Tabacchi e bonifiche

annuncio pubblicitario
Tabacchi e bonifiche
Elementi orali ed iconografici per contribuire
alla storia del tabacco in Sardegna
di CARLO ANEDDA e GIOVANNI MURRU
L’analisi delle vicende legate alla diffusione, allo sfruttamento
e
alla
commercializzazione
dei
tabacchi
nella
Sardegna
contemporanea, ancorché non riassumibile nello spazio di questo
contributo, non può che soffermarsi, in primis, sulla coltivazione
nelle campagne ogliastrine della celeberrima Nicotiana Tabacum.
È, infatti, in Ogliastra1 che fin dal 1920 il presule
«progressista» e riformatore Emanuele Virgilio2 introduce, in via
sperimentale,
la
coltivazione
delle
qualità
Perustizia
ed
Erzegovina stolak, particolarmente adatta, quest’ultima, come
«condimento», grazie alle doti aromatiche e combustibili della
foglia.
Nel processo produttivo sono anzitutto coinvolte una decina
d’operaie di Tortolì, cittadina sede vescovile attorno alla quale
sarà diffuso l’impianto del tabacco, mentre all’interno della
propria residenza Monsignor Virgilio accetterà di buon grado di
ricavare, almeno temporaneamente, i locali necessari ad ospitare
le maestranze addette al neonato opificio. Mentre il 1921 si
chiudeva col conto economico in attivo, l’anno seguente poteva
essere inaugurato un nuovo magazzino. Per la costruzione dello
stabile, edificato lungo il rettilineo posto fra Tortolì ed
Arbatax, era stato necessario richiedere un mutuo consistente,
pari a circa duecentomila lire.
Tra gli obiettivi pastorali di Emanuele Virgilio figuravano
non solo le urgenze occupazionali ma anche l’assistenza agli
orfani e, soprattutto, l’avvio di una virtuosa diffusione delle
competenze agrotecniche, come si evince ad esempio dalla coeva
fondazione della scuola di agricoltura di Arzana.
Il primo imprenditore laico ad accettare la scommessa di
investire nel settore del tabacco è un dinamico giovane,
originario di Lanusei, tale Salvatore Orrù, al quale – per
intercessione dello stesso Vescovo d’Ogliastra – il Monopolio di
Stato aveva rilasciato la concessione all’impianto di tabacchi
Perustizia indi Samsum su un’area pari a circa trenta ettari.
Dal 1922 in poi, Orrù provvedeva ad impiantare il tabacco su
15 ettari di terra di proprietà del Vescovado: su sette ettari
1
Cfr. A. USAI, La Diocesi ogliastrina nella serie dei Vescovi di
Fordongianus, Suelli, Tortolì, Lanusei, Cagliari 1970.
2
Emanuele Virgilio nasce a Venosa il 3 agosto del 1868 ed è eletto
Vescovo d’Ogliastra, con cattedra a Tortolì, all’età di quarantadue anni.
Attento lettore dei teorizzatori meridionalisti – era conterraneo di
Francesco Saverio Nitti e di Giustino Fortunato - cura l’educazione dei
giovani e la loro istruzione professionale. Muore a Tortolì nel 1923.
Cfr. V. PIRARBA, Principali scelte pastorali nella Diocesi ogliastrina
durante l’Episcopato di Monsignor Emanuele Virgilio (1910-1923), Tesi di
laurea, Facoltà Teologica di Cagliari, a. a. 1978-1979; T. LODDO, Il
movimento cattolico in Ogliastra 1872-1969, Cagliari 1993; ID., Diocesi
di Lanusei, Cagliari 1998; V. NONNIS, Arbatax, Cagliari 2000.
1
confinanti con lo stabilimento e su altri otto siti in località
«Samucus».
Le
terre
restanti,
comprese
nella
concessione,
ricadevano invece su altre zone, risultando però divise in
appezzamenti piccoli e disomogenei.
Come imposto dalle leggi correnti, sulla coltivazione e sulla
raccolta del tabacco ogliastrino vigilavano, ad un tempo, la
proprietà, il soggetto concessionario e la Guardia di Finanza.
L’attività della manodopera era scandita secondo i rituali tipici
del calendario agricolo della coltura tabagica: il ciclo aveva
inizio nei mesi di dicembre e gennaio, con l’impianto dei semenzai
mentre – tra marzo ed aprile – si provvedeva a mettere a dimora le
piantine, in grado di raggiungere circa 150 centimetri di altezza
nel proprio massimo sviluppo. Il tabacchificio di Arbatax era
solito conferire la materia prima ai magazzini di Sassari e, da
qui, alla Manifattura di Cagliari3.
