L`antifascismo nella storia italiana del Novecento

L ’antifascismo nella storia italiana del Novecento
di Guido Quazza
Alcune osservazioni m etodologiche e con­
cettuali
Anni fa, nel momento più duro della pole­
mica storiografica sul fascismo, mi accadde
di definirlo 1’ “esame di coscienza” degli ita­
liani. Esame di coscienza in quanto la vitto­
ria del fascismo e il suo lungo dominio poli­
tico, economico, sociale e, entro certi limiti,
culturale del paese costrinse gli italiani, pro­
prio per il suo carattere complessivo di co­
scienza autoritaria, a porsi, sia negli atteg­
giamenti esterni, sia nei convincimenti inter­
ni, il problema della propria identità non so­
lo come popolo ma anche come singoli. Mi­
noranza durante la dittatura di Mussolini,
gli antifascisti furono il ‘movimento’ che,
col pensiero e con l’azione, più contribuì a
formare la coscienza alternativa, la coscien­
za democratica degli italiani attraverso una
costante opera di contrapposizione al ‘pote­
re’ ispirandosi ai ‘valori’ di libertà e di giu­
stizia dentro il quadro d’una lotta che ben
presto divenne prima europea e poi mondia­
le. Una lotta che toccò altissimi momenti di
interezza umana, coniugando intelligenza e
cuore, lucida visione del vivere civile e forte
coraggio di scelta del sacrificio personale e
di gruppo, come nel 1919-1926, nel 1943-
1945 e poi, in circostanze meno sanguinose,
nel 1960-1976.
Si può affermare con sicurezza che la cre­
scita etico-civile dell’Italia trova il suo ner­
bo, sotterraneo o aperto a seconda della lati­
tudine o totalità del potere fascista, nell’an­
tifascismo. Anche se i suoi frutti tangibili,
quelli economici, sociali e istituzionali —
questa nostra repubblica — sono ben lonta­
ni dalle speranze dei militanti della prima fa­
se, della seconda e della terza. Il filone co­
stante è nel campo economico la difesa del­
l’eguaglianza come principio costante da
estendere nella realtà di tutti giorni, nel
campo sociale l’elevazione del grado di au­
tocoscienza del cittadino come parte di un
tutto, nel campo istituzionale lo sforzo di al­
largare la partecipazione del singolo al go­
verno di sé e degli altri. Il tutto mediante la
cultura — non solo come costruzione di
nuovi e più attenti e meditati saperi — e a
un tempo verso la cultura come controllo di
sé nel presente e per l’avvenire: una lunga
marcia, di almeno settant’anni, per conqui­
stare un nuovo migliore rapporto tra società
e stato rispetto ai tempi della nascita del se­
condo e alla condizione della prima fin dal­
l’età delle rivoluzioni del Settecento.
La dimensione cronologica occupa, a me
Pubblichiamo la relazione di Guido Quazza al convegno “Attualità dell’antifascismo. Le ragioni di una scelta lon­
tana”, Cuneo, 7-8-9 dicembre 1989, ringraziando l’Istituto storico della Resistenza in Cuneo e provincia per aver
consentito l’anticipazione del testo.
Italia contemporanea”, marzo 1990, n. 178
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Guido Quazza
pare, un periodo più lungo di quello solita­
mente considerato: l’intero secolo che va or­
mai verso il tramonto. Un periodo nel qua­
le, contrariamente a quanto si dice dai no­
stalgici del fascismo e dagli amanti del quie­
to vivere, l’antifascismo è il fulcro, in Italia
almeno ma non solo, dell’intera attività
pubblica degli uomini e delle donne. Co­
scienza attiva d’ogni avanzamento, come di­
cevo, luogo di costruzione d’una Italia di­
versa, ‘anima’ vorrei dire di una qualità
umana migliore non limitata ai gruppi diri­
genti ma fatta propria potenzialmente da
tutto il popolo, dalla ‘gente’ come oggi si
ama dire. Il decennio trascorso ha visto, al
contrario, nella gente il trionfo del privato.
Ecco, dunque, il problema se l’antifascismo
sia vivo o sia morto. Di qui la mia relazione
deve partire per rispondere, risalendo alla
lunga storia e alla lunga durata dell’antifa­
scismo.
Comincio con un’affermazione che è l’as­
sunto del mio discorso: checché ne dicano
non soltanto i fascisti — ciò è ovvio — ma
anche gli opportunisti, i consumisti, molti
moderati e addirittura qualche sfiduciato fra
coloro che in passato seguivano la bandiera
del grande movimento contro il fascismo,
l’antifascismo, resta, a mio parere, con for­
me in parte diverse ma con un nocciolo cen­
trale intatto, l’alternativa del secolo quanto
alle forme via via assunte dal rapporto fra
società e stato, specialmente in Italia ma an­
che nell’Europa, dalla cui storia quella ita­
liana non è nettamente separabile. E nel
mondo, dalla cui storia non è — lo ripeto
sebbene debba essere fin troppo chiaro —
non è separabile quella dell’Europa. Per
questa ragione mi pare necessario prender le
mosse, per cogliere le origini della contrap­
posizione tra antifascismo e fascismo, dal
momento nel quale il rapporto fra Europa e
mondo cambia, dal tempo nel quale entra in
crisi l’egemonia plurisecolare del vecchio
continente.
Secolo, si disse tante volte e diventò un
luogo comune, delle nazionalità, l’Ottocen­
to; secolo delle guerre e delle aggregazioni
non solo internazionali ma mondiali con­
temporaneamente legate all’insorgere delle
autonomie, il Novecento. Secolo, ancora,
della fede nel progresso come motore e risul­
tato della volontà di successo economico e
di primato politico della borghesia indu­
striale, l’Ottocento. Secolo dell’inquietudine
morale e della sfiducia psicologica di massa,
come esiti dello scontro continuo fra nazioni
e imperi e come graduale costante sposta­
mento dalla dimensione politica alla dimen­
sione privata dentro un quadro di ricerca
spesso ossessiva dell’autonomia del singolo
e delle etnie, il Novecento. Due definizioni
troppo vaste e generiche per servire a vaglia­
re eventi di lunga durata, è certo. E tuttavia
non completamente inutili a fissare limiti di
massa entro i quali muoversi su un tema così
ampio e arduo come quello affidatomi per
aprire il convegno. Un tema che, per quanto
lo si voglia circoscrivere all’Italia, ha in real­
tà un orizzonte planetario e una natura per
un verso tipica del ‘grande’, del ‘macro’, per
l’altro del ‘piccolo’, del ‘micro’. Nel vasto e
nel generico le due definizioni servono qui
unicamente a stabilire il tempo di cerniera
fra due età nel quale nasce, prima ancora di
esplodere, quello che chiamerei senza esita­
zioni il conflitto del secolo. Se si guarda alle
date, non c’è dubbio che si deve parlare di
premesse, poiché il fascismo italiano sorge il
23 marzo 1919 e l’antifascismo subito dopo,
cominciando a esplicitarsi nel corso del
1919-1920. Una ventina d’anni, dunque, dai
primi germi, che spuntano tra la fine del­
l’Ottocento e i primi del Novecento.
