ art. 35, 2° co.).
Il rifiuto, l’opposizione o l’ostacolo all’esercizio dei diritti di assenza dal lavoro di
cui al presente capo sono puniti con una sanzione amministrativa di importo
variabile tra uno e cinque milioni di lire (art. 52).
3.10. Il divieto di licenziamento.
La tutela della lavoratrice madre nei confronti del licenziamento si fonda su
tecniche diverse. Va da sé, anzitutto, che durante i congedi, ed in specie in quello
“obbligatorio”, la lavoratrice (o il lavoratore) è titolata(o) ad assentarsi legittimamente
dal lavoro. Al di là di questo primo ed auto-evidente dato, è contemplato a favore della
lavoratrice (nonché del lavoratore, ma nel solo caso di fruizione del congedo di
paternità: art. 54, 7° co.) un divieto speciale di licenziamento, a valere dall’inizio del
periodo di gravidanza sino al compimento di un anno di età del bambino (art. 54, 1°
co.). E’ il periodo durante il quale la gestante o la madre, da un lato, e il
nascituro/bambino, dall’altro, abbisognano di una particolare protezione, e la
lavoratrice, nel contempo, è esposta al rischio di un licenziamento ritorsivo o
semplicemente dettato da considerazioni di pura efficienza organizzativa. Il divieto di
recesso non è quindi circoscritto, come nella malattia, ai periodi di assenza della
lavoratrice.
Il divieto298 opera, sin dalla legge n. 1204 del 1971, in connessione con lo stato
oggettivo di gravidanza (conosciuto o meno dalla stessa lavoratrice), ma la lavoratrice,
licenziata nel corso del divieto, è tenuta a presentare al datore di lavoro idonea
296
Cfr. la circolare Pres. Cons. Min., Dip. Funz. Pubbl., 16 novembre 2000 n. 14.
Si applica, altresì, quanto previsto dai co. 3°, 4° e 5° dell’art. 35 (art. 49, 3° co.).
298
Su cui, fra i più recenti commenti dottrinali, v. G.Vidiri, La “riscrittura” del divieto di licenziamento della lavoratrice
madre, in Mass. giur. lav., 2003, 320.
297
certificazione dalla quale risulti l’esistenza, all’epoca del licenziamento, delle
condizioni che lo vietavano (art. 54, 2° co.)299.
Il divieto vale, altresì, in caso di adozione e di affidamento, ove vi sia fruizione del
congedo di maternità o di paternità, e fino ad un anno dall’ingresso del minore nel
nucleo familiare (art. 54, 9° co.).
Sono tradizionalmente previste alcune eccezioni, da ritenersi tassative, al divieto:
a) colpa grave da parte della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione
del rapporto di lavoro. Secondo la giurisprudenza, ai fini occorre una colpa grave
particolarmente qualificata, che tenga conto delle condizioni psico-fisiche della
lavoratrice300;
b) cessazione dell’attività dell’azienda cui la lavoratrice è addetta. E’ da sempre
dibattuto se la cessazione debba essere, oltre che effettiva301, totale, come la
giurisprudenza sembrava essere giunta a ritenere (cfr. anche l’art. 54, 4° co., ult.
inciso, che per tale ipotesi rimuove il divieto di collocamento in mobilità della
lavoratrice), superando la tesi secondo cui sarebbe sufficiente, ai fini, anche solo la
cessazione dell’attività di un reparto autonomo dell’azienda302. Ma ha conosciuto una
ripresa, da ultimo, la tesi del reparto autonomo, peraltro corretta dall’attribuzione al
datore di lavoro dell’onere di dimostrare l’inutilizzabilità della lavoratrice in altra
struttura303;
c) ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o
risoluzione del rapporto di lavoro per la scadenza del termine. Laddove nella seconda
delle ipotesi menzionate, non siamo propriamente di fronte ad un licenziamento, ma
ad un’estinzione naturale del rapporto, nella prima sembrerebbe lasciarsi uno
spiraglio per un possibile licenziamento per giustificato motivo oggettivo, motivato
dalla ragione ivi indicata;
d) licenziamento per esito negativo della prova, pur restando fermo (come la norma
ha, superfluamente, ribadito), il divieto di discriminazione304.
Il licenziamento intimato durante il periodo di divieto, e senza che ricorrano le
eccezioni di cui sopra, deve ritenersi nullo, secondo un principio già affermato da una
famosa sentenza della Corte costituzionale, ed ora positivamente ribadito (art. 54, 5°
299
Peraltro, proprio in ragione della valenza oggettiva dello stato di gravidanza, l’omesso invio del relativo certificato non
esclude la nullità dl recesso, e neppure il diritto della lavoratrice ad ottenere il risarcimento dei danni qualora il datore di
lavoro fosse di fatto a conoscenza della gravidanza e poi anche del parto: v. Cass. 16 febbraio 2007, n. 3620, in Foro it.,
2007, I, 1453. A parte la conoscenza di fatto, le retribuzioni pregresse maturano a decorrere dalla presentazione del
certificato di gravidanza: v. Cass. 1° febbraio 2006, n. 2244. Non rileva, invece, la mancata richiesta di ripristino del
rapporto: v. Cass. 12 gennaio 2005, n. 426. Peraltro, secondo Trib. Milano 16 aprile 2002, in Riv. crit. dir. lav., 2002, 617,
secondo cui, qualora la lavoratrice non offra al datore la propria prestazione le compete esclusivamente il trattamento che le
sarebbe spettato nel periodo di interdizione obbligatoria.
300
V., ad es., Cass. 11 giugno 2003, n. 9405; Cass. 6 luglio 2002, n. 9864, negandosi che costituisca colpa grave il
comportamento della lavoratrice gestante o puerpera che, al momento dell’assunzione con contratto a termine, non porti a
conoscenza del datore di lavoro il suo stato (secondo i principi affermati da Corte Giustizia CE, 4 ottobre 2001, C-109/00);
Cass. 21 settembre 2000, n. 12503; Trib. Vicenza 10 ottobre 2000, in Guida al lav., n. 36/2001.
301
Nel senso che non è sufficiente, al fine, la mera messa in liquidazione della società, v. Cass. 5 giugno 1996, n. 5221.
302
V. Cass. 7 febbraio 1992, n. 1334; Trib. Sassari 5 agosto 1998; Pret. Monza-Desio 8 novembre 1994; Pret. Napoli 12
maggio 1992. Per la precedente lettura estensiva dell’espressione “cessazione di attività”, v. Cass. 24 aprile 1990, n. 3431,
peraltro non ravvisando gli estremi dell’eccezione al divieto di licenziamento in un caso in cui v’era stata una mera
trasformazione in ospizio per anziani dell’istituto scolastico ove prestava servizio la lavoratrice; Pret. Roma 22 novembre
1991.
303
V. Cass. 16 febbraio 2007, n. 3620; Cass. 21 dicembre 2004, n. 23864.
304
Un principio da coordinare, peraltro, con quello per cui il decorso temporale del patto di prova rimane sospeso durante la
fruizione del congedo, tanto obbligatorio quanto facoltativo, di maternità.
co.). Le conseguenze di tale nullità sembrano derivabili dal diritto comune305, a meno
di abbracciare (ma certamente non per porre restrizioni dimensionali al divieto) la tesi
della “forza espansiva” dell’art. 18 St. lav.
Durante il periodo nel quale opera il divieto di licenziamento, la lavoratrice non
può neppure essere sospesa dal lavoro, salvo che sia sospesa l’attività dell’azienda o
del reparto cui essa è addetta, sempreché il reparto abbia autonomia funzionale (art.
54, 4° co.).
Alla tecnica del divieto, l’art. 54, 6° co., ne affianca un'altra, che non è altro che
l’applicazione, nel contesto, della tutela antidiscriminatoria. Si predica, infatti, che è
nullo il licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale
e per la malattia del bambino da parte della lavoratrice e del lavoratore. Il relativo
onere della prova rimane a carico della presunta vittima della discriminazione. Fra
l’altro, la legge fa riferimento specifico al caso di un licenziamento intimato per
ritorsione nei confronti della pretesa di esercitare i diritti al congedo parentale e a
quello per malattia del bambino: ma, da un lato, tali diritti possono essere esercitati
anche durante l’anno coperto dal divieto, e, dall’altro, nullità del licenziamento (o di
altri atti gestionali, come una sospensione, un mutamento di mansioni, un
trasferimento, una sanzione disciplinare conservativa) può aversi, tutte le volte che, a
prescindere dalla domanda o dalla fruizione dei congedi in questione, essi siano stati
determinati dalla maternità o dalla paternità, ed abbiano avuto, come tali, un
carattere discriminatorio.
Infine, l’inosservanza delle disposizioni in tema di divieto di licenziamento è punita
con una sanzione amministrativa di importo variabile fra 1.032 e 2.582 euro (art. 54,
8° co.)306.
3.11. Le dimissioni della lavoratrice madre.
Il regime delle dimissioni della lavoratrice madre presenta due significative
particolarità.
Anzitutto, durante il periodo coperto dal divieto di licenziamento, oltre a non
essere tenuta al preavviso (art 55, 5° co.), la lavoratrice dimissionaria ha diritto
all’indennità sostitutiva del preavviso, come se fosse stata licenziata, o se si fosse
dimessa per giusta causa (art. 55, 1° co.).
Il riconoscimento di questa provvidenza economica (perché di questo si tratta) non
appare giustificato, peraltro, nel caso in cui la lavoratrice si dimetta, semplicemente
per passare ad un altro, e magari più lucroso, posto di lavoro307.
