Pietro A. Vagliasindi GLOBALIZZAZIONE E NUOVA ECONOMIA

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PARMA
Dipartimento di Diritto, Economia e Finanza Internazionale
Pietro A. Vagliasindi
GLOBALIZZAZIONE E NUOVA ECONOMIA:
MERCATO E SETTORE PUBBLICO
Indice
PAGINA
1. MERCATI IMPERFETTI, PRODUTTIVITÀ, INVESTIMENTI E BENESSERE
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2. COMPETIZIONE, TECNOLOGIA E GLOBALIZZAZIONE
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3. NUOVA ECONOMIA, IMPLICAZIONI ECONOMICHE E SOCIALI
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4. I PROBLEMI DELLE ECONOMIE SVILUPPATE E LE LORO CAUSE
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5. LE SCELTE FISCALI E DEL WELFARE STATE
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6. I CONFLITTI TRA SVILUPPO MATERIALE ED AMBIENTE
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Prima Versione.
1. Mercati imperfetti, produttività, investimenti e benessere
Confrontare diversi capitalismi (e.g. UE ed US) ed il livello di benessere assicurato da tali
sistemi economici è un problema complesso difficilmente risolvibile con gli strumenti economici,
vanno infatti determinati i livelli ottimi di regolamentazione dei mercati, di intervento pubblico
correttivo, di impegno lavorativo ed investimento, mentre attualmente è possibile solo identificare
con una certa chiarezza solo alcuni dei risultati subottimali, raggiunti nella pratica.
Partiamo dall’imperfezione dei mercati. Il modello dei mercati perfettamente competitivi non va
inteso come una descrizione di situazioni reale ma come uno strumento utile a comprenderle
meglio, uno standard di riferimento, essendo difficile un’analisi dei mercati imperfetti, data le
diversità dei mercati tra loro e nei vari paesi. Paradossalmente, i più imperfetti sono proprio i
mercati più importanti: quello del lavoro e quello finanziario.
Infatti, i singoli e le società non considerano il lavoro come ogni altra merce essendo le relazioni
sul lavoro anche relazioni sociali. I prezzi assoluti e relativi sono quindi vischiosi per natura e non
fluttuano rapidamente, col cambiare della congiuntura economica. La situazione è aggravata dalla
presenza di norme sociali e legali. Spesso si incoraggia la contrattazione collettiva con i sindacati, si
regolano i salari minimi e i licenziamenti.
Una maggiore flessibilità di tali mercati è però importante, specie quando sono necessari
aggiustamenti verso il basso delle retribuzioni reali, per evitare una disoccupazione lunga e
persistente. Inoltre, con mercati non flessibili spesso è necessaria una svalutazione del cambio per
aumentare la competitività internazionale e questa non è pienamente efficace se le retribuzioni poi
seguono l’andamento dei prezzi esteri.
I mercati della liquidità finanziaria hanno usualmente forte volatilità, registrando oscillazioni,
ritenute a volte irrazionali, che superano i livelli di equilibrio. Ciò dipende dalla difficoltà di stimare
i valori di equilibrio delle azioni (diritti su insiemi estremamente complessi di beni reali eterogenei
quali le imprese), il cui valore dipende da andamenti futuri interni e esterni all’impresa (prezzi,
redditi, …), dai bassi livelli delle commissioni di acquisto, che rende profittevole realizzare i
guadagni anche di piccole oscillazioni, e da asimmetrie nei rischi di molti operatori, con forti
benefici in caso di guadagni e costi modesti in caso di perdite su operazioni speculative. Il prezzo
da determinare non è quello corretto, ma dipende dall’andamento del mercato domani che
l’opinione media si attende in base agli umori degli investitori. Di qui la tendenza a comportamenti
imitativi e eccessi di volatilità, dato che ogni mossa genera una altro movimento, gli umori degli
investitori possono cambiare e vince chi esce dal gioco prima che gli altri si accorgono che il gioco
è finito.
