Tabacchi e bonifiche Elementi orali ed iconografici per contribuire alla storia del tabacco in Sardegna di CARLO ANEDDA e GIOVANNI MURRU L’analisi delle vicende legate alla diffusione, allo sfruttamento e alla commercializzazione dei tabacchi nella Sardegna contemporanea, ancorché non riassumibile nello spazio di questo contributo, non può che soffermarsi, in primis, sulla coltivazione nelle campagne ogliastrine della celeberrima Nicotiana Tabacum. È, infatti, in Ogliastra1 che fin dal 1920 il presule «progressista» e riformatore Emanuele Virgilio2 introduce, in via sperimentale, la coltivazione delle qualità Perustizia ed Erzegovina stolak, particolarmente adatta, quest’ultima, come «condimento», grazie alle doti aromatiche e combustibili della foglia. Nel processo produttivo sono anzitutto coinvolte una decina d’operaie di Tortolì, cittadina sede vescovile attorno alla quale sarà diffuso l’impianto del tabacco, mentre all’interno della propria residenza Monsignor Virgilio accetterà di buon grado di ricavare, almeno temporaneamente, i locali necessari ad ospitare le maestranze addette al neonato opificio. Mentre il 1921 si chiudeva col conto economico in attivo, l’anno seguente poteva essere inaugurato un nuovo magazzino. Per la costruzione dello stabile, edificato lungo il rettilineo posto fra Tortolì ed Arbatax, era stato necessario richiedere un mutuo consistente, pari a circa duecentomila lire. Tra gli obiettivi pastorali di Emanuele Virgilio figuravano non solo le urgenze occupazionali ma anche l’assistenza agli orfani e, soprattutto, l’avvio di una virtuosa diffusione delle competenze agrotecniche, come si evince ad esempio dalla coeva fondazione della scuola di agricoltura di Arzana. Il primo imprenditore laico ad accettare la scommessa di investire nel settore del tabacco è un dinamico giovane, originario di Lanusei, tale Salvatore Orrù, al quale – per intercessione dello stesso Vescovo d’Ogliastra – il Monopolio di Stato aveva rilasciato la concessione all’impianto di tabacchi Perustizia indi Samsum su un’area pari a circa trenta ettari. Dal 1922 in poi, Orrù provvedeva ad impiantare il tabacco su 15 ettari di terra di proprietà del Vescovado: su sette ettari 1 Cfr. A. USAI, La Diocesi ogliastrina nella serie dei Vescovi di Fordongianus, Suelli, Tortolì, Lanusei, Cagliari 1970. 2 Emanuele Virgilio nasce a Venosa il 3 agosto del 1868 ed è eletto Vescovo d’Ogliastra, con cattedra a Tortolì, all’età di quarantadue anni. Attento lettore dei teorizzatori meridionalisti – era conterraneo di Francesco Saverio Nitti e di Giustino Fortunato - cura l’educazione dei giovani e la loro istruzione professionale. Muore a Tortolì nel 1923. Cfr. V. PIRARBA, Principali scelte pastorali nella Diocesi ogliastrina durante l’Episcopato di Monsignor Emanuele Virgilio (1910-1923), Tesi di laurea, Facoltà Teologica di Cagliari, a. a. 1978-1979; T. LODDO, Il movimento cattolico in Ogliastra 1872-1969, Cagliari 1993; ID., Diocesi di Lanusei, Cagliari 1998; V. NONNIS, Arbatax, Cagliari 2000. 1 confinanti con lo stabilimento e su altri otto siti in località «Samucus». Le terre restanti, comprese nella concessione, ricadevano invece su altre zone, risultando però divise in appezzamenti piccoli e disomogenei. Come imposto dalle leggi correnti, sulla coltivazione e sulla raccolta del tabacco ogliastrino vigilavano, ad un tempo, la proprietà, il soggetto concessionario e la Guardia di Finanza. L’attività della manodopera era scandita secondo i rituali tipici del calendario agricolo della coltura tabagica: il ciclo aveva inizio nei mesi di dicembre e gennaio, con l’impianto dei semenzai mentre – tra marzo ed aprile – si provvedeva a mettere a dimora le piantine, in grado di raggiungere circa 150 centimetri di altezza nel proprio massimo sviluppo. Il tabacchificio di Arbatax era solito conferire la materia prima ai magazzini di Sassari e, da qui, alla Manifattura di Cagliari3. Tutto ciò avveniva dopo aver completato il processo di confezionamento delle foglie in piccole balle, dal peso compreso tra quindici e venti chilogrammi, destinate a loro volta alla stagionatura, al termine della quale