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Edizione di mercoledì 9 novembre
2016
SPECIALE DELLA SETTIMANA
Disciplina giuridica delle rinunce e transazioni (e conciliazioni)
alla luce dell’articolo 2113 cod. civ.
di Francesco Natalini
Prima di introdurre una disamina della disciplina in tema di rinunce e transazioni (e delle
relative conciliazioni) in materia di lavoro, delle peculiarità che esse presentano, in particolare
alla luce di quanto disposto dall’articolo 2113 cod. civ., si ritiene opportuno introdurre e
distinguere brevemente le tre fattispecie, estrapolando le definizioni dal diritto civile.
Nozione di rinuncia
Allocata nella categoria degli atti abdicativi, la rinuncia è una dichiarazione unilaterale di
volontà, portata a conoscenza dell'altra parte, con la quale un soggetto decide di non
esercitare più un suo diritto certo, determinato o determinabile.
A livello civilistico, trova il suo riferimento nell’articolo 1324 cod. civ., il quale, però, si limita a
disporre che: “Salvo diverse disposizioni di legge, le norme che regolano i contratti si osservano, in
quanto compatibili, per gli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale”.
Perché si possa configurare una rinuncia è necessario che il lavoratore:
abbia la consapevolezza e rappresentazione dei diritti di sua spettanza;
intenda volontariamente privarsi, in tutto o in parte, della realizzazione delle sue
ragioni creditorie, specificamente determinate o almeno obiettivamente determinabili,
a vantaggio del proprio datore di lavoro.
Peraltro, la rinuncia non va confusa con la confessione, la quale, pur consistendo
nell’affermazione di fatti a sé sfavorevoli da parte del lavoratore, non costituisce un atto
dispositivo di un diritto e, pertanto, non è soggetta alla disciplina delle rinunce e delle
transazioni.
Nozione di transazione
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Ai sensi dell'articolo 1965 cod. civ., la transazione è un contratto col quale le parti, facendosi
reciproche concessioni, pongono fine a una lite già insorta o prevengono una lite che stia per
sorgere tra loro.
Pertanto la transazione, a differenza della rinuncia:
presuppone l'incertezza in ordine alla spettanza o meno dei diritti oggetto della
transazione (c.d. res litigiosa);
configura un atto bilaterale (quindi un vero e proprio contratto);
comporta la previsione di "reciproche concessioni" tra le parti; a tal riguardo, quindi,
laddove una richiesta di parte (lavoratore) venisse completamente accettata dal datore
di lavoro, tecnicamente non si potrebbe parlare di transazione.
Da ultimo si intende citare una massima, coniata in dottrina e ricorrente nel “linguaggio
comune” adottato tra gli operatori giuridici, secondo cui la transazione “perfetta” sarebbe
“quella che scontenta entrambe le parti”.
Le quietanze a saldo
Un cenno particolare va fatto alle c.d. quietanze a saldo o liberatorie, le quali consistono in
una dichiarazione rilasciata dal lavoratore, che dà atto di aver ricevuto una determinata
somma a totale soddisfacimento di ogni sua spettanza e di non aver null’altro a pretendere dal
proprio datore di lavoro.
Essa costituisce una semplice manifestazione del convincimento dell’interessato di essere
stato soddisfatto di tutti i suoi diritti. Tale dichiarazione, risolvendosi in un giudizio soggettivo,
concreta una mera dichiarazione di scienza priva di ogni efficacia negoziale e non preclusiva,
in caso di errore, della possibilità di agire per il riconoscimento dei diritti che successivamente
risultino insoddisfatti.
La quietanza a saldo può assumere il valore di rinuncia o transazione, con l’onere per il
lavoratore di impugnare nei termini (6 mesi) di cui all’articolo 2113 cod. civ., unicamente alla
condizione che risulti accertato, sulla base dell’interpretazione del documento o per il
concorso di altre specifiche circostanze desumibili altrimenti, che essa sia stata rilasciata con
la consapevolezza di diritti determinati o obiettivamente determinabili e con il cosciente
intento di rinunciarvi o di transigere sui medesimi.
Nozione di conciliazione
La conciliazione, nell'ordinamento giuridico, è il procedimento attraverso cui un terzo aiuta le
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parti a comporre una lite.