Prima di dare inizio a questa sommaria
corsa sull’antifascismo nella storia italiana
del Novecento si impone qualche cenno ai
criteri metodologici e concettuali della ricer­
ca dei momenti fattuali principali, poiché la
ricerca è generale e non analitica, è selezione
obbligata entro una massa enorme di ele­
menti. Dati costitutivi, loro evoluzione e svi­
L ’antifascismo nella storia italiana del Novecento
luppo, fasi temporali sono i contenuti di ba­
se, per così dire, e da essi non si può com­
pletamente prescindere, ma in questa sede
essi devono essere assunti in una misura ele­
mentare per non perdere quel tutto pura­
mente propedeutico che il programma del
convegno inevitabilmente prescrive. Il meto­
do di scelta sarà di non chiudere il discorso
— come è tradizionale — entro un’analisi
delle idee generali di antifascismo e fascismo
via via coniate dall’alta cultura e neppure
soltanto entro lo studio delle idee ‘ricevute’
dalla cultura popolare rifusa e al contempo
vivificata dall’immaginario collettivo quale
si è formato nei secoli, per non dire, quanto
ai suoi termini e fondamenti religiosi, nei
millenni. Le autorappresentazioni dovranno
essere considerate nel dare e avere delle eterorappresentazioni e, nella ineludibile rapi­
dità di una relazione congressuale, usate co­
me materiale spesso sottinteso di una storia
dei due protagonisti dello scontro nella qua­
le essi si compenetrano tanto più quando i
protagonisti nelle loro individuali incarna­
zioni si allontanano, pur in un quadro di
massa, dalla consapevolezza razionale degli
esponenti e capi. Le ‘idee’ non possono esse­
re dimenticate, ma, insomma, devono essere
riflesse o addirittura immerse quasi omeopa­
ticamente nelle specifiche rappresentazioni
di queirimmaginario che, solo, le converte
in ‘forze’ nel concreto svolgersi della vitastoria. Né le idee né l’immaginario, mi pare,
sono tuttavia sufficienti a capire che cosa è
stato ed è l’antifascismo e quali siano — co­
me suona il sottotitolo del convegno — le
ragioni di una scelta lontana. Ogni scelta —
è troppo chiaro — nasce da un atto di vo­
lontà, e un atto di volontà è anche ‘caratte­
re’, spesso ‘passione’. E mai come quando
la scelta comporta una lotta e la lotta un
‘pagar di persona’. Il nesso fra teoria e pras­
si è sempre così stretto, nella storia dell’anti­
fascismo, da giungere a un ‘comportamen­
to’ che pone l’azione al primo posto rispetto
al pensiero. L’antifascismo sia nei singoli
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militanti sia nel suo insieme, è un movimen­
to, non un partito, ed è anche questa un’al­
tra ragione per la quale preferirei parlare
non di pensiero e azione ma di pensiero-a­
zione. I diversi, e molti, antifascismi rendo­
no forse impossibile, certo poco utile, una
definizione unitaria e perciò compiuta e or­
ganica: in questo, ancor più dei fascismi, i
quali sono diventati, da movimenti inizial­
mente, partiti, e hanno preso possesso dello
stato derivando una teoria ufficiale dall’oc­
cupazione dei meccanismi del potere quale
prima esisteva. Tratti simili, come di recente
ha ribadito Enzo Collotti, consentono di in­
dividuare una teoria del fascismo pur nell’e­
sigenza di non trascurare come importanti
per l’indagine storiografica i caratteri speci­
fici di ogni fascismo nazionale. Per l’antifa­
scismo italiano neppure la vittoria del 1945 e
l’occasione di dare una nuova costituzione
al paese hanno consentito di raggiungere nei
fatti, e tanto meno nella teoria, una defini­
zione coerente complessiva. È giocoforza
parlare, dunque, di comportamenti indivi­
duali e di comportamenti di gruppo, se si
vuole tentare un esame storiografico e non
un’analisi di dottrine: lo impone il metodo
della disciplina. Ecco perché io preferirei
parlare, come premessa del discorso, di anti­
fascisti più che di antifascismo, più di sog­
getti concreti che di idee astratte, pur senza
negare che si tratta di soggetti che condivi­
dono molte posizioni comuni di ‘pensiero’.