il tabacco era trasferito altrove, mediante ferrovia. Non troppo dissimile, rispetto all’introduzione del tabacco in Ogliastra, appare la vicenda dell’impianto operativo in agro di Arborea. Questo episodio è ricostruito nell’intervista pubblicata di seguito, raccolta nel 2001, così da fornire una prima rivisitazione della vicenda della coltivazione della solanacea nel Campidano di Terralba. All’utilizzo dello strumento tipico della storia orale, quale è appunto l’intervista, si affianca, in questa sede, un corredo fotografico sufficientemente rappresentativo delle fasi di lavorazione e di organizzazione delle competenze interne a questo stabilimento. L’introduzione della preziosa dicotilèdone, nell’ambito della Riforma fondiaria, coincise con l’applicazione di metodi agrotecnici ed industriali di notevole valore. Questo dato di fatto è testimoniato dalla qualità raggiunta dalla produzione del tabacchificio di Arborea che, peraltro, chiuse i battenti nei primi anni Settanta del secolo scorso. Hanno accettato di ricordare le origini, lo sviluppo e la crisi di quell’esperienza Remigio Brizi (1930) e Dante Santarelli (1928). Essi operarono come tecnici, addetti e responsabili, in pratica, di tutta la macchina organizzativa e produttiva dell’Azienda. Il tabacchificio era controllato dall’Ente di riforma voluto dalla Regione Autonoma (Etfas) ed era gestito col concorso del Consorzio cui facevano riferimento le società cooperative nate a seguito dell’applicazione della legge Segni e delle normative successive, emanate appannaggio del riordino fondiario. 3 Cfr. A. ROMAGNINO, L’ultima sirena della Manifattura, in «L'Unione Sarda», 1 novembre 2001; E. DESSÌ, La città perde un pezzo di storia: la fabbrica aprì nel 1850, in «L’Unione Sarda», 20 novembre 2001. 2 I due tecnici provenivano dall’Umbria, dove nei primi anni Cinquanta avevano iniziato il proprio cammino professionale, all’interno di strutture agroindustriali simili a quella poi realizzata nella città di fondazione, inaugurata appena trenta anni prima. Alla fine degli anni Cinquanta Remigio Brizi fu inviato in Sardegna, mentre Dante Santarelli transitò in due aziende della Valfabbrica, presso Assisi, luoghi da cui si allontanò, per trasferirsi anch’egli nell’Isola, mettendo su casa ad Arborea, come fece appunto il collega. Anch’essi dunque, da uomini della collina divennero – per così dire - uomini della bonifica. 1. Arrivo in bonifica Brizi Io sono arrivato in Sardegna nel 1959, il 23 gennaio del 1959. Fui trasferito esattamente a Fertilia e presi dimora nell’ostello della gioventù. Assieme a me, a quell’epoca venne un direttore, Fausto Brugiotti, che proveniva dalla ditta ViglinoMeoni. Dovevamo intraprendere un esperimento d’impianto di tabacco, di tipo Burley4, ed appunto in quell’epoca iniziammo la campagna d’impianto e di coltivazione, preventivata per tre anni. Avviammo subito la preparazione dei semenzai, così da avere le piantine da portare nei campi. Iniziammo quest’avventura, e date le condizioni atmosferiche, data la bontà della terra, grazie all’acqua abbondante – all’epoca in quella zona non mancavano i pozzi consistenti dove trovarla – avviammo con un certo ottimismo la coltivazione, anzitutto su piccoli appezzamenti. L’esperimento consisteva nell’impiegare le diverse concimazioni, così da vedere, nell’arco dell’anno, quale si sarebbe rivelata migliore. Il tabacco cresceva a meraviglia, si può dire «a vista d’occhio» e le immagini di allora lo dimostrano. Nel corso dell’anno si procedette all’essiccazione delle foglie, poi portammo il tabacco a Sassari, all’incirca alla fine di settembre, consegnandolo alla locale Agenzia dei Monopoli di Stato, la quale lo valutò con soddisfazione – sia per qualità sia per quantità – considerando che era il primissimo raccolto. Naturalmente, la sperimentazione continuò l’anno appresso, fino a completamento del ciclo triennale, dopo di che da Roma arrivò il certificato che quel tipo di prodotto sarebbe potuto andar bene anche per le terre restanti della Nurra, a condizione che vi fosse acqua sufficiente alla coltivazione. Santarelli La scelta di impiantare il tabacco