Amori di carta e amori in scena nel carteggio Fogazzaro

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GIULIA BRIAN
Amori di carta e amori in scena nel carteggio Fogazzaro-Giacosa
In
La letteratura degli italiani 4. I letterati e la scena,
Atti del XVI Congresso Nazionale Adi, Sassari-Alghero, 19-22 settembre 2012, a cura di
G. Baldassarri, V. Di Iasio, P. Pecci, E. Pietrobon e F. Tomasi, Roma, Adi editore, 2014
Isbn: 978-88-907905-2-2
Come citare:
Url = http://www.italianisti.it/Atti-diCongresso?pg=cms&ext=p&cms_codsec=14&cms_codcms=397
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© Adi editore 2014
La letteratura degli italiani 4. I letterati e la scena
GIULIA BRIAN
Amori di carta e amori in scena nel carteggio Fogazzaro-Giacosa
Il carteggio tra il romanziere Antonio Fogazzaro e il drammaturgo Giuseppe Giacosa, edito nel 2010 da Oreste Palmiero, si
connota per una grande ricchezza di temi: dalla rete di relazioni che i due intessono alla passione condivisa per la montagna,
dai reciproci suggerimenti di letture da cui ricostruire un’ideale ‘biblioteca condivisa’ al rapporto con l’editoria di fine
Ottocento, dalla confessione di preoccupazioni familiari ed economiche ai viaggi, fino alle minuziose riflessioni sulla
letteratura, il teatro e la musica. Uno scambio di lettere avvenuto nel 1892 in seguito ad un tentativo di trasposizione teatrale
del Daniele Cortis (1885) permette una riflessione sul modo in cui i due amici concepiscono le rispettive forme d’arte e, nello
specifico, sulla convinzione di Giacosa dell’intraducibilità del Cortis in scene teatrali in quanto «romanzo interno e sottilmente
scrutatore delle anime». Le anime di Elena e Daniele, «sposi senza nozze», si muoverebbero infatti in una dimensione così
elevata, così spirituale, da non poter drammatizzare tramite i mezzi del teatro moderno il loro «amor sublime». Giacosa quindi
percepisce chiaramente fin dalla prima lettura l’eccezionalità dell’opera e individua con acutezza attraverso gli strumenti che
gli sono più affini, quelli della drammaturgia, in cosa consista la sua modernità.
Introduzione
Il carteggio tra il romanziere Antonio Fogazzaro e il drammaturgo Giuseppe Giacosa1 si
connota per una grande ricchezza di temi: dalla rete di relazioni che i due intessono alla
passione condivisa per la montagna, dai reciproci suggerimenti di letture da cui
ricostruire un’ideale ‘biblioteca condivisa’ al rapporto con l’editoria di fine Ottocento,
dalla confessione di preoccupazioni familiari ed economiche ai viaggi, fino alle
minuziose riflessioni sulla letteratura, il teatro e la musica. Uno scambio di lettere
avvenuto nel 1892 in seguito ad un tentativo di trasposizione teatrale del Daniele Cortis2
permette una riflessione sul modo in cui i due amici concepiscono le rispettive forme
d’arte e, nello specifico, sulla convinzione di Giacosa dell’intraducibilità del Cortis in
scene teatrali in quanto «romanzo interno e sottilmente scrutatore delle anime».3 Le
anime di Elena e Daniele, «sposi senza nozze»,4 si muoverebbero infatti in una
dimensione così elevata, così spirituale, da non poter drammatizzare tramite i mezzi del
teatro moderno il loro «amor sublime».5 Giacosa quindi percepisce chiaramente fin
dalla prima lettura l’eccezionalità dell’opera e individua con acutezza attraverso gli
strumenti che gli sono più affini, quelli della drammaturgia, in cosa consista la sua
modernità.
1. Storia e caratteristiche del carteggio
Il carteggio tra Antonio Fogazzaro e Giuseppe Giacosa è stato pubblicato nel 2010 a
cura di Oreste Palmiero per i Quaderni dell’Accademia Olimpica di Vicenza. Su un
totale di 302 documenti, ben 121, il 40%, prima della pubblicazione di Palmiero erano
inediti, mentre i rimanenti 181 erano stati pubblicati in sedi sparse, ad esempio dal
Nardi in Vita e tempo di Giuseppe Giacosa,6 ma con frequenti errori di trascrizione e
arbitrarie manipolazioni del testo. I fondi che conservano i manoscritti sono dislocati a
A. FOGAZZARO-G. GIACOSA, Carteggio (1883-1904), Vicenza, Tip. Esca, 2010.
A. FOGAZZARO, Daniele Cortis, Torino, Casanova, 1885.
3 FOGAZZARO-GIACOSA, Carteggio…, 188.
4 A. FOGAZZARO, Daniele Cortis, Milano, Garzanti, 2007, 291.
5 Ivi, 287.
6 P. NARDI, Vita e tempo di Giuseppe Giacosa, Milano, Mondadori, 1949.
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Collereto Parella nell’archivio di Casa Giacosa7 e presso la Biblioteca Bertoliana di
Vicenza. Nello specifico 180 lettere originali autografe, di cui una di Fogazzaro in
duplice copia destinata a due indirizzi diversi, sono custodite nell’Archivio di Casa
Giacosa. Di queste, 128 sono state trascritte - per lo più dattiloscritte - e depositate nel
Fondo di Vari della Bertoliana (CFv. 13.1), all’interno del quale si trova anche un’unica
lettera non presente in originale nell’Archivio di Casa Giacosa, ma in copia presso
l’Accademia Olimpica di Vicenza. Nella Biblioteca Bertoliana il fondo Rumor (CF)
raccoglie 26 documenti originali autografi, il fondo Roi (CFo) quattro, mentre il fondo
Nardi (CFN 14) conserva 93 copie dattiloscritte. Il destino degli originali da cui sono
state tratte le copie di quest’ultima raccolta, come spiega Palmiero, è tutt’ora incerto:
Piero Nardi, biografo sia di Giacosa che di Fogazzaro, in un appunto allegato ai
documenti della sua donazione alla Bertoliana, ha ipotizzato che gli originali, non solo
delle lettere di Giacosa, ma anche di quelle dei suoi familiari a Fogazzaro, fossero andati
distrutti durante la seconda guerra mondiale nel bombardamento della Villa Fogazzaro
a San Bastian. Tuttavia nella biografia di Giacosa egli affermava che «tutte le lettere di
Giacosa, e di suo fratello Piero, e di altri di casa Giacosa, al Fogazzaro, erano
fortunatamente in copiatura pel libro presente, e quindi fuori sede, quando, in seguito a
un bombardamento aereo, ne’ dintorni di Vicenza, andava distrutto, con la Villa
Fogazzaro di San Bastian, l’intero archivio fogazzariano».8
La prima missiva del carteggio risale al 7 aprile 1883, quando Fogazzaro, in risposta
ad una lettera non pervenutaci con cui Giacosa gli porgeva i suoi complimenti per il
romanzo Malombra,9 ringrazia il collega canavese, avviando così un rapporto di profonda
amicizia nonché di collaborazione letteraria, che terminerà solo nel 1906 con la morte
di Giacosa. Da questo iniziale contatto epistolare trascorreranno pochi giorni perché
abbia luogo il primo incontro, avvenuto a Vicenza il 18 aprile 1883 e successivamente
battezzato da Fogazzaro come «la mia luna di miele letteraria» [F. 13].10 Affinché
Giacosa possa riconoscere l’autore di Malombra venuto ad accoglierlo alla stazione dei
treni, Fogazzaro si presenta all’appuntamento stringendo tra le mani il volume de Il filo.