Soggetti, perché la loro ‘azione’ è frutto di­
retto, concreto quant’altri mai ci direbbe
Salvemini, delle scelte e delle opere di ‘per­
sone’. Di qui l’esigenza di dar peso alle idee
e rappresentazioni della vita che gli antifa­
scisti-persone hanno sia come genesi del loro
essere sia come sviluppo esistenziale, cercan­
do — se e quando possibile — le influenze di
gruppo, di classe, di nazione e i condiziona­
menti dell’economia, delle istituzioni, dei
valori civili generali. Non solo — e questo
ritengo l’elemento distintivo più specifico
per la storia di un movimento — ma in­
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Guido Quazza
improvvisa comparsa, alla luce della media­
zione degli Usa a Portsmouth nel medesimo
anno, di un imperialismo bianco sì, ma non
europeo, ormai capace, col presidente Theo­
dor Roosevelt, di una politica big stick ar­
mata di navi da guerra (Cuba, Hawai, Sa­
moa, porta aperta in Cina) e nutrita di una
flotta commerciale già in grado di concorre­
re con quelle europee. Il 1905 è anche l’anno
dell’inizio della crisi interna zarista con la
prima rivoluzione russa. Altrettanto, a fian­
co della paura, è la coscienza culturale del­
l’avvio a un cambiamento radicale. Il 1905 è
pure l’anno dei quanta di Max Planck, cioè
del nascere di quel senso della divisibilità del
reale che prestissimo porterà alla teoria della
relatività di Einstein e poi all’affermarsi di
una visione dello spazio fisico lontanissima
dalla fede nell’inesorabile necessità organica
delle ‘leggi naturali’. Così come l’esplodere
nell’arte e nella letteratura e poesia della
prassi e del gusto di disintegrare i valori ‘vi­
sibili’ su una strada che le varie filosofie del
tempo codificheranno in quella sorta di
‘pensiero debole’ che si diffonde rapidamen­
te con l’attacco frontale dell’idealismo al
positivismo e, più in generale, con il diffon­
dersi delle teorie dell’azione di Blondel e del­
l’intuizionismo di Bergson. Mentre verismo
e realismo cedono al simbolismo di un Ver­
laine e di un Mallarmé, al sensualismo di un
D’Annunzio, allo psicologismo di Proust, al
futurismo di Marinetti, il reale figurato la­
Premesse europee dell’alternativa italiana
scia presto il passo al cubismo e al fauvi­
La crisi dell’Europa — dicevo — fra Otto­ smo. Addirittura la religione cattolica piega
cento e Novecento. Inutile tentare un’analisi la sua compatta sicurezza e il suo dogmati­
precisa. Basterà riferirsi al ‘pericolo giallo’, smo gerarchico al modernismo e Nietzsche
in prima approssimazione, come tipico caso dà una forma imaginifica a una “volontà di
di ‘rappresentazione’ della paura degli euro­ potenza” che si proclama “al di là del bene e
pei di perdere la supremazia mondiale quali del male” .
esponenti della supremazia bianca. Una
Dalla certezza razionale della fede nel
paura che nasce da fatti ben noti: la sconfit­ progresso il passaggio al volontarismo e al­
ta di Port Arthur subita nel 1905 dai russi a l’irrazionalismo si accompagna alla crisi del­
opera dei giapponesi; il suo congiungersi la politica dell’equilibrio praticata da Bi­
con l’avviso d’una possibile superiorità ma­ smarck che si traduce nella Weltpolitik del
rittima dell’impero del Sol levante e con la Kaiser Guglielmo II, pronta con prepotenza
fluenze e condizionamenti che gli antifasci­
sti-persone fondono nel crogiuolo della loro
singolarità facendone comportamenti da
praticare in ogni ora e giorno e anno della
propria vita. La sintesi operante, globale, di
questi elementi, delle convinzioni e dei senti­
menti fa degli antifascisti dei ‘praticanti’ di
un modo d’essere uomini o donne verso se
stessi, i familiari, gli amici, il collettivo in
cui vivono che li distingue quasi a vista — se
mi è consentito dire — e perciò insisto nell’affermare che il metodo da adottare in una
ricerca meno veloce di questa si deve ade­
guare alla linea che ho telegraficamente pro­
posto. Se dal metodo si passa alle fonti e al
loro uso, è fin troppo chiaro che esse debbo­
no attingere non solo ai documenti del pen­
siero filosofico, politico, sociale, economi­
co, ma anche ai materiali riguardanti l’io e
l’io profondo, cioè al percorso della psicolo­
gia, così come ai documenti della biologia,
dico sintetizzando, cioè il percorso del cor­
po. Non continuo su questo terreno, ma
concludo dicendo che lo studio dell’antifa­
scismo se viene colto negli antifascisti si po­
ne come una sfida squisitamente inter e
transdisciplinare, la quale chiede nel suo
stesso cammino lo sforzo di cogliere le articolazioni con la simbiosi e la simbiosi con le
analisi differenziate: globalità e specificità.
L’antifascismo nella storia italiana del Novecento
a sfidare il plurisecolare dominio dei mari
della Gran Bretagna all’insegna del Naviga­
re necesse est, vivere non est necesse. La
“concurrence des ambitions” teorizzata da
Montesquieu nel clima del secolo della ra­
gione e sopravvissuta nel secolo delle nazio­
nalità diventa scontro brutale di nazioni che
vogliono imporre il proprio impero. La pau­
ra del giallo è il segno di massa, nelle idee e
nell’immaginario, di un’Europa che lancia
la sua superiorità culturale ed economica
dentro se stessa col conflitto fra le classi e
con la guerra per il potere mondiale e, men­
tre Benedetto XV si affanna a bollare 1’ “inutile strage” , inaugura la lunga “guerra ci­
vile” che a tappe diverse sfocerà nella più
terribile fra le guerre mascherata da guerra
per la civiltà a seguito del dibattito sulla “fi­
ne della civiltà” . È proprio il quadro che
chiamar spirituale vuol dire accettare l’opi­
nione dei cervelli “liberali” più acuti del
ventennio dopo il conflitto, i vari Rolland,
Benda, Huizinga, Croce, ma la sensibilità
dello storico deve considerare l’espressione
delle idee degli intellettuali anche insieme, o
più, ai riflessi nell’immaginario di massa, ad
esempio attraverso opere apocalittiche come
Il tramonto dell’Occidente di Spengler o il
Mein Kampf di Hitler. Attraverso espressio­
ni, cioè, d’una cultura diventata preda e
strumento della politica della forza, della
violenza armata di un imperialismo che si
sente, sia pure in forme e gradi diversi, po­
sto in pericolo di vita dall’imperialismo
americano e da quello giapponese.
Il “revisionismo” contro la “vittoria muti­
lata” è per l’Italia solo un capitolo minore
del revisionismo contro la spartizione del
bottino fra gli alleati vittoriosi: le paci del
1919-1922 sono causa di nuovi conflitti per
la cecità di fronte alle passioni e agli interes­
si delle nazioni e delle etnie, oltre che per la
sensazione ch’esse danno di una contraddi­
zione lampante con i princìpi della Società
delle nazioni e per la fine ch’esse, col tratta­
to delle Nove potenze, decretano al vecchio
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equilibrio marittimo. Poiché, inoltre, dopo
il 1917 era sorta la grande speranza di
un’Europa fondata sull’equilibrio fra le
classi, diventa in quegli anni sempre più dif­
ficile distinguere lo scontro fra gli stati dallo
scontro fra le classi. Le scelte del rimedio ra­
dicale debbono essere radicali. Destra e sini­
stra, se sono divise al loro interno sul pro­
blema del primo fra i due scontri, sono com­
patte sul secondo.