Spesso la conciliazione, nell’accezione comune, viene, impropriamente, considerata quasi una
sorta di tertium genus, accanto alla rinuncia e alla transazione. In realtà, nella conciliazione si
discute sempre e comunque o di rinunce o di transazioni, con la differenza che queste
avvengono alla presenza di un soggetto terzo, qual è, per l’appunto, il conciliatore.
Come si vedrà infra, vi sono figure di conciliatori ai quali l’ordinamento riconosce particolari
prerogative, in quanto ritenute garanti della fede pubblica e tali da fornire un’efficace
assistenza e protezione al lavoratore quale “parte debole” del rapporto.
Invalidità delle rinunce e transazioni ex articolo 2113 cod. civ.
La disciplina in tema di rinunce e transazioni in materia di lavoro ruota intorno all’articolo
2113 cod. civ., in base al testo modificato dall’articolo 6, L. 533/1973, che impone di fatto dei
limiti alla facoltà di disposizione di taluni diritti del lavoratore, nel momento in cui al primo
comma esordisce disponendo per l’appunto che: “Le rinunzie e le transazioni, che hanno per
oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei
contratti o accordi collettivi concernenti i rapporti di cui all’articolo 409 del codice di procedura
civile, non sono valide”.
Rimandando a una successiva disamina dei commi successivi, già solo dall’esame del comma 1
emerge come l’articolo 2113 sia una “norma chiave” dell’ordinamento giuslavoristico, perché
dimostra come il diritto del lavoro sia “diseguale”, nel senso che si fonda su un naturale
squilibrio tra le parti del contratto a causa della “fisiologica” soggezione (soggettiva o
oggettiva, vedi infra) in cui versa il lavoratore nei confronti del datore di lavoro.
Proprio su tale endemico squilibrio in dottrina sono sorte due teorie:
1. per l’appunto una “soggettiva”, in base alla quale la causa giuridica verrebbe
individuata nella posizione di vizio del consenso del lavoratore, determinata
dall’incapacità giuridica relativa di costui, a causa della soggezione gerarchica a cui
soggiace;
2. l’altra, che si può definire “oggettiva”, tende invece a imputare a una precisa volontà
del Legislatore la sottrazione della disponibilità dei diritti al suo titolare (lavoratore),
non solo per la sua tutela, ma anche per quella dell’intera collettività.
Ma che significato va attribuito alla locuzione “non sono valide” e, quindi, al conseguente
concetto di “invalidità” di tali atti di rinuncia o transattivi aventi ad oggetto i diritti del
prestatore di lavoro, derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi
collettivi?
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Sul concetto di invalidità in tema di rinunce e transazioni, il dato letterale dell'articolo 2113,
comma 1, non specifica di quale tipologia essa sia, di talché in dottrina e giurisprudenza si
sono venute a identificare 3 declinazioni del predetto concetto di “invalidità”, accostandola a:
1. nullità;
2. annullabilità;
3. invalidità “speciale”.
La tesi della nullità era stata abbracciata da una dottrina risalente, che però non sembra avere
avuto un seguito particolare, al punto che oggi risulta di fatto abbandonata, propendendosi
invece per la tesi di annullabilità, come acclarato anche in giurisprudenza.
In tal senso assumono valore decisivo le seguenti circostanze:
l'impugnazione deve essere proposta, come si vedrà, a pena di decadenza, entro un
determinato termine (6 mesi) dalla stipulazione o dalla cessazione del rapporto,
decorsi i quali gli effetti prodotti non possono più essere vanificati; ipotesi questa non
riscontrabile, invece, in presenza di un negozio nullo, il quale, come noto, non dispiega
mai i propri effetti;
risulta essere legittimato a impugnare l’atto solo il lavoratore e non chiunque vi abbia
interesse (o addirittura rilevata dal giudice), con ciò ponendosi al di fuori del disposto
dell’articolo 1421 cod. civ..
Quindi, si è in presenza di un atto fin da subito valido ed efficace, che resta tale se non viene
esercitata l’impugnativa, la quale deve poi essere seguita dall’instaurazione della relativa
azione giudiziaria di annullamento, nei termini prescrizionali.
In merito alla “terza via” (la c.d. invalidità speciale), la sua identificazione con il concetto di
“invalidità” scaturente dal comma1 va ascritta a una parte delle dottrina e della giurisprudenza
che ritiene si tratti di una forma di annullabilità, la cui specialità deriverebbe dal fatto che si
aggiunge, senza sostituirle, alle forme e alle cause comuni di invalidità del negozio giuridico,
le quali, pertanto, possono farsi valere anche dopo che sia trascorso il termine di decadenza
stabilito dalla norma .