Scena filosofico-morale per marionette,11 da poco pubblicato da Giacosa [F. 3]. E quel «filo»
che apre la corrispondenza epistolare sarà ‘filo conduttore’ del carteggio, metafora della
relazione a distanza tra i due [F. 1], del dipanarsi delle trame nei loro scritti [G. 38, F.
90, G. 115, G. 152, F. 218, F. 262, F. 275], del «fare e disfare» letterario che
Per una descrizione dettagliata dell’archivio si veda P.G. GILLIO, L’Archivio di Casa Giacosa, in Alonge (a
cura di), Giacosa e le seduzioni della scena. Fra teatro e opera lirica, Bari, Ed. di Pagina, 2008, 191-205. Come
scrive Gillio, nell’archivio si trovano lettere di Giacosa a Fogazzaro nelle cartelline rosse 27, 28 e di
Fogazzaro a Giacosa in quelle verdi 5, 6, 7.
8 NARDI, Vita e tempo…, 431.
9 Piero Nardi, che lesse quella lettera, afferma nella biografia di Giacosa: «La corrispondenza tra i due era
incominciata infatti da una lettera, scritta da Giacosa per sapere chi avesse ispirato, di quel romanzo, un
personaggio, che gli era parso un ritratto e la cui spiccata fisionomia piemontese l’aveva riempito di
curiosità. La lettera accompagnava il dono di una copia del Filo» (Ivi, 431). Nella stessa opera Nardi
ripercorre attraverso le loro lettere, il farsi e l’evolvere della relazione tra lo scrittore e il drammaturgo,
sostando di frequente sulla condivisione di interessi e sul comune sentire che li legava (Ivi, 431-434).
10 Si indicano tra parentesi quadre le missive cui si fa riferimento: all’iniziale del nome del mittente, ‘F.’
per Fogazzaro, ‘G.’ per Giacosa, segue il numero d’ordine assegnato a ciascuna lettera all’interno del
carteggio.
11 G. GIACOSA, Il filo. Scena filosofico morale per marionette, Torino, Casanova, 1883.
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caratterizza la modalità di scrittura fogazzariana [F. 136, G. 139], del tessere relazioni
con uomini di cultura, ma non solo, in Italia e in Europa.
L’ultima lettera del carteggio risale al novembre 1904, ma la relazione epistolare
all’epoca si era già sfilacciata a causa dell’inesorabile peggioramento dello stato di salute
di Giacosa. Osservando la distribuzione delle 302 lettere, si nota un susseguirsi di pieni e
di vuoti su un arco temporale di oltre un ventennio, a cavallo dei due secoli.
Tavola n°1. Distribuzione per anno delle lettere del carteggio.
1883: 18
1884: 14
1885: 6
1886: 24
1887: 16
1888: 25
1889: 13
1890: 8
1891: 15
1892: 16
1893: 25
1894: 25
1895: 9
1896: 12
1877: 7
1898: 7
1899: 9
1900: 7
1901: 9
1902: 29
1903: 6
1904: 2
Totale: 302 lettere
Gli addensamenti più rilevanti corrispondono ai periodi di maggior impegno letterario
(ad esempio al 1886 risalgono la scrittura del dramma Tristi amori, e la rappresentazione
della Resa a discrezione e della Tardi ravveduta sul fronte giacosiano, il romanzo Il Mistero del
poeta e la raccolta Fedele e altri racconti sul versante fogazzariano), di strette collaborazioni
artistiche tra i due (ad esempio le 29 lettere del 1902 documentano il processo di messa
in scena con la consulenza di Giacosa dei cosiddetti «drammini» [F. 280] fogazzariani,
Il garofano rosso e Il ritratto mascherato che si riveleranno veri e propri fiaschi teatrali) e di
importanti eventi nella loro vita privata. Le pause comunicative del carteggio sono da
addebitare in parte a motivi biografici - stato di salute dei due corrispondenti, impegni
letterari e non, viaggi… - in parte alla perdita di missive, delle quali abbiamo notizia
solo per esplicita nominazione in quelle pervenute.
2. Micro e macro aree tematiche del carteggio
Il carteggio si connota per una grande ricchezza di temi; i nuclei più consistenti e di
maggiore spessore, quelli della sfera familiare e delle considerazioni sulla letteratura,
sono contornati da aree tematiche altrettanto significative. Ad esempio nella macroarea
relativa al metodo di scrittura si collocano riflessioni sull’inconscio nell’arte, sulla
connessione tra letteratura e realtà, sull’ideazione della psicologia dei personaggi o sul
difficile districarsi tra i tempi e gli spazi imposti dai pressanti impegni artistici e familiari,
e quelli distesi, a sé stanti richiesti dalla scrittura; ma si possono anche seguire i fili
tematici del difficile rapporto con l’industria culturale moderna, il vasto pubblico e la
critica, dell’interazione tra il linguaggio verbale, musicale e figurale o quello del
rinnovamento del teatro e della sua lingua. Dai reciproci suggerimenti di letture,
commenti a nuove pubblicazioni e scambi di libri è poi possibile ricostruire un’ideale
‘biblioteca condivisa’, mentre dai nomi citati di uomini e donne italiani e stranieri,
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illustri e meno noti si può mappare la ragnatela di relazioni che i due corrispondenti
intessono: giornalisti e giornaliste, scrittori e scrittrici, editori, traduttori e traduttrici,
attori e attrici, capocomici, senatori, vescovi, musicisti.