Tutto ciò avveniva dopo aver completato il processo di
confezionamento delle foglie in piccole balle, dal peso compreso
tra quindici e venti chilogrammi, destinate a loro volta alla
stagionatura, al termine della quale il tabacco era trasferito
altrove, mediante ferrovia.
Non troppo dissimile, rispetto all’introduzione del tabacco in
Ogliastra, appare la vicenda dell’impianto operativo in agro di
Arborea.
Questo episodio è ricostruito nell’intervista pubblicata di
seguito,
raccolta
nel
2001,
così
da
fornire
una
prima
rivisitazione della vicenda della coltivazione della solanacea nel
Campidano di Terralba. All’utilizzo dello strumento tipico della
storia orale, quale è appunto l’intervista, si affianca, in questa
sede, un corredo fotografico sufficientemente rappresentativo
delle fasi di lavorazione e di organizzazione delle competenze
interne a questo stabilimento.
L’introduzione della preziosa dicotilèdone, nell’ambito della
Riforma
fondiaria,
coincise
con
l’applicazione
di
metodi
agrotecnici ed industriali di notevole valore. Questo dato di
fatto è testimoniato dalla qualità raggiunta dalla produzione del
tabacchificio di Arborea che, peraltro, chiuse i battenti nei
primi anni Settanta del secolo scorso.
Hanno accettato di ricordare le origini, lo sviluppo e la
crisi di quell’esperienza Remigio Brizi (1930) e Dante Santarelli
(1928). Essi operarono come tecnici, addetti e responsabili, in
pratica,
di
tutta
la
macchina
organizzativa
e
produttiva
dell’Azienda. Il tabacchificio era controllato dall’Ente di
riforma voluto dalla Regione Autonoma (Etfas) ed era gestito col
concorso del Consorzio cui facevano riferimento le società
cooperative nate a seguito dell’applicazione della legge Segni e
delle normative successive, emanate appannaggio del riordino
fondiario.
3
Cfr. A. ROMAGNINO, L’ultima sirena della Manifattura, in «L'Unione
Sarda», 1 novembre 2001; E. DESSÌ, La città perde un pezzo di storia: la
fabbrica aprì nel 1850, in «L’Unione Sarda», 20 novembre 2001.
2
I due tecnici provenivano dall’Umbria, dove nei primi anni
Cinquanta avevano iniziato il proprio cammino professionale,
all’interno di strutture agroindustriali simili a quella poi
realizzata nella città di fondazione, inaugurata appena trenta
anni prima.
Alla fine degli anni Cinquanta Remigio Brizi fu inviato in
Sardegna, mentre Dante Santarelli transitò in due aziende della
Valfabbrica, presso Assisi, luoghi da cui si allontanò, per
trasferirsi anch’egli nell’Isola, mettendo su casa ad Arborea,
come fece appunto il collega. Anch’essi dunque, da uomini della
collina divennero – per così dire - uomini della bonifica.
1. Arrivo in bonifica
Brizi
Io sono arrivato in Sardegna nel 1959, il 23 gennaio del
1959. Fui trasferito esattamente a Fertilia e presi dimora
nell’ostello della gioventù. Assieme a me, a quell’epoca venne un
direttore, Fausto Brugiotti, che proveniva dalla ditta ViglinoMeoni. Dovevamo intraprendere un esperimento d’impianto di
tabacco, di tipo Burley4, ed appunto in quell’epoca iniziammo la
campagna d’impianto e di coltivazione, preventivata per tre anni.
Avviammo subito la preparazione dei semenzai, così da avere le
piantine da portare nei campi. Iniziammo quest’avventura, e date
le condizioni atmosferiche, data la bontà della terra, grazie
all’acqua abbondante – all’epoca in quella zona non mancavano i
pozzi consistenti dove trovarla – avviammo con un certo ottimismo
la coltivazione, anzitutto su piccoli appezzamenti.
L’esperimento consisteva nell’impiegare le diverse concimazioni,
così da vedere, nell’arco dell’anno, quale si sarebbe rivelata
migliore. Il tabacco cresceva a meraviglia, si può dire «a vista
d’occhio» e le immagini di allora lo dimostrano.
Nel corso dell’anno si procedette all’essiccazione delle foglie,
poi portammo il tabacco a Sassari, all’incirca alla fine di
settembre, consegnandolo alla locale Agenzia dei Monopoli di
Stato, la quale lo valutò con soddisfazione – sia per qualità sia
per quantità – considerando che era il primissimo raccolto.
Naturalmente, la sperimentazione continuò l’anno appresso, fino a
completamento del ciclo triennale, dopo di che da Roma arrivò il
certificato che quel tipo di prodotto sarebbe potuto andar bene
anche per le terre restanti della Nurra, a condizione che vi fosse
acqua sufficiente alla coltivazione.