Simile il comportamento del mercato dei prestiti bancari, data la necessità di abbandonare le
posizioni perdenti prima che si rivelino tali agli altri. Ciò crea un rischio sistemico e le note fughe
di capitali, volte ad alleggerire la posizione nei confronti imprese e banche sospette, che peggiorano
notevolmente anche situazioni non particolarmente gravi. Quando tali mercati non sono ben
regolati, crisi di sfiducia possono provocare spoporzionati crolli della liquidità con forti instabilità
periodiche. L’eventuale supporto pubblico se da un lato risolve il problema non elimina
l’imperfezioni, creandone di nuovi; e.g. la protezione dei depositanti crea inefficenze e rischio, dato
che i depositanti non indagano più sulla corretta politica della banca e queste sono incentivate a
correre maggiori rischi sui prestiti. Si impone quindi una attenta e vigile regolamentazione, su
entrambe i mercati, possibilmente indipendente dai poteri politici e finanziari.
L’evidenza tuttavia non smentisce l’efficienza del mercato borsistico, quando ben gestito (basato
su una corporate governance trasparente e in grado di trasferire il controllo societario) e basato sulla
liquidità, dato che i prezzi sono una rapida traduzione in termini operativi di nuove informazioni
che si diffondono rapidamente (non è possibile arricchirsi utilizzando modelli basati su conoscenze
precedenti) e i prezzi relativi sono corretti, sicché il capitale viene allocato correttamente tra le varie
imprese. Perciò esso è utile per assicurare una allocazione rapida e corretta alle nuove imprese a
rischio, rispetto al finanziamento bancario (per non parlare della corruzione e cattive politiche delle
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banche pubbliche). I flussi degli investimenti di capitale a lungo termine sono benefici ed hanno
luogo quando è possibile acquisire il controllo delle imprese e rimpatriare i profitti.
Una cattiva liberalizzazione dei mercati finanziari comporta forti costi, anche in economie
sviluppate, dato il carattere speciale dei mercati e la possibilità di managers e gruppi di controllo
fare profitto a spese degli azionisti e delle banche. Occorre quindi particolare cautela. Reazioni
eccessive dei mercati finanziari e dei cambi possono imporre grossi costi alle economie reali, specie
nei paesi in via di sviluppo, spoporzionati agli errori commessi. In periodo di contagio finanziario
solo l’incompleta liberalizzazione ha salvato la Cina dalla crisi asiatica, nonostante la minore
trasparenza ed il maggiore nepotismo del sistema bancario.
Consideriamo ora crescita e benessere di un sistema economico. L’andamento della produttività
del lavoro influenza livello e crescita del reddito pro-capite. Entrambe sono indicatori del livello di
benessere. La produttività oraria (indicatore della preformance media), a differenza del reddito
medio, non considera le ore lavorate ed il livello di occupazione ed è quindi più elevata nei paesi
UE dove i lavoratori meno qualificati e produttivi (l’ultimo 5%) sono esclusi dall’impiego a
differenza degli US. Mentre un basso livello di disoccupazione involontaria è un bene - aumenta il
reddito pro-capite ed l’inclusione sociale, migliora la situazione e morale dei disoccupati – lo stesso
non vale per un maggiore sforzo lavorativo. A livello individuale e complessivo, la libera scelta tra
impiego (reddito) e tempo libero influenza le ore lavorate ed il livello di partecipazione alla forza
lavoro. Quindi, a parità di disoccupazione involontaria, una maggiore produttività oraria con un
reddito medio più basso può indicare un maggior benessere, sia che il minor numero di ore lavorate
dipenda da un orario settimanale ridotto, da una minore partecipazione femminile alla forza lavoro
o da una minore durata della vita lavorativa (anche se favorite da norme sociali). Salvo il rischio
che il basso tasso di attività indichi invece che la disoccupazione sia sistematicamente sottostimata.
Anche produttività del capitale è un utile indicatore di efficienza del sistema economico. La
produttività del lavoro dipende, infatti, a sua volta dall’accumulazione del capitale produttivo – e
ovviamente dall’esperienza tecnica accumulata (know-how) incapsulata in esso – proveniente da
risorse investite in passato, rinunciando al loro consumo immediato. Quindi, più investiamo, più
aumenta la produttività del lavoro. Una minore produttività del capitale UE (rispetto agli US) può
dipendere da una meno efficiente utilizzazione (e.g. un uso meno intensivo di notte e nei fine
settimana). Ciò significa che l’attuale benessere ha un costo maggiore in termine di risorse sottratte
al consumo passato; i.e. si sarebbe potuta ottenere la stessa produttività con un investimento
minore. Tuttavia, un alto livello di investimento comporta un’inferiore produttività del lavoro, sia
per l’utilizzo di lavoro meno produttivo, sia per la minore profittabilità dei progetti marginali.