Tale regime vale anche per il padre che abbia fruito del congedo di paternità (art.
55, 2° co.), nonché (per madre o padre) nel caso di adozione o di affidamento, entro
un anno dall’ingresso del minore nel nucleo familiare (art. 55, 3° co.).
La seconda particolarità, a scioglimento di una questione che tanto aveva fatto
discutere, è quella per cui la richiesta di dimissioni presentata dalla lavoratrice,
durante la gravidanza, e dalla lavoratrice o dal lavoratore durante il primo anno di
305
V. Cass. 2 dicembre 2002, n. 17079 (pur precisando, in un caso in cui v’era stata cessazione sopravvenuta dell’attività
aziendale, che il risarcimento del danno deve essere accordato sino a tale momento); Trib. Monza 31 ottobre 2001, in Riv.
crit. dir. lav., 2002, 94.
306
Non è ammesso, in questo caso, il pagamento in misura ridotta ex art. 16 legge 24 novembre 1981, n. 689.
307
V., infatti, Cass. 19 agosto 2000, n. 10994, secondo cui resta esclusa la spettanza dell’indennità sostitutiva del preavviso
nel caso in cui il datore provi che la lavoratrice ha, senza intervallo di tempo, iniziato un nuovo lavoro, e il lavoratore non
provi che esso è meno vantaggioso di quello precedente non soltanto dal punto di vista della retribuzione, ma anche delle
mansioni, della distanza dalla sede di lavoro, etc.
vita del bambino o nel primo anno di accoglienza del minore adottato o in
affidamento, deve essere convalidata dal servizio ispettivo del Ministero del lavoro,
competente per territorio (art. 54, 4° co.).
A detta convalida, che serve ad accertare la genuinità della volontà di recesso, è
condizionata la risoluzione del rapporto di lavoro. In mancanza di essa, pertanto, le
dimissioni non produrranno effetti, il che farà maturare, purché vi sia stata offerta
della prestazione secondo le forme d’uso, il diritto della lavoratrice alle retribuzioni
medio tempore spettanti.
4. Il servizio militare.
Il servizio militare costituisce un'ipotesi paradigmatica di impossibilità della
prestazione lavorativa, determinata dall'adempimento del dovere prevalente di difesa
della Nazione, sancito dall'art. 52 Cost.308. Un adempimento che non deve
”pregiudica(re) la posizione di lavoro del cittadino”: è il principio309 alla base della
legislazione volta a proteggere i diritti dei lavoratori chiamati ad adempiere gli
obblighi militari.
La legislazione in discorso garantisce, in primis, il diritto del lavoratore in servizio
militare alla conservazione del posto. Tuttavia, come precisato dalla Corte
costituzionale, il concetto di posizione di lavoro “non deve essere considerato
equivalente a quello di posto di lavoro, così da attribuire alla norma costituzionale il
solo significato di garanzia di conservazione dell'occupazione; è un concetto molto più
ampio, che comprende senza dubbio anche il diritto all'indennità di anzianità, quale
che sia la natura o la funzione di tale indennità, e la misura”310. Nondimeno si esclude,
di solito, che nella garanzia costituzionale sia compresa la tutela del diritto alla
retribuzione (o ad un'indennità equivalente) del prestatore, conseguendone che tra gli
effetti quiescenti può legittimamente esservi - e de iure condito vi è - anche quello
retributivo311.
La giurisprudenza ordinaria aveva fatto applicazione dell'art. 52 Cost. anche con
riferimento alla fase prodromica alla costituzione del rapporto di lavoro, facendone
derivare, ad es., la nullità delle clausole di bandi di concorso che richiedevano
l'esenzione dagli obblighi di leva312, secondo un principio poi recepito dal diritto
positivo313.
La normativa in discorso è sempre stata dettata, per larga parte, da leggi speciali:
le leggi 10 giugno 1940, n. 653, poi estesa al personale con qualifica operaia da una
308
V., in generale, M. Dell'Olio, Sospensione del rapporto di lavoro, cit. , 22; R. Del Punta, La sospensione del rapporto di
lavoro, cit., 759 ss.; M. Papaleoni, Servizio militare e rapporto di lavoro, in Mass. giur. lav., 1984, 237; P. Sandulli, Servizio
militare (Trattamento dei lavoratori), in Noviss. dig. it., XVII, Torino, 1970, 201 ss., nonché in Appendice, 1987, 179 ss. Per
il riferimento all’“inesigibilità”, v. P. Ichino, Il tempo della prestazione nel rapporto di lavoro, I, cit., 95; M. J. Vaccaro, La
sospensione del rapporto di lavoro, cit., 9.
309
Sulla precettività dell'art. 52, v. Cass. 16 gennaio 1987, n. 345, in Riv. it. dir. lav. , 1987, II, 475.
310
V. Corte cost. 8 gennaio 1963, n. 8, in Mass. giur. lav. 1963, 9, con nota di A. Sermonti.
311
V. infatti Corte cost., 14 luglio 1988, n. 802, in Foro it., 1988, I, 3171, che proprio argomentando da ciò aveva ritenuto
legittimo il mancato computo del servizio di leva ai fini del trattamento di fine rapporto. Nello stesso senso, v. Cass. n.
345/1987, cit. V. però la voce dissonante di Corte cost. 16 ottobre 1990, n. 457, in Foro it. 1990, I, 3361, secondo la quale
l'art. 52, 2° co., Cost., imponeva di conservare la retribuzione piena ”non solo nel periodo di svolgimento del servizio
militare (per richiamo alle armi, n.d.a.), ma anche per i giorni della visite mediche dirette ad accertare l'idoneità del
prestatore richiamato alle armi all'adempimento del servizio militare”.
312
V., in tal senso, Cass. n. 345/1987, cit.; Cass. 26 settembre 1986, n. 5769.
313
V. l'art. 22, 4° co., della l. 24 dicembre 1986, n. 958.
sentenza della Corte costituzionale314, e 3 maggio 1955, n. 370, oltre all'art. 2111, 2°
co., c.c. (ove sono richiamati il 1° e il 3° co. dell'art. 2110), sul richiamo alle armi; il
d.c.p.s. 13 settembre 1946, n. 303 (ratificato con l. 5 gennaio 1953, n. 35) sul servizio
di leva, il cui art. 1, ponendo il principio della sospensione del rapporto anche nei
confronti dei lavoratori chiamati ad adempiere il servizio di leva, aveva abrogato
implicitamente il 1° co. dell'art. 2111, che viceversa aveva previsto, per tale ipotesi,
l’opposta regola della risoluzione del contratto di lavoro. Questa normativa era stata
estesa agli obiettori di coscienza che svolgevano servizio sostitutivo civile ed a coloro
che si dedicavano al servizio di volontariato civile nei paesi in via di sviluppo315.
Lo scenario è mutato, peraltro, a seguito della ”sospensione” - in realtà, abolizione
– del servizio di leva, in virtù della legge 23 agosto 2004, n. 226. L’unica ipotesi
attuale è ormai, dunque, quella del richiamo alle armi, che comprende tutte quelle
forme di diversa imposizione del servizio militare, segnatamente per mobilitazione,
istruzione, controllo o altri motivi (art. 119 ss., d.p.r. 14 febbraio 1964, n. 237)316. Il
che non esclude, posto che la disciplina delle due sotto-ipotesi presentava forti
omogeneità, che soluzioni giurisprudenziali adottate per il servizio di leva possano
avere rilevanza per l’unica ipotesi che è sopravvissuta.
Il lavoratore richiamato alle armi (art. 1, 4° co., l. n. 653/1940, esteso agli operai
in forza della menzionata sentenza costituzionale, e art. 5, 2° co., l. n. 370/1955) ha
diritto alla conservazione del posto per tutta la durata del rapporto di lavoro317.
Questo diritto comprende sia il diritto di assentarsi legittimamente dal lavoro in
presenza di tali eventi, che quello di non essere sottoposto a licenziamento durante
tali periodi, per quanto risulta, in particolare, dall'art. 5, 2° co., l. n. 370/1955318.
Ma, come nelle altre situazioni sospensive, il divieto di licenziamento soffre di
eccezioni: la commissione da parte del lavoratore di un fatto costituente giusta causa
di recesso (art. 5, 2° co., l. n. 370/1955)319; la ”cessazione completa dell'attività
dell'azienda”320 e la chiusura del fallimento, sempre che non vi sia continuazione
dell'attività di impresa. Per il caso di risoluzione del rapporto di lavoro per scadenza
del termine, la normativa è sempre stata foriera di incertezze, in quanto l'art. 29, 1°
co., l. n. 653/1940, prevede l'estinzione del contratto solamente per il rapporto che il
disposto denomina ”stagionale”, sancendosi invece la sospensione della decorrenza
del termine in caso di semplice ”rapporto a termine” (2° e 3° co.), all'epoca liberamente
pattuibile, purché la specialità del rapporto lo giustificasse. È stato perciò sostenuto
che la regola riferita dalla legge ai rapporti “stagionali”, dovrebbe applicarsi a molte
delle ipotesi giustificative dell’apposizione del termine, previste un tempo dalla legge
18 aprile 1962, n. 230321, ed allo stato (tramite una clausola generale) dal d.lgs. 6
314
V. Corte cost. 4 maggio 1984, n. 136, in Mass. giur. lav. 1984, 260.
V. art. 7, 2° co., l. 15 dicembre 1972, n. 772, e art. 33, 1° co., lett. c), l. 26 febbraio 1987, n. 49.
316
Rientrano nella nozione di richiamo alle armi anche le particolari ipotesi previste dall'art. 2, 2° co., l. n. 653/1940, e
dall'art. 5, ult. co., l. n. 370/1955.