In Italia i primi segni risalgono al Novantotto e all’uccisione di Umberto I, e prodro­
mi, sia pure più deboli, già si hanno quando
è presidente del Consiglio Crispi. Non ri­
prenderò, affidandomi alla memoria scola­
stica dei più, i dati dell’ascesa, nel decennio
giolittiano, del nazionalismo, del futurismo,
delle riviste fiorentine animate da ostilità se
non anche da disprezzo verso il neotrasfor­
mismo rappresentato da Giolitti e il suo
‘buonsenso’, per altro sfociato nella violen­
za colonialista. Dirò solo che le manifesta­
zioni di piazza pro o contro l’intervento e le
scelte belliche della monarchia aprono già
con clamore di massa quell’età che, prepara­
ta dall’autoritarismo spietato dello stato nel­
la grande guerra, vedrà all’indomani della
pace la nascita milanese dei “fasci di com­
battimento” . Gli schieramenti per il potere
forte, da una parte, e per la ribellione delle
masse operaie, dall’altra, sono già in via di
costruzione. E così la difficoltà a scegliere
da parte degli intellettuali e dei ceti medi.
Il conflitto interimperialista europeo è
dunque all’origine immediata, o quasi, del
conflitto sociale in Italia. La posta è il pote­
re. In una situazione virtualmente decisiva
per la vittoria di classe l’impotenza del vec­
chio ceto dirigente liberale e la ancora scarsa
politicità del neonato partito popolare apre
la porta a una destra più capace, nel suo im­
peto volontaristico e attivistico, di imporsi
con i mezzi di una violenza di tipo nuovo,
coinvolgendo il grande potere economico e
l’antico potere statale nelle sue varie artico­
lazioni. Il diritto e dovere del più forte a go-
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Guido Quazza
vernare si impone di fatto e comincia a teo­
rizzarsi più completamente usando i prestiti
della ‘filosofia’ del nazionalismo mediata
attraverso una parte dell’idealismo italiano.
Gli intellettuali si dividono, anche dentro il
vincitore del positivismo. Le forze che la so­
cietà ha dato alla sinistra sono molto divise
nelle loro rappresentanze parlamentari, cioè
i partiti, e questi a loro volta sono profon­
damente divisi al loro interno: non occorre
ricordare riformisti, massimalisti, comuni­
sti, cattolici di centro e cattolici di destra, e
radicali e repubblicani. È vero che quelle
forze sociali esplodono nel biennio rosso,
ma non riescono a reggere alla crisi della ri­
voluzione bolscevica e al contrapposto na­
scere, in Occidente, della controrivoluzione,
che in Italia è stata definita addirittura, ap­
punto per la debolezza delle difese di sini­
stra, controrivoluzione “preventiva”. Ecco,
detto in estrema sintesi, il nascere in dram­
ma dell’antifascismo, il suo originarsi con
un grave handicap iniziale.
Già nel prologo manca una teoria organi­
ca. Già l’azione è di singoli, di antifascistipersone, non di un movimento organico. La
tabe della divisione è nel sociale ma anche
nell’etico-civile. E nel comportamento. Sto­
ria dolorosa per chi vuole subito combattere
perché dolorosa per l’intero paese, che scon­
ta la ‘rivelazione’ dei mali antichi rimasti nel
regno unitario sorto dall’impeto e dall’ac­
cortezza dei protagonisti del Risorgimento.
Prima e seconda fase della scelta
La ‘situazione’, tale che di per sé impone
una scelta rischiosa per lo spietato uso delle
armi più feroci da parte delle squadracce fa­
sciste e per la loro impunità derivante dai fi­
nanziamenti e appoggi di vario tipo degli
agrari, degli industriali, dei banchieri e, dal­
la polizia, dai carabinieri, dall’esercito, così
come da ministri e da magistrati, impone al­
l’antifascista del 1919-1922 coraggio fisico e
soprattutto coraggio morale. Ancor più, fra
l’ottobre 1922 e il 3 gennaio 1925, il control­
lo via via completo dell’apparato statale da
parte di Mussolini. L’assassinio di Matteot­
ti, il 10 giugno 1924, è l’esempio più tragico,
come tutti sappiamo, ed è la conseguenza
immediata della sua denuncia dei brogli elet­
torali e delle violenze dell’incipiente regime.
In termini diversi, ma con la consapevole ac­
cettazione d’essere un volontario adepto nel­
la “compagnia della morte” , è la sorte di
Piero Gobetti. Esito del coraggio nel respin­
gere le imposizioni del fascismo governante
sono le morti di don Minzoni e di Giovanni
Amendola. Il sempre più largo controllo
dello stato fa sì che l’antifascista non debba
affrontare soltanto, come nel 1919-1922, la
‘situazione’, cioè uno stato di vita aperto a
risposte con qualche margine di libertà di
pensiero e di azione. Ora è il ‘meccanismo’
via via più spietato, quello che Silvio Trentin descrive in Francia con la limpida logica
della sua cultura giuridica, che deve essere
fronteggiato. E al coraggio fisico è necessa­
rio si affianchi in sempre più larga misura il
coraggio morale. Non è più possibile sperare
che il fascismo duri poco; tanto meno, come
Amendola e l’Aventino dopo la ‘crisi Mat­
teotti’, che il re torni sulle sue alleanze che
ne avevano fatto dall’ottobre 1922 un mo­
narca fascista, o succube del duce. I capile­
ga, i dirigenti del partito socialista, delle
cooperative di lavoratori, dei sindacati era­
no stati terrorizzati e spesso torturati e uccisi
quasi senza che si fossero resi conto del peri­
colo fascista, del resto non individuato nella
sua pienezza né da Turati né da esponenti
del socialismo, a eccezione di Matteotti. In­
tellettuali come Croce e Salvemini avevano
essi stessi stentato a capire la vera natura
delle promesse dell’ “ordine” e della “legali­
tà” manovrate da Mussolini con indubbia
capacità tattica e con noncuranza di ogni
coerenza e lealtà. Con Matteotti, e con
sguardo più profondo, solo Gramsci aveva
invano invocato il coraggio più duro, quello
L’antifascismo nella storia italiana del Novecento
di ricorrere all’uso delle armi per vincere gli
“assassini” .