3. L’«amor sublime» va in scena
A partire da uno scambio di lettere avvenuto nel 1892 tra Giacosa e Fogazzaro a
proposito della tentata trasposizione del Daniele Cortis in un dramma di cinque atti ad
opera di un certo «B. Ferri», di cui non abbiamo notizia,1 mi propongo ora di indagare
perché secondo Giacosa la materia del romanzo e il modo in cui è elaborata non
possano assumere la forma di scene teatrali. Una lettera di Ferri inviata da Trieste allo
scrittore vicentino e conservata nell’epistolario fogazzariano della Bertoliana, permette
di ricostruire l’antefatto e di capire quale intento muovesse il drammaturgo:
Fin dalla prima volta che lessi il Suo ammirabile Daniele Cortis ero rimasto colpito dalla
potenza del dramma che vi si svolge, dalla forte umanità dei caratteri, dalla vivacità ed
efficacia del dialogo; e fin d’allora s’era formata in me la convinzione che anche denudato
dell’elemento artistico che vi aggiungono le stupende descrizioni, il dramma sarebbe restato
abbastanza forte, abbastanza interessante per commuovere e dilettare il pubblico; e che
quindi sarebbe stato possibilissimo il trarne un lavoro per le scene.2
3.1 «…non permettere che si manchi di rispetto ai tuoi personaggi»: il Daniele Cortis, dal romanzo
alla scena
È il 4 ottobre 1892 quando Giacosa, di ritorno a Collereto Parella da un viaggio al Lago
Maggiore, trova tra la sua posta un dramma che un tal «B. Ferri» ha tratto dal Daniele
Cortis. Giacosa legge la sceneggiatura rimanendone fortemente colpito e il giorno
seguente scrive le sue opinioni a Fogazzaro:
È mezzanotte. Sono ancora sotto la potente impressione di quelle scene che compendiano
in modo veramente mirabile il romanzo e ne fanno rivivere i personaggi trascrivendone con
severa fedeltà le parole. [G. 152]
Giacosa nota la perizia con cui Ferri traspone in scena il romanzo, traduce in dialoghi,
gesti e ambienti la storia dell’amore tra il Cortis ed Elena, ma allo stesso tempo avverte
chiaramente che il risultato finale dell’esperimento non è altro che una brutta copia
dell’originale ed esprime un parere negativo circa la possibilità di volgere in dramma il
romanzo:
Detto questo […] eccoti il mio brutale parere: No. E nota che ammiro la trascrizione e che
se il riduttore mi avesse mandato in cifre più leggibili il suo recapito, vorrei scrivergli i più
caldi elogi per il suo sceneggiare e dialogare serrato e sicuro, e per la organica composizione
drammatica. [G. 152]
Nell’archivio della Bertoliana non c’è traccia del manoscritto, né finora sono state rinvenute
informazioni circa il suo autore, del quale conosciamo solo l’indirizzo di Trieste, al quale Fogazzaro
probabilmente rispose: «Sig.[or] F. Giuliani, Caseggiati del Lloyd, casa n. 5», CFo 14 Pl 78 e
FOGAZZARO-GIACOSA, Carteggio …, 192.
2 Ibidem.
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Dove si colloca la frattura tra romanzo e scena? Quali sono allora gli elementi del
romanzo che si perdono nel passaggio dalla forma narrativa alla forma drammatica?
Cosa cambia tra i personaggi di carta e la loro trasposizione sulla scena? Giacosa
fornisce all’amico indicazioni molto chiare al riguardo:
Il mio No, non riguarda dunque l’opera sua [del riduttore], ma la tua la quale a mio avviso,
per fortuna e gloria tua non si presta al teatro perché sta troppo in alto. Si possono ridurre a dramma i
romanzi a grande ed anche intricato viluppo di fatti, non i romanzi interni e sottilmente scrutatori delle anime
com’è il tuo. [G. 152, mio il corsivo]
Ciò che non si può tradurre è in definitiva la natura introspettiva e non fattuale del
Cortis. Proprio in questa tipologia di romanzo Giacosa, che aveva avuto il privilegio di
leggere per primo il manoscritto del Cortis, individua il germe anticipatore di nuove
forme di drammi «più alti» vòlti a penetrare «non le piccole e tangibili ma le realità di
un ordine superiore», ovvero ad andare «più addentro nelle anime, finché si giunga a
quegli ultimi ripostigli donde si dipartono i movimenti più sottili degli affetti».3 Infatti in
Fogazzaro Giacosa riconosce un profondo conoscitore dell’animo umano, in particolare
di quello femminile, tanto da dichiarare: «di questi improvvisi movimenti e violentissimi
dell’animo femminile io ti credo giudice inappellabile» [G. 184]. In una lettera del luglio
1888 Fogazzaro spiega con precisione come nascano i suoi personaggi, o meglio, i suoi
«fantasmi» [F. 41, F. 81, F. 215] e le loro vicende. Egli nomina le tre componenti
dell’atto creativo, visualizzato tramite l’impiego della metafora della tessitura, ovvero la
dimensione inconscia («lavoro inconscio della mente»), quella reale («nocciolo di vero»)
e la fantasia.
Come faccio? M’innamoro di un’entrata in scena che vedo ben chiaramente e di alcuni tipi
[…]. Allora prendo un foglio bianco e getto giù alla rinfusa idee, scene, svolgimenti diversi.
Vorrei pure metter insieme una tela, filare un filo che mi conduca a capo a fondo. […] Cerco
di vederle [le scene] molto vive e mi tengo poi preziosa la mia stessa ignoranza di quello che
seguirà poi, rimettendomene ad un lavoro inconscio della mente. […] Intanto i miei personaggi, che
hanno sempre un nocciolo vero, e il mio ambiente che è sempre veduto, vanno sempre più legandosi
insieme nella mia fantasia, le scene già immaginate acquistano un’evidenza sempre maggiore,
i personaggi si muovono quasi da sé come quando si passa dalla veglia al sonno immaginando
qualcuno. [F. 90, mio il corsivo]
Nel suo saggio del 1940, che comprende anche un’appendice con venticinque lettere di
Giacosa a Fogazzaro,4 Sebastiano Rumor accenna al manoscritto su cui il canavese fu
invitato ad esprimere un giudizio e osserva che dalle riflessioni sul Daniele Cortis emerge
indirettamente anche il rapporto tra dimensione reale e dimensione ideale secondo la
poetica giacosiana, molto vicina a quella fogazzariana: la realtà esiste per lui «come
piattaforma su cui muovere le sue creature concretantisi in sintesi drammatica, non
come realtà che abbia un suo fascino drammatico in se stessa. […] le sue creature si
muovono da loro e il loro dramma […] se lo portano con loro».5 Una convalida di
questa osservazione viene da Piero Nardi, il quale illustra nella biografia giacosiana
G. GIACOSA, Conferenze e discorsi, Milano, Cogliati, 1909, 190. Ad entrare nelle anime, leggerne la loro
essenza è più adatto, sostiene Giacosa nel capitolo Il teatro moderno, il romanzo rispetto alla commedia, non
perché il primo abbia strumenti più consoni, ma perché il pubblico del XIX secolo si caratterizza per una
«sensualità gaudente» tale da rifiutare i pezzi teatrali a carattere riflessivo; in questo modo «il romanzo ha
spianato la via all’opera scenica», Ivi, 191.