Santarelli
La scelta di impiantare il tabacco in Sardegna fu
fatta di concerto fra l’On. Antonio Segni ed il nostro Direttore
tecnico, l’ing. Viglino.
Segni, infatti, cercava a quell’epoca di introdurre in Sardegna
una coltivazione a carattere industriale, anche per via delle
4
Questo tipo di tabacco compare nella seconda metà dell’Ottocento, e per
spontanea mutazione, in territorio statunitense. È caratterizzato dal
colore verde chiaro della foglia e dal giallo pallido del fusto della
pianta. La porosità lo ha reso un ingrediente essenziale delle sigarette
conciate. Cfr. F. TESTA, A. MARCONI, Il Toscano. Guida completa al sigaro
italiano, Firenze 2000, pag. 148 e sgg.
3
trasformazioni che erano state fatte tramite le bonifiche agrarie,
cercando così di incentivare qualche coltura redditizia anche da
questo punto di vista.
Tra le ipotesi prospettate, c’era quella del tabacco, anche se
tutta la zona del Sassarese, le terre intorno a Sorso, Castelsardo
eccetera, erano state da lungo tempo occupate da due tipi di
coltura: l’Erzegovina5 – un prodotto adatto al confezionamento
delle sigarette – ed il tabacco da fiuto (Perustizia) che allora
si produceva e si consumava in quantità.
C’era dunque già una certa storia e si trattava, oltretutto, di
due prodotti assai richiesti, specie sul mercato tunisino e su
quello marocchino.
In effetti, la coltivazione del tabacco si era diffusa molto tempo
addietro anche nelle campagne di Tortolì, per cura della famiglia
Orrù, che per tradizione coltivava e commercializzava un prodotto
di tipo orientale, fine, pregiato, che era poi condotto a Sassari
(mentre a Cagliari il Monopolio provvedeva a confezionare le
sigarette) e che era usato per le sigarette turche6.
Questo fu, insomma, il principio che guidò l’idea di esportare, in
queste aree dell’Isola, la coltivazione di quel tipo di piante,
nella Nurra il Burley, qui, ad Arborea, il tipo Bright Italia7.
Questi tabacchi sono assai diversi fra loro. In particolare, il
Bright Italia, che era prodotto in gran quantità in Umbria8, sulle
colline vicine a Perugia, ad Assisi e a Città di Castello, intorno
ai quattro, cinquecento metri d’altitudine, è un prodotto adatto
ad essere impiantato su terreni alluvionali o particolarmente
sabbiosi. Viceversa, il Burley9. si adatta anche su fondi più
compatti.
5
Il tabacco «Erzegovina» appartiene alle varietà esotiche, il cui seme,
già in passato, fu riprodotto in Italia. Questa coltura si diffuse in
particolare in Campania, Puglia, nel palermitano e nelle stesse pianure
sassaresi.
6
Tra le varietà indigene di tabacco, in Sardegna potevano distinguersi
il Secco ed il Rigadio di Sardegna, che furono coltivati nel Sassarese
sul finire del 1600: «Il secco non è irrigato, mentre il Rigadio lo è; il
Rigadio serve esclusivamente per preparare la polvere da fiuto Zenziglio;
col Secco si preparano polveri ed inoltre trinciati e sigarette di
qualità inferiore». Cfr. L. BERNARDINI, Tabacco, in AA. VV., Enciclopedia
Italiana, vol. XXXIII, Roma 1949, pp. 139-155. In Sardegna, nel 1935, la
superficie destinata a tabacco era pari ad oltre diecimila ettari, dei
quali più di settemila per il tipo Secco ed i restanti per la varietà
cosiddetta Samsum.
7
Il Bright più noto è il cosiddetto «Virginia Bright», diffuso
(similmente al tipo detto dark) negli Stati Uniti, in particolare nella
North Carolina, South Carolina, naturalmente in Virginia ed in altri
stati ancora. Viene coltivato in tutto il resto del mondo. È adoperato
nella maggior parte delle sigarette in commercio e costituisce la metà
della materia prima utilizzata in questo tipo di produzione.
8
Vedi F. BETTONI, Un profilo dell’agricoltura montana, in AA. VV., Storia
d’Italia dall’Unità ad oggi. Le regioni. L’Umbria, a cura di R. COVINO, G.
GALLO, Torino 1989, pp. 285-340.
9
Il Burley appartiene ai cosiddetti tabacchi «Kentucky», che comparvero
– sul finire del XVII secolo - nei territori della Virginia e dello
4
Il Bright era miscelato per il confezionamento di sigarette di
qualità superiore mentre il Burley era preferito nel senso della
quantità e costituiva il cosiddetto «corpo» della sigaretta.