Sempre a proposito della “specialità” deporrebbe anche il fatto che vi siano presenti diversi
indici di anomalia rispetto al regime di annullabilità dei contratti; infatti:
1. è prevista in via generale;
2. può essere fatta valere a mezzo di qualsiasi atto scritto;
3. deve essere denunciata entro 6 mesi a pena di decadenza.
All’opposto, l'annullabilità del contratto:
1. si fonda su vizi specifici;
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2. viene pronunciata dal giudice a seguito di azione proposta dalla parte legittimata entro
il termine (prescrizionale) di 5 anni, salva la possibilità di eccepirla senza limiti di
tempo;
3. inoltre può essere sanata con un atto di convalida.
Per completezza di informazione va rilevata una sentenza della Suprema Corte, isolata per
quel che consta, nella quale si è affermato che l'articolo 2113 non parlerebbe di annullamento
dell'atto e che, conseguentemente, la facoltà riconosciuta al lavoratore di inficiare la rinuncia
o la transazione precedentemente compiuta sarebbe da ricondurre alla titolarità di un diritto
potestativo puro, il cui esercizio, insuscettibile di limitazione, è rimesso alla libera
determinazione del soggetto tutelato.
Vale la pena ricordare, ancorché sia piuttosto evidente, che se sono invalide le rinunce e
transazioni rientranti nella disciplina dell’articolo 2113 cod. civ., lo sono, a maggior ragione,
quelle inficiate da una delle cause di nullità indicate dall'articolo 1418 cod. civ. o da una causa
di annullabilità del contratto quali l'incapacità, l'errore, la violenza e il dolo (articoli 1425 e
1427 cod. civ.).
I rapporti di lavoro ricadenti nell’ambito di applicazione dell'articolo 2113
Prima della riforma del codice di procedura civile, introdotta dalla L. 533/1973, in dottrina e in
giurisprudenza si sosteneva che la disciplina dell’articolo 2113 trovasse applicazione
solamente nei confronti dei lavoratori subordinati. In tal senso, deponeva sia il dato testuale
dell'articolo, che si riferiva ai diritti del “prestatore di lavoro”, sia la collocazione all’interno del
cod. civ. della norma in commento nell'ambito di quelle disciplinanti il rapporto di lavoro eterodiretto.
A mezzo della Riforma del 1973 si è intervenuti sulla norma codicistica, estendendo la tutela a
tutti i rapporti individuati nel novellato testo dell'articolo 409 c.p.c.; vale a dire, oltre ai
rapporti di lavoro subordinato, anche ai rapporti di agenzia, e ai rapporti di lavoro
parasubordinato.
Va osservato però che, laddove si voglia eccepire una violazione di norme inderogabili stabilite
dalla contrattazione collettiva in relazione a rapporti non di lavoro subordinato, ancorché
rientranti nell’articolo 409 c.p.c., è necessario che a monte vi sia una disciplina pattizia da
rispettare ed è noto che per tali fattispecie contrattuali la presenza di contratti o accordi
collettivi non è così capillare come nel rapporto di lavoro subordinato.
Ad esempio, nell’ambito delle collaborazioni coordinate e continuative (ieri essenzialmente
nella modalità “a progetto”, prima dell’abrogazione dell’articolo 61, D.Lgs. 276/2003, ad opera
del D.Lgs 81/2015) erano pochi i settori che potevano annoverare una contrattazione
collettiva specifica (ad esempio era presente nel settore dei call-center). Oggi, invece, è
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verosimile che la contrattazione collettiva (necessariamente nazionale) nel settore del lavoro
parasubordinato possa avere una crescita significativa, atteso che l’articolo 2, comma 1, lettera
a), D.Lgs. 81/2015, permette “alle collaborazioni per le quali gli accordi collettivi nazionali
stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale
prevedono discipline specifiche riguardanti il trattamento economico e normativo, in ragione delle
particolari esigenze produttive ed organizzative del relativo settore” di poter derogare alle insidie
dell’etero-organizzazione, la quale, se accertata, unitamente alla presenza di una prestazione
esclusivamente personale e continuativa, conduce quel rapporto, pur in astratto configurabile
quale contratto di collaborazione, a essere assoggettato alla “disciplina del lavoro subordinato”.