317
Si tenga presente, al riguardo, che Corte cost. 16 maggio 1984, n. 144, in Mass. giur. lav., 1984, 236, aveva dichiarato
illegittimo l'art. 2 d.p.c.s n. 303/1946, ove prevedeva che la tutela sospensiva trovasse applicazione soltanto verso i lavoratori
che, anteriormente alla chiamata di leva, fossero alle dipendenze dello stesso datore di lavoro da oltre tre mesi.
318
Cfr. R. Del Punta, op. ult. cit., 791.
319
Per un caso di ritenuta legittimità del licenziamento di un lavoratore, che durante il servizio militare era stato condannato
per detenzione di hashish: Cass. 3 febbraio 1996, n. 923, in Foro it. , 1996, I, 851.
320
Nel senso che tale cessazione deve essere totale, non essendo sufficiente la chiusura di un ramo sia pure autonomo
dell'azienda, o la riduzione, anche rilevante, dell'attività: v. Cass. 10 aprile 1954, n. 1140, in Riv. dir. lav. 1955, II, 19; Pret.
Venezia 25 gennaio 1974, in Foro it., 1975, I, 500. Per un caso di licenziamento per riduzione di personale giudicato
temporaneamente inefficace verso un dipendente in servizio di leva, v. Pret. Trino Vercellese 10 novembre 1977, in Or. giur.
lav., 1978, 591.
321
In tal senso, v. P. Sandulli, op. cit., I ed., 206; ancor più decisamente, v. R. Del Punta, op. ult. cit., 800 ss.
315
settembre 2001, n. 368322.
In ordine alle tecniche sanzionatorie che garantiscono l'effettività del regime di
conservazione del posto, si è ritenuto passibile di nullità il licenziamento motivato,
più o meno occultamente, dal servizio militare323, e di inefficacia temporanea (come
per la malattia e l'infortunio) il licenziamento determinato da altri motivi, ma intimato
durante il periodo vietato324.
Una volta terminato il servizio militare, il lavoratore deve porsi a disposizione del
datore di lavoro entro un termine che varia da cinque a quindici giorni in proporzione
alla durata del richiamo (art. 5, legge n. 370/1955)325. Nel caso di mancata messa a
disposizione nei termini, fatto salvo un ”giustificato impedimento”326, in caso di
richiamo alle armi il dipendente è considerato dimissionario327. L'obbligo di porsi a
disposizione entro il termine di cui sopra presuppone, comunque, che il militare
abbia ottenuto il foglio di congedo illimitato, essendo irrilevante, ai fini della
decorrenza del termine predetto, la retrodatazione del congedo in forza di particolari
disposizioni interne impartite dall'autorità militare328.
Un trattamento economico, di natura previdenziale (pari alla intera retribuzione per
i primi due mesi, e alla differenza fra il trattamento erogato dall'amministrazione
militare e la retribuzione precedentemente goduta, per il restante periodo), a carico di
un’apposita Cassa, è previsto dagli artt.1 e 3 della legge n. 653/1940; con
assorbimento, di fatto, dell'obbligo retributivo previsto dall'art. 2110, 1° co., ripreso
dal 2° co. dell'art. 2111.
La legge prevede, infine, il decorso dell'anzianità di servizio (art. 1, 4° co., legge n.
653/1940, oltre al richiamato art. 2110, 3° co.), peraltro con rilevanza limitata a
quelle situazioni giuridiche (come gli scatti di anzianità329) non contemplanti la
prestazione di un effettivo servizio330. E’ da escludere anche la maturazione del diritto
alle ferie331.
5. Aspettative e permessi per funzioni pubbliche.
Sono qui presi in esame alcuni istituti, genericamente accomunati dall’essere
finalizzati a consentire ai lavoratori subordinati l’espletamento di funzioni pubbliche,
variamente identificate e modulate.
Trattasi, in primis, degli istituti previsti in origine dagli artt. 31 e 32 St. lav. (ma
l’art. 32 è stato soppiantato, prima dalla legge n. 816/1985, e poi dal vigente d.lgs. n.
322
Sulla proroga del termine del contratto di inserimento in caso di servizio militare o civile, come eredità del principio già
posto dalla Consulta per i superati contratti di formazione e lavoro, v. l’art. 57, 2° co., d.lgs. n. 276/2003.
323
V., in tal senso, R. Del Punta, op. ult. cit., 793; P. Sandulli, op. ult. cit., 204.
324
V., in tal senso, Cass. 8 luglio 1997, n. 6171; Cass. 13 dicembre 1995, n. 12741, in Riv. it. dir. lav., 1996, II, 519, ove si è
ritenuto inefficace il licenziamento del lavoratore per scadenza dei termini previsti dal c.f.l.; Cass. 21 ottobre 1954, n. 3952,
in Riv. giur. lav. 1955, II, 103, con nota (su altro aspetto) di U. Natoli; R. Del Punta, op. ult. cit., 793; a favore della
soluzione della nullità anche in tale ipotesi, P. Sandulli, op. ult. cit., 204.
325
Tra la fine del richiamo e l'inizio dell'attività lavorativa non corre, ovviamente, il diritto alla retribuzione: v. Trib. Palermo
6 novembre 1992, in Not. giur. lav., 1993, 710.
326
Come una malattia: v. Cass. 28 aprile 1955, n. 1185, in Foro it. 1956, I, 1863.
327
Sul problema se il lavoratore considerato dimissionario debba alla controparte l'equivalente del preavviso v., in senso
positivo, M. Papaleoni, op. ult. cit., 239, nt. 7; negativo, R. Del Punta, op. ult. cit., 796.
328
Cfr. Cass. 11 giugno 1991, n. 6589.
329
V., pur con riguardo al servizio di leva, Cass. 19 novembre 2001, n. 14482, in Riv. it. dir. lav., 2002, I, 869. In dottrina, v.
R. Del Punta, op. ult. cit., 805; M. Papaleoni, op. ult. cit., 246; P. Sandulli, op. cit., II ed., 181.
330
Sempre sul servizio di leva, v. Cass. 25 gennaio 1986, n. 507, in Giust. civ., 1986, I, 1355, a censura di Trib. Napoli 21
luglio 1983, in Lav. '80, 1984, 204, con nota favorevole di G. Vidiri.
331
V. P. Sandulli, op. ult. cit., 181.
267/2000), al fine di stabilire che i lavoratori chiamati a funzioni pubbliche elettive
possano fruire di aspettative o permessi, variamente denominati, sì da rendere
compatibile l'esercizio di alcuni diritti politici con la condizione di lavoro
subordinato. Ciò a guisa di implementazione dell'art. 51 della Cost., secondo cui ”chi
è chiamato a funzioni pubbliche elettive ha diritto a disporre del tempo necessario al
loro adempimento e di conservare il suo posto di lavoro”332. Venendosi a determinare,
in ragione degli istituti in esame, una sospensione o comunque una rilevante
modificazione delle normali modalità di attuazione del rapporto di lavoro
subordinato, il prestatore è esonerato, in corrispondenza, dall'adempimento della
prestazione lavorativa, con l'ulteriore beneficio, nell'ipotesi di cui al 1° co. dell'art. 32,
della corresponsione della retribuzione.
In seconda battuta, sono riconducibili a questa categoria i permessi previsti per
dar modo ai lavoratori subordinati, che intendano farlo, di prendere parte, come
presidenti, segretari o semplici componenti di seggio, alle operazioni elettorali,
rendendo così possibile l’effettuazione delle medesime, a beneficio del sistema
democratico nel suo insieme.
5.1. L'aspettativa per funzioni pubbliche elettive.
L’art. 31 St. lav., che in origine prendeva in considerazione ”i lavoratori che siano
stati eletti membri del Parlamento nazionale o di assemblee regionali ovvero siano
chiamati ad altre funzioni pubbliche elettive”, ha visto successivamente ampliato il
proprio ambito precettivo, sì da comprendere i consiglieri circoscrizionali333, i membri
del Parlamento europeo334, i presidenti, assessori e consiglieri delle comunità
montane335, i dipendenti di enti pubblici non economici336, i componenti dei comitati
regionali di controllo sugli atti dei comuni e delle province337.
Con riferimento specifico alle amministrazioni locali, è poi intervenuto il Testo
Unico emanato con d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, il quale, espressamente abrogando
la legge 27 dicembre 1985, n. 816, nel frattempo intervenuta sulla materia, ha
previsto la possibilità di collocamento in aspettativa, per il periodo necessario
all’espletamento del mandato, per i ”sindaci, anche metropolitani, i presidenti di
province, i consiglieri dei comuni anche metropolitani e delle province, i componenti
delle giunte comunali, metropolitane e provinciali, i presidenti dei consigli comunali,
metropolitani e provinciali, i presidenti, i consiglieri e gli assessori delle comunità
montane, i componenti degli organi delle unioni di comuni e dei consorzi fra enti locali,
nonché i componenti degli organi di decentramento” (art. 77, 2° co.), per ”i componenti
dei consigli di amministrazione delle aziende speciali anche consortili” (art. 87), e per i
componenti dei Co.Re.Co. (art. 130).