Brizi
Tra il 1959 ed il 1960, a Fertilia si dedicavano alla
sperimentazione non più di una decina di persone, addette alla
piantagione, all’assistenza, alla cura della crescita delle
piante.
Nella stagione della raccolta invece si poteva arrivare a trenta
addetti, dato che il tabacco va raccolto gradatamente, a
cominciare dalle foglie più vicine alla base, poi più su,
cogliendo quelle apicali, e questo nel corso di cinque, sei
settimane di tempo.
La raccolta iniziava in giugno, e proprio ad Alghero era frequente
che i turisti inglesi ospiti della riviera si avvicinassero alle
piantagioni particolarmente incuriositi, anche perché la pianta ha
una bellezza ed un fascino tutto particolare.
Nel 1959 era per tutti una novità vedere una piantina crescere
velocemente, sino ad arrivare a tre metri d’altezza, con
venticinque, trenta foglie realmente utilizzabili.
Quelle più in basso sono di solito rovinate dal vento, dalla
sabbia, dalla terra. Poi entra in gioco l’abilità dell’uomo e la
sua esperienza nel determinare quale foglia è da cogliere. Occorre
capire che è il momento giusto perché questa foglia sia colta
mentre per quella più in alto è ancora presto.
Santarelli
Questo spiega anche perché la raccolta può durare
fino il mese di settembre. Ma – come si usa dire – il tabacco
bisogna che entri buono nell’opificio. È nell’opificio che il
tabacco si può rovinare o aggiustare.
Resta il fatto che occorre dare ciò che serve alla pianta con
gradualità, occorre intervenire oggi piuttosto che domani e, se
segue l’esperto, il coltivatore non incontra grosse difficoltà.
Brizi
Il colore verde molto tenue testimoniava che le foglie
erano giunte a maturazione. A quel punto, venivano trasportate con
dei carri all’interno dell’opificio del tabacco. Qui le foglie
venivano infilzate una ad una e messe a cavallo di una pertica cui
restavano
appese
per
il
picciolo,
sospese
ad
un’altezza
proporzionata a quella della foglia.
2. La terra, la pianta, il lavoro
Santarelli
La fase d’essiccazione poteva avvenire all’aperto
(come nell’Azienda di Alghero), oppure al chiuso, all’interno
dell’essiccatoio, come avveniva ad Arborea, in locali molto
arieggiati.
stesso Tennessee (si noti la corrispondenza logistica, in tema di storia
delle bonifiche integrali). L’Italia figura tra i più consistenti
importatori di tali qualità, utili nel confezionamento dei sigari Toscano
e Napoletano. In particolare, in America del nord il Kentucky Burley era
preferito dai fumatori e dai consumatori di tabacco da masticare.
5
Il processo di essiccazione poteva compiersi nel giro di una
quarantina di giorni. Le foglie essiccate venivano rimosse e
altre, appena colte, iniziavano ad essere esposte all’aria.
Brizi
Una volta essiccate, le foglie di tabacco venivano
disposte coi piccioli rivolti all’esterno, come in un tappeto
regolare, pronte ad essere pressate con una macchina adatta. La
pressa serviva anche a ridurre lo spazio del fogliame e ad
uniformarne l’ingombro.
La balla ottenuta era avvolta da due teli, nella parte alta e in
quella bassa, che venivano legati. A questo punto, poteva essere
immagazzinata, in locali chiusi, arieggiati e bui.
Santarelli
Nella fase di maggiore produzione, nel tabacchificio
di Arborea arrivammo a preparare circa seicento quintali di
tabacco, nel giro di quattro, cinque mesi di tempo. Ma come ho
accennato, il bello veniva dopo, al momento della destinazione
della foglia al reparto lavorazione, quando viene messa alla prova
la qualità del raccolto, dell’essiccazione, dell’imballaggio del
prodotto…
Brizi
La lavorazione del tabacco veniva svolta essenzialmente
da manodopera femminile. Le balle venivano riaperte per catalogare
le foglie secondo la qualità: prima, seconda, terza qualità.
Allora, nello stabilimento di Arborea, trovavano occupazione
trenta, quaranta, anche cinquanta addetti, mentre nell’estate si
arrivava anche a quattrocento persone, lavoratori a giornata, in
maggioranza studenti, cioè persone giovani, svelte, adatte ad
infilzare le foglie. Venivano da Uras, da Terralba, da Arcidano…
Una volta scelte, le foglie venivano messe in ceste, simili a
quelle per i polli.