in Sardegna fu fatta di concerto fra l’On. Antonio Segni ed il nostro Direttore tecnico, l’ing. Viglino. Segni, infatti, cercava a quell’epoca di introdurre in Sardegna una coltivazione a carattere industriale, anche per via delle 4 Questo tipo di tabacco compare nella seconda metà dell’Ottocento, e per spontanea mutazione, in territorio statunitense. È caratterizzato dal colore verde chiaro della foglia e dal giallo pallido del fusto della pianta. La porosità lo ha reso un ingrediente essenziale delle sigarette conciate. Cfr. F. TESTA, A. MARCONI, Il Toscano. Guida completa al sigaro italiano, Firenze 2000, pag. 148 e sgg. 3 trasformazioni che erano state fatte tramite le bonifiche agrarie, cercando così di incentivare qualche coltura redditizia anche da questo punto di vista. Tra le ipotesi prospettate, c’era quella del tabacco, anche se tutta la zona del Sassarese, le terre intorno a Sorso, Castelsardo eccetera, erano state da lungo tempo occupate da due tipi di coltura: l’Erzegovina5 – un prodotto adatto al confezionamento delle sigarette – ed il tabacco da fiuto (Perustizia) che allora si produceva e si consumava in quantità. C’era dunque già una certa storia e si trattava, oltretutto, di due prodotti assai richiesti, specie sul mercato tunisino e su quello marocchino. In effetti, la coltivazione del tabacco si era diffusa molto tempo addietro anche nelle campagne di Tortolì, per cura della famiglia Orrù, che per tradizione coltivava e commercializzava un prodotto di tipo orientale, fine, pregiato, che era poi condotto a Sassari (mentre a Cagliari il Monopolio provvedeva a confezionare le sigarette) e che era usato per le sigarette turche6. Questo fu, insomma, il principio che guidò l’idea di esportare, in queste aree dell’Isola, la coltivazione di quel tipo di piante, nella Nurra il Burley, qui, ad Arborea, il tipo Bright Italia7. Questi tabacchi sono assai diversi fra loro. In particolare, il Bright Italia, che era prodotto in gran quantità in Umbria8, sulle colline vicine a Perugia, ad Assisi e a Città di Castello, intorno ai quattro, cinquecento metri d’altitudine, è un prodotto adatto ad essere impiantato su terreni alluvionali o particolarmente sabbiosi. Viceversa, il Burley9. si adatta anche su fondi più compatti. 5 Il tabacco «Erzegovina» appartiene alle varietà esotiche, il cui seme, già in passato, fu riprodotto in Italia. Questa coltura si diffuse in particolare in Campania, Puglia, nel palermitano e nelle stesse pianure sassaresi. 6 Tra le varietà indigene di tabacco, in Sardegna potevano distinguersi il Secco ed il Rigadio di Sardegna, che furono coltivati nel Sassarese sul finire del 1600: «Il secco non è irrigato, mentre il Rigadio lo è; il Rigadio serve esclusivamente per preparare la polvere da fiuto Zenziglio; col Secco si preparano polveri ed inoltre trinciati e sigarette di qualità inferiore». Cfr. L. BERNARDINI, Tabacco, in AA. VV., Enciclopedia Italiana, vol. XXXIII, Roma 1949, pp. 139-155. In Sardegna, nel 1935, la superficie destinata a tabacco era pari ad oltre diecimila ettari, dei quali più di settemila per il tipo Secco ed i restanti per la varietà cosiddetta Samsum. 7 Il Bright più noto è il cosiddetto «Virginia Bright», diffuso (similmente al tipo detto dark) negli Stati Uniti, in particolare nella North Carolina, South Carolina, naturalmente in Virginia ed in altri stati ancora. Viene coltivato in tutto il resto del mondo. È adoperato nella maggior parte delle sigarette in commercio e costituisce la metà della materia prima utilizzata in questo tipo di produzione. 8 Vedi F. BETTONI, Un profilo dell’agricoltura montana, in AA. VV., Storia d’Italia dall’Unità ad oggi. Le regioni. L’Umbria, a cura di R. COVINO, G. GALLO, Torino 1989, pp. 285-340. 