Quindi la maggiore produttività del capitale US potrebbe dipendere da una mentalità di breve , che
tenendo alta la soglia del rendimento riduce il livello dell’investimento.
Consideriamo infine la produttività totale dei fattori (l’efficienza media dell’utilizzo dei due
fattori produttivi) che si usa scomporre negli effetti dell’accumulazione del capitale, della forza
lavoro e di un residuo, attribuito al progresso tecnico. Essendo una media di due produttività può
essere influenzata dalle precedenti modalità. In sostanza, impiegando solo manodopera qualificata
ed investendo solo in progetti ad alta redditività ho una maggiore produttività totale dei fattori, ma
sono in media più povero di chi impiega anche manodopera non qualificata ed investe di più.
Lo stesso reddito (PIL) è un indicatore impreciso del benessere, perché deriva da una serie di
convenzioni statistiche, che indicano modi pratici di procedere (e.g. non considera i danni
ambientali, le attività domestiche, il valore del tempo libero). Non viene considerato il costo di una
maggiore crescita in termini inquinamento (danno all’ambiente), degrado ambientale, sfruttamento
intensivo delle risorse naturali. Non considerando l’aspetto qualitativo (il miglioramento dei
prodotti) tende a sopravvalutare l’inflazione e ridurre la crescita reale del benessere. L’incertezza
del valore intrinseco dei beni e servizi prodotti è un problema generale. Il prezzo di mercato è un
indicatore imperfetto di valore ma non è disponibile per beni e servizi pubblici, che sono valutati al
costo, quasi supponendo che siano forniti in eccesso rispetto alle preferenze dei consumatori. Ad es.
si sottovaluta il valore dei trasporti pubblici, che hanno benefici aggiuntivi, aumentando la
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sicurezza, riducendo il rumore ed il traffico e rendendo le città meno inquinate e più vivibili, mentre
si sopravvalutano le ultime unità di trasporto privato, che procurano esternalità negative e
congestione. In alcuni sondaggi i consumatori si dicono disposti a pagare più tasse per godere di
maggiori/migliori servizi sanitari e benefici pubblici (riduzione inquinamento e congestione).
Inoltre, non tutte le attività private sono “produttive”. Paradossalmente, uno stato del mondo
migliore con risoluzione amichevole e gratuita delle dispute civili, mostrerebbe una riduzione del
PIL diminuendo il valore dei servizi legali privati. Recentemente è stato proposto di sovvenzionare
chi è impiegato in lavori sottopagati piuttosto che i disoccupati. Così facendo si creano forti
incentivi anche distorti, e.g. a trovare impiego per lavori domestici in casa altrui (invece che nella
propria) con un forte aumento del reddito e della spesa senza reale aumento del benessere. Tuttavia,
eliminati tali inconvenienti, redistribuendo il reddito ai più svantaggiati, avrebbe benefici che non
rientrerebbero nel PIL, aumentando il livello di inclusione sociale e riducendo gesti antisociali con
costi per la collettività.
Per migliorare il benessere il dibattito pubblico dovrebbe svolgersi esplicitamente sulle possibili
scelte collettive (e.g. più tempo libero e migliore ambiente o maggiore crescita; più servizi pubblici
o meno imposte) e sui relativi costi e benefici.
2. Competizione, tecnologia e globalizzazione
Nell’esaminare la globalizzazione e la nuova economia bisogna evitare posizioni pregiudiziali.
Essa non rappresenta probabilmente il migliore dei mondi possibili ma non implica necessariamente
aumenti di diseguaglianze e povertà e disastri ambientali. Raccogliere la sfida tecnologica degli US
e competitiva della globalizzazione è positivo nella misura in cui consente più scelte (private e
collettive) rispetto a prima ed è importante assicurarsene i benefici, limitando le implicazioni delle
imperfezioni connesse al sistema.
