Nicola Dusi Benché già dalle sue origini la

Nicola Dusi
Benché già dalle sue origini la semiotica s’è pensata come uno
“studio dei segni in seno alla vita sociale” (Saussure), l’analisi e
l’interpretazione dei principali fenomeni della società contemporanea non
sono state per molto tempo fra i suoi principali interessi. O, per meglio
dire, al di là di una serie di dichiarazioni di principio, la costruzione
novecentesca della scienza della significazione ha seguito altri percorsi,
legati alla linguistica e alle scienze cognitive, all’antropologia e alla critica
letteraria, all’estetica e perfino alla etologia, ma ben poco alla ricerca
sociologica.
Esistono, ovviamente, delle eccezioni. Bastino per tutti i nomi di
Roland Barthes e di Umberto Eco, che soprattutto nella prima fase del
loro lavoro hanno cercato un dialogo con le scienze sociali a partire da
problemi specifici della cultura di massa come la moda (il primo) e la
televisione (il secondo). L’intento dei primi studi di Barthes
sull’abbigliamento, per esempio, era più legato all’ideazione di un metodo
rigoroso d’analisi del costume (cfr. i saggi degli anni Cinquanta raccolti
adesso in Barthes 1998) che non all’applicazione pedissequa di categorie
linguistiche alle riviste femminili (come poi accade nel Système de la
Mode del ’67). Allo stesso modo, in un libro come Apocalittici e integrati
(1964) Eco propone una serie di riflessioni sulle comunicazioni di massa,
partendo soprattutto dall’esigenza pratica di comprendere un mezzo
allora in grande espansione come la tv. Ma si trattava sempre, in questi
come in altri analoghi casi, di provare a instaurare un dibattito
epistemologico fra due discipline considerate come autonome, per
misurare lo spazio di eventuali terreni in comune e l’efficacia dei relativi
metodi di ricerca.
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La sociosemiotica matura è stata possibile invece soltanto quando
si è definitivamente superata la barriera epistemologica fra discipline
diverse, e si è ritrovato, non tanto un dialogo, quanto un oggetto
d’indagine comune, un campo di studi che sia cioè al tempo stesso di
natura semiotica e di carattere sociale. Per far ciò, è stato necessario
abbandonare una vecchia dicotomia concettuale che con maschere e
intensità diverse si è variamente presentata in seno agli studi linguistici e
semiotici, ma anche sociali e comunicativi. Si tratta della dicotomia che
oppone il testo al contesto. Laddove il primo (di competenza semiotica)
sarebbe un oggetto autonomo, con suoi limiti ben definiti, con un inizio,
uno svolgimento e una fine, istituzionalmente previsti o prevedibili, il
secondo (di competenza sociologica) sarebbe il luogo delle pratiche
sociali e degli usi concreti in cui il testo finisce per inverarsi e al tempo
stesso per dissolversi. Un testo sarebbe un romanzo o un film, un quadro
o una rappresentazione teatrale; il contesto sarebbe invece l’ambiente in
cui questi stessi testi vengono prodotti e fruiti, dunque dotati di senso
sociale effettivo. Dal punto di vista semiotico, tale dicotomia non ha
ragion d’essere. Se infatti per un linguista è ancora perfettamente
congruo distinguere fra ciò che è dell’ordine del linguistico da ciò che
non è lo, per il semiologo ciò che non è linguistico, se produce senso,
rientra nelle sue specifiche competenze disciplinari. In altri termini,
rispetto a un romanzo o a un quadro possono esserci contesti non
linguistici o non pittorici, ma non possono esserci contesti non semiotici:
tutto ciò che determina una qualche significazione è per principio
oggetto d’analisi semiotica. Per la scienza della significazione è testo non
solo tutto ciò che tradizionalmente è definito tale (un’opera letteraria,
una immagine, un annuncio pubblicitario, un vestito…), ma anche tutto
ciò che può essere studiato come se fosse un testo (uno spazio
commerciale, il flusso radiotelevisivo, una campagna pubblicitaria o
elettorale ecc.). Testo, insomma, non è secondo la semiotica un oggetto
ma un modello.