4 S. RUMOR, Giuseppe Giacosa. Saggio, Padova, Cedam, 1940, 167-195.
5 Ivi, 141-142.
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l’influsso che ciascun artista esercitò sull’altro fin dagli esordi della loro amicizia; l’intesa
artistica fu talmente profonda che Giacosa dedicherà Diritti dell’anima (1894) «Ad
Antonio Fogazzaro con affetto fraterno». I due scrittori, afferma Nardi, facevano
consistere la bellezza in una forma di verità ideale, di finezza psicologica che, a detta di
Fogazzaro, il grande pubblico non era ancora in grado di comprendere.6
L’incompatibilità Cortis/teatro viene collocata da Giacosa su due piani distinti; il
primo, quello della trascrizione scenica, consiste in uno scarto creato dalla possibilità che
ha il romanzo di descrivere minutamente i movimenti interiori dei personaggi, le loro
infinite sfumature, i loro caratteri:
Tu, il riduttore, io, cento altre persone che serbiamo intero in mente il romanzo, lo
sentiamo rivivere in quelle scene e quelle scene ci appaiono logiche e chiare perché la
memoria ci porge tutti gli infiniti fili che legano insieme i fatti, e tutte le infinite sfumature e
gradazioni di sentimenti che spiegano e dichiarano i caratteri. Ma chi non conosca o non
ricordi nei più infiniti particolari il romanzo, non capirà una parola del dramma. Ne seguirà
con fatica lo svolgimento esteriore, ma non saprà darsi ragione dei movimenti passionali,
troverà impreparati ed inesplicabili gli incidenti, illogici ed assurdi i personaggi, e perfino in
certi punti, brutale il loro linguaggio. [G. 152]
Il secondo divario si apre a livello della rappresentazione scenica ove l’amore sublime,
spirituale, calato in una situazione concreta, con i volti, le espressioni, i toni di voce degli
attori, si banalizza. A dimostrazione di ciò Giacosa sollecita l’amico a controllare le
parole che ha cerchiato in rosso nel manoscritto di Ferri, esempi di espressioni che,
sublimi nel romanzo, diventano quasi volgari sul palcoscenico, tanto da trasformare la
«semplice e buona» Elena in una «odiosa bigotta di virtù» [G. 152].7 Secondo Giacosa,
il romanziere aveva osservato così intimamente le anime dei due protagonisti che i
mezzi del teatro italiano non avrebbero potuto drammatizzare il loro «amor sublime».
In diverse occorrenze del carteggio, ma anche nel saggio Il teatro moderno, Giacosa critica
ferocemente l’incapacità degli attori [G. 17, G. 66, G. 102…], il loro scarso rispetto
della parola [G. 37], imputando al teatro italiano di fine Ottocento una «moderna
verbosità» per cui le parole risultano fortemente inflazionate dall’uso: «Sono costretto a
sottolineare le parole perché ho bisogno che dicano più di quello che sogliono. Ecco il
frutto della moderna verbosità: abbiamo stancato i vocaboli, li abbiamo sfibrati, non
siamo più gelosi di certe parole, non le serbiamo più nello scrignetto delle cose preziose»
[G. 47]. Da questa presa di coscienza Giacosa matura la volontà di rinnovare la lingua
restituendole efficacia comunicativa, lo stile della recitazione, le strutture narrative del
teatro contemporaneo.
Il teatro, quello d’oggi soprattutto, e soprattutto in Italia, non sa ancora rivelare le anime e
non sa ancora parlare. E specialmente non sa rivelare le anime buone e sincere, le quali
ricorrono per natura ad un linguaggio semplice e misurato. Già il teatro d’ogni tempo ha in
Ivi, p. 441.
Riporto, tra molti, un unico caso a titolo esemplificativo. All’inizio del romanzo Elena e Daniele si
avviano per una passeggiata lungo il torrente Rovese che costeggia le praterie di Villa Scura e casa Cortis;
tra i due incombe il silenzio fino a quando… «Egli tirò avanti diritto, verso gli abeti. Le balzò il cuore, una
vampa le salì al viso. ‘Cara Elena’ disse Cortis. La maschia voce morbida e sonora cadde spossata come
sotto un dolor mortale», FOGAZZARO, Daniele Cortis…, 22. Ecco come commenta Giacosa le parole di
Daniele: «Così in principio, che Daniele dica cara ad Elena, è giusto a leggere[,] sarebbe contrario a verità
sulla scena. Quel cara prenderà sotto gli occhi del lettore quel valore misurato e preciso che tu gli volesti
attribuire, ma giungendo ai suoi orecchi, coll’accento e col timbro di voce dell’attore, parrà una parola
grossa, piena, promettente e rivelante» [G. 152].
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ogni paese prediletto i viziosi, i facinorosi, o almeno gli infermi. E una ragione ci deve pur
essere ed io credo che sia questa: che le molle che ci spingono al male sono più grosse ed
hanno scatti più violenti che non quelle che ci spingono al bene. D’altra parte, voltalo come
vuoi, il teatro è sensuale, gli attori sono sensuali, il pubblico è sensuale.8 Una grande attrice
ti renderà a perfezione i rapimenti e le estasi di una santa, non la tranquilla verecondia e la
purezza semplice di una donna impeccabile. [G. 152]
Anche la scenografia non potrà mai rendere la dimensione ideale in cui i due amanti si
muovono: «La scena fra Daniele e Elena […] - afferma Giacosa - ha assoluto bisogno
del giardino, dei boschi della natura ricordevole e tentatrice. Serrata in quella eterna
camera, parrà secca, scarna, fredda, illogica, odiosa. Non vi si sentirà l’abbandono di
Elena, non vi si sentirà la fiera battaglia di Daniele» [G. 152]. Dunque un altro
elemento fondante dello stile fogazzariano, quello del paesaggio specchio dell’anima dei
personaggi che lo abitano, andrebbe perduto in una eventuale trasposizione teatrale. La
camera, il salotto, i luoghi chiusi del romanzo e del dramma borghese, non possono
infatti contenere la magnificenza del sentimento che i protagonisti provano l’uno per
l’altra. La lettera di Giacosa si chiude con un accalorato consiglio rivolto al romanziere:
Lascia, amico mio, che i tuoi personaggi abbiano la forte e compiuta realtà della
rappresentazione ideale e persuaditi che essi diventerebbero falsi ed inverosimili e quasi
odiosi, anzi tanto più odiosi quanto più li amiamo nella mente nostra, quando si
incarnassero in comici di professione. Altro taglio vogliono i personaggi della scena, oppure
altra azione. Io concepisco che si possano dare interi i personaggi di Elena e Daniele e
renderli facilmente comprensibili, ma occorrerebbe una azione più serrata, meno intreccio
di fatti e meno gente. Lo concepisco ma non ardirei sperarne successo […] non permettere
che si manchi di rispetto ai tuoi personaggi. [G. 152]
3.2 L’amore ‘alla Cortis’: Elena e Daniele, due anime eccelse
Mi propongo ora di illustrare in cosa consista esattamente questo «romanzo interno e
sottilmente scrutatore delle anime» [G. 152]: il Daniele Cortis, del quale il carteggio fra
l’altro ci consente di seguire passo passo la complicata vicenda editoriale, racconta la
storia dell’amore tra Daniele e Elena, ostacolato dalla loro parentela (sono cugini),
dall’infelice matrimonio di Elena col barone siciliano Carmine di Santa Giulia e infine
anche dalla missione politica di Daniele. Il centro di questa relazione amorosa
contrastata su più fronti è «il dramma intimo, la lotta segreta tra spirito e senso, che era
nella vita stessa del Fogazzaro», rileva Gallarati Scotti,9 ma qui la tentazione amorosa, a
differenza che in Malombra,10 si dispiega su un livello più elevato, più spirituale, «troppo
alto» per essere drammatizzato con i mezzi di cui dispone il teatro italiano di fine
Ottocento, come sostiene Giacosa nella sua lettera. Daniele ed Elena sono personaggi
stra-ordinari, in netta contrapposizione con lo spaccato di società che li circonda e con
8 Nel Teatro moderno Giacosa definisce il pubblico teatrale del XIX secolo come pervaso da una «sensualità
gaudente» che «lo allontana dalle opere riflessive», ma allo stesso tempo avverte un cambiamento
incipiente che sta aprendo il pubblico dei teatri di fine secolo a «drammi e […] commedie che lo
costringono a pensare», GIACOSA, Conferenze…, 185 e 191.