Dallo spettacolare cambiamento tecnologico degli US che mostra le nuove tendenze – tale da
creare un nuovo paradigma per l’attività economica (rivoluzione informatica), con crescita
accelerata di produttività e occupazione senza pressioni inflazionistiche a livello macro, e
modificare i vantaggi strategici nei vari settori e le regole della valutazione del capitale – sorge la
sfida della nuova economia. I governi europei cercano di eliminare il ritardo competitivo nel ICT
favorire il commercio elettronico con incentivi fiscali e con una formazione qualificata.
Fortunatamente, oggi, rispetto all’introduzione di automobili e televisori, il divario è molto più
ridotto in termini di tempo (meno di 5 anni) e benessere materiale.
Spesso come l’Europa è utilizzata come spauracchio per giustificare date scelte politiche o
mostrarle come necessità esterne, assolute senza alternativa, o come obiettivo polemico per
mascherare carenze e incapacità del policy maker, o come un mito, per galvanizzare la gente
mostrando opportunità e sfide, o unificare contro i cattivi in una mitica lotta collettiva.
Secondo molti commentatori, dato l’aumento della competizione nel nuovo sistema di economie
interdipendenti, i paesi come il nostro sono costretti ad aumentare il livello relativo di competitività
e sfruttare le nuove opportunità (e.g. del commercio elettronico), se vogliono competere con
l’innovativa economia US e i paesi emergenti, assicurandosi maggiore benessere e minore
disoccupazione. Ciò si combina ai problemi strutturali, derivanti dai costi aggiuntivi dovuti
dall’invecchiamento della popolazione, la disgregazione delle unità familiari e la crescita delle
diseguaglianze (dato l’elevato livello di disoccupazione e le crescenti disparità retributive per i
lavori meno qualificati). La riduzione dei costi è però una soluzione rischiosa a livello macro (come
si è visto nel 1929).
Quanto detto avrebbe notevoli implicazioni per il settore pubblico, quali minori imposte (per
aumentare la competizione fiscale, attirando capitali ed attività produttive) e riduzioni del welfare
state (per ridurre i costi del sistema produttivo). In particolare, come altri paesi europei, siamo meno
competitivi nei prodotti di base, dati i minori costi produttivi nei paesi emergenti, che non possiamo
raggiungere anche per gli oneri connessi con la maggiore fiscalità e le regolamentazioni più
restrittive. Ovviamente, tale ragionamento è politicamente utile per chi vuole uno stato minimo ed
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Prima Versione.
una redistribuzione ridotta e logico per chi pensa che un mercato efficiente implica più libertà e
meno statalismo. Ma discussioni sul sistema fiscale, lo stato sociale o la regolamentazione vanno
impostate in modo corretto. Se il problema della distorsione fiscale o della scarsa flessibilità del
mercato del lavoro o del degrado ambientale hanno poco a che fare con la competizione esterna, tali
premesse sono un’ostacolo a una discussione intelligente. Vi è, infatti, una crescente richiesta di
servizi pubblici e regolamentazione da parte dei cittadini, nonché la necessità di regolare i conflitti
tra sviluppo materiale ed ambiente. Inoltre, se i mercati del lavoro sono efficienti, l’onere fiscale
non aumenta necessariamente i costi per le imprese ma riduce le retribuzioni nette dirottando risorse
verso la spesa per i servizi pubblici desiderati. Le imposte non sono perciò necessariamente
dannose se non riducono gli incentivi al lavoro (ma questo ha poco a che fare con la competitività,
c.v.d.).