Sulla base della generica dizione dell'art. 31 St. lav., che include nella categoria
dei possibili beneficiari dell’aspettativa anche i lavoratori ”chiamati ad altre funzioni
332
V. i commenti sub artt. 31 e 32, in A. Freni-G. Giugni, Lo Statuto dei lavoratori, 1971, e in Commentario dello Statuto
dei lavoratori, diretto da G. Prosperetti, Milano, 1975; M. Cinelli, I permessi nelle vicende del rapporto di lavoro, cit.; R.
Del Punta, Permessi ed aspettativa del lavoratore, in Enc. giur. Treccani, XXIII, Roma, 1990.
333
V. art. 18, l. n. 278/1976, poi abrogata dalla l. 241/1990.
334
V. art. 2, 2° co., l. n. 384/1979.
335
V. l. n. 93/1981.
336
V. art. 2, l. n. 816/1985.
337
Gli ultimi due commi dell'art. 42, l. n. 142/1990, Ordinamento delle autonomie locali, stabilivano che il presidente ed il
vicepresidente del comitato, se dipendenti privati, fossero collocati in aspettativa non retribuita, e che i componenti del
comitato usufruissero dei permessi e delle aspettative così come previste per gli amministratori locali.
pubbliche elettive”, si ritengono titolati al diritto anche i lavoratori chiamati a
comporre la giuria delle Corti di Assise, posta l'equiparazione del giudice popolare al
chiamato a pubblica funzione elettiva ex art. 2-bis, l. 24 marzo 1978, n. 74338.
Circa la natura del diritto, malgrado il tenore della disposizione - ”possono, a
richiesta, essere collocati in aspettativa” -, si è in genere ritenuto339 che l'art. 31
configuri un diritto potestativo, per il cui esercizio è sufficiente la manifestazione di
volontà del lavoratore, ed al quale la controparte datoriale non può opporre esigenze
aziendali ostative.
L'effetto sostanziale dell'istituto consiste nella sospensione dell'attuazione del
rapporto, durante la quale è garantita al prestatore la conservazione del posto di
lavoro. Ciò non trasmoda, peraltro, in un divieto di recesso; non preclude, cioè, un
eventuale licenziamento intimato per motivi diversi, riconducibili ad una giusta
causa o ad un giustificato motivo340.
Si è discusso a lungo se durante il periodo di aspettativa, malgrado la non
spettanza della retribuzione, possa aversi decorso dell'anzianità di servizio. Sulla
questione era intervenuta più volte la Cassazione, pronunciandosi da subito, a
dispetto della mancanza di una specifica previsione, a favore dell'utilità a tutti i fini
del periodo di aspettativa per carica pubblica elettiva ex art. 31341. Tale indirizzo
aveva suscitato critiche in dottrina342, anche a proposito della pretesa analogia tra gli
artt. 51 e 52 Cost., dimentica del fatto che il concetto di “posizione di lavoro” è più
ampio di quello di “posto di lavoro”343.
Ma sul problema ha infine inciso in modo risolutivo il legislatore, che con l'art. 2
della legge n. 816/1985, ha stabilito che il periodo trascorso in aspettativa, da parte
dei lavoratori dipendenti chiamati a ricoprire cariche elettive di amministratori locali,
è considerato a tutti i fini come servizio effettivamente prestato. In seguito, con una
legge di interpretazione autentica, si è resa applicabile la predetta previsione ”a tutti i
lavoratori dipendenti pubblici o privati senza esclusione alcuna”344. Con l’abrogazione
della legge n. 816/1985, una disposizione del tutto analoga è stata riprodotta all’art.
81 del già citato d.lgs. n. 267/2000.
Il 3° co. dell'art. 31 garantisce al lavoratore, durante il periodo di aspettativa, il
diritto alla conservazione della posizione previdenziale mediante il versamento di
contributi figurativi a carico degli enti erogatori delle relative prestazioni345. Come
precisato dalla giurisprudenza346, i contributi figurativi debbono essere commisurati
sia alla retribuzione in atto al momento della sospensione del rapporto che ad ogni
338
Cfr. anche M. Cinelli, I permessi ai lavoratori chiamati a funzioni pubbliche elettive dopo la L. n. 816 del 1985, in Riv. it.
dir. lav., 1986, I, 568.
339
V. C. Assanti - G. Pera, Commentario allo Statuto dei diritti dei lavoratori, Padova, 1972, 357, e, in giurisprudenza, Cass.
1° marzo 1984, n. 1454, in Foro it. 1984, I, 1881, con nota di M. De Luca; App. Milano 23 ottobre 2001, in Riv. crit. dir. lav.
2002, 77.
340
Si è ipotizzato il caso della cessazione totale dell'impresa: v. G. Lattanzi, Commento sub. art. 31, in Commentario dello
Statuto dei lavoratori, diretto da G. Prosperetti, Milano, 1975, 1059.
341
V. Cass. 7 maggio 1997, n. 4006; Cass. 29 aprile 1997, n. 3719; Pret. Milano 12 marzo 1996, in Lav. giur., 1996, 638.
342
V. G. Lattanzi, op. cit., 1061; P. Franceschini, Aspettative per cariche sindacali e indennità di anzianità, in Mass. giur.
lav., 1976, 359; G. Pera, Diritto del lavoro, Padova, 1984, 656; contra, R. Bortone, Commento sub art. 31, in Statuto dei
diritti dei lavoratori, Commentario diretto da G. Giugni, Milano, 1979, 533. Sulla rilevanza del periodo ai fini della
maturazione degli otto anni di anzianità necessari per aver titolo alle anticipazioni sul t.f.r., v. A. Vallebona, Il trattamento di
fine rapporto, Milano, 1984, 79.
343
V. Corte cost. 16 febbraio 1963, n. 8.
344
V. art. 8-ter del d.l. n. 8/1993, convertito con modificazioni, in l. n. 68/1993.
345
V. anche, per i lavoratori dipendenti eletti negli organi esecutivi degli enti locali o facenti parte dei consigli di
amministrazione delle aziende speciali, l’art. 86 del d.lgs. n. 267/2000.
346
V. Cass. 1° giugno 1999, n. 5335, in Or. giur. lav., 1999, I, 320.
successiva variazione347.
Il 4° co., a propria volta, garantisce al lavoratore la conservazione, senza
adempimenti ulteriori, del diritto alle prestazioni sanitarie ed economiche348 di
malattia; con una disposizione applicata analogicamente alle prestazioni economiche
di maternità349. E’ garantita, infine (art. 86, d.lgs. n. 267/2000), la copertura
assicurativa contro gli infortuni e le malattie professionali occorsi nel periodo di
aspettativa.
L'ultimo comma dell'art. 31, al fine di evitare duplicazioni di prestazioni, esclude
che le disposizioni riportate si applichino nel caso in cui ”a favore dei lavoratori siano
previste forme previdenziali per il trattamento di pensione e di malattia in relazione
all'attività espletata durante il periodo di aspettativa”. Le incertezze, cui il disposto
aveva dato luogo, sono state sciolte dalla legge 9 maggio 1977, n. 210, di
interpretazione autentica, nel senso che ”le limitazioni previste dall'ultimo comma
dell'art. 31 della l. 20 maggio 1970, n. 300 si applicano ai lavoratori che durante il
periodo di aspettativa esplicano attività lavorativa che comporti forme di tutela
previdenziale a carico dell'assicurazione generale obbligatoria di cui al r.d.l. 4 ottobre
1935, n. 1827 e successive modificazioni e integrazioni, ovvero a carico di fondi
sostitutivi, esclusivi o esonerativi dell'assicurazione predetta”.
5.2. I permessi per funzioni pubbliche elettive.
La disciplina dei permessi, già innovata dagli artt. 1, 4 e 16 della l. n. 816 del
1985, che aveva abrogato l'art. 32 St. lav. (art. 28), è ora contenuta, così come quella
dell’aspettativa degli amministratori locali di cui al precedente paragrafo, nel d.lgs.
18 agosto 2000, n. 267, il quale, come già ricordato, ha abrogato la legge n.
816/1985 (art. 274).
Per ciò che concerne la delimitazione dell'ambito dei destinatari del diritto il d.lgs.
n. 267/2000, come già il precedente del 1985, risolve tutti, o quasi, i problemi
sollevati dalla troppo generica dizione usata dal legislatore, che si erano posti nella
vigenza dello Statuto dei lavoratori. L'art. 79, 1° co., ricomprende fra i beneficiari i
lavoratori dipendenti, pubblici e privati, eletti nei consigli comunali, provinciali,
metropolitani, delle comunità montane e delle unioni di comuni, nonché dei consigli
circoscrizionali dei comuni con popolazione superiore a 500.000 abitanti. Tali soggetti
hanno diritto ad assentarsi per l’intera giornata in cui sono convocati i rispettivi
consigli, con conservazione (art. 80) della retribuzione 350. Il 3° co. dell’art. 79 prende
invece in considerazione i dipendenti ”facenti parte delle giunte comunali, provinciali,
metropolitane, delle comunità montane, nonché degli organismi esecutivi dei consigli
circoscrizionali, dei municipi, delle unioni di comuni e dei consorzi fra enti locali, ovvero
facenti parte delle commissioni consiliari o circoscrizionali formalmente istituite nonché
delle commissioni comunali previste dalla legge, ovvero membri delle conferenze dei
capigruppo e degli organismi di pari opportunità, previsti dagli statuti e dai regolamenti
consiliari”, ai quali è riconosciuto il diritto di assentarsi dal servizio per il tempo
347
V. circolare INPS 18 gennaio 1995, n. 13.
V. Cass. 12 aprile 1985, n. 2416, in Giust. civ., 1985, II, 2212.
349
V. Cass. 23 aprile 2001, n. 5992, in Mass. giur. lav., 2001, 717.
350
Nel caso che i consigli si svolgano in orario serale, i predetti lavoratori hanno diritto di non riprendere il lavoro prima
delle ore 8 del giorno successivo, e se le relative riunioni si protraggono oltre le 24, hanno diritto ad assentarsi dal servizio
per l’intera giornata successiva (art. 79, 1° co.).