Si superano così anche le critiche che analisti della cultura
mediatica contemporanea hanno rivolto alla semiotica, secondo le quali
quest’ultima, occupandosi di testi, non sarebbe in grado di rendere conto
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di tutte quelle pratiche sociali complesse che trascendono i confini della
testualità, tradizionalmente intesa, e che pure sono decisive per la
produzione di senso: si pensi per esempio alle pratiche di consumo,
mediatico o di qualsiasi altro prodotto esistente sul mercato, che, con de
Certeau, sono produttive di significato senza per questo dipendere da un
codice o essere inscritte in una qualche forma di testo. Tali critiche non
colgono nel segno perché (al di là della nozione di codice, su cui nessun
semiologo darebbe oggi alcun credito) continuano a pensare il testo
come un oggetto, con una sua chiusura istituzionalmente determinata, e
non come un modello d’indagine semiotica, negoziato volta per volta fra
gli attori della comunicazione (si pensi a una conversazione) o stabilito
dall’analista in funzione della pertinenza d’indagine richiesta (si pensi a
un punto vendita o all’esperienza quotidiana dell’andare a far spese).
La neutralizzazione della distinzione fra testo e contesto porta
allora alla considerazione di una nozione chiave, di derivazione linguistica
ma in perfetta consonanza con il dettato degli studi culturali, la nozione
di discorso. Un testo, infatti, di qualsiasi natura esso sia, non si limita a
trasmettere un certo numero di contenuti, come pensava la teoria della
informazione; esso presenta al suo interno anche un’immagine della
situazione comunicativa in cui si trova, del suo mittente e del suo
destinatario, e così facendo detta le regole pratiche per la sua fruizione.
Ogni testo, in altre parole, svolge un discorso, nel senso che si inserisce
in un modello generico che, da un lato, lo trascende e, dall’altro, esso
stesso contribuisce a creare. Un annuncio pubblicitario, per esempio, non
offre solo dei contenuti, più o meno nascosti, di tipo persuasivo, ma
imbastisce un’intera scena comunicativa grazie soprattutto al fatto che
si inserisce in un tipo specifico di discorso: il discorso pubblicitario. Senza
questo frame comunicativo, che esso porta al suo interno, non sarebbe
possibile intenderne a fondo il senso. Da questo punto di vista, un
ulteriore ricorso alla nozione di contesto perde ogni utilità esplicativa. Il
discorso è una realtà sociale e testuale al tempo stesso, culturalmente
definita e semioticamente articolata: in quanto tale, può essere inteso
come l’oggetto precipuo dell’indagine sociosemiotica.
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La sociosemiotica è sorta allora, all’interno degli studi culturali,
proponendo un apparato concettuale forte, capace di spiegare e di
comprendere una gran massa di fenomeni sociali, che vanno
dall’alimentazione ai flussi televisivi, dalla pubblicità a internet, dal
discorso politico alla moda, dall’architettura al giornalismo ecc. Essa però
non si limita a offrire i propri modelli d’indagine alle scienze sociali, non si
presenta cioè, come pensava ancora Barthes, come una metodologia
delle scienze umane e sociali. Occupandosi dei meccanismi della
produzione e della articolazione del senso, essa si colloca invece a un
livello epistemologico diverso rispetto a tali scienze: quello del loro
esame critico, nel senso kantiano del termine, ossia del reperimento delle
condizioni formali di possibilità della socialità in quanto tale.
Semioticamente, il sociale non è un dato empirico di cui svelare le
leggi più o meno nascoste, ma un effetto di senso costruito di cui
occorre individuare le procedure che lo hanno posto in essere. Scrive uno
dei primi teorici della disciplina, Eric Landowski “a suo modo, la semiotica
generale non ha mai cessato di occuparsi del reale e, a fortiori, del
sociale, concepiti come effetti di senso. Formulata in termini succinti e
volontariamente ingenui, la grande questione posta allo studioso di
sociosemiotica sarà allora quella di rendere conto di ‘ciò che facciamo’
affinché il sociale esista in quanto tale per noi: in che modo ne
costruiamo gli oggetti e come ci inscriviamo in essi in quanto soggetti
parlanti e agenti. L’oggetto empirico della sociosemiotica si definisce in
questo senso come l’insieme dei discorsi che intervengono nella
costituzione e/o nella trasformazione delle condizioni di interazione tra i
soggetti (individuali e collettivi)” (Landowski 1986, p. 207).