Nei primi anni, invece, si usava riappendere il tabacco alle
pertiche e la cosa era più faticosa. In ogni cesta finivano
cinque, sei chili di tabacco, e così le ceste erano accatastate,
in attesa di avviarle al seconda fase di lavorazione.
Quando lo lavori, il tabacco deve essere morbido, non può essere
secco o friabile, perché allora si rovinerebbe. Insomma, deve
raggiungere la giusta umidità. Per questo lo facevamo transitare
in una cella a vapore, a novanta gradi, con una grossa caldaia,
così da far riprendere al tabacco l’umidità, senza bagnarlo10.
Prima che si asciugassero, le foglie finivano dentro le botti,
stese all’interno per strati fino a riempirle.
Santarelli
Il bello è che bisogna conoscere e capire i tempi di
umidificazione necessari alla foglia, prima di conservarla nelle
botti, che sono fatte in legno di pioppo stagionato, ben secco e
pulito. L’esperto capisce al tatto se il tempo è stato sufficiente
o meno. Umidificare una foglia basilare è una cosa, trattare
un’apicale è un'altra…
10
Il nome tecnico
«rinvincidimento».
di
questo
procedimento
6
è
esattamente
quello
di
Brizi
Ci vuol poco a rovinare una botte intera, sbagliando i
tempi, anche se, in tutti gli anni che vi ho lavorato, non mi si è
mai rovinata una botte… La muffa può espandersi all’interno
pregiudicando la qualità del prodotto che restava per un paio
d’anni a fermentare. La Commissione – che veniva da Roma – apriva
la botte e …
3. Il mito e il rito
Santarelli
Si facevano tre tagli e si prelevavano i campioni di
tabacco. In base al campione si stabiliva il prezzo. Comunque,
durante tutto l’anno, la produzione era controllata dal capo zona
e dal capo mandamento. Il capo Zona dello Stato aveva da
controllare una certa area di territorio; il capo di un intero
Mandamento invece era addetto al controllo di più regioni. Il capo
Mandamento, che nel nostro caso veniva da Viterbo, seguiva il
Lazio e la Sardegna. Una volta saggiato il prodotto, ci dicevano
loro dove inviare le botti che potevano contenere fino a quattro
quintali di prodotto ciascuna.
Brizi
Le botti le costruivamo qui ad Arborea, avevamo le doghe
e comunque le tenevamo nel locale caldaia, per ridurre al massimo
l’umidità. Poi, una volta aperte, si siglavano.
Santarelli
Sulla botte si segnava l’anno di raccolta, e
naturalmente il grado11: a, b, c. Il grado A è il migliore, e
questo dato lo aggiungeva la Commissione che controllava la
qualità del tabacco. Il tabacco di grado inferiore era pagato meno
di quello di prima qualità12. Il Monopolio lo utilizzava per certi
tipi di sigarette e non per altri. In una sigaretta superiore
anche il riempiticcio era di qualità; in una sigaretta mediocre ci
mettevano il tabacco inferiore. Noi non sapevamo dove finisse il
tabacco prodotto ad Arborea. La miscela è un segreto. E, infatti,
c’è la storia delle famose sigarette Africa Orientale Italiana e
Tre stelle, sigarette italiane di tipo americano, che furono
«contrabbandate» da due studenti, inviati dal governo, allora
fascista, a spiare e a captare il modo per tirare fuori quelle due
miscele.
Brizi
Tra l’altro, ricordo che un anno tentammo l’esperimento
del tabacco da sigaro, tipo Kent, sulle terre della Società
11
Il concetto di grado sottintende una quantità di foglie di tabacco
che, sottoposte a cura o a fermentazione, nell’ambito del processo di
raccolta e di trasformazione del prodotto, siano sufficientemente
omogenee
dal
punto
di
vista
delle
caratteristiche
qualitative.
Nell’attribuzione del grado si tiene conto, ad esempio, del colore delle
foglie, della loro combustibilità, dell’integrità del tessuto fogliare e
di altro ancora.
12
È appunto con l’espressione «fuori grado» che si è soliti indicare un
tabacco d’infima qualità, tale da escluderlo dalle categorie di prodotto
commercializzabili, sebbene, anche in questo caso, esso possa essere
immesso nelle sigarette più economiche.
7
Bonifiche Sarde13. Era venuto fuori un raccolto mastodontico, di
foglia fine, sembrava carta velina, forse a causa della terra
troppo forte.
Santarelli
Va detto che vi erano delle concimazioni fatte
apposta per la coltura del tabacco, dove ad esempio l’azoto14
entrava in minima parte, tanto che divennero famosi i tedeschi per
aver fatto due o tre concimi che mandavano in Australia, paese
gran produttore di tabacchi. Anche noi, qui, facemmo uso di quei
prodotti, e l’azoto è la morte della foglia, che deve restare
gialla o marroncina, come nel caso del Burley. Badi che nel 1963,
quando qui arrivò la peronospora, successe l’iradiddio. In
continente arrivò nel Sessanta, per arrivare da noi occorsero tre
anni circa. La peronospora faceva morire il tabacco, con le bolle,
un po’ come avviene nel caso delle vite15.