Nell’ambito invece del contratto di agenzia (altra fattispecie contemplata, peraltro
espressamente, nell’articolo 409 c.p.c.) è nota la presenza da tempo immemorabile dei c.d. Aec
(Accordi eceonomici collettivi), la cui vigenza è talmente risalente da aver potuto vivere una
stagione in cui godevano dell’efficacia erga omnes (grazie agli effetti della c.d. Legge Vigorelli).
A tal riguardo, però, la giurisprudenza ha precisato come non siano assoggettate al regime
d'impugnazione di cui all'articolo 2113 le rinunce e le transazioni aventi ad oggetto la misura
delle provvigioni spettanti all'agente, la cui determinazione è rimessa alla libera disponibilità
delle parti, nonché la determinazione dell'ammontare dell'indennità di scioglimento del
contratto e dell'indennità suppletiva di clientela prevista dagli Aec del dicembre 1974.
Conciliazioni inoppugnabili ex articolo 2113 cod. civ.: le sedi “protette”
Si è detto in precedenza che le conciliazioni, intervenute presso talune sedi “protette”,
conferiscono all’atto di rinuncia/transazione sottostante un imprimatur di sostanziale
definitività (beninteso, qualora non si dimostrasse che la volontà espressa dal lavoratore era
viziata, atteso che, in tali ipotesi, come si diceva, risulterà sempre possibile impugnarle per una
delle cause comuni di nullità – articoli 1418 e ss. cod. civ. - e annullabilità dei contratti –
articoli 1425 e 1427 cod. civ.).
L'articolo 2113, comma 4, cod. civ., riconosce infatti piena validità alle conciliazioni delle
controversie in materia di lavoro (solamente però) se intervenute ai sensi delle seguenti
disposizioni di legge:
articolo 185 c.p.c. (anche se sarebbe stato più corretto citare l’articolo 420 c.p.c.): cioè
in sede giudiziale. Nel corso della prima udienza, infatti, il giudice del lavoro esplica il
tentativo di conciliazione della lite, ferma restando in ogni caso la facoltà delle parti di
conciliare la controversia davanti al predetto giudice in qualsiasi momento del
processo. Laddove venga raggiunto l'accordo, viene formato il relativo verbale che ha
efficacia di titolo esecutivo;
articolo 410 c.p.c.: in sede amministrativa. Più specificatamente nell’ambito della
procedura incardinata presso le Direzioni territoriali del lavoro, che negli anni passati
hanno assolto a una copiosa attività conciliativa (a dire il vero il più delle volte
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attraverso un accordo redatto dalle parti al di fuori della commissione e portato in
sede conciliativa al solo fine di ratificarlo), ma che oggi hanno visto ridursi
sensibilmente il loro intervento a causa di una eccessiva “macchinosità” della
procedura stessa, che, dopo le modifiche apportate dalla L. 183/2010 (Collegato
lavoro), ricalca in parte le regole del processo, atteso che si prevede: una memoria
costitutiva con esposizione dei fatti, una memoria difensiva, eventuali domande
riconvenzionali, etc.;
articolo 411 c.p.c.: in sede sindacale. Di norma tale conciliazione dovrebbe seguire le
modalità previste dai contratti collettivi. A tal riguardo, però (fermo restando che il
sindacato deve avere un ruolo effettivo, non essendo sufficiente una generica
assistenza sindacale), si ritiene che se anche la contrattazione collettiva tacesse sul
punto sia comunque sempre possibile accedere a tale modalità di conciliazione, anche
perché è la stessa norma codicistica che, limitandosi a prevedere che “Se il tentativo di
conciliazione si è svolto in sede sindacale, ad esso non si applicano le disposizioni di cui
all’articolo 410”, nulla dispone al riguardo . Alla stessa stregua, chi scrive ritiene che il
sindacato non debba essere necessariamente rappresentativo (“leader”), sia perché è
sempre la norma a non richiederlo e sia perché il ruolo delle OO.SS., nel caso di specie,
non è teso a esprimere una forza contrattuale (atta ad esempio a incidere
sull’applicabilità di un contratto collettivo), ma è finalizzato ad assistere e tutelare il
lavoratori nella sottoscrizione di un atto di rinuncia/transazione, che diventa definitivo
e non più oppugnabile. Ritenere pertanto che tale funzione possa essere assolta solo