9 Il Burley appartiene ai cosiddetti tabacchi «Kentucky», che comparvero – sul finire del XVII secolo - nei territori della Virginia e dello 4 Il Bright era miscelato per il confezionamento di sigarette di qualità superiore mentre il Burley era preferito nel senso della quantità e costituiva il cosiddetto «corpo» della sigaretta. Brizi Tra il 1959 ed il 1960, a Fertilia si dedicavano alla sperimentazione non più di una decina di persone, addette alla piantagione, all’assistenza, alla cura della crescita delle piante. Nella stagione della raccolta invece si poteva arrivare a trenta addetti, dato che il tabacco va raccolto gradatamente, a cominciare dalle foglie più vicine alla base, poi più su, cogliendo quelle apicali, e questo nel corso di cinque, sei settimane di tempo. La raccolta iniziava in giugno, e proprio ad Alghero era frequente che i turisti inglesi ospiti della riviera si avvicinassero alle piantagioni particolarmente incuriositi, anche perché la pianta ha una bellezza ed un fascino tutto particolare. Nel 1959 era per tutti una novità vedere una piantina crescere velocemente, sino ad arrivare a tre metri d’altezza, con venticinque, trenta foglie realmente utilizzabili. Quelle più in basso sono di solito rovinate dal vento, dalla sabbia, dalla terra. Poi entra in gioco l’abilità dell’uomo e la sua esperienza nel determinare quale foglia è da cogliere. Occorre capire che è il momento giusto perché questa foglia sia colta mentre per quella più in alto è ancora presto. Santarelli Questo spiega anche perché la raccolta può durare fino il mese di settembre. Ma – come si usa dire – il tabacco bisogna che entri buono nell’opificio. È nell’opificio che il tabacco si può rovinare o aggiustare. Resta il fatto che occorre dare ciò che serve alla pianta con gradualità, occorre intervenire oggi piuttosto che domani e, se segue l’esperto, il coltivatore non incontra grosse difficoltà. Brizi Il colore verde molto tenue testimoniava che le foglie erano giunte a maturazione. A quel punto, venivano trasportate con dei carri all’interno dell’opificio del tabacco. Qui le foglie venivano infilzate una ad una e messe a cavallo di una pertica cui restavano appese per il picciolo, sospese ad un’altezza proporzionata a quella della foglia. 2. La terra, la pianta, il lavoro Santarelli La fase d’essiccazione poteva avvenire all’aperto (come nell’Azienda di Alghero), oppure al chiuso, all’interno dell’essiccatoio, come avveniva ad Arborea, in locali molto arieggiati. stesso Tennessee (si noti la corrispondenza logistica, in tema di storia delle bonifiche integrali). L’Italia figura tra i più consistenti importatori di tali qualità, utili nel confezionamento dei sigari Toscano e Napoletano. In particolare, in America del nord il Kentucky Burley era preferito dai fumatori e dai consumatori di tabacco da masticare. 5 Il processo di essiccazione poteva compiersi nel giro di una quarantina di giorni. Le foglie essiccate venivano rimosse e altre, appena colte, iniziavano ad essere esposte all’aria. Brizi Una volta essiccate, le foglie di tabacco venivano disposte coi piccioli rivolti all’esterno, come in un tappeto regolare, pronte ad essere pressate con una macchina adatta. La pressa serviva anche a ridurre lo spazio del fogliame e ad uniformarne l’ingombro. La balla ottenuta era avvolta da due teli, nella parte alta e in quella bassa, che venivano legati. A questo punto, poteva essere immagazzinata, in locali chiusi, arieggiati e bui. Santarelli Nella fase di maggiore produzione, nel tabacchificio di Arborea arrivammo a preparare circa seicento quintali di tabacco, nel giro di quattro, cinque mesi di tempo. Ma come ho accennato, il bello veniva dopo, al momento della destinazione della foglia al reparto lavorazione, quando viene messa alla prova la qualità del raccolto, dell’essiccazione, dell’imballaggio del prodotto… Brizi La lavorazione del tabacco veniva svolta essenzialmente da manodopera femminile. Le balle venivano riaperte per catalogare le foglie secondo la qualità: prima, seconda, terza qualità. Allora, nello stabilimento di Arborea, trovavano occupazione trenta, quaranta, anche cinquanta addetti, mentre nell’estate si arrivava anche a quattrocento persone, lavoratori a giornata, in maggioranza studenti, cioè persone giovani, svelte, adatte ad infilzare le foglie. Venivano da Uras, da Terralba, da Arcidano… Una volta scelte, le foglie venivano messe in ceste, simili a quelle per i polli. Nei primi anni, invece, si usava riappendere il tabacco alle pertiche e la