13
Il tabacco Kentucky è usato tradizionalmente per preparare il sigaro
«Toscano Originale» ed è all’origine degli incroci impiantati con
successo nelle aziende toscane e del Salernitano. La pianta di questa
qualità può raggiungere due metri d’altezza e contare sino a venti foglie
di colore verde carico. Sul tema cfr. E. D’ANNA, M. DE VINCENTIS, Il sigaro
toscano. Mito italiano, Milano 2001.
14
Le concimazioni con azoto, tra l’altro, arricchiscono il prodotto di
nicotina.
15
« (…) Il periodo di tempo trascorso dall’inizio dell’attività di
riforma, rende quanto mai interessante l’esame dell’equilibramento dei
terreni della riforma fondiaria, al livello produttivo delle zone più
evolute e progredite. A tal fine si pongono a raffronto i risultati
produttivi raggiunti nel periodo 1953-1961, sulle terree acquisite alla
riforma fondiaria, con i dati di produzione relativi alle Regioni
italiane nelle quali si attua la riforma, nonché con quelli riguardanti
l’intero territorio nazionale. (…) Appare evidente, in primo luogo, come
la
produzione
agricola
nazionale
faccia
registrare
un
continuo
incremento.
D’altra
parte,
l’incremento
medio
annuo
del
4,1%,
verificatosi nelle regioni ove la riforma fondiaria agisce, dimostra la
ripercussione degli interventi nelle aree depresse. (…) Occorre ricordare
che la riforma ha operato su terreni per lo più privi d’investimenti
fondiari, nonché di scorte e attrezzature, in aree depresse, nelle quali
il sistema colturale dominante era abitualmente quello estensivo.
Difatti, nel 1953, cioè tre anni dopo l’emanazione delle leggi di riforma
fondiaria, i pascoli e gli incolti rappresentavano ancora il 38,8% della
superficie agraria e i seminativi il 58,4% di tale superficie. (…) Le
colture arboree specializzate costituivano appena il 2,8% della stessa;
il bestiame comprendeva 12 mila capi bovini, 11 mila equini, 13 mila
suini e 42 mila ovini, mentre oltre il 52% del prodotto vendibile era
appannaggio dei cereali. (…) Nel 1961, i pascoli e gli incolti scendono
fino a costituire il 17,7% dell’intera superficie agraria, mentre i
seminativi ne rappresentano il 72,7%. L’arboricoltura consiste in oltre
52 mila ettari d’arboreti specializzati ed in decine di migliaia di
ettari di colture promiscue. Il bestiame conta circa 146 mila capi
bovini, quasi 34 mila equini, oltre 80 mila suini, nonché 185 mila ovini.
Gli ordinamenti produttivi (…) subiscono una profonda evoluzione, tanto
che i prodotti dei cereali rappresentano, nel 1961, appena il 25,7% della
produzione lorda vendibile complessiva, rispetto al 52% del 1953. Nel
1961, il valore unitario del prodotto vendibile è aumentato di circa il
8
Brizi
I danni furono enormi, anche perché non eravamo
preparati. E la malattia attaccò le piante quanto erano in pieno
rigoglio.
Santarelli
Nel 1967, l’anno in cui io arrivai ad Arborea,
abbandonammo le linee16 normali. Furono prese delle linee di
produzione che provenivano dall’Australia, linee ibridate, più
resistenti ma di qualità scadente. Ancor più la cosa si verificava
ad Arborea. Poi, fatti gli opportuni trattamenti contro la
peronospora, si tornò alle vecchie linee, non ibride, ma più forti
delle vecchie. Il tabacco lo si produceva su circa cinquanta
ettari di terra.
Brizi
Ma di questi
residui sulla foglia...
trattamenti
restavano,
naturalmente,
i
Santarelli
Il prodotto lo s’inviava alle manifatture, in base
alle indicazioni ricevute. Nell’ultima vendita che fu fatta,
100% rispetto al 1953, mentre l’incremento totale è, sempre nel 1961, del
38% per le Regioni esaminate, e del 17% per il territorio nazionale. (…)
Le zone di riforma, sul piano dei nuovi orientamenti produttivi, si vanno
allineando alle posizioni già raggiunte su scala regionale e nazionale,
con velocità di riconversione superiore. Ovunque i prodotti delle colture
erbacee vanno perdendo terreno, a vantaggio degli altri due settori della
produzione agricola, (…) le colture arboree e gli allevamenti zootecnici.