La prima fase della storia dell’antifasci­
smo aveva dunque mostrato che tempera­
mento e comportamento dovevano congiun­
gersi nel coraggio quotidiano per fronteggia­
re a viso aperto il fascismo, e che non basta­
va l’analisi della natura dell’implacabile ne­
mico. Gli antifascisti-persone dettero nel
1919-1925 un’impronta al movimento, anco­
ra minoritario, che non si sarebbe più can­
cellata come segno essenziale di esso. La
scelta lontana porta un marchio che non sa­
rà più cancellato, neppure in tempi meno
violenti. Azione più che pensiero, pur nel le­
game originario di pensiero-azione, senza la
particella congiuntiva “e” , fin dall’inizio
della lotta. L’ambiguità della condizione
umana, sulla quale Primo Levi scriverà pa­
gine profonde a riguardo del più terribile de­
gli “abissi”, la vita nel lager, diventa subito
un nemico da combattere, forse il peggiore,
e dallo scontro con essa viene la lezione del­
l’intransigenza morale necessariamente ali­
mentata dal coraggio — fisico e morale —
delle scelte nette. Anche questo elemento —
io credo — spiega la differenza radicale tra
antifascismo e fascismo. Fornito, all’inizio,
del coraggio degli arditi, soltanto fisico, il
fascismo si dissolverà come neve al sole
quando passerà dal controllo del potere alla
perdita di esso, nel 1943, e ancora e più nel
1945 non avrà neppur l’ombra della volon­
tà, col suo corredo di coraggio, di resistere
alla sconfitta della repubblica di Salò. Po­
chi, pochissimi, del resto, anche nel corso
dei venti mesi dell’ultima sua esperienza di
governo in Italia, saranno i combattenti ve­
ri, disposti a sacrificare se stessi fino all’e­
stremo, e saranno quasi tutti giovani offerti­
si per entusiasmo ingenuo oppure per furore
vendicativo al secondo regime mussoliniano.
Ed è proprio quando è diventata piccola
minoranza dentro lo stato totalitario fasci­
sta, che la scelta rivela il suo marchio più
profondo, il suo tratto di azione intransigen­
11
temente dura. Mentre i ceti medi vanno sem­
pre più cedendo e i contadini si appartano,
non diverso in coraggio da quello degli intel­
lettuali pionieri è l’antifascismo di quegli
operai che non si lasciano incantare né sog­
giogare dall’oratoria del duce e dal suo au­
toritario comando. È vero che centinaia di
migliaia di operai erano emigrati negli anni
1921-1922 e nel primo biennio del governo
fascista, stanchi di essere vittime del manga­
nello, dell’olio di ricino, del pugnale, del
moschetto e timorosi per se stessi e per la fa­
miglia, e si può discutere in sede storica se in
loro la paura avesse vinto sul coraggio, mu­
tando l’antifascismo in autodifesa esisten­
ziale. Molti di essi, tuttavia, non cessano di
militare contro il fascismo fuori d’Italia, e
non pochi sono gli operai che, restando in
patria, continuano, nelle forme più varie, a
resistere alle pressioni del regime, mentre i
contadini che difendono la propria autono­
mia mediante l’appartarsi preparano, col fa­
vore della relativa lontananza dai centri del
potere assoggettati agli ordini del capo, i
luoghi della guerra partigiana del 1943-1945.
Intanto, pur se più comprensibile perché co­
scientemente politica e internazionale ma
non negabile come fatto di coraggio, la resi­
stenza attiva dei comunisti punta, con l’au­
dacia e l’intransigenza dei militanti di parti­
to, a costruire nella clandestinità e nel carce­
re il nucleo più compatto di un antifascismo
che rimane, nell’insieme, movimento con
aderenti singoli o di gruppo pronti a farsi
aderenti liberi d’una schiera irriducibile.
Questa seconda fase dell’antifascismo è
certo la più impegnata perché pronta in ogni
momento a congiurare, a colpire, ad affron­
tare condanne, carcere, torture, morte. La
tesi di un largo consenso al regime trova
confutazione soprattutto in questa fase. Il
confronto fra il periodo dell’ascesa al potere
e quello del potere conquistato, il primo ric­
co di resistenza, ma in clima ancora libero,
il secondo schiacciato da un controllo e una
repressione resi capillari dal dominio fasci­
12
Guido Quazza
sta sullo stato, è la sorgente decisiva per
una discussione metodologicamente più cor­
retta di quella sinora fatta. E a essa porta
dati di fatto anche il confronto fra le cifre
dei fascisti militanti e quelle degli antifasci­
sti condannati al carcere o al confino: gli
uni e gli altri alla pari come numero, circa
150.000. Inoltre, nella seconda fase si trova
una forza, significativa per il futuro, di ela­
borazione di pensiero. Nascono nuclei di
oppositori che cercano una via antifascista
diversa da quella dei vecchi schieramenti
partitici. Ai seguaci di Gobetti e della sua
intransigenza morale si affiancano, spesso
in discorde concordia, i Rosselli, Giustizia e
libertà, liberalsocialisti e socialisti coerenti
pronti a giungere, nel 1934 e dopo, a patti
d’unità d’azione con i comunisti. “Non
mollare”, la lettera di Parri al suo giudice
nel processo di Savona, la cospirazione di
alcuni cattolici come Malvestiti con il suo
Movimento guelfo d’azione sono soltanto
alcuni segni fra quelli che possono essere ci­
tati qui: ma significativo è che, sebbene il
pensiero li muova a considerazioni e medi­
tazioni, il tasto più toccato è quello dell’a­
zione, come dicono addirittura i nomi scelti
come bandiera. Fino a che, quando il pre­
stigio del nemico sale in Europa e, con l’a­
scesa di Hitler, giunge ad alleanze interna­
zionali di natura ideologica fascista, la
guerra civile in Spagna viene colta come oc­
casione fondamentale per prendere le armi e
con le armi affrontare nelle brigate interna­
zionali non solo il fascismo di Franco ma
anche gli italiani mandati da Mussolini con­
tro i “rossi” nella terra iberica. È la prova
suprema, nel ventennio, del coraggio nell’a­
zione, e non a caso Carlo Rosselli lancia il
suo davvero fatidico “Oggi in Spagna, do­
mani in Italia” . A poco a poco l’antifasci­
smo dei singoli diventa antifascismo dei
gruppi, l’antifascismo del pensiero-azione
diventa antifascismo armato, antifascismo
dell’azione nella sua purezza e pienezza.