348
necessario a raggiungere il luogo della riunione e rientrare al posto di lavoro351.
Quest’ultima disposizione riprende il contenuto dell’art. 8 del d.l. 18 gennaio 1993,
n. 8, di interpretazione autentica dell’art. 4 della legge n. 816/1985, il quale aveva
stabilito che il diritto di assentarsi dal posto di lavoro valesse ”per tutto il tempo delle
adunanze… con riferimento all'ora di convocazione e alla fine dei lavori, tenuto conto
del tempo necessario per raggiungere il luogo dell'adunanza e per rientrare al posto di
lavoro…”352.
La giurisprudenza ha escluso, pertanto, che un lavoratore eletto nell'assemblea di
un’unità sanitaria locale abbia diritto a permessi retribuiti per la partecipazione, in
qualità di membro, alle riunioni del Comitato di gestione della stessa353. È stata
altresì esclusa la possibilità che i giudici popolari che esercitano una funzione
pubblica che, pur non essendo di per sé elettiva, è per legge equiparata a quelle
elettive, possano godere di tali permessi354.
I permessi in discorso corrispondono, per il lavoratore, ad un diritto potestativo.
L'espressione usata al proposito dall'art. 79 (”hanno diritto”), e, ancor prima, dall’art.
4 l. n. 816/1985, implica il superamento della questione ingenerata dalla vecchia
formulazione dell'art. 32 (”i lavoratori sono a loro richiesta autorizzati”), in ragione
della quale taluni avevano ritenuto che il godimento dei permessi fosse subordinato
ad un’autorizzazione del datore di lavoro355. I lavoratori dipendenti chiamati a
ricoprire cariche elettive hanno unicamente l'onere di preavvisare il datore di lavoro
dei giorni di assenza necessari per l'espletamento del mandato e di documentare la
relativa attività; ciò corrisponde, peraltro, anche a normali doveri di correttezza356.
Secondo il testo originario dell'art. 32, 1° co., i permessi retribuiti in discorso
potevano essere usufruiti solo per il tempo strettamente necessario all'espletamento
del ”mandato”. Questa locuzione, di non facile interpretazione, aveva dato luogo ad
un contenzioso diretto a stabilire se vi fossero ricomprese anche le attività
preparatorie, come le riunioni del gruppo consiliare, le riunioni delle commissioni
consiliari o i momenti di studio357. La disciplina introdotta dall’art. 79, come già
quella di cui all’art. 4, l. n. 816/1985, non fa più riferimento al “mandato”, da
interpretare nel suo contenuto e ambito oggettivo, ma, rispettivamente, alla sola
giornata della convocazione (1° co.), e al tempo necessario a raggiungere il luogo della
riunione e rientrare al posto di lavoro (3° co.).
Sono poi garantiti altri permessi retribuiti, cumulabili con quelli di cui al 1° e 3°
co., i quali si rapportano ad un tetto massimo di ventiquattro ore lavorative al mese,
aumentate a quarantotto per i sindaci, i presidenti delle province, i sindaci
metropolitani, i presidenti delle comunità montane, i presidenti dei consigli
provinciali e dei comuni con popolazione superiore a 30.000 abitanti.
Oltre a quelli retribuiti, sono garantiti permessi non retribuiti, secondo quanto
prevede l’art. 79, 5° co., d.lgs. n. 267/2000. Il precedente statutario, non fissando un
351
Questi permessi spettano anche ai componenti dei consigli di amministrazione delle aziende speciali anche consortili, in
virtù del richiamo effettuato dall’art. 87 del d.lgs. n. 267/2000.
352
Non è invece stata ripresa la previsione, contenuta nello stesso art. di cui al testo, secondo la quale il diritto di assentarsi
copriva anche il ”tempo necessario per il preliminare studio dell'ordine del giorno”.
353
V. Pret. Asti 27 dicembre 1988, in Riv. it. dir. lav. , 1989, I, 283.
354
In relazione ai giudici popolari, v. Cass. 9 settembre 1987, n. 7231.
355
V. C. Assanti - G. Pera, Commentario, cit., 376; G. Ghezzi, Commento sub art. 32, in Statuto dei diritti dei lavoratori,
Comm. Scialoja-Branca, Bologna, 1979, 463.
356
V. M. Cinelli, I permessi, cit., 578. Un caso particolarmente delicato è quello in cui la persona tenuta ad attestare per
l'ente quanto prescritto dalla suddetta disposizione di legge è lo stesso soggetto che ha richiesto e goduto il permesso (ad es.
il sindaco).
357
V. Cass. 21 gennaio 1985, n. 235, in Foro it. 1985, I, 1058; Cass. 21 novembre 1984, n. 5966, in Riv. it. dir. lav., 1985, II,
60.
tetto massimo di ore, aveva di fatto consentito un illimitato accesso ai permessi. Ai
sensi della sopravvenuta normativa, tutto il tempo utilizzato per attività diverse
relative all'incarico elettivo è materia di permessi non retribuiti nell'ambito di un
nesso di correlazione espresso dalla ”necessità”, e non più dalla “stretta necessità” di
cui al vecchio art. 32358.
Come già anticipato, l'onere per le assenze dal servizio dei lavoratori dipendenti da
privati o da enti pubblici economici è a carico dell'ente od organismo presso cui
costoro sono amministratori (art. 80); il quale, a richiesta, è tenuto a rimborsare al
datore di lavoro quanto corrisposto per le ore o le giornate di effettiva assenza. Sul
punto è stata sollevata questione di costituzionalità, osservandosi che per il
trattamento economico dovrebbe provvedere l'ente pubblico, senza gravare il datore
di lavoro di un onere fiscale improprio. La Consulta ha respinto la questione359,
ricordando che l'art. 51 non impone, ma neppure esclude, il riconoscimento al diritto
alla retribuzione e che il soddisfacimento dell'interesse costituzionale alla possibilità
di tutti i cittadini a concorrere alle cariche elettive può giustificare un sacrificio dei
privati.
5.3. I permessi per motivi elettorali.
Le cosiddette “ferie elettorali” erano originariamente disciplinate dall'art. 119 del
d.p.r. 30 marzo 1957, n. 361, il quale disponeva che “in occasione delle elezioni
politiche, le Amministrazioni dello stato, gli Enti pubblici e i privati datori di lavoro sono
tenuti a concedere ai propri dipendenti, chiamati ad adempiere funzioni presso gli uffici
elettorali, tre giorni di ferie retribuite, senza pregiudizio delle ferie spettanti ai sensi di
legge o di accordi sindacali o aziendali in vigore”360. Tale disposizione che, pensata
per le elezioni per la Camera dei deputati, era stata notevolmente ampliata,
divenendo applicabile anche alle elezioni per il Senato361, ai referendum362, alle
elezioni per il Parlamento europeo363 e a quelle comunali, provinciali e regionali364, è
stata innovata dall'art. 11 della l. 21 marzo 1990, n. 53, che ha interamente
sostituito il vecchio art. 119.
Al 1° co. del vigente disposto365 il legislatore ha specificato che tra coloro che,
adempiendo funzioni elettorali, hanno diritto ad assentarsi dal lavoro per tutto il
periodo corrispondente alla durata delle relative operazioni, debbono essere
ricompresi anche ”i rappresentanti dei candidati nei collegi uninominali e di lista o di
gruppo di candidati nonché, in occasione di referendum, i rappresentanti dei partiti o
gruppi politici e dei promotori del referendum”. Si è così posto fine ad un contrasto che
nel vigore del vecchio testo aveva diviso la giurisprudenza, incerta se tra i beneficiari
dovessero essere compresi solamente i componenti necessari dell'Ufficio, ossia quelli
358
Cfr. Trib. Firenze 30 novembre 1990, in Giust. civ., 1988, I, 440; Pret. Milano 21 novembre 1988, in Or. giur. lav. 1989,
38 che stabilisce che per le assenze dovute all'espletamento di compiti connessi alla carica competono permessi non retribuiti
e tale sono le giornate che un dipendente ha richiesto per la partecipazione ad un convegno. In dottrina v. G. Mannacio,
Funzioni pubbliche elettive e permessi retribuiti, in Dir. prat. lav., 1987, 3366.
359
Corte cost. 17 dicembre 1981, n. 193, in Foro it., 1982, I, 644, con nota di O. Mazzotta.
360
In generale sui problemi sollevati da questa legge, v. R. Del Punta, Permessi ed aspettativa del lavoratore, cit.
361
V. art. 2, l. n. 64/1958.
362
V. art. 50, l. n. 352/1950.
363
V. art. 51, l. n. 18/1979.
364
V. art. 1, l. n. 178/1981.
365
Come risultante dall’ulteriore modifica apportata dall'art. 3 del d.lgs. 20 dicembre 1993, n. 534, al fine di adeguare la
disposizione al nuovo sistema elettorale.
nominati per atto formale della P.A. o anche i rappresentanti di lista, designati non
dall'amministrazione, ma dai partiti politici tramite i delegati di lista366.