(…) Il concorso delle colture erbacee, nel giro di nove anni, è diminuito
gradatamente (…) dal 41% circa al 36% per il territorio nazionale e da
quasi il 42% al 37% per le Regioni esaminate; nelle zone di riforma,
invece, la partecipazione delle suddette colture al prodotto complessivo
è diminuita dal 83% al 58%. (…) I prodotti dei cereali perdono
continuamente la loro primitiva importanza al punto da presentare, nel
1960, poco più del 18% (del prodotto vendibile globale) per il territorio
nazionale e soltanto il 16% per le dieci regioni di studio. (…) Hanno
guadagnato terreno le colture più redditizie, quali gli ortaggi e le
colture industriali. Nel 1961 le predette voci di produzione fornivano
già quasi il 29% del prodotto globale per le zone di riforma, contro il
19% circa per le Regioni in esame ed il 17% per l’intero territorio
nazionale. (…) Nel settore delle coltivazioni erbacee, il minor
incremento medio annuo (4,6%) è dovuto allo sviluppo delle foraggiere (…)
e alla diminuita importanza dei cereali e delle leguminose da granella, a
vantaggio delle colture ortive e di quelle industriali, il cui incremento
– insieme considerate – si verifica in ragione media del 15,1% l’anno».
Cfr. DIREZIONE GENERALE DELLA BONIFICA E DELLA COLONIZZAZIONE DEL MINISTERO
DELL’AGRICOLTURA E DELLE FORESTE (a cura di), Strutture e servizi per lo
sviluppo produttivistico delle campagne (realizzati o promosso dagli Enti
di riforma fondiaria), in «Quaderni di studio e di informazione», n. 9,
1964, pag. 60 e sgg. Le dieci Regioni considerate sono: Abruzzo,
Basilicata, Campania, Emilia-Romagna, Lazio, Molise, Puglia, Sardegna,
Toscana, Veneto. La Sicilia quindi è esclusa. Il dato finale sull’incremento medio annuo – è calcolato considerando l’intervallo
compreso tra il 1953 ed il 1961.
16
La «linea» indica la discendenza di una pianta di tabacco, di
particolare pregio o resistenza, ottenuta tramite un processo di
autofecondazione.
9
quella del 1966, per l’ibrido vennero pagate 60.000 lire a
quintale lavorato. Non molto considerando che in Continente
ricavavano anche 80.000 a quintale, e noi stessi – l’anno appresso
– vendemmo per quel prezzo, per arrivare a spuntare anche 92.000
lire a quintale lavorato, esattamente nel 1972 e nel 1973. C’è da
dire, oltretutto, che il prezzo era triennale, scattava cioè – in
rapporto al grado di qualità – solo ogni tre anni. Questo era uno
dei rischi, ma c’era il monopolio, quindi o così o niente.
Santarelli
In campagna l’organizzazione del lavoro era molto
semplice: tranne i capi squadra e le capo squadra che erano un po’
quelli che seguivano i tecnici – in pratica io ed il collega
Brizi, che controllavamo, a nostra volta, lo stato dei lavori sul
terreno - gli altri non avevano ruoli particolari. Magari, a
coloro
che
controllavano
i
forni,
era
richiesta
maggiore
competenza per l’aspetto della raccolta del tabacco. La fase
dell’infilatura del tabacco era seguita dalle dipendenti più
esperte, come la moglie del collega, dopo di che occorreva molta
attenzione per preparare il prodotto alla pressa. Le stesse
addette controllavano la fase del passaggio della balletta di
tabacco alla sala cernita, e compivano la raffinazione. Nella sala
cernita c’erano venti, trenta donne che lavoravano alla scelta
delle foglie; poi c’erano le operaie più esperte (le maestre) e le
raffinatrici, le quali separavano, il più rapidamente possibile,
le foglie inadatte dal tabacco di qualità. La rapidità garantiva
minori costi di manodopera, quindi un maggiore guadagno al momento
della vendita del tabacco.
Brizi
Il lavoro non era tanto faticoso, in quanto era richiesta
soprattutto attenzione, colpo d’occhio, e si capiva subito chi era
portato per questa mansione.
Santarelli
C’erano donne, come la Signora Zaira Brizi, o la mia
moglie stessa, che lavorò con me al tabacchificio di Caserta,
capaci di cernere più di sessanta chili di tabacco. Anche se va
detto che il tabacco campano era molto più uniforme del nostro. Lì
– come si dice – il tabacco basta metterlo giù.
Brizi
Ad Arborea noi arrivammo ad impiantare in pratica delle
colture subtropicali, con l’uso delle garze per aumentare
l’umidità come all’interno di una serra.