Innanzi tutto, la globalizzazione non è un fenomeno del tutto nuovo. I flussi di capitale erano
persino maggiori a fine ‘900. La riduzione delle barriere al movimento dei capitali e la
liberalizzazione degli scambi e delle attività commerciali interne ai paesi (abolizione autorizzazioni,
privatizzazioni e deregolamentazione), hanno cambiato la natura di tali flussi (aumentando la quota
privata, la parte azionaria e gli investimenti diretti). La liberalizzazione dei mercati non è però una
panacea, i mercati, specie quelli non perfettamente concorrenziali (come quelli finanziari e dei
cambi) funzionano se liquidi e correttamente regolamentati, altrimenti possono generare instabilità,
come mostrano le crisi periodiche. Rispetto agli investimenti di portafoglio (a volte fonte di
instabilità) quelli diretti sono benefici, portando nuove tecniche, anche manageriali, e migliori
standard ambientali e di lavoro. Lo stesso vale per le partecipazioni estere sui mercati bancari, non
solo per le maggiori capacità di gestione del rischio, ma anche per la riduzione del rischio
sistemico, potendo concedere prestiti ai buoni debitori anche se il mercato bancario è in crisi.1
Questa globalizzazione della filosofia del libero mercato, applicata con le dovute cautele,
assieme al flusso delle idee (esperienze e tecnologie) eleva la velocità di sviluppo dei paesi più
poveri ed i loro tassi di crescita. Con la competizione si creano, infatti, forti incentivi a migliorare la
produttività, anche se non va dimenticato il ruolo storicamente svolto dai risparmi interni e dalla
difesa delle industrie nascenti nelle prime fasi dello sviluppo. Anche se non tutti gli elementi sono
necessari o utili, il pacchetto globalizzazione è vantaggioso. Esso riduce le diseguaglianze tra i
paesi, resta indietro chi non l’adotta e non apre la propria economia. Internamente, i vantaggi non
sono equamente distribuiti, guadagna di più chi ha carattere imprenditoriale, l’abolizione di sussidi
e la liberalizzazione dei prezzi può ridurre le retribuzioni reali specie della manodopera meno
qualificata. Esiste quindi spazio di azione pubblica, come nei paesi più avanzati, per favorire lo
sviluppo e renderlo socialmente meno costoso. Nell’arco di 30 anni, la globalizzazione ha però
ridotto rapidamente la povertà, con performance migliori dei precedenti periodi.
Lo sviluppo dei paesi emergenti non ha implicazioni negative su quello dei ricchi, si tratta di un
recuperare lo svantaggio iniziale, una volta raggiunti maggiori livelli di benessere, i tassi di crescita
tendono a rallentare, come in Italia dopo il boom economico. Non dimentichiamo che quindici anni
fa l’egemonia economica giapponese sembrava inevitabile e nove anni fa le tigri asiatiche
sembravano invincibili.
Ciò nondimeno, lo sviluppo di paesi densamente popolati (come India e Cina) può produrre
danni ambientali, essendo queste risorse limitate ed il nostro stile di vita non sostenibile. Un altro
problema derivante dalla globalizzazione dei mercati finanziari è il contagio; per cui il crollo dei
prezzi in un dato mercato fa crollare la fiducia in mercati che si crede rientrare nelle stesse
categorie, con fughe dei capitali disastrose. Si pensi alla crisi asiatica, russa e brasiliana, niente è
più pericoloso di crisi di sfiducia che si autoalimentano, partendo anche da minimi mutamenti nelle
previsioni. I costi all’economia reale, che reazioni eccessive (non proporzionate ai problemi) dei
mercati finanziari e dei cambi possono imporre ai paesi in via di sviluppo possono al limite
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Il tentativo di mantenere le leve di comando in mani nazionali può essere un’errore più grave di una incauta
liberalizzazione immediata e completa dei mercati.
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Prima Versione.
compromettere i benefici dell’apertura all’economia mondiale. I mercati finanziari devono essere
perciò correttamente sviluppati e regolamentati. Tuttavia, le economie sviluppate hanno da
guadagnare dallo sviluppo dei mercati azionari internazionali ed hanno forza sufficiente per far
fronte a volatilità e crisi.
In generale, il successo degli altri non ha, quindi, necessariamente ripercussioni negative e
nonostante possibili eccezioni (esternalità negative, risorse non riproducibili) il benessere può
aumentare contemporaneamente per tutti, se cresce la torta da dividere. L’aumento della
competitività estera, riducendo il costo dei beni importati (e.g. elettronica), aumenta il benessere dei
consumatori. Il commercio aumenta sempre il reddito potenziale ed il settore delle esportazioni
(all’esterno dell’UE) può diventare più competitivo con una diminuzione del cambio (valore
dell’euro rispetto al dollaro, yen, …).