cosa era più faticosa. In ogni cesta finivano cinque, sei chili di tabacco, e così le ceste erano accatastate, in attesa di avviarle al seconda fase di lavorazione. Quando lo lavori, il tabacco deve essere morbido, non può essere secco o friabile, perché allora si rovinerebbe. Insomma, deve raggiungere la giusta umidità. Per questo lo facevamo transitare in una cella a vapore, a novanta gradi, con una grossa caldaia, così da far riprendere al tabacco l’umidità, senza bagnarlo10. Prima che si asciugassero, le foglie finivano dentro le botti, stese all’interno per strati fino a riempirle. Santarelli Il bello è che bisogna conoscere e capire i tempi di umidificazione necessari alla foglia, prima di conservarla nelle botti, che sono fatte in legno di pioppo stagionato, ben secco e pulito. L’esperto capisce al tatto se il tempo è stato sufficiente o meno. Umidificare una foglia basilare è una cosa, trattare un’apicale è un'altra… 10 Il nome tecnico «rinvincidimento». di questo procedimento 6 è esattamente quello di Brizi Ci vuol poco a rovinare una botte intera, sbagliando i tempi, anche se, in tutti gli anni che vi ho lavorato, non mi si è mai rovinata una botte… La muffa può espandersi all’interno pregiudicando la qualità del prodotto che restava per un paio d’anni a fermentare. La Commissione – che veniva da Roma – apriva la botte e … 3. Il mito e il rito Santarelli Si facevano tre tagli e si prelevavano i campioni di tabacco. In base al campione si stabiliva il prezzo. Comunque, durante tutto l’anno, la produzione era controllata dal capo zona e dal capo mandamento. Il capo Zona dello Stato aveva da controllare una certa area di territorio; il capo di un intero Mandamento invece era addetto al controllo di più regioni. Il capo Mandamento, che nel nostro caso veniva da Viterbo, seguiva il Lazio e la Sardegna. Una volta saggiato il prodotto, ci dicevano loro dove inviare le botti che potevano contenere fino a quattro quintali di prodotto ciascuna. Brizi Le botti le costruivamo qui ad Arborea, avevamo le doghe e comunque le tenevamo nel locale caldaia, per ridurre al massimo l’umidità. Poi, una volta aperte, si siglavano. Santarelli Sulla botte si segnava l’anno di raccolta, e naturalmente il grado11: a, b, c. Il grado A è il migliore, e questo dato lo aggiungeva la Commissione che controllava la qualità del tabacco. Il tabacco di grado inferiore era pagato meno di quello di prima qualità12. Il Monopolio lo utilizzava per certi tipi di sigarette e non per altri. In una sigaretta superiore anche il riempiticcio era di qualità; in una sigaretta mediocre ci mettevano il tabacco inferiore. Noi non sapevamo dove finisse il tabacco prodotto ad Arborea. La miscela è un segreto. E, infatti, c’è la storia delle famose sigarette Africa Orientale Italiana e Tre stelle, sigarette italiane di tipo americano, che furono «contrabbandate» da due studenti, inviati dal governo, allora fascista, a spiare e a captare il modo per tirare fuori quelle due miscele. Brizi Tra l’altro, ricordo che un anno tentammo l’esperimento del tabacco da sigaro, tipo Kent, sulle terre della Società 11 Il concetto di grado sottintende una quantità di foglie di tabacco che, sottoposte a cura o a fermentazione, nell’ambito del processo di raccolta e di trasformazione del prodotto, siano sufficientemente omogenee dal punto di vista delle caratteristiche qualitative. Nell’attribuzione del grado si tiene conto, ad esempio, del colore delle foglie, della loro combustibilità, dell’integrità del tessuto fogliare e di altro ancora. 12 È appunto con l’espressione «fuori grado» che si è soliti indicare un tabacco d’infima qualità, tale da escluderlo dalle categorie di prodotto commercializzabili, sebbene, anche in questo caso, esso possa essere immesso nelle sigarette più economiche. 