9 T. GALLARATI SCOTTI, La vita di Antonio Fogazzaro, Brescia, Morcelliana, 2011, 119.
10 Ma già in Malombra si trova in nuce il concetto dell’«amor sublime» in un discorso di don Innocenzo a
Edith: «Ho sempre avuto l’idea che invece di un legame di passione, santificato o no, vi possa essere fra
due anime veramente nobili, veramente forti, un altro legame d’affetto, santo in se medesimo; un amore,
diciamo pure questa parola tanto grande, interamente conforme all’ideale cristiano dell’intima unione fra
tutte le anime umane nella loro via verso Dio», A. FOGAZZARO, Malombra, Milano, Feltrinelli, 2011, 353.
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cui interagiscono; pur nella loro idealità i due protagonisti affondano saldamente le
radici in una matrice vera - ma dichiaratamente non verista -,11 ovvero la realtà stessa in
cui viveva Fogazzaro e a cui egli, come è noto, solitamente attingeva per creare i suoi
«fantasmi». La critica letteraria fin dall’inizio giudicò la storia del Cortis sul piano della
verosimiglianza dei personaggi e su quello della legittimità dell’«amor sublime»,
essendo, a detta di molti, «un sentimento assurdo e incomprensibile», per altri persino
«immorale, un ‘adulterio’».12 La tesi dell’amore spirituale, strettamente intrecciata con
quella della politica e caricata di un preciso intento di rinnovamento morale della
società italiana, è ben illuminata dalla frase che Daniele pronuncia stringendo tra le sue
le mani di Elena, nel capitolo XXII titolato, non a caso, Come gli astri e le palme:
Sono sposi senza nozze, non con la carne ma con il cuore. Così si congiungono gli astri e i
pianeti, non con il corpo ma con la luce; così si accoppian le palme, non con la radice ma
con il vertice.13
Per osservare come venga impiegata l’area semantica pertinente all’amore in funzione
delle posizioni teoriche fogazzariane, ho enucleato un piccolo campione di lemmi
quantificandone le occorrenze all’interno del romanzo. Volendo circoscrivere la ricerca,
ho scelto di escludere dal campione le voci verbali (es. amare, sacrificare, sposare…) e gli
aggettivi (es. amichevole, affettuoso…); inoltre ho selezionato i soli casi in cui i sostantivi
si riferiscono, più o meno direttamente, alla relazione tra Daniele ed Elena. I limiti di
questo strumento di indagine sono chiari, dal momento che il campione è strettamente
circoscritto e non pienamente rappresentativo dell’area semantica di riferimento. Va
constatato infatti che talora perifrasi o espressioni rilevanti per il tema in oggetto restano
escluse dalla campionatura, ad esempio questo compendio del pensiero di Elena sul suo
matrimonio: «Tutto oramai le compariva commedia nella vita, tutto le compariva falso,
facce, parole e opere umane. E il sì dell’altare, non poteva considerarsi un ‘sì’ da
commedia?».14 Esplicitati i limiti, ritengo che questa analisi possa condurre ad alcune
considerazioni rilevanti sul tema del matrimonio nel pensiero fogazzariano.
Nel febbraio 1885 Scarfoglio sul «Fanfulla della Domenica» recensisce il Daniele Cortis, evidenziando il
carattere «controcorrente» dell’opera: «Mentre tutti i romanzieri del mondo si voltano intorno cercando
la verità e la perseguitano nei luoghi più impensati e più orrendi […] vive in una piccola città del Veneto
un novelliere di bizzarro ingegno e di straordinaria forza, un solitario e potente spirito che va
tranquillamente, dolcemente contro la corrente comune […]. Noi ci affolliamo in cento, schiamazzando e
tumultuando in nome della verità, a scrivere il romanzo del corpo umano: e il Fogazzaro, solitariamente,
silenziosamente, scrive il romanzo dell’anima. Così come in Malombra, come in Miranda, la grande originalità
e la grande bellezza del Daniele Cortis viene dall’anima immateriale che palpita in ogni creatura fogazzariana», D.
PICCIONI-L. PICCIONI, Fogazzaro, Torino, Utet, 1970, 205.
12 M. SANTORO, Introduzione, in FOGAZZARO, Daniele Cortis…, VII-XXXVII: XXII e PICCIONI,
Fogazzaro…, 208.
13 FOGAZZARO, Daniele Cortis…, 291; mio il corsivo.
14 Ivi, 116.
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Tavola n°2. Ricorrenze nel Daniele Cortis di una selezione di sostantivi relativi all’area
semantica del matrimonio
1
2
3
4
5
6
7
8
9
Voci
Matrimonio
(senza) Nozze
Amor/e
Passione
Affetto
Amicizia
Amico/a/i
Sacrificio
Divorzio
Occorrenze
2
1 (+ 1)
4 + 22
17
4
4
8 + 5+ 4
7
2
Di matrimoni nel Cortis si parla davvero poco assumendo essi il valore di semplice dato
di fatto, di giuramento inviolabile, come afferma il narratore a proposito di Elena:
«[Elena] Sdegnava di parlare, di dire che aveva accettato il primo marito offertole,
perché certi intrighi di sua madre non le piacevano».15 La voce ‘matrimonio’ ad esempio
è presente solo due volte, una delle quali, riferita al matrimonio di Elena col barone
siciliano, in contesto negativo: «Era dai primi giorni del suo matrimonio ch’ella non
provava uno scoramento così profondo».16 D’altronde esempi di matrimoni felici qui
non se ne trovano proprio, in primo luogo perché la vita intima di Elena e Carmine è
riempita principalmente dalle richieste di denaro del barone, folle giocatore d’azzardo, e
dai suoi capricci e sgarbi: «Una goccia di vino non l’aveva presa; ma la fortuna del
giuoco, le lunghe veglie e, per così dire, l’amore, gli mettevano un chiarore d’ebbrezza
negli occhi»;17 inoltre Elena e Daniele condividono l’essere entrambi orfani di padre
(come Renzo e Lucia),18 circostanza aggravata dall’adulterio della madre di Cortis.19
Infine in una delle frasi chiave del libro, «Sono sposi senza nozze, non con la carne ma
con il cuore»,20 troviamo l’unico caso di ‘nozze’, traduzione di «innuptis» che segue un
paio di righe più sotto21 e che per correttezza dovremmo intendere come un tutt’uno
con la sua preposizione, quindi ‘senza nozze’.