In ogni caso, la maggior parte dell’attività non è oggetto di scambio e questo avviene con paesi
EU o sviluppati (US, Giappone, …), meno del 5% del PIL UE è oggetto di scambio con paesi
emergenti a basso reddito (i manufatti meno del 3%); non può quindi minacciare benessere ed
occupazione. Se il volume degli scambi è cresciuto il prezzo è fortemente diminuto (rispetto ai
prezzi interni) senza implicazioni quindi sul valore degli scambi sul PIL. Ciò a causa del progresso
tecnologico, in specie nell’informazione e comunicazioni ICT, che ha avuto un impatto minore su
beni e servizi interni (personali), sui quali si è spostata la domanda.
Essendo le esportazioni meno del 15%, anche una loro riduzione del 10% (a causa della
maggiore concorrenza) ridurrebbe il reddito meno dell’1,5%. Se il prezzo relativo dei nostri
prodotti diminuisce rispetto a quelli esteri (ove le retribuzioni aumentano meno della crescita dei
prezzi), saremo un po’ più poveri, potendo acquistare meno beni esteri rispetto a prima, ma
godremo sempre di maggior benessere grazie al commercio e forse aumenterà l’occupazione. Il
settore aperto al commercio estero in genere non desta preoccupazioni, è efficiente ed ha un’alta
produttività oraria, garantendo un surplus della bilancia.
Il leader tecnologico può sfruttare la sua condizione di monopolio imponendo prezzi più alti.
Questo è un buon motivo per aumentare la ricerca scientifica ed applicate ed il livello di istruzione,
ma non per rinunciare al beneficio degli scambi se non si è leader. Tuttavia, i benefici sono limitati
essendo l’export meno del 15%; un aumento del 10% fa crescere il reddito meno dell’1,5%. Il
guadagno è maggiore per paesi piccoli come l’Irlanda che è cresciuta, specializzandosi in attività ad
alto valore aggiunto, a spese dei competitori EU, ma non è possibile per grandi paesi o l’UE, dove
attività e occupazione dipendono per il 90% dai consumi interni. I rischi sono però elevati, se il
settore non si rivela vincente o vi sono crisi settoriali, è quindi sempre opportuno migliorare le
infrastrutture e far crescere la produttività dei lavoratori piuttosto che puntare tutto su un unico
settore specifico.
3. Nuova economia, implicazioni economiche e sociali
L’aumento della produttività è comunque una cosa positiva e genera maggior benessere, non
tanto perché aumenta la competitività e i posti di lavoro (dato che quelli derivabili dal settore in
competizione con l’estero sono limitati). Ciò non significa che non vi possano essere cambiamenti
con effetti destabilizzanti o con costi legati alla competizione, anche se l’effetto netto del
cambiamento è positivo nel complesso, specie se si trova il modo di creare nuovi posti di lavoro.
Crescita della produttività e dell’occupazione sono tuttavia obiettivi indipendenti.
In realtà, il fenomeno strutturale e pervasivo è la crescita dell’economia dei servizi, con un
progressivo svuotamento dell’occupazione nell’industria. Questo non dipende necessariamente
dalla competizione globale, ma può essere spiegato dall’interazione tra tecnologia (diversa crescita
della produttività) e preferenze dei consumatori (gerarchia dei bisogni). Col crescere del reddito,
soddisfatti i bisogni materiali (saturi di auto, tv, …) aumenta la quota spesa nei servizi legati ad
alimentazione (e.g. ristoranti), abitazione (e.g. alberghi), trasporto, tempo libero (e.g. palestra) e
servizi personali (e.g. collaboratrici, baby sitter). Nel contempo ha luogo una tendenza alla
disintegrazione verticale nell’ambito delle imprese con servizi aziendali affidati ad imprese esterne
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Prima Versione.