4. Epiloghi
Santarelli
Quello che conta è innanzi tutto la qualità della
terra; poi viene il metodo di coltivazione. E proprio qui ad
Arborea la gestione non era del solo Etfas.
Io, ad esempio, ero un uomo Consarcori (Consorzio Sardo tra le
Cooperative
della
Rinascita);
il
collega
invece
proveniva
dall’Etfas. Si faceva sia la coltivazione agricola che quella
industriale. Quando lavoravamo il secco, all’interno dello
stabilimento, la coltivazione poteva dirsi industriale, e l’orario
10
era grosso modo dalle 8,30 alle 12 e di pomeriggio dalle 13,30
alle 16.
Brizi
Sui campi si iniziava alle cinque del mattino. Il clima
al lavoro era tranquillo, allegro, anche perché eravamo in
maggioranza giovani. E l’organizzazione del tabacchificio non
richiedeva competenze esterne, tanto che certi agronomi non erano
in grado di conoscere quanto noi avevamo appreso lavorando
direttamente sul campo.
Santarelli
La coltivazione del tabacco in genere è riservata ai
giovani che sono più rapidi e in ogni caso più resistenti alla
fatica del lavoro in campagna. Poi tutto è finito, dato che gli
assegnatari volevano il tabacchificio per ricavarvi un magazzino –
qual è tuttora – non comprendendo che, allora, qualunque cosa
avessero chiesto alla Regione sarda, loro l’avrebbero ottenuta. Il
potere dell’Etfas era tale da comandare, anche in Regione.
Brizi
E se avessero chiesto i magazzini, gli assegnatari li
avrebbero ottenuti certamente senza troppe difficoltà. Poi, nel
1974, finì tutto.
Santarelli
Fu allora che venne fatto il primo sciopero nella
storia di Arborea. «Siete stati capaci di farmi scioperare la
gente» mi disse Antonio Marras. Erano gli anni in cui i terreni
erano richiesti per le produzioni legate al latte e facevano gola
anche quelli destinati al tabacco. Non che quelle terre fossero
tutte idonee al tabacco. Facendo esperimenti, avevamo trovate
delle zone limitrofe, ad esempio tra Palmas Arborea e Santa
Giusta, che non avevano nulla da invidiare al territorio di
Arborea.
Brizi
pena.
Magari non erano grandi appezzamenti ma poteva valerne la
Santarelli
cantina.
Senza dimenticare la colpa di aver fatto morire la
Brizi
Facevano un Trebbiano eccezionale, da restare stupefatti
per la qualità di quel vino.
Santarelli
Lasciamo stare che hanno consentito di vendere le
terra. Non come avviene in Olanda. La destinazione di questi
terreni è una ed una sola: se ti va, bene; se non ti va, allora lo
lasci.
Brizi
soldi.
E quella terra, del resto, l’hanno venduta per quattro
Santarelli
Prima di far morire un’industria, prima di far
morire qualsiasi attività, bisogna pensarci bene, tenuto conto che
11
l’Unione Europea è arrivata
milione di lire a quintale.
a
pagare
il
tabacco
oltre
mezzo
una
prima
BIBLIOGRAFIA
La letteratura sull’argomento
ricognizione si rimanda a:
è
vastissima.
Per
G. PICCALUGA, Relazione ed istruzione sulla coltura del tabacco in
Sardegna, Cagliari 1851
ISTITUTO SCIENTIFICO SPERIMENTALE PER I TABACCHI, Il tabacco in Italia.
Compendio scientifico tecnologico, Roma 1953
C. MAXIA, Note di un antropologo su un curioso modo di fumare in
Sardegna a «Fogu a intru», Cagliari 1956
AA. VV., Il tabacco: problemi economici della coltura, Roma-Milano
1958
G. CIMA, Tabacchi chiari americani e Kentucky, Bologna 1960
A. MANZONI, Il tabacco, Milano 1962
M. PUZZINI, Il semenzaio per il tabacco, Roma 1962
A. CAMMELLI, Studio tecnico-economico comparato fra varietà Bright
Italia e la linea resistente alla peronospora tabacchina, Perugia
1963
S. GRASSI, La via del tabacco, Roma 1967
E. SCALCIONE, Prontuario del tabacchicoltore e del perito, Bologna
1969
P. GIAMMARIOLI, Il tabacco. Pianta voluttuaria, Torino 1975
A. TRENTI, Tabacco e fumo, Milano-Firenze 1976
J. F. CAMAIRE, Fumare o no, a cura di G. BERLINGUER, Roma 1982
V. G. KIERNAN, Storia del tabacco, Venezia 1997
12
Scarica