da un sindacato leader farebbe emergere chiari profili di discriminazione e di
violazione dei principi che governano il c.d. pluralismo sindacale;
articoli 412-ter e 412-quaterp.c.: prevede ulteriori ipotesi di conciliazione (oltre che di
arbitrato). In particolare l’articolo 412-ter, nel disporre “La conciliazione e l'arbitrato,
nelle materie di cui all'articolo 409, possono essere svolti altresì presso le sedi e con le
modalità previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali
maggiormente rappresentative”, esprime un chiaro rinvio alle OO.SS leader (ancorché si
chieda la maggiore rappresentatività tout court e non quella a livello comparato). Con
ciò corroborando la tesi, in precedenza sostenuta da chi scrive, circa l’assenza di una
siffatta connotazione allorquando il sindacato intervenga nel contesto di una
conciliazione sindacale “ordinaria” ex articolo 411 c.p.c.. Il successivo articolo
(412-quater), invece, rimanda alla possibile costituzione di un ulteriore collegio di
conciliazione e arbitrato irrituale, che si affianca a quelli precedenti, ma che allo stato
non ha avuto grande successo, anche in questo caso a causa dei vincoli eccessivi
(necessità che il Presidente del collegio venga scelto tra professori universitari di
diritto o avvocati cassazionisti), della rigidità della procedura e dell’esiguità del
compenso previsto sempre a favore del presidente (2% del valore della controversia).
Altre sedi definibili “protette”
La connotazione di “sede protetta” è però riconosciuta anche alla conciliazione avvenuta in
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modalità “monocratica” ai sensi dell’articolo 11, D.Lgs. 124/2004, atteso che nella predetta
disposizione si stabilisce che: “In caso di accordo, al verbale sottoscritto dalle parti non trovano
applicazione le disposizioni di cui all'articolo 2113, commi 1, 2 e 3 del cod. civ.”.
Infine, per quanto riguarda le Commissioni di certificazione, esse, ai sensi dell’articolo 82,
D.Lgs 276/2003, “sono competenti altresì a certificare le rinunzie e transazioni di cui all'articolo
2113 del cod. civ. a conferma della volontà abdicativa o transattiva delle parti stesse“,
aggiungendosi alla schiera delle sedi nelle quali l’atto di rinuncia/transazione non risulta
soggetto alla “condizione” (rectius: impugnativa nei 6 mesi) prevista dalla richiamata norma
civilistica.
Va poi ricordato che, ai sensi di quanto previsto dall’articolo 80, comma 4, D.Lgs 276/2003, in
presenza di contratti certificati, chiunque voglia presentare un ricorso giurisdizionale contro la
certificazione, “deve previamente rivolgersi obbligatoriamente alla commissione di certificazione
che ha adottato l'atto di certificazione per espletare un tentativo di conciliazione ai sensi
dell'articolo 410 del codice di procedura civile”.
A scanso di equivoci va infine precisato che le prerogative assegnate dal Legislatore alle
Commissioni di certificazione ex articoli 80 e 82 non vanno confuse con quelle già contenute
nell’articolo 68, D.Lgs. 276/2003, oggi abrogato dal D.Lgs. 81/2015, il quale stabiliva che:
“Nella riconduzione a un progetto dei contratti di cui all'articolo 61, comma 1, i diritti derivanti da
un rapporto di lavoro già in essere possono essere oggetto di rinunzie o transazioni tra le parti in
sede di certificazione del rapporto di lavoro di cui al Titolo VIII secondo lo schema dell'articolo
2113 del cod. civ.“.
Tale disposizione, che aveva sollevato un contrasto in dottrina, non ha trovato una sua
ultrattività nel menzionato decreto attuativo della L. 183/2014 (c.d. Jobs Act), atteso che il
rinvio alla certificazione viene sì fatto nell’articolo 2, comma 3, D.Lgs. 81/2015, ma solo per
ricordare che “Le parti possono richiedere alle commissioni di cui all'articolo 76 del decreto
legislativo 10 settembre 2003, n. 276, la certificazione dell'assenza dei requisiti di cui al comma 1”
(cioè quelli che caratterizzano l’etero-organizzazione, in precedenza richiamati)“, riassegnando alle
commissioni il ruolo “classico” di verificatori della “coerenza formale” tra il tipo di contratto
voluto dalle parti e le clausole ivi apposte.