7 Bonifiche Sarde13. Era venuto fuori un raccolto mastodontico, di foglia fine, sembrava carta velina, forse a causa della terra troppo forte. Santarelli Va detto che vi erano delle concimazioni fatte apposta per la coltura del tabacco, dove ad esempio l’azoto14 entrava in minima parte, tanto che divennero famosi i tedeschi per aver fatto due o tre concimi che mandavano in Australia, paese gran produttore di tabacchi. Anche noi, qui, facemmo uso di quei prodotti, e l’azoto è la morte della foglia, che deve restare gialla o marroncina, come nel caso del Burley. Badi che nel 1963, quando qui arrivò la peronospora, successe l’iradiddio. In continente arrivò nel Sessanta, per arrivare da noi occorsero tre anni circa. La peronospora faceva morire il tabacco, con le bolle, un po’ come avviene nel caso delle vite15. 13 Il tabacco Kentucky è usato tradizionalmente per preparare il sigaro «Toscano Originale» ed è all’origine degli incroci impiantati con successo nelle aziende toscane e del Salernitano. La pianta di questa qualità può raggiungere due metri d’altezza e contare sino a venti foglie di colore verde carico. Sul tema cfr. E. D’ANNA, M. DE VINCENTIS, Il sigaro toscano. Mito italiano, Milano 2001. 14 Le concimazioni con azoto, tra l’altro, arricchiscono il prodotto di nicotina. 15 « (…) Il periodo di tempo trascorso dall’inizio dell’attività di riforma, rende quanto mai interessante l’esame dell’equilibramento dei terreni della riforma fondiaria, al livello produttivo delle zone più evolute e progredite. A tal fine si pongono a raffronto i risultati produttivi raggiunti nel periodo 1953-1961, sulle terree acquisite alla riforma fondiaria, con i dati di produzione relativi alle Regioni italiane nelle quali si attua la riforma, nonché con quelli riguardanti l’intero territorio nazionale. (…) Appare evidente, in primo luogo, come la produzione agricola nazionale faccia registrare un continuo incremento. D’altra parte, l’incremento medio annuo del 4,1%, verificatosi nelle regioni ove la riforma fondiaria agisce, dimostra la ripercussione degli interventi nelle aree depresse. (…) Occorre ricordare che la riforma ha operato su terreni per lo più privi d’investimenti fondiari, nonché di scorte e attrezzature, in aree depresse, nelle quali il sistema colturale dominante era abitualmente quello estensivo. Difatti, nel 1953, cioè tre anni dopo l’emanazione delle leggi di riforma fondiaria, i pascoli e gli incolti rappresentavano ancora il 38,8% della superficie agraria e i seminativi il 58,4% di tale superficie. (…) Le colture arboree specializzate costituivano appena il 2,8% della stessa; il bestiame comprendeva 12 mila capi bovini, 11 mila equini, 13 mila suini e 42 mila ovini, mentre oltre il 52% del prodotto vendibile era appannaggio dei cereali. (…) Nel 1961, i pascoli e gli incolti scendono fino a costituire il 17,7% dell’intera superficie agraria, mentre i seminativi ne rappresentano il 72,7%. L’arboricoltura consiste in oltre 52 mila ettari d’arboreti specializzati ed in decine di migliaia di ettari di colture promiscue. Il bestiame conta circa 146 mila capi bovini, quasi 34 mila equini, oltre 80 mila suini, nonché 185 mila ovini. Gli ordinamenti produttivi (…) subiscono una profonda evoluzione, tanto che i prodotti dei cereali rappresentano, nel 1961, appena il 25,7% della produzione lorda vendibile complessiva, rispetto al 52% del 1953. Nel 1961, il valore unitario del prodotto vendibile è aumentato di circa il 8 Brizi I danni furono enormi, anche perché non eravamo preparati. E la malattia attaccò le piante quanto erano in pieno rigoglio. Santarelli Nel 1967, l’anno in cui io arrivai ad Arborea, abbandonammo le linee16 normali. Furono prese delle linee di produzione che provenivano dall’Australia, linee ibridate, più resistenti ma di qualità scadente. Ancor più la cosa si verificava ad Arborea. Poi, fatti gli opportuni trattamenti contro la peronospora, si tornò alle vecchie linee, non ibride, ma più forti delle vecchie. Il tabacco lo si produceva su circa cinquanta ettari di terra. Brizi Ma di questi residui sulla foglia... trattamenti restavano, naturalmente, i Santarelli Il prodotto lo s’inviava alle manifatture, in base alle indicazioni ricevute. Nell’ultima vendita che fu fatta, 100% rispetto al 1953, mentre l’incremento totale è, sempre nel 1961, del 38% per le Regioni esaminate, e del 17% per il territorio nazionale. (…) Le zone di riforma, sul piano dei nuovi orientamenti produttivi, si vanno