Il 2° co., nell'intento di ridistribuire tra datore di lavoro e lavoratore l'onere
economico, non riconosce più al lavoratore tre giorni di ferie retribuite367, ma più
semplicemente, creata legislativamente una causa di giustificazione dell'”assenza dal
lavoro”, prevede che i giorni corrispondenti alla durata delle operazioni elettorali,
siano considerati giorni di attività lavorativa a tutti gli effetti368. A seguito di alcune
pronunce369 che avevano escluso, in base ad un'interpretazione letterale della l. n.
53/1990, il diritto del lavoratore di godere del riposo compensativo, è stata sollevata
questione di legittimità costituzionale in relazione agli artt. 3 e 36, 3° co., della Cost.,
del nuovo testo dell'art. 119, nella parte in cui non prevede che la domenica dedicata
alle operazioni elettorali possa essere recuperata come giorno di riposo dal lavoratore
dipendente addetto a tali operazioni. Con sentenza interpretativa di rigetto la
Consulta370 ha affermato il diritto del lavoratore al recupero immediato del riposo
festivo, sottolineando come tale diritto scaturisca ”dalla voluta parificazione
legislativa tra attività al seggio e prestazione lavorativa, rispetto alla quale la garanzia
del riposo deriva direttamente da un precetto costituzionale”371.
Successivamente, il 2° co. dell'art. 119 d.p.r. n. 361/1957, come sostituito
dall'art. 11 della l. n. 53/1990, è stato oggetto di interpretazione autentica ex art. 1 l.
29 gennaio 1992, n. 69, ivi precisandosi che i lavoratori ”hanno diritto al pagamento
di specifiche quote retribuite, in aggiunta all'ordinaria retribuzione mensile, ovvero a
riposi compensativi, per i giorni festivi o non lavorativi eventualmente compresi nel
periodo di svolgimento delle operazioni elettorali”. La Cassazione ne ha tratto che le
giornate festive o non lavorative dedicate all’espletamento delle funzioni elettorali
danno luogo al prolungamento del periodo feriale in altrettante giornate, ovvero al
pagamento dell’indennità sostitutiva372. Ma tale ricostruzione non sembra appagante,
nella misura in cui la Corte costituzionale aveva affermato il diritto al riposo
compensativo immediato, mentre il periodo di godimento delle ferie rientra nella
disponibilità del datore di lavoro. Inoltre la norma di interpretazione pone
l’alternativa perfetta tra monetizzazione e godimento del periodo di riposo, per cui si
pongono problemi di coordinamento rispetto alla disciplina delle ferie, che esclude
che la misura minima legale delle stesse possa essere sostituita dal pagamento di
un’indennità, se non al momento della risoluzione del rapporto373. L’unico pregio
della ricostruzione operata dalla Cassazione sembra dunque l’aver fatto chiarezza sul
quantum della “quota aggiuntiva” di retribuzione, corrispondente all’indennità
366
V. R. Del Punta, Permessi ed aspettativa del lavoratore, cit. In giurisprudenza, a seguito della introduzione della l. n.
53/1990, v. Cass. 29 agosto 1995, n. 9122.
367
Per i contrasti verificatisi nel vigore della precedente normativa sulla collocazione temporale del beneficio, v. R. Del
Punta, op. ult. cit. In particolare, in riferimento alla minor durata delle elezioni europee rispetto a quelle per la Camera dei
deputati, e alla corrispondente diminuzione del periodo di ferie retribuite dovute al lavoratore (da tre a due giorni), v. Cass.
30 maggio 1994, n. 5261.
368
Si è chiarito che, ove le operazioni elettorali si sviluppino solo per un limitato numero di ore, la causa di giustificazione
dell’assenza dal lavoro deve essere riferita all’intera giornata, così come in relazione ad essa deve essere corrisposta la
retribuzione: v. Cass. 17 giugno 2002, n. 8712; Cass. 12 giugno 2002, n. 8400.
369
V. Pret. Milano 31 ottobre 1991, in Not. giur. lav., 1991, 787; Pret. Ferrara 9 novembre 1991, ivi, 1991, 786.
370
V. Corte cost. 13 dicembre 1991, n. 452, in Foro it., 1992, I, 594.
371
Sul distinto problema se il recupero del mancato riposo festivo debba avvenire subito dopo la fine delle operazioni
elettorali, ovvero in giorno da concordarsi con il datore di lavoro v. Trib. Firenze 16 marzo 1992, in Toscana lavoro giur.,
1992, 376. L'esercizio dei diritti è comunque condizionato all'assolvimento di specifici oneri di attestazione dell'effettiva
partecipazione del lavoratore alle operazioni elettorali: v. Pret. Milano 26 ottobre 1993, in Not. giur. lav. 1993, 823.
372
V. Cass. 8 agosto 2000, n. 10441; Cass. 29 gennaio 2000, n. 1062, in Foro it. , 2000, I, 3252.
373
V. d. lgs. 8 aprile 2003, n. 66, art. 10, 2° co.
sostitutiva relativa al mancato godimento delle ferie, comprensiva sia della paga base
che di ogni emolumento accessorio.
6. Aspettative e permessi per ragioni personali.
6.1. I permessi per motivi di studio.
Il riconoscimento a favore dei lavoratori del diritto allo studio, chiara espressione
di numerosi principi costituzionali, trova fondamento nell'art. 10 dello Statuto dei
lavoratori, che ha imputato a costoro diritti soggettivi perfetti azionabili a prescindere
dalle esigenze della controparte datoriale.
Presupposto per l'esercizio del diritto di cui al 1° co. è l'iscrizione e la frequenza
del lavoratore a corsi regolari di studio presso una scuola legalmente riconosciuta o
comunque abilitata al rilascio di titoli di studio legali. L'elenco, di portata
tassativa374, è stato successivamente integrato, estendendosi le agevolazioni anche ai
lavoratori frequentanti corsi di formazione professionale indetti dalla Regione375.
I benefici di cui al 1° co. dell’art. 10 sono inerenti sia al diritto dei lavoratori
studenti, qualificati dalla frequenza di corsi regolari presso istituti pubblici o
pareggiati, di essere assegnati a turni di lavoro agevolanti la frequenza scolastica376,
che alla possibilità degli stessi di potersi legittimamente rifiutare a fronte di richieste
di lavoro straordinario e festivo.
Le agevolazioni previste dal 2° co. attengono, invece, al diritto dei lavoratori
studenti, inclusi questa volta anche i dipendenti iscritti a corsi universitari (non
menzionati al 1° co.), a fruire di permessi giornalieri retribuiti in occasione dello
svolgimento delle prove di esame. La Cassazione377, richiesta di valutare se i
lavoratori studenti ivi richiamati coincidano con quelli del 1° co., ovvero
costituiscano una categoria più vasta (non tanto in ragione dell'espresso
affiancamento ad essi degli universitari, quanto per la possibilità di includere i
candidati privatisti ed autodidatti), ha ritenuto che abbiano diritto ad ottenere
permessi retribuiti tutti i lavoratori che intendono dedicarsi allo studio per ottenere
titoli riconosciuti dall'ordinamento giuridico statale, senza che la categoria dei
soggetti legittimati possa essere limitata ai soli studenti iscritti e frequentanti corsi di
studio regolari nelle scuole statali pareggiate, o comunque abilitate, al rilascio di
titoli di studio legali.
Il prestatore di lavoro, al fine di usufruire di questo diritto, di natura potestativa,
deve comunicare al datore di lavoro, nel rispetto dei principi di buona fede e
correttezza, la data del giorno in cui intende sostenere l'esame378. La “concessione”
del permesso è, per il datore, un atto vincolato379.
Questioni particolari sorgono con riferimento ai lavoratori studenti universitari,
374
V. B.Veneziani, Commentario, diretto da G. Prosperetti, cit., 289.
V. l. n. 845/1978. Per un’implicazione pratica della legge, v. Pret. Torino 21 gennaio 1989, 28 febbraio 1989 e 18 marzo
1989, in Or. giur. lav. 1989, 602.
376
Sempre che il diritto allo studio non confligga col diritto dell'imprenditore di predisporre l'organizzazione produttiva e col
diritto degli altri lavoratori a non essere danneggiati da una turnazione più sfavorevole v. U. Romagnoli, Commento sub art.
10, in Comm. Scialoja-Branca, cit., 193.
377
V. Cass. 14 gennaio 1985, n. 52, in Riv. it. dir. lav., 1985, II, 773.
378
Sulla necessità dell'effettiva partecipazione alle lezioni, v. Trib. Udine 18 aprile 1996, in Lav. giur., 1997, 57. Sulla
fruibilità dei permessi anche per un lavoratore assunto a tempo parziale v. Pret. Milano 29 settembre 1986, in Lav. prev. oggi
1987, 443.
379
V. U. Romagnoli, op. cit., 195.
375
esclusi, come notato, dai benefici del 1° co.380. Tale esclusione, che secondo taluni 381
si giustificherebbe dal punto di vista dell’alleviamento dell’onere economico sul
datore di lavoro, è stata criticata da altri, secondo cui il diritto a turni agevolati e
l'esonero dalle prestazioni straordinarie è stato sancito al fine di rendere possibile al
lavoratore non soltanto la frequenza ai corsi, ma anche la preparazione agli esami382.
Sulla normativa statutaria si inserì prontamente la contrattazione collettiva, che,
sin dalla tornata di rinnovi del 1973 (l’esperienza trainante fu quella
metalmeccanica), rafforzò gli istituti già creati dal legislatore e ne ha introdotti di
nuovi, come il noto istituto delle ”150 ore”383, consistente in un monte ore triennale
di permessi retribuiti utilizzabili dai lavoratori qualora intendano frequentare corsi
speciali istituiti presso istituti pubblici o legalmente riconosciuti, diversi da quelli di
cui all'art. 10 St. lav.