Veniamo ora ai sostantivi che esprimono sentimenti o relazioni affettive: ‘affetto’,
‘amicizia’, ‘amico/a/i’ ricorrono per un totale di venticinque volte, contro i quarantatre
Ivi, 16.
Ivi, 115.
17 Ivi, 127.
18 A tal proposito rinvio a F. DANELON, Né domani, né mai. Rappresentazioni del matrimonio nella letteratura
italiana, Venezia, Marsilio, 2004, 181-182.
19 Il padre biologico di Daniele è il barone Carmine di Santa Giulia, marito di Elena, motivo per cui la
relazione tra i due protagonisti ad un certo punto del romanzo si rivela mimare direttamente la situazione
edipica, essendo Elena cugina, matrigna e insieme amante di Daniele.
20 FOGAZZARO, Daniele Cortis…, 291.
21 Ivi, 281.
15
16
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casi dei ben più intensi ‘amore’22 e ‘passione’, chiaro indice questo di quell’oscillare
continuo di cui i due cugini sono in balìa, soprattutto ad inizio romanzo, tra
l’inestinguibile pulsione amorosa e la più distaccata relazione affettiva che Fogazzaro
aveva vissuto personalmente nella relazione con l’istitutrice tedesca dei nipoti, Felicitas
Buchner. Proprio questa radice autobiografica della narrazione, ovvero l’esperienza
personale di un romanziere cattolico che vive sulla propria pelle i contrasti tra la carne e
lo spirito, dà spessore ad un tema comune, che altrimenti cadrebbe facilmente nel
banale, nello scontato.
Un’osservazione ora a proposito dei 17 casi in cui ricorre la parola ‘passione’: nei
Promessi sposi, come osserva Fabio Danelon in Né domani né mai, la parola ‘passione’ è
esclusivamente riservata ai personaggi negativi del romanzo, ad esempio a don Rodrigo
e a Gertrude, e ciò risponde al preciso intento di Manzoni di cassare ogni riferimento
che, mettendo in relazione la quiete dell’amore coniugale con la passione amorosa, svii il
lettore.23 Veniamo ora a Fogazzaro: già prima di affrontare numerose letture
sull’evoluzionismo - nel 1889 lesse Evolution end its relations to religious thought del geologo
americano Joseph Le Conte, un’opera che propone una via alla conciliazione tra
evoluzionismo e cristianesimo e che per Fogazzaro rappresentò una vera rivelazione – lo
scrittore aveva codificato nei suoi romanzi una concezione dell’amore come unione
spirituale che travalica la morte. Una volta divenuto convinto assertore di un
evoluzionismo cristiano, la sua concezione trovò collocazione in una più ampia
panoramica teorica secondo la quale l’amore è metro dell’evoluzione umana, che
dall’istinto sessuale porta all’affermazione dello spirito sul corpo secondo un vasto
progetto divino.24 Nel 1887, dopo la pubblicazione del Cortis, Fogazzaro si opporrà al
disegno programmatico di Manzoni col discorso Un’opinione di Alessandro Manzoni; in
accordo con la prassi del Cortis sosterrà infatti la funzione edificante dell’arte, la quale ha
il compito di trasmettere e diffondere la teoria spiritualista dell’«amor sublime».25
22 Per una buona parte di queste occorrenze si tratta di sottrazione d’amore (es. «Dio gli toglieva la
famiglia, l’amore, la giovinezza»), subordinazione dell’amore al «dovere» e alla «energia morale», o
passione bruciante e dolorosa («La sua coscienza parlava ancora, le diceva: ‘I momenti supremi son
questi, sei in tempo di salvarti’, ma un indistinto fuoco di amore, di sgomento, di rimorso, le faceva
credere di aver già mosso il primo passo, se non altro col pensiero, sopra una china dove non riuscirebbe a
fermarsi»). Il vocabolo si trova poi fuso nell’espressione chiave «amor sublime»: «Là, appoggiato al
vecchio abete dai rami cadenti, [Cortis] richiamò avidamente le parole ‘pregherò, sai, sei contento?’ vi si
immerse con febbrile piacere, esaltandosi nel pensiero di quell’amor sublime [mio il corsivo] ch’era suo, nel
pensiero che Dio li aveva presi, Elena e lui, per sempre, che gli erano più vicini, l’uno e l’altra, che la loro
unione aveva oramai qualche cosa di santo e di eterno, per cui il dolore e la morte non la potrebbero
sciogliere. Pensava così, ebbro di una felicità fiera e sicura da qualsiasi vicenda terrena, ciecamente
convinto che Dio gli dicesse: ‘Tu hai l’anima sua, avrai lei nell’altra vita. Io volli questo frutto dell’amore
che v’ispirai. Ora ch’ella parta, e tu, temprato da un valoroso fuoco, va, combatti, soffri ancora, sii nobile
strumento, fra gli uomini, di verità e di giustizia.’», Ivi, 287.
23 DANELON, Né domani…, 180-181. Dal tomo II, capitolo I di Fermo e Lucia: «Concludo che l’amore è
necessario a questo mondo: ma ve n’ha quanto basta, e non fa mestieri che altri si dia la briga di
coltivarlo; e che col volerlo coltivare non si fa altro che farne nascere dove non fa bisogno. Vi hanno altri
sentimenti dei quali il mondo ha bisogno, e che uno scrittore secondo le sue forze può diffondere un po’
più negli animi: come sarebbe la commiserazione, l’affetto al prossimo, la dolcezza, l’indulgenza, il
sacrificio di se stesso: oh di questi non v’ha mai eccesso», A. MANZONI, Fermo e Lucia, Milano, Meridiani
Mondadori, 2002, 173.
24 M. SANTORO, Introduzione, in FOGAZZARO, Daniele Cortis…, XII.
25 FOGAZZARO, Daniele Cortis…, 281. In una lettera a Giacosa del 19 dicembre 1886, Fogazzaro afferma
di voler replicare alla posizione manzoniana assunta da Ruggero Bonghi: il 5 novembre dello stesso anno
a Milano il filologo aveva letto e commentato favorevolmente la pagina inedita in cui Manzoni esponeva
la sua teoria [F. 61].