allineando alle posizioni già raggiunte su scala regionale e nazionale, con velocità di riconversione superiore. Ovunque i prodotti delle colture erbacee vanno perdendo terreno, a vantaggio degli altri due settori della produzione agricola, (…) le colture arboree e gli allevamenti zootecnici. (…) Il concorso delle colture erbacee, nel giro di nove anni, è diminuito gradatamente (…) dal 41% circa al 36% per il territorio nazionale e da quasi il 42% al 37% per le Regioni esaminate; nelle zone di riforma, invece, la partecipazione delle suddette colture al prodotto complessivo è diminuita dal 83% al 58%. (…) I prodotti dei cereali perdono continuamente la loro primitiva importanza al punto da presentare, nel 1960, poco più del 18% (del prodotto vendibile globale) per il territorio nazionale e soltanto il 16% per le dieci regioni di studio. (…) Hanno guadagnato terreno le colture più redditizie, quali gli ortaggi e le colture industriali. Nel 1961 le predette voci di produzione fornivano già quasi il 29% del prodotto globale per le zone di riforma, contro il 19% circa per le Regioni in esame ed il 17% per l’intero territorio nazionale. (…) Nel settore delle coltivazioni erbacee, il minor incremento medio annuo (4,6%) è dovuto allo sviluppo delle foraggiere (…) e alla diminuita importanza dei cereali e delle leguminose da granella, a vantaggio delle colture ortive e di quelle industriali, il cui incremento – insieme considerate – si verifica in ragione media del 15,1% l’anno». Cfr. DIREZIONE GENERALE DELLA BONIFICA E DELLA COLONIZZAZIONE DEL MINISTERO DELL’AGRICOLTURA E DELLE FORESTE (a cura di), Strutture e servizi per lo sviluppo produttivistico delle campagne (realizzati o promosso dagli Enti di riforma fondiaria), in «Quaderni di studio e di informazione», n. 9, 1964, pag. 60 e sgg. Le dieci Regioni considerate sono: Abruzzo, Basilicata, Campania, Emilia-Romagna, Lazio, Molise, Puglia, Sardegna, Toscana, Veneto. La Sicilia quindi è esclusa. Il dato finale sull’incremento medio annuo – è calcolato considerando l’intervallo compreso tra il 1953 ed il 1961. 16 La «linea» indica la discendenza di una pianta di tabacco, di particolare pregio o resistenza, ottenuta tramite un processo di autofecondazione. 9 quella del 1966, per l’ibrido vennero pagate 60.000 lire a quintale lavorato. Non molto considerando che in Continente ricavavano anche 80.000 a quintale, e noi stessi – l’anno appresso – vendemmo per quel prezzo, per arrivare a spuntare anche 92.000 lire a quintale lavorato, esattamente nel 1972 e nel 1973. C’è da dire, oltretutto, che il prezzo era triennale, scattava cioè – in rapporto al grado di qualità – solo ogni tre anni. Questo era uno dei rischi, ma c’era il monopolio, quindi o così o niente. Santarelli In campagna l’organizzazione del lavoro era molto semplice: tranne i capi squadra e le capo squadra che erano un po’ quelli che seguivano i tecnici – in pratica io ed il collega Brizi, che controllavamo, a nostra volta, lo stato dei lavori sul terreno - gli altri non avevano ruoli particolari. Magari, a coloro che controllavano i forni, era richiesta maggiore competenza per l’aspetto della raccolta del tabacco. La fase dell’infilatura del tabacco era seguita dalle dipendenti più esperte, come la moglie del collega, dopo di che occorreva molta attenzione per preparare il prodotto alla pressa. Le stesse addette controllavano la fase del passaggio della balletta di tabacco alla sala cernita, e compivano la raffinazione. Nella sala cernita c’erano venti, trenta donne che lavoravano alla scelta delle foglie; poi c’erano le operaie più esperte (le maestre) e le raffinatrici, le quali separavano, il più rapidamente possibile, le foglie inadatte dal tabacco di qualità. La rapidità garantiva minori costi di manodopera, quindi un maggiore guadagno al momento della vendita del tabacco. Brizi Il lavoro non era tanto faticoso, in quanto era richiesta soprattutto attenzione, colpo d’occhio, e si capiva subito chi era portato per questa mansione. Santarelli C’erano donne, come la Signora Zaira Brizi, o la mia moglie stessa, che lavorò con me al tabacchificio di Caserta, capaci di cernere più di sessanta chili di tabacco. Anche se va detto che il tabacco campano era molto più uniforme del nostro. Lì – come si dice – il tabacco basta metterlo giù. Brizi Ad Arborea noi arrivammo ad impiantare in pratica delle colture subtropicali, con l’uso delle garze per aumentare l’umidità come all’interno di una serra. 