Così, per esempio, in studio del discorso politico effettuato dallo
stesso Landowski (1989) la nozione di opinione pubblica viene descritta
come una specie di personaggio (o attante) che si trova inserito, a
seconda dei casi, in diversi tipi di racconti. Da questo punto di vista, più
che descriverne la nascita o individuarne gli esiti nella vita politica,
l’analisi sociosemiotica si preoccupa di ricostruire il sistema formale che
regge tutte le storie in cui l’opinione viene inserita, il mondo immaginario
a partire dal quale la vita politica stessa, in generale, sviluppa le sue
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dinamiche. Se pure l’opinione pubblica appare da alcuni secoli a questa
parte come qualcosa di ovvio, tale per cui spesso si parla a suo nome
rivendicandone le ragioni, essa è una costruzione semiotica, tanto
immaginaria quanto efficace, di cui si tratta di additare, prima degli
effetti ideologici, le condizioni di funzionamento. Discutere le eventuali
manipolazioni che essa subisce o rivendicare criteri obiettivi per la sua
misurazione può voler dire – conclude Landowski – negarsi la possibilità
di comprendere che la sua stessa esistenza è frutto di una manipolazione
più profonda, di cui la sociosemiotica ricostruisce le procedure
sintattiche, semantiche e pragmatiche.
Similmente, piuttosto che occuparsi dei modi in cui la pubblicità
cerca di persuadere i consumatori a comprare determinati prodotti, uno
dei primi studiosi di sociosemiotica del marketing, Jean-Marie Floch
(1990) ha costruito un modello generale, coerente e interdefinito al suo
interno, che spieghi a monte le scelte di consumo che si trovano
rappresentate nei testi pubblicitari. Emerge così che, invece di limitarsi a
scegliere un certo prodotto per ragioni di calcolo economico, il
consumatore attribuisce a esso determinati valori, proiettando sulle sue
presunte decisioni razionali una propria visione del mondo, le cui logiche
occorre appunto individuare. Può trattarsi di una logica di tipo pratico
(quando l’oggetto è pubblicizzato sulla base dei suoi possibili usi) o di
tipo critico (quando entra in gioco una mentalità economica di risparmio
o di convenienza), ma può trattarsi anche di una logica di tipo utopico
(quando l’oggetto diviene funzione della realizzazione del soggetto che
lo desidera) oppure ludico (quando l’uso viene soppiantato dalla bellezza
o dal gioco).
Così, la ricerca sociosemiotica arretra lo sguardo rispetto a quella
sociologica: laddove quest’ultima si rivolge ai fenomeni empirici presenti
nelle forme collettive di vita vissuta, la prima si dà il compito di
ricostruire le procedure di senso attraverso cui esiste qualcosa come una
socialità, una vita vissuta, un’empiria dei fenomeni istituzionali e
collettivi. Per la semiotica il sociale non ha nulla di evidente, di
immediato, se non il fatto che è esso stesso a costruire la sua presunta
evidenza, la sua immediatezza, facendo apparire come ovvio, normale,
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naturale ciò che in effetti è l’esito manifesto di processi immanenti di
significazione.
(Cfr. anche Analisi del discorso , Antropologia del quotidiano,
Cultura cyborg, Cultura visuale, Fashion theory, Film studies, Mediologia,
Music studies, Politica culturale, Realtà virtuale, Semiotica)
Comunicazione, Consumo produttivo, Contesto, Discorso, Linguaggio,
Media, Moda, Opinione pubblica, Politica, Post-strutturalismo, Pubblicità,
Semiotica,
Significazione,
Strutturalismo,
Testo,
T e l e visione,
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