Va tenuto conto che, in ogni caso, la conciliazione nelle sedi protette esplica la sua efficacia
limitatamente alle parti del rapporto di lavoro (datore di lavoro e lavoratore), ma non è idonea
a riverberare i suoi effetti sul piano previdenziale e sanzionatorio, come ribadito anche dalla
nota del Ministero del lavoro n. 17056/2009, nella quale si sancisce che “nei casi di intervenuta
conciliazione tra il lavoratore ed il datore di lavoro ed in special modo nei casi, come quello di
specie, in cui la transazione abbia per oggetto solo le rivendicazioni economiche del lavoratore,
l'Amministrazione precedente non perde il potere-dovere di portare a conclusione la procedura
sanzionatoria, anche nei suoi sviluppi processualistici”.
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La classificazione dei diritti sottoponibili a rinunce e transazioni
Se l’articolo 2113 cod. civ. individua una categoria di diritti (riconducibili a rinunce e
transazioni) definiti “inderogabili” (in quanto derivanti da disposizioni vincolanti della legge e
dei contratti o accordi collettivi), i quali se non sono oggetto di conciliazione nelle sedi
protette (e se sono impugnate nei tempi di decadenza previsti dalla norma) “non sono validi”,
vi sono rispettivamente diritti indisponibili, a pena di nullità (dove, si dovrebbe dire, “non c’è
sede protetta che tenga”), accanto a diritti invece pienamente rientranti nella disponibilità del
lavoratore, esclusi quindi dalla disciplina limitativa del citato articolo 2113.
Nell’ambito della categoria dei diritti assolutamente indisponibili (vertenti su un piano c.d.
“genetico”), che rende affetto da nullità ex articolo 1418 cod. civ. qualsiasi negozio dispositivo,
dottrina e giurisprudenza hanno compreso quelli aventi ad oggetto diritti garantiti a livello
costituzionale, nonché quelli derivanti al lavoratore dalla lesione di fondamentali diritti alla
persona , con la conseguente esclusione di tali atti dispositivi dall'ambito di applicazione
dell'articolo 2113. In tal senso è paradigmatico l'esempio del diritto alle ferie, la cui
irrinunciabilità è sancita dall'articolo 36 Costituzione . Viceversa, la rinuncia al trattamento
economico per le stesse ferie (muovendosi su un piano c.d. “funzionale”) rientrerebbe tra i
diritti ex articolo 2113, ma con limitazione superabile ad esempio tramite conciliazione
sottoscritta in sede protetta.
Altri esempi di diritti assolutamente non disponibili possono essere il diritto alla salute, al
riposo settimanale, alla previdenza e assistenza, etc..
Nell’ambito, invece, dei diritti pienamente fruibili, vi rientrano quelli per i quali la volontà del
lavoratore e del datore di lavoro influisce direttamente sul contenuto del rapporto: tipico
esempio è quello delle clausole intuitu personae a favore del lavoratore, quali ad esempio il
superminimo , così come in giurisprudenza si è ritenuto rientrante nella piena disponibilità del
lavoratore la rinuncia a riscuotere dal datore di lavoro le somme derivanti da una sentenza
giudiziaria favorevole, pur se afferente a differenze retributive scaturenti dalla mancata
osservanza del Ccnl.
Sempre sulla stessa linea sono stati altresì considerati validi, e pertanto sottratti alla disciplina
dell'articolo 2113, i patti conclusi tra i lavoratori e il datore di lavoro per la sospensione del
rapporto di lavoro e conseguente sospensione della corresponsione della retribuzione. Il
principio generale di effettività e corrispettività delle prestazioni nel rapporto di lavoro
comporta che, al di fuori delle espresse deroghe legali o contrattuali, “la retribuzione spetti
soltanto se la prestazione di lavoro viene eseguita, salvo che il datore di lavoro versi in una
situazione di mora "credendi" nei confronti dei dipendenti. Ne consegue che sono validi, in linea di
principio, i patti conclusi tra i lavoratori ed il datore di lavoro per la sospensione del rapporto di
lavoro; tali fatti non hanno ad oggetto diritti di futura acquisizione e non concretano rinunzia alla
retribuzione, invalida ex articolo 2113 c.c., atteso che la perdita del corrispettivo discende dalla
mancata esecuzione della prestazione” .