L’ambiguità, pur nobile nell’ispirazione,
dell’interventismo dei Bissolati, dei Salvemini, del giovane Parri e di non pochi antigiolittiani perché antitrasformisti e antiopportunisti come lui e come lui eredi spiri­
tuali del coraggio e della fede patriottica de­
gli uomini del Risorgimento, è ora davvero
superata. Dal prologo si è giunti, attraverso
le dure prove della grande guerra e le dela­
zioni e le incertezze o gli errori del 19191925, alla preparazione dello scontro e al
coraggio pieno del non evitare il sacrificio
di sé: la morte dei fratelli Rosselli è, se così
è consentito dire, il blasone del tempo del­
l’Asse Roma-Berlino e dell’incrudirsi barba­
rico del regime con la persecuzione razziale
e l’avvio inesorabile alla guerra.
Le diversità di posizione politica sono an­
cora forti, ma i tentativi di trovare un terre­
no comune lavorano proprio sull’azione co­
mune, quasi che l’obiettivo supremo spin­
gesse sempre più a superare le divergenze
nel pensiero politico per operare secondo
un’azione animata dall’ispirazione morale.
Una sorta di primato dell’etica come pre­
messa a battaglie destinate, nel fuoco del
grande conflitto con fascismo e nazismo, a
farsi via via etico-politiche mediante la cre­
scita della persona dentro l’impegno stesso
acceso dal conflitto nel corso del suo farsi.
Intelligenza delle cose ma, ancor più, tem­
prarsi del cuore in una fede ogni giorno più
temprata. L’uomo, insomma, come stru­
mento e fine dell’intera impresa di abbatte­
re la tirannide negatrice della civiltà. Dalla
percezione studiosa della crisi al senso del
dovere di fare qualcosa per superarla. Dal­
l’attivismo fine a se stesso del bernsteiniano
“il fine è nulla, il movimento è tutto” , al
termine dell’Ottocento, la terribile esperien­
za della vittoria fascista aveva portato al
movimento per un fine, quasi che l’irrazio­
nalismo della pura “volontà di potenza”
battezzato dall’esaltazione nietzschiana di
Dioniso, il dio della violenza, contro Cristo,
l’assertore della rassegnazione, del superuo­
mo contro lo schiavo, avesse ritrovato pro-
L ’antifascismo nella storia italiana del Novecento
prio nell’antifascismo una sintesi nuova
nell’ ‘amore’ armato dei cristiani pronti a
offrirsi come ‘martiri’ dell’ “unica vera rea­
zione, l’agire” , per dirla col filosofo tede­
sco, smentito così nella sua tesi dell’amore
sbocciato “dall’odio ebraico come sua ven­
detta” . I documenti del coraggio e dell’in­
transigenza morale perìnde ac cadaver sono
molti, e non è necessario ch’io li citi a con­
forto di questa interpretazione. Non pochi,
neppure, quelli scritti da antifascisti mode­
rati nell’azione piena ma limpidi nel pro­
muovere la coscienza dei ‘valori’ civili senza
nicodemismo e senza ambivalenze di lin­
guaggio.
D all’opposizione alla guerriglia
In Italia, la terza fase dell’antifascismo,
quella destinata a essere vittoriosa, germina
dalla partecipazione del paese al conflitto, e
conserva dapprima le timidezze della con­
vergenza fra diversi. La natura degli ‘allea­
ti’, le ‘democrazie’ occidentali da un lato, il
monolito sovietico dall’altro con le sue ra­
mificazioni clandestine e/o partitiche nei
paesi dell’Ovest, incide sull’unità antifasci­
sta in modi contrastanti e con effetti, per i
primi due anni, di sostanziale paralisi nelle
‘alte sfere’ del paese. La scossa più esplicita
è negli scioperi operai del 1943, come sap­
piamo, ma lo sbocco decisivo per la caduta
del regime è in un atto della monarchia,
quello dell’arresto di Mussolini il 25 luglio.
La precedenza dall’ ‘alto’ porta, con i qua­
rantacinque giorni badogliani, a conseguen­
ze di intorbidimento interno dell’antifasci­
smo e a un esito del corso militare della
guerra disastroso per l’antifascismo più de­
terminato e coraggioso. Tuttavia, la non
volontà del re e del maresciallo a staccare
nettamente l’Italia dalla Germania nazista,
prova eloquente di una politica che vuole
strappare al fascismo il potere visibile, ‘le­
gale’, e all’antifascismo la possibilità di ac­
13
cedere al governo, provoca, per la sua trop­
po aperta falsità e doppiezza, il crollo dello
stato in quanto tale e la ribellione di nuovi
adepti dell’antifascismo, molto più numero­
si di quelli del ventennio anche se politicamente più immaturi, e ormai molto più ‘de­
cisi’ a battersi volontariamente e fino in
fondo.
I partigiani sono il nuovo antifascismo
senza voler essere conflittuali col vecchio. E
qui sta la forza dei combattenti contro il
nazismo occupante e contro i fascisti suoi
servi nella repubblica sociale governata da
Salò. I partiti già antifascisti nel ventennio
hanno la capacità di stimolare, ma la resur­
rezione viene da un moto spontaneo di mas­
se: di massa, certo, non nel senso del nume­
ro dei ‘banditi’, ma in quello della loro ca­
pacità di incunearsi, sia pure con graduali­
tà, nel profondo della società italiana, nel­
l’interno stesso della maggioranza della po­
polazione. Anche gli intellettuali che erano
stati traditori secondo Benda, si vanno pur
con molta prudenza e lentezza allineando al
nuovo corso contro quel fascismo che ave­
vano servito; alcuni dei più giovani fra di
essi, che avevano frequentato la scuola fa­
scista, si mettono alla testa o almeno all’in­
terno della “banda microcosmo di democra­
zia diretta” . E portano l’antifascismo a tro­
vare un obiettivo unico: vincere il nazifasci­
smo con una guerra di liberazione anche a
costo di una “guerra civile” perché lo scon­
tro è diventato una “guerra di religione” ,
secondo l’espressione usata da Guido Calo­
gero in un discorso del novembre 1944 nella
Roma liberata. Se 1’80-85 per cento dei par­
tigiani è antifascismo nuovo, la ragione non
è in una coscienza politica piena. L’uomo
partigiano si fa sul cambiamento dentro la
guerriglia e sulla sua adesione alla “fraterni­
té”, cioè a un internazionalismo non ideolo­
gico ma quotidiano che è frutto della spon­
taneità di vita, di quella specialissima vita
che è l’attività giornaliera delle bande nei
suoi attacchi, nelle sue imboscate, nel suo
14
Guido Quazza
muoversi nei terribili rastrellamenti, nel suo
fare ‘colpi’ nelle strade e nelle città, nel suo
imparare a guidare il rapporto con la ‘gen­
te’ in tutte le sue più variegate e al tempo
stesso complesse articolazioni del ‘privato’ e
del ‘pubblico’, per usare termini correnti in
Italia da più di dieci anni. L’autonomia del
singolo, l’autonomia della banda, l’autono­
mia del nesso fra l’una e l’altra rispetto al­
l’internazionale della resistenza: ecco la
grande lezione storica. Ed essa — non va
mai dimenticato — nasce non da una dot­
trina politica generale acquisita da insegnamenti storici ereditati, ma da una scelta del­
l’uomo intero che esce dall’esperienza del­
l’individuo nel collettivo. Una scelta, scrive­
vo molti anni fa, esistenziale, che, e nem­
meno sempre, si farà politica.