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Pertanto Fogazzaro, a differenza di Manzoni, non elimina il tema della passione (e il
lessico ad esso relativo), ma lo piega al tema del sacrificio. Tra Elena e Daniele c’è sì la
passione amorosa, ma è sempre una passione da sacrificare. Quindi nel Cortis la
presenza e la funzione del lessico semanticamente afferente alla sfera sentimentale,
all’interno del quale rientra anche la parola ‘passione’, vengono piegati al tema del
sacrificio terreno in nome di un’unione usque ad mortem et ultra.
La parola-chiave ‘sacrificio’ ricorre sette volte: l’eroico scioglimento del romanzo in
nome di un’unione oltre la morte, è mosso da una parte dalla missione politica a cui
Daniele si sente chiamato, dall’altra dal senso di dovere di Elena, dalla fede in quel
legame indissolubile per il quale la giovane rinuncia all’amore vero e seguirà i passi del
marito verso terre lontane.26 Questa «sublime» forma d’amore avrà larghissima eco tra il
pubblico di lettori e lettrici del Cortis, tanto da accendere una vera e propria moda,
quella del cosiddetto ‘amore alla Cortis’.27
L’ultimo lemma preso in esame è ‘divorzio’, che ricorre solo due volte, entrambe in
un discorso del conte Lao, zio di Elena:
‘Lasciamo stare, cara’ rispose il conte. “Non dico mica che [Daniele] non sia nobile. Credo.
Capisco benissimo quel che vuoi dire, ma son cose che cominciano sempre così, sai, fra gente come
voi, e finiscono poi come fra gli altri che non sono nobili. Gli uomini sono uomini. Lui è migliore di tanti
altri, ma è di carne ed ossa anche lui. Io non credo né ad angeli né a santi, lo sai bene. Se ci fosse il
divorzio avrei preso moglie anch’io. E non l’avrei cambiata mai! E sarei stato felice! Ma il divorzio non c’è, e
tu non hai voluto che quell’altro... Quella è stata una bestialità!”28
La presenza del vocabolo è significativa per l’implicita polemica cui rinvia e permette di
integrare la visione che Fogazzaro aveva dell’amore: già dal 1878 prendeva avvio la
discussione parlamentare sul divorzio, ma la prima proposta di legge presentata
direttamente dal governo è datata 26 novembre 1902 ed è firmata dal presidente del
Consiglio Zanardelli e dal ministro della Giustizia Cocco-Ortu. In quello stesso anno
usciva per i tipi dell’editore Sandron di Milano il romanzo filodivorzista di Anna
Franchi, Avanti il divorzio!. Scritto tra il 15 settembre e il 3 novembre 1902, l’opera
colpisce per la sua forza, derivante direttamente dall’esperienza personale dell’autrice,
dalla «sua dura lotta di liberazione come donna e come scrittrice».29 Sposata con il
violinista e direttore d’orchestra Ettore Martini, Anna Franchi subì violenze, soprusi e
minacce, che la indussero a chiedere la separazione dal marito, con l’imposizione
dell’assunzione di colpa di fronte alla legge e la perdita di due dei suoi tre figli,
esattamente come accade alla protagonista del romanzo Avanti il divorzio!, non a caso sua
omonima. Le pagine finali del romanzo mostrano come la donna, non essendo
giuridicamente tutelata dagli abusi familiari, sia vittima delle leggi stesse, «convenzionali
bugie della moralità borghese»30 che la trattano, assieme ai figli, come proprietà del
26 Diversamente, in corso d’opera Fogazzaro aveva previsto un lieto fine, per cui si sarebbe sbarazzato del
terzo vertice del triangolo, il barone di Santa Giulia, tramite il suo suicidio o l’esilio e avrebbe finalmente
celebrato le nozze spirituali di Elena con Daniele, PICCIONI -PICCIONI, Fogazzaro…, 198 e GALLARATI
SCOTTI, La vita…, 123.
27 Ivi, 127-8 e PICCIONI-PICCIONI, Fogazzaro…, 209.
28 FOGAZZARO, Fogazzaro…, 282; mio il corsivo.
29 G. MORANDINI, La voce che è in lei. Antologia della narrativa femminile italiana tra ’800 e ’900, Milano,
Bompiani, 1980, 247.
30 Ivi, 257.
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La letteratura degli italiani 4. I letterati e la scena
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marito. Inoltre di fronte alla legge la sua relazione con «un uomo onesto e buono, che
sarebbe stato compagno, amante, marito»31 finisce col trasfigurla in adultera.
Il 15 dicembre 1901, un anno prima della pubblicazione del romanzo, il giornale «La
Provincia di Vicenza»32 riportava, con il titolo Le idee di Antonio Fogazzaro intorno al divorzio,
l’intervista che il 13 dicembre il giornalista del «Giornale d’Italia» Enrico Sperotti aveva
sottoposto a Fogazzaro, «alta e pura gloria delle lettere e dell’arte italiana». L’incontro
aveva avuto luogo nella residenza abituale in Vicenza, a San Bastian, «alle porte, in una
villa a cavalcioni delle ultime propaggini di Monte Berico, deliziosa anche in queste
giornate rigorose d’inverno». Riporto qui nella sua interezza l’interessante resoconto di
Sperotti:
Mi ricevette colla consueta bontà nel suo studio amplissimo, signorile ed allegro nella voluta
austerità, pieno di luce e di pace. – Le mie idee sul divorzio? mi rispose il Fogazzaro. Sono
forse un po’ diverse da quelle che lei suppone, ma molto chiare e molto semplici. Dal punto
di vista religioso le dirò che secondo me l’azione della Provvidenza nella evoluzione sociale
tende a far trionfare la sincerità per quanto riguarda il sentimento religioso, a distinguere
nettamente – usando una frase evangelica – la zizzania dal grano, a diminuire quella
moltitudine intermedia tra i franchi credenti e i franchi miscredenti che osserva certe forme
esteriori di culto e vive poi come le piace: una moltitudine profanatrice. Tanto il
matrimonio civile quanto il divorzio tendono, secondo quest’ordine provvidenziale, a
diminuire le ipocrisie. Quest’ultimo eserciterà senza dubbio una mala influenza con
l’esempio, con la tentazione; ma insomma ciò staccherà dal gruppo cristiano gli elementi
più deboli, il gruppo ne acquisterà vigore, il rispetto alla fede coniugale malgrado dolori e
sacrifici diventerà più luminoso davanti il mondo. Io dunque, come credente, di fronte al
divorzio sono ben lontano da certi terrori.