(outsorcing) per concentrarsi sulle attività essenziali. Inoltre, col progresso tecnologico e la
competizione si riduce il prezzo relativo dei prodotti rispetto ai servizi. Ne segue che una quota del
valore aggiunto consiste nella distribuzione e nei servizi. Questo spostamento della domanda verso
la prestazione dei servizi spiega la mancata intensificazione degli scambi e la maggiore natura
locale del consumo (città, regione) delle economie avanzata.
In tale contesto va considerato il paradigma della nuova economia e le sue sfide. L’ondata di
cambiamento tecnologico legato all’ICT si distingue dalle precedenti, in primis perché interessa
l’intero sistema economico, potendo potenzialmente aumentare la produttività di tutti i settori
(come prima l’elettricità). Ha infatti un enorme potenziale per automatizzare parte delle attività
economiche, con applicazioni a quelle ripetitive ed interattive nella manipolazione dati e
comunicazione.
Nel suo ambito il ritmo del progresso tecnologico è stato sbalorditivo, implicando, in termini di
efficienza, che lo stesso microprocessore costi la metà dopo un anno e mezzo circa (con l’elettricità
avveniva dopo dieci anni) o che il costo della trasmissione dati diminuisca di oltre il 95% in un
decennio (con una velocità che quadruplica). In un decennio, a tali ritmi, il prezzo di un’utilitaria
passerebbe da 10.000 euro a 700; il consumo (km per litro) da 20 a 300.
Inoltre, il costo marginale (e.g. duplicazione software, uso incrementale) è spesso praticamente
nullo, con enorme potenziale per la creazione di monopoli naturali. Da qui ad esempio le
controversie su brevetti e copyright. Ove il costo per i consumatori e le imprese scende a zero,
assistiamo a enormi benefici in termini di utilità e benessere che non risultano dalla contabilità
nazionale.
Infine, ha notevoli implicazioni in termini di scambi e trattamento dati, influenzando così il
grado ottimo di dimensione e integrazione verticale delle imprese. L’efficienza di imprese e mercati
dipende, infatti, in larga misura dal flusso di informazioni. Una riduzione dei relativi costi, sembra
portare alla fusione d’imprese specializzate e la dismissione di attività meno essenziali. Non vi è
dubbio che grossi investimenti nelle nuove tecnologie eliminando costi nelle funzioni interattive
possano determinare miglioramenti nella produttività.
Questo ci conduce al paradosso di Solow per cui l’apporto della tecnologia ICT non si manifesta
sufficientemente nell’aumento di produttività. Solo dopo la metà degli anni ’90 la produttività per
ora lavorata è aumentata negli US, che probabilmente, in futuro, beneficeranno di un aumento
permanente della crescita tra lo 0,5 e l’1%. Questo è dovuto ad una serie di ragioni. L’ICT, come
ogni nuova tecnologia, ha avuto bisogno di decenni per manifestare i propri effetti; bisogna che si
accumuli un volume rilevante d’investimento e capacità (in termini di hardware e software) e che
gli operatori trovino il modo migliore di sfruttarla. Che si realizzino prima enormi miglioramenti di
comunicazione e connettività, dando modo ai processi produttivi di essere opportunamente
riorganizzati.
Nel complesso, gli sviluppi della tecnologia ICT possono avere conseguenze notevoli in futuro
sia sulla creazione di valore che di occupazione. Tuttavia, ciò difficilmente avrà luogo nel settore
ICT. La quota dell’ICT sul PIL (PQ/pY) non ha subito una notevole crescita, dato che la crescita
delle quantità Q è controbilanciato dalla riduzione del prezzo P. I nuovi prodotti di alta qualità
costano come quelli precedenti a bassa tecnologia. Si rimane quindi anche negli US sotto il 10% del
PIL ed in termini di occupazione sotto il 4% del totale.
Assumendo che le attività automatizzabili rappresentino una quota pari al 40% del PIL e che la
produttività possa raddoppiare in pochi anni, ciò vuol dire che saranno potenzialmente necessari la
metà di addetti e si creerà una forte disponibilità di lavoro per il sistema circa il 20%. L’effetto
netto dipende dalla capacità di generare nuova domanda in grado di occupare le risorse umane che
vengono potenzialmente liberate. Mentre nel caso della tecnologia agricola, il miglioramento si è
localizzato soprattutto nei processi produttivi, senza generare una nuova