4. Epiloghi Santarelli Quello che conta è innanzi tutto la qualità della terra; poi viene il metodo di coltivazione. E proprio qui ad Arborea la gestione non era del solo Etfas. Io, ad esempio, ero un uomo Consarcori (Consorzio Sardo tra le Cooperative della Rinascita); il collega invece proveniva dall’Etfas. Si faceva sia la coltivazione agricola che quella industriale. Quando lavoravamo il secco, all’interno dello stabilimento, la coltivazione poteva dirsi industriale, e l’orario 10 era grosso modo dalle 8,30 alle 12 e di pomeriggio dalle 13,30 alle 16. Brizi Sui campi si iniziava alle cinque del mattino. Il clima al lavoro era tranquillo, allegro, anche perché eravamo in maggioranza giovani. E l’organizzazione del tabacchificio non richiedeva competenze esterne, tanto che certi agronomi non erano in grado di conoscere quanto noi avevamo appreso lavorando direttamente sul campo. Santarelli La coltivazione del tabacco in genere è riservata ai giovani che sono più rapidi e in ogni caso più resistenti alla fatica del lavoro in campagna. Poi tutto è finito, dato che gli assegnatari volevano il tabacchificio per ricavarvi un magazzino – qual è tuttora – non comprendendo che, allora, qualunque cosa avessero chiesto alla Regione sarda, loro l’avrebbero ottenuta. Il potere dell’Etfas era tale da comandare, anche in Regione. Brizi E se avessero chiesto i magazzini, gli assegnatari li avrebbero ottenuti certamente senza troppe difficoltà. Poi, nel 1974, finì tutto. Santarelli Fu allora che venne fatto il primo sciopero nella storia di Arborea. «Siete stati capaci di farmi scioperare la gente» mi disse Antonio Marras. Erano gli anni in cui i terreni erano richiesti per le produzioni legate al latte e facevano gola anche quelli destinati al tabacco. Non che quelle terre fossero tutte idonee al tabacco. Facendo esperimenti, avevamo trovate delle zone limitrofe, ad esempio tra Palmas Arborea e Santa Giusta, che non avevano nulla da invidiare al territorio di Arborea. Brizi pena. Magari non erano grandi appezzamenti ma poteva valerne la Santarelli cantina. Senza dimenticare la colpa di aver fatto morire la Brizi Facevano un Trebbiano eccezionale, da restare stupefatti per la qualità di quel vino. Santarelli Lasciamo stare che hanno consentito di vendere le terra. Non come avviene in Olanda. La destinazione di questi terreni è una ed una sola: se ti va, bene; se non ti va, allora lo lasci. Brizi soldi. E quella terra, del resto, l’hanno venduta per quattro Santarelli Prima di far morire un’industria, prima di far morire qualsiasi attività, bisogna pensarci bene, tenuto conto che 11 l’Unione Europea è arrivata milione di lire a quintale. a pagare il tabacco oltre mezzo una prima BIBLIOGRAFIA La letteratura sull’argomento ricognizione si rimanda a: è vastissima. Per G. PICCALUGA, Relazione ed istruzione sulla coltura del tabacco in Sardegna, Cagliari 1851 ISTITUTO SCIENTIFICO SPERIMENTALE PER I TABACCHI, Il tabacco in Italia. Compendio scientifico tecnologico, Roma 1953 C. MAXIA, Note di un antropologo su un curioso modo di fumare in Sardegna a «Fogu a intru», Cagliari 1956 AA. VV., Il tabacco: problemi economici della coltura, Roma-Milano 1958 G. CIMA, Tabacchi chiari americani e Kentucky, Bologna 1960 A. MANZONI, Il tabacco, Milano 1962 M. PUZZINI, Il semenzaio per il tabacco, Roma 1962 A. CAMMELLI, Studio tecnico-economico comparato fra varietà Bright Italia e la linea resistente alla peronospora tabacchina, Perugia 1963 S. GRASSI, La via del tabacco, Roma 1967 E. SCALCIONE, Prontuario del tabacchicoltore e del perito, Bologna 1969 P. GIAMMARIOLI, Il tabacco. Pianta voluttuaria, Torino 1975 A. TRENTI, Tabacco e fumo, Milano-Firenze 1976 J. F. CAMAIRE, Fumare o no, a cura di G. BERLINGUER, Roma 1982 V. G. KIERNAN, Storia del tabacco, Venezia 1997 12