6.2. I congedi formativi.
La legge 8 marzo 2000, n. 53, all'art. 5, ha introdotto nel nostro ordinamento i
”congedi per la formazione”, con i quali il legislatore non si è limitato ad ampliare
notevolmente l'ambito operativo del diritto allo studio di cui all'art. 10 St. lav. (le cui
disposizioni sono state, nel contempo, fatte esplicitamente salve), ma ha predisposto,
altresì, strumenti diretti a garantire al lavoratore, con almeno cinque anni di
anzianità di servizio presso la stessa azienda o amministrazione, la fruizione di un
periodo di congedo non superiore ad undici mesi, continuativo o frazionato, da
sfruttare durante l'arco dell'intera vita lavorativa, per soddisfare esigenze formative di
più svariato genere.
Le causali per le quali il congedo può essere fruito sono specificate dal 2° co.:
trattasi del completamento della scuola dell’obbligo, del conseguimento del titolo di
studio di secondo grado, del diploma universitario o di laurea, ed infine della
partecipazione ad attività formative “diverse da quelle poste in essere o finanziate dal
datore di lavoro”, e alla natura delle quali la norma non pone limiti oggettivi (sì da
legittimare, si è detto, la fruizione del congedo per partecipare ad un corso di cucina).
Lo strumento introdotto si presenta idoneo, dunque, a garantire un tempo ulteriore
di studio rispetto a quello già riconosciuto dallo Statuto, ma si presta anche a
sostenere, più ampiamente, le più svariate, e spiccatamente personali, scelte
formative.
Su queste premesse, il diritto al congedo è prefigurato quale diritto potestativo,
ma non incondizionato, giacché (4° co.) ”il datore di lavoro può non accogliere la
richiesta di congedo per la formazione ovvero può differirne l’accoglimento nel caso di
comprovate esigenze organizzative”. Al riguardo è importante anche il ruolo dei
contratti collettivi, chiamati a prevedere le modalità di fruizione del congedo,
380
Il lavoratore studente universitario deve essere individuato senza alcun riferimento neppure indiretto alla tipologia del
corso di laurea ed alla circostanza che si tratti della prima o della seconda laurea, o al collegamento tra il corso frequentato e
l’attività lavorativa: v. Trib. Milano 28 gennaio 1989, in Or. giur. lav., 1989, 602.
381
V. M. Ricci, Commento sub. art. 10, in Lo Statuto dei Lavoratori, Commentario diretto da Giugni, Milano, 1979, 207.
382
V. G. Pera, Commento sub art. 10, in C. Assanti - G. Pera, Commentario, cit., 125; B. Veneziani, Commento sub art. 10,
in Commentario allo Statuto dei lavoratori, diretto da G. Prosperetti, Milano, 1975, I. 278. Per l’estensione dei benefici di
cui all’art. 10, 1° co., anche al lavoratore universitario, v. Pret. Modugno 3 aprile 1990, in Rass. dir. civ., 1994, 156.
383
V., ad es., il CCNL per l’industria metalmeccanica del 7 maggio 2003 (art. 28), prevedente un monte ore triennale, ma
utilizzabile anche in un solo anno, di centocinquanta ore, elevate a duecentocinquanta per la frequentazione dei corsi
sperimentali per il recupero dell'attuale scuola dell'obbligo, per l'alfabetizzazione degli adulti, e di lingua italiana per
lavoratori stranieri al fine di agevolarne l'integrazione.
individuare le percentuali massime dei lavoratori che possono avvalersene,
disciplinare le ipotesi di differimento o di diniego all’esercizio di tale facoltà e fissare i
termini del preavviso, comunque non inferiore a trenta giorni384.
In virtù del 3° co., il dipendente ha diritto alla conservazione del posto, non
prevedendosi invece, sotto il profilo del trattamento, spettanza della retribuzione, né
decorso dell'anzianità di servizio, pur con la facoltà di procedere (5° co.), ma con
oneri a proprio carico, al riscatto del relativo periodo ai fini pensionistici o, qualora
ne ricorrano i presupposti (tre anni di effettiva contribuzione nel precedente
quinquennio) al versamento dei contributi secondo la prosecuzione volontaria. Il
lavoratore che ha fruito del congedo è ammesso, peraltro, alla richiesta di
differimento dell'età pensionabile onde ottenere il raggiungimento del livello
pensionistico desiderato385.
Infine (v. ancora il 3° co.), il congedo non è cumulabile con la ferie, con la malattia
e con altri congedi, e ne è prevista la possibile interruzione per il sopravvenire di una
grave e documentata infermità.
La legge n. 53/2000 ha inoltre previsto, all’art. 6, una seconda tipologia di
congedo formativo, i ”congedi per la formazione continua”. Trattasi di congedi
finalizzati a garantire ai lavoratori, occupati e non occupati, il diritto di proseguire i
percorsi di formazione per tutto l’arco della vita, onde accrescere conoscenze e
competenze professionali. La formazione continua è, come noto, uno dei pilastri delle
attuali strategie occupazionali. Essa dovrebbe potersi esplicare nell’ambito dell’offerta
formativa garantita da Stato, Regioni e Enti locali, ed articolata sul territorio
(eventualmente con accesso ai finanziamenti del Fondo interprofessionale per la
formazione continua), e corrispondere ad un’autonoma scelta dal lavoratore ovvero ad
una predisposizione dell’azienda, attraverso piani formativi aziendali o territoriali
concordati con le parti sociali.
In questo ambito, la disciplina dell’istituto è lasciata, pressoché completamente,
alla contrattazione collettiva di categoria, nazionale e decentrata (2° co.): ciò per
quanto attiene al monte ore da destinare ai congedi in discorso, ai criteri per
l’individuazione dei lavoratori e alle modalità di orario e retribuzione connesse ai
percorsi di formazione386.
6.3. I congedi per eventi e cause particolari.
Questo gruppo di congedi comprende ipotesi sospensive di natura diversa,
accomunate da una significativa valorizzazione delle istanze di cura dei congiunti più
stretti. La fonte è l’art. 4 della già incontrata legge n. 53/2000, come integrato dal
regolamento emanato con d. m. 21 luglio 2000, n. 278387.
Il primo istituto da prendere in considerazione è il permesso retribuito previsto
384
V., tra i molti, il CCNL per l’industria alimentare del 14 luglio 2003, che ha innalzato a dodici mesi il tetto massimo di
durata, fissato il preavviso a trenta giorni (sessanta nel caso di congedi di durata superiore ai dieci giorni), posto un obbligo
di motivazione in capo al datore di lavoro che non accolga o differisca il congedo, e stabilito che i lavoratori in congedo non
potranno superare l’1% della forza lavoro occupata nell’azienda o unità produttiva, dovendo comunque essere garantito, in
ogni reparto, lo svolgimento della normale attività produttiva (tramite modalità concordate con le RSU).
385
Si tratta di una possibilità concessa dall'art. 8 della medesima legge n. 53 del 2000.
386
Si veda, per tutti, il CCNL per l’industria metalmeccanica del 7 maggio 2003, artt. 4 e 29, lett. b), che istituisce apposite
commissioni su base nazionale, territoriale ed aziendale, incaricate, tra l’altro, di coordinare e definire i progetti formativi,
usufruibili dai lavoratori tramite permessi retribuiti per un massimo di centocinquanta ore nell’arco di un triennio.
387
Per quanto riguarda, invece, i permessi previsti per l’assistenza a persone portatrici di handicap, se ne è già trattato retro,
§ 3.7 e 3.8.
dall’art. 4, 1° co., della legge n. 53/2000, per tre giorni lavorativi all’anno, in caso di
decesso o di documentata grave infermità del coniuge o di un parente entro il 2°grado
(anche non convivente) o del convivente, purché la stabile convivenza risulti da
certificazione anagrafica. Per fruire del permesso (art. 1, 2° co., d. m.), l’interessato
deve comunicare previamente al datore di lavoro l’evento che dà titolo al permesso e i
giorni nei quali esso sarà utilizzato, con presentazione di idonea documentazione (art.
3 d. m.).
I giorni di permesso debbono essere utilizzati entro sette giorni dal decesso o
dall’accertamento dell’insorgenza della grave infermità o della necessità di provvedere
a conseguenti specifici interventi terapeutici (art. 1, 3° co.).
In alternativa, prosegue l’art. 4, 1° co., riferendosi ai soli casi di documentata e
grave infermità, si possono concordare con il datore di lavoro diverse modalità di
espletamento dell’attività lavorativa, anche per periodi superiori a tre giorni.
Non è ben chiaro, peraltro, a che cosa possa servire la soluzione ”alternativa”,
visto che la norma configura un diritto potestativo, che non sembra lasciare alcuna
discrezionalità autorizzatoria al datore di lavoro388. D’altra parte, la possibilità di
concordare con il datore di lavoro diverse modalità lavorative (ad es. un diverso
regime d’orario) sussisteva già, a prescindere da questa sollecitazione normativa. Per
dare ad essa una qualche pregnanza giuridica, occorre quindi immaginare, ad es.,
che per suo effetto il datore di lavoro debba ritenersi quantomeno impegnato ad
esaminare secondo buona fede eventuali richieste.