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Parimenti, il lavoratore può disporre liberamente del suo diritto a impugnare il licenziamento,
facendone oggetto di rinunce o transazioni, che sono anch’esse escluse dalla disciplina
dell'articolo 2113, atteso che l'interesse del lavoratore alla prosecuzione del rapporto di lavoro
rientra nell'area della libera disponibilità, come è desumibile dalla facoltà di potersi dimettere
ad nutum, di sottoscrivere risoluzioni consensuali del contratto di lavoro e per l’appunto “dalla
possibilità di consolidamento degli effetti di un licenziamento illegittimo per mancanza di una
tempestiva impugnazione”.
Va però ricordato che laddove le rinunce a impugnare il licenziamento “siano poste in essere
nell'ambito di un contesto negoziale complesso, il cui contenuto investa anche altri diritti del
prestatore derivanti da disposizioni inderogabili di legge o dall'autonomia collettiva, il precetto
posto dall'articolo 2113 citato trova applicazione in relazione all'intero contenuto dell'atto (che è
quindi soggetto a impugnazione), sempre che la clausola relativa alle dimissioni non sia autonoma
ma strettamente interdipendente con le altre e che i diritti inderogabili transatti siano noti e
specificati, non potendosi desumere da una formula generica contenuta in una clausola di stile”.
Modalità di impugnazione
Da ultimo, una sintetica disamina sulle modalità di impugnazione dell’atto, contemplate dal 2°
e 3° comma dell’articolo 2113, il quale dispone che le rinunce e transazioni invalide ai sensi
del menzionato articolo devono essere impugnate dal lavoratore con qualunque atto scritto anche stragiudiziale - entro il termine di decadenza di 6 mesi, decorrente:
dalla data della rinuncia o transazione, se questa è intervenuta dopo la cessazione del
rapporto di lavoro;
dalla data di cessazione del rapporto di lavoro, se la rinuncia o la transazione è stata
posta in essere durante lo svolgimento del rapporto.
In dottrina e giurisprudenza si è concordemente ritenuto che l'impugnazione delle predette
rinunzie e transazioni non ha carattere generale, né costituisce rimedio esclusivo, in quanto
non si sostituisce ma si aggiunge alle normali azioni di nullità e annullabilità dei contratti.
Dalla data dell'impugnazione (purché avvenuta entro il semestre) decorre poi il secondo
termine, questa volta di prescrizione quinquennale, per presentare l'azione di annullamento ex
articolo 1442 cod.civ..
La funzione del termine di decadenza è ovviamente quella di sottoporre a un limite temporale
perentorio l'esercizio del diritto potestativo (articolo 2964) rappresentato dall’impugnativa,
avendo come duplice obiettivo quello di tutelare, da una parte, l'interesse del lavoratore
contro le conseguenze dell'inerzia nella sua qualità di titolare dei diritti, attraverso il
differimento della decorrenza del termine al tempo successivo alla cessazione del rapporto;
dall’altra, anche quello di tutelare il datore di lavoro, disponendo, dopo la scadenza del
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termine indicato, il consolidarsi delle reciproche posizioni giuridiche .
Rispetto alla natura dell’atto di impugnazione, va ricordato che la vecchia normativa imponeva
la forma del ricorso giudiziale. Oggi, invece, il Legislatore ha semplificato la procedura di
impugnazione/contestazione, anteponendo un semplice atto scritto, che, una volta
tempestivamente presentato, impedisce la decadenza dall'azione, dando però luogo a un
periodo durante il quale la dottrina ha coniato l’espressione di “negozio claudicante",
perlomeno fino a che non viene proposta l’azione giudiziaria di annullamento e non si
addivenga a una sentenza chiarificatrice.
L'atto stragiudiziale di impugnazione, che non richiede particolari formule, deve essere
proposto personalmente dal lavoratore (o dal suo legale), non essendo prevista la possibilità
che possa provenire autonomamente dal sindacato, qualora manchi il conferimento allo stesso
del potere di rappresentanza da parte del medesimo prestatore.
Decorso l'indicato termine, gli atti dispositivi in parola diventano inoppugnabili, tenendo però
conto che la predetta inoppugnabilità (a causa dell’inerzia dimostrata dal lavoratore che ha
fatto spirare il termine semestrale) non è rilevabile d'ufficio dal giudice, ma potrà essere
dichiarata solo qualora il datore di lavoro chiamato in giudizio sollevi la relativa eccezione.
Si segnala che l’articolo è tratto da “Strumenti di lavoro“.
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