– E come uomo politico? diss’io. – Uomo politico (mi rispose Antonio Fogazzaro, che io
nomino senza elogi), uomo politico non sono né sarò mai. Però non è necessario di avere il
genio politico per comprendere che il guaio maggiore di una legge simile è il suo carattere
aperto di ostilità alla Chiesa cattolica. Se tornerà invece, secondo le mie previsioni, a gloria
del cattolicismo, questo non è certo nelle intenzioni dei proponenti, i quali antepongono
questa legge di comodità, che ferisce la dottrina cattolica, a leggi di urgente giustizia. Ora io
non posso comprendere come uomini politici vadano irritando un nemico forte che hanno
in casa e che sanno di non potere spegnere.
– E dal punto di vista sociale che ne dice? – Dal punto di vista sociale, caro amico, il
divorzio è un regresso. La evoluzione sociale va chiaramente dalla unione poligama alla
unione monogama. Ora il divorzio è in certo modo un larvato ritorno verso la poligamia,
una reazione degli istinti poligami. È certo che i matrimoni oggi si fanno con cattivi criteri
di scelta, specialmente nelle classi più basse e nelle classi più alte, con un danno sociale
grave. Quando le attuali enormi disuguaglianze di fortuna saranno, non già tolte, che non è
possibile, ma, come credo e spero, diminuite considerevolmente, i criteri di scelta saranno
senza dubbio migliori. Io però son di avviso che vadano lentamente migliorando anche
adesso e che un attivo fattore di miglioramento sia la impossibilità di sottrarsi mai alle
conseguenze di una sillaba, cui si è sempre liberi di pronunciare o di non pronunciare. ‘Più
non ti dico e più non ti rispondo’.
Tre sono le prospettive da cui la questione viene osservata, quella religiosa, quella
politica e infine quella sociale. Nella prima parte dell’articolo lo scrittore, partendo da
un assioma, deduce gli effetti che il divorzio provocherebbe in ambito spirituale: poiché
la Provvidenza «tende a far trionfare la sincerità», ovvero il Bene, sia il divorzio che il
31
32
Ivi, 259.
«La Provincia di Vicenza», XXIII, 343, 2.
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matrimonio civile condurrebbero necessariamente ad una diminuzione delle «ipocrisie»,
appartenendo essi all’«ordine provvidenziale» delle cose. È evidente in questo procedere
la matrice positivista del pensiero. Sul divorzio però Fogazzaro non prende una
posizione definita, ammettendo con la litote finale una sua possibile apertura: «Di fronte
al divorzio sono ben lontano da certi terrori». In fin dei conti, egli afferma, il divorzio,
pur costituendo un cattivo esempio, porterebbe ad un rinvigorimento della comunità
cristiana cattolica attraverso la naturale scrematura dei membri meno forti. Il sacrificio
di coloro che persistono nella loro fede coniugale diverrebbe in questo modo
doppiamente degno di lode. Il problema dunque va visto non tanto in relazione alle
leggi, ma piuttosto come questione di coscienza. Ecco perché nel Daniele Cortis tra il
matrimonio infelice di Elena e la seconda possibilità che le si offre, si apre un profondo e
tutt’altro che banale conflitto di coscienza, elemento questo che consente a così tante
lettrici l’identificazione con la protagonista.
La seconda prospettiva che Sperotti chiede venga assunta, è quella politica, ma essa
viene respinta immediatamente e con fermezza da Fogazzaro. Nonostante la recente
nomina a senatore, l’affermazione «uomo politico non sono né sarò mai» non stupisce,
viste le frequenti considerazioni nei carteggi di Fogazzaro sull’incompatibilità della sua
‘natura poetica’ con la vita politica; ma il significato di questa frase risiede in primis nella
convinzione che per comprendere i termini della questione non siano necessarie
particolari doti politiche, bensì un’attenta osservazione della realtà. La stessa
pragmaticità muove anche il pensiero successivo: la nuova proposta di legge apre un
conflitto frontale con la Chiesa cattolica. Fogazzaro intuisce con chiarezza che tale legge
incrinerebbe i già difficili rapporti tra Stato e Chiesa. La «legge di comodità», a cui si
riferisce lo scrittore, molto probabilmente è quella proposta in parlamento dai socialisti
Berenini e Borciani il 6 dicembre 1901, pochi giorni prima di questa intervista.33 Il
quarto tentativo dall’unificazione nazionale di regolamentare la materia prevedeva lo
scioglimento del matrimonio per cause legali, morali e fisiologiche.34 Senza fare alcun
cenno al divorzio come possibile mezzo riparatore dei matrimoni infelici, Fogazzaro
sostiene la possibilità che esso possa diventare un motivo di forza per la Chiesa qualora
venga regolamentato da una legge di «urgente giustizia».
Nell’ultima riflessione che affronta il tema dal punto di vista sociale, Fogazzaro
asserisce che il divorzio è un’involuzione, in quanto riemersione delle pulsioni poligame
proprie di un stadio del progresso umano inferiore rispetto a quello della monogamia. A
queste dichiarazioni, nelle quali emerge chiaramente il substrato evoluzionista, il
romanziere fa seguire una precisazione, che è frutto dell’osservazione diretta della realtà
e che sposta ancora una volta il baricentro del discorso fuori dalla materia del divorzio.
Il vero danno sociale, che sta alla base dei matrimoni infelici come quelli di Elena e
Jeanne Dessalle di Piccolo mondo moderno (1901), risiede, a detta di Fogazzaro, nei «cattivi
«Gazzetta ufficiale del Regno d’Italia», CCXC (7 dicembre 1901), 5678.
Il dibattito parlamentare sul divorzio e il romanzo Piccolo mondo moderno, uscito proprio nel 1901,
sembrano legati da uno stretto rapporto. Le cause fisiologiche individuate dalla legge Berenini - Borciani
consistevano nell’infermità mentale di uno dei due coniugi per più di tre anni. In Piccolo mondo moderno,
Piero Maironi, che è sposato con una donna «demente da più anni […] e senza speranza», A.
FOGAZZARO, Piccolo mondo moderno, Venezia, Marsilio, 2011, 120, subisce le tentazioni della carne e dello
spirito fino all’aprirsi di una forte crisi di coscienza. Il cammino intrapreso da Maironi però non conduce
alla separazione volontaria dei coniugi, ma alla rinuncia da parte di Piero della vita mondana in nome di
quella spirituale.
33
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criteri di scelta» con cui si contraggono i matrimoni, frutto delle «attuali enormi
disuguaglianze di fortuna».
4. Conclusioni
Se, come scrisse Scarfoglio nel febbraio 1885 sul «Fanfulla della Domenica», il Daniele
Cortis in quanto «romanzo dell’anima» muove «contro la corrente comune», anche la
concezione dell’amore, segnando uno scarto rispetto ai modelli normati di Manzoni (e
di Verga), rientra in questa eccezionalità. A dimostrarlo le parole di Giacosa che
percepisce chiaramente fin dalla prima lettura l’unicità dell’opera e individua con
acutezza attraverso gli strumenti che gli sono più congeniali, quelli della drammaturgia,
in cosa consista la sua modernità.
14
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