In ogni caso, l’art. 1, 4° co., d. m. , aggiunge, a tale proposito, che l’accordo in
questione è stipulato in forma scritta, sulla base della proposta del lavoratore o della
lavoratrice. Nell’accordo sono indicati i giorni di permesso che sono sostituiti dalle
diverse modalità di espletamento dell’attività lavorativa, che debbono comportare una
riduzione dell’orario di lavoro complessivamente non inferiore ai giorni di permesso
sostituiti; ed altresì i criteri per le eventuali verifiche periodiche della permanenza
della grave infermità. La riduzione dell’orario di lavoro deve avere inizio entro sette
giorni dall’accertamento dell’insorgenza della grave infermità o della necessità di
provvedere agli interventi terapeutici.
La seconda ipotesi sospensiva di cui all’art. 4 (2° co.) è qualitativamente affine alla
precedente, anche se più impegnativa dal punto di vista temporale. Per gravi e
documentati motivi familiari, fra i quali date patologie gravi, il dipendente privato o
pubblico può richiedere un periodo di congedo, continuativo o frazionato, non
superiore a due anni (calcolati secondo il calendario comune).
I gravi motivi, chiosa l’art. 2 del d. m. , possono essere relativi alla situazione
personale, della propria famiglia anagrafica, delle persone ricomprese dall’art. 433
c.c. fra quelle obbligate agli alimenti, anche se non conviventi, nonché dei portatori di
handicap, parenti o affini entro il terzo grado, anche se non conviventi.
Per gravi motivi (da documentare secondo le prescrizioni dell’art. 3 d. m.) si
intendono:
a) le necessità familiari derivanti dal decesso di una delle persone sopra
elencate;
388
Contra, Trib. Milano, 30 giugno 2003, in Riv. crit. dir. lav., 2003, 997, che ha ritenuto legittimo il licenziamento intimato
ad una lavoratrice per assenza ingiustificata, dopo che le era stato negato un permesso dovutole ai sensi dell’art. 4, primo
comma (anche se, considerando il licenziamento ingiurioso, per le particolari modalità con le quali è stato disposto e
motivato, la Corte ha poi condannato il datore di lavoro al risarcimento del danno, commisurato alla somma che sarebbe
spettata alla lavoratrice nel caso in cui il recesso fosse stato illegittimo). Diversamente, Trib. Milano, 23 aprile 2003, in Riv.
it. dir. lav., 2004, II, 90, ha stabilito che la sopravvenienza, durante un periodo di ferie, di una delle ipotesi per le quali il
lavoratore ha diritto al permesso, sospende le stesse, affermando esplicitamente che la norma attribuisce un diritto al
lavoratore.
b) le situazioni che comportano un impegno particolare del dipendente o
della propria famiglia nelle cura o nell’assistenza delle persone di cui sub a);
c) le situazioni di grave disagio personale, ad esclusione della malattia, nelle
quali incorra il dipendente medesimo;
d) le situazioni derivanti da una serie di gravi patologie, nominativamente
elencate, che abbiano riguardato le persone di cui sub a)389.
Circa la natura giuridica del diritto, e le sue consequenziali modalità di esercizio,
la diversità della formulazione rispetto al primo comma, essendo previsto che i
dipendenti “possono richiedere” il congedo e non che ne “hanno diritto”, induce a
pensare che il regime non sia, in questo caso, quello del diritto potestativo,
configurandosi al massimo una sorta di interesse legittimo alla concessione,
ovverosia un diritto a che la decisione datoriale sia adottata nel rispetto dei principi
generali di correttezza e buona fede.
A questo proposito, il 3° co. dell’art. 2 (colmando una lacuna della legge) rinvia ai
contratti collettivi perché dettino una disciplina del procedimento per la richiesta e la
concessione, anche parziale o dilazionata, del congedo, o il suo diniego, assicurando
il contraddittorio fra datore e lavoratore richiedente. In attesa di tale normativa, il 4°
co. dispone che il datore si debba pronunciare tempestivamente sulla richiesta di
congedo, e sia tenuto a motivare l’eventuale rifiuto o la proposta di differimento del
congedo390. Restrizioni aggiuntive per l’accesso a questo congedo sono previste per i
lavoratori a tempo determinato (art. 2, 5° co., d. m.).
Durante il periodo di congedo il dipendente ha titolo a conservare il posto di lavoro,
non ha diritto alla retribuzione e non può svolgere altre attività lavorative. Non è
previsto il decorso dell’anzianità di servizio né il computo del periodo ai fini
previdenziali, restando al lavoratore, come per i congedi formativi, la possibilità del
riscatto o della prosecuzione volontaria.
Al termine del congedo, ed anche anticipatamente rispetto ad esso (salvo che fosse
stata prevista una durata minima del congedo, nonché previa comunicazione al
datore, in alcuni casi da effettuarsi col rispetto di un dato preavviso), è previsto il
diritto del dipendente a rientrare nel precedente posto di lavoro (art. 2, 7° co., d. m.).
6.4. I riposi giornalieri per i donatori di sangue.
Ai sensi dell’art. 2 della legge 13 luglio 1967, n. 584, i lavoratori dipendenti, i
quali cedano il loro sangue gratuitamente, hanno diritto ad astenersi dal lavoro per
l'intera giornata in cui effettuano la donazione, conservando il diritto alla
retribuzione per l'intera giornata lavorativa. La retribuzione viene corrisposta
direttamente dal datore di lavoro, il quale ha facoltà di chiedere il rimborso
all'Istituto di assicurazione contro le malattie a cui è iscritto il donatore, anche in
deroga alle vigenti norme che prevedano limitazioni, per durata ed ammontare,
389
A tali ipotesi si aggiunge (art. 2, 6° co., d. m.) quella del decesso di uno dei soggetti relativamente ai quali si possono
richiedere i permessi retribuiti sopra illustrati, qualora non vi sia più la possibilità di utilizzare detti permessi.
390
L’obbligo di tempestiva risposta e di motivazione del diniego, derivante dai generali obblighi di correttezza e buona fede
ex artt. 1175 e 1375 c.c., era già stato ricavato, con riferimento a fattispecie precedente all’entrata in vigore del regolamento,
dal Trib. Firenze, 13 ottobre 2001, in Lav. giur., 2002, 348. Il D.M. ha posto, al riguardo, una disciplina pregnante,
stabilendo che “il datore di lavoro è tenuto, entro dieci giorni dalla richiesta del congedo, a esprimersi sulla stessa e a
comunicarne l'esito al dipendente. L'eventuale diniego, la proposta di rinvio ad un periodo successivo e determinato, la
concessione parziale del congedo devono essere motivati in relazione alle condizioni previste dal presente regolamento e
alle ragioni organizzative e produttive che non consentono la sostituzione del dipendente. Su richiesta del dipendente, la
domanda deve essere riesaminata nei successivi venti giorni.”.
all'indennità economica di malattia. Nel regolamento di attuazione, si è altresì
precisato che la giornata di riposo sia di 24 ore, decorrenti dal momento in cui il
donatore si è assentato dal lavoro per l'operazione di prelievo di sangue391.
La normativa, inizialmente, non prevedeva alcunché in merito ai contributi
previdenziali inerenti alla retribuzione corrisposta con riferimento alla giornata di
riposo. Superando il precedente orientamento negativo dell’Istituto, l'art. 13 della l. 4
maggio 1990, n. 107, ha invece posto a carico dell’INPS l'accreditamento figurativo
dei relativi contributi previdenziali.
6.5. I permessi per i donatori di midollo osseo.
L’art. 5 della legge 6 marzo 2001, n. 52, ha stabilito che i donatori di midollo
osseo con rapporto di lavoro dipendente hanno diritto a permessi retribuiti per il
tempo necessario all’espletamento dei seguenti atti:
a) prelievo finalizzato all’individuazione dei dati genetici;
b) prelievi necessari all’approfondimento della compatibilità con i pazienti in
attesa di trapianto;
c) accertamento dell’idoneità alla donazione.
Il donatore ha altresì diritto a conservare la normale retribuzione per le giornate
di degenza necessarie al prelievo di sangue midollare, eseguito in regime di
ospedalizzazione, e per quelle successive alla donazione, sino al completo ripristino
del suo stato fisico, secondo quanto certificato dall’equipe medica che ha effettuato il
prelievo.
I relativi contributi previdenziali sono accreditati ai sensi dell’art. 8 della legge 23
aprile 1981, n. 155. A tal fine, al datore di lavoro sono certificati, a cura dei servizi
che hanno reso le prestazioni sanitarie, l’accesso e le pratiche inerenti alla procedura
di donazione cui è stato sottoposto il dipendente.
6.6. L’aspettativa per lo svolgimento di attività di volontariato nei paesi in
via di sviluppo.
In base all’art. 33, 1° co., lett. c), della legge 26 febbraio 1987, n. 49, i lavoratori
dipendenti che si dedichino ad attività di volontariato nei paesi in via di sviluppo, e
che si facciano regolarmente registrare come tali, hanno diritto a fruire di
un’aspettativa non retribuita, comportante il diritto alla conservazione del posto di
lavoro, secondo le medesime norme valevoli per i lavoratori chiamati a svolgere il pur
abolito servizio di leva392.
In base al 2° co., alle imprese private che concederanno ai volontari e cooperanti,
da esse dipendenti, il collocamento in aspettativa senza assegni, è data la facoltà di
assumere personale sostitutivo con contratto a tempo determinato.
391
392
V. art. 3 del d.m. 8 aprile 1968, concernente le norme di attuazione della l. n. 584/1967.
Per tali fonti, v. retro, § 4.