La terza fase, nutrita di questo tipo di
autonomia, non riesce, a liberazione avve­
nuta, a vincere la battaglia dello stato e
quella, strettamente congiunta per non dire
condizionante, dell’economia. La “ricostru­
zione”, sappiamo, fu una ‘restaurazione’.
Contro la grande ‘rottura’ del 1943-1945, il
1945-1953 fu continuità sostanziale. L’ecce­
zione, certo importantissima, della fine del­
la monarchia non portò, neppure nella Co­
stituzione varata alla fine del 1947, a quello
stato delle autonomie che i più fra i parti­
giani avrebbero voluto. La fine della politi­
ca del Cln fu consumata già prima dell’ulti­
mo mese del 1945, e la caduta del governo
Parri ne fu il punto più clamoroso. Dalla
“scuola del carcere” alla “scuola della ban­
da”, due fonti diverse di un’Italia che, do­
po il breve periodo del “governo di unità
nazionale (1944-1947), scivola nell’accorto
innesto del conservatorismo democristiano,
nel conservatorismo sacerdotale sempre for­
temente ancorato al tradizionalismo conta­
dino. Ecco perché in questo trapasso, reso
longevissimo dall’entrata, con De Gasperi,
nel blocco di potere capeggiato dagli Usa,
anche l’antifascismo ‘vittorioso’ è costretto
dal ‘meccanismo’ della continuità e dalla
forza ‘obiettiva’ della ‘situazione’ a entrare
in una nuova fase.
Da una nuova divisione a una nuova unità
militante
Quadro internazionale, meccanismo interno
giocato col peso del “Regno del Sud” , ab­
bandono della lotta integralmente rinnova­
trice o almeno riformatrice da parte del Pei,
l’alleanza con questo del Psiup, lo sciogli­
mento del partito più audace sulla via di
una democrazia autonomistica, il Pda (si
sa, anche per divergenze di politica generale
al proprio interno): ecco le cause concorren­
ti dal basso al ripristino del potere dall’alto.
E, via via, alla non applicazione anche degli
articoli più coraggiosi della Carta costitu­
zionale, o al ritardo delle clausole sulle au­
tonomie locali, con le conseguenze, nel
campo istituzionale, di quel dominio dal
centro che oggi tutti vediamo. Le differenze
di classe diventano, già con la vittoria del
18 aprile 1948, l’elemento principale di
quella che ho definito la quinta fase dell’an­
tifascismo, dal 1948 al 1959: la fase che,
forse, torna a vedere più diviso l’antifasci­
smo. Diviso un po’ diversamente che nella
prima fase, mancando la sfida tremenda del
fascismo avanzante prima verso il governo
poi verso il regime. Lo scontro fra il potere
democristiano, con i suoi satelliti politici e i
suoi sostenitori economici, e l’opposizione
di sinistra si combatte nelle fabbriche ma in
parte anche nelle aziende agrarie e, con mi­
nor forza ma altrettanto eloquente signifi­
cato, nella scuola e nella cultura, impegnata
al più alto livello e in tutta la gamma delle
sue espressioni, a curare la definizione di un
rapporto con la politica più adeguato alla
società complessa che sta crescendo e allo
stato non più monopolizzato da un solo
partito. È la stessa coinè della repubblica a
esser messa in gioco, e la speculazione dei
partiti sulla cosiddetta “unità della Resisten­
L ’antifascismo nella storia italiana del Novecento
za” incide a fondo, spesso con un uso spu­
dorato dell’editoria, dei giornali, della radio
e della neonata televisione, sulla vittoria dell’una e dell’altra tesi, ancora una volta
espressa dentro l’antifascismo, carico putroppo di una ufficialità che la guerra con­
tro il fascismo non aveva nel ventennio con­
sentito. La lotta del 1953 contro la “legge
truffa” è un ultimo scatto dell’antifascismo
contro il centrismo conservatore popolato
anche di antifascisti ormai definitivamente
acquisiti al moderatismo, non senza sguardi
ai nostalgici del passato regime. Il boom
economico, i fatti del 1956 nel mondo co­
munista, i loro effetti sul Psi in lento cam­
mino verso il centro-sinistra e sul Pei avvia­
to con passo incerto ma ormai irreversibile
verso la “via italiana al socialismo” : ecco le
strade principali che portano alla sesta fase,
quella fra il 1960 e il 1976.
È il tempo dell’antifascismo che si fa mili­
tante, staccandosi dalla formula dell’unità
dei “partiti costituzionali” per diventare un
movimento di massa schierato a sinistra,
con alleanze parziali e precarie di gruppi, di
partiti e di movimenti moderati. Con un me­
todo di lotta continua con forze sociali pri­
ma prevalentemente operaie, poi, dal 19671968, anche studentesche. Rinvio ad altre
più particolareggiate relazioni di questo con­
vegno l’analisi del significato di quell’antifa­
scismo che fu subito chiamato militante.
Difficile negare, come fanno non pochi —
filofascisti o amanti del ‘volemose bene’ o
del ‘tutti siamo nella stessa barca’ — a parti­
re dal 1965 o ancor più dal 1983 che quel
quindicennio è stato almeno l’avvio a non
piccoli cambiamenti in molti campi dell’atti­
vità del paese, specialmente nel campo dei
diritti del cittadino in quanto uomo. Diffici­
le negare che il movimento antifascista è sta­
to centrale nel preparare un rapporto diver­
so fra stato e società. Difficile negare che
l’importanza dell’antifascismo in Italia ha
toccato allora il punto più alto, dopo la resi­
stenza, nel processo di mutamento delle
15
strutture complessive e delle mentalità indi­
viduali. E che il motore fondamentale è da
ritrovare nello spirito e nella pratica della
‘lotta dura’ mossa da un entusiasmo sincero
e attivissimo nell’azione se non nel pensiero.
Non è negabile che l’antifascismo militante
trovi nella ribellione dei giovani la forza per
fronteggiare il neofascismo delle stragi orga­
nizzate da gruppi clandestini e la strategia
della tensione promossa dai detentori del go­
verno. Dall’ampia e forte risposta ai timori
e alle minacce di golpe si passa, con i succes­
si dello statuto dei lavoratori nel 1970 e del
divorzio nel 1974, con le vittorie elettorali
del Pei nel 1975 e 1976, alla delusione e rea­
zione verso la politica Andreotti-Berlinguer
del compromesso storico, della rinnovata
“solidarietà nazionale” .
Il Movimento ’77 procede col tempo del
terrorismo rosso e con il ritiro nel privato. Il
1983, con il lancio fascista e moderato del
centenario della nascita di Mussolini incide
fortemente sul quarantesimo del 25 luglio e
dell’8 settembre: anche la presidenza sociali­
sta del Consiglio dei ministri inaugura una
fase completamente nuova con l’incontro
Craxi-Almirante. Sembra, fino a ora, che la
resistenza non trovi più credito nella “classe
politica”. L’antifascismo reagisce troppo
poco. All’infuori dell’opera degli Istituti
storici della resistenza e di qualche docu­
mento dell’Anpi, il moderatismo defeliciano
aiuta il fascismo a riprendersi. L’antifasci­
smo come tale sembra tacere troppo e quin­
di confondersi nella linea di contestazione
coerente e dura. Non si può tuttavia negare
che va a poco a poco riemergendo l’esigenza
di riprendere coscienza del suo peso generale
nella società e nel confronto politico. Da
non molto è maggiore l’interesse per la pro­
pria storia, la determinazione di “non di­
menticare” né la guerriglia, né la resistenza
dentro i lager nazisti, la cura di una memo­
ria scientificamente attrezzata e documenta­
ta. Di qui, anche, e più nell’ultimo anno,
per la spinta del grande esempio dell’Est so­
16
Guido Quazza
vietico, il crescere a opera dei nostri istituti e
nel mondo giovanile di un rinnovato senso
preciso dell’importanza di tornare con co­
raggio all’antica scelta della difesa e affer­
mazione della libertà e della giustizia. Scel­
ta, con maggiore forza e nettezza, di un mo­
do di vivere globale delle donne e degli uo­
mini, misurata sulla prova della prassi col
criterio della volontà e capacità di rischiare.
Il coraggio e la coscienza di dover assumere
responsabilità nei grandi e nei piccoli fatti
sono, devono essere oggi i parametri del vi­
vere antifascista. Non soltanto nel privato,
ma nel pubblico. Contenuti, la lotta contro
l’alienazione prodotta dalla ‘reificazione’ in­
dotta dall’autoritarismo del sistema, forma
specifica, nel presente, della ‘violenza delle
istituzioni’. A questo ostacolo, sempre ul­
trapotente, al cammino verso la libertà di
sviluppo della persona umana, l’antifasci­
smo porta un’esperienza molto lunga e col­
laudata da scontri durissimi e dalla capacità
di individuare le ragioni per le quali l’uma­
nità, che nel 1969 seppe andare sulla luna e
allora e poi costruire miracoli scientifici e
tecnologici, non volle o riuscì a superare la
degenerazione della corsa ai consumi. Di qui
l’antifascismo può, col suo bagaglio, partire
per migliorare la democrazia repubblicana
radicandola con l’autogoverno del singolo,
della famiglia, della comunità, con il supera­
mento del marcusiano “uomo a una dimen­
sione” e con la costruzione del governo da
sé e per sé.
Conclusione provvisoria
E ora, una conclusione almeno provvisoria.
Una lunga corsa, di quasi un secolo. Una vi­
cenda di convergenze e divisioni frutto di de­
bolezza con qualche momento di forza. Tra
sconfitte e vittorie, una scelta che basa la sua
vitalità e durata nell’essere un fatto morale
prima e più organicamente che politico. In
questo senso, più attuale che mai, perché
non solo l’Italia ma il mondo è entrato in
un’età di risveglio dal basso nelle forme e
con gli strumenti dell’autonomia, un’auto­
nomia del singolo, un’autonomia etnica e so­
ciale, nell’insieme geostorica. I giganteschi
fatti dell’Est stanno assumendo sviluppi non
diversi nel resto del mondo. Siamo all’inizio
di una storia mondiale nuova? La mia spe­
ranza è sì. Se essa è destinata ad avverarsi,
l’antifascismo sarà più vivo che mai. Non
avrà, forse, da affrontare con la guerra delle
armi il suo antico nemico. Fatti recenti anche
vicino a noi — gli studenti contestatori che si
proclamano “antifascisti davvero”, oltre che
“pacifisti e democratici”, per dare un solo
esempio fra i tanti possibili — mostrano che
lo scontro si può affrontare con le armi della
ragione, del confronto morale inteso come
confronto storiografico illuminato dall’etica
e dall’educazione.
L’eredità della scelta “lontana” resta inte­
grale nel suo fondo, nel suo vero, autentico
significato civile e umano. I giovani, sebbene
non possano per l’età conoscere i tempi duri
della lotta tra antifascismo e fascismo, av­
vertono, e in schiere crescenti, che anche la
‘pace’ permette di discutere i grandi ‘valori’,
che la progettualità del cuore si può legare al­
la progettualità dell’intelletto, ricostituendo
quell’unità della persona che si era sognata
prima nella dimensione politica, poi in quella
delle due culture, ora in quella — carica di
forza psicologica e anche religiosa — che in­
veste tutta la natura dell’uomo. Der Letzte,
l’ultimo, il ribelle senza nome impiccato in
un lager nazista, deve restare nella memoria
di tutti noi, non per la vergogna di cui parla
Primo Levi, ma come il simbolo del militante
ignoto che scelse l’antifascismo, il primo di
un’avanguardia di coraggiosi in cammino
verso una nuova storia d’Italia e del mondo
nata in un tempo lontano ma non ancora fi­
nita. Questo è il mio augurio, questa la mia
speranza. Spero che sia anche la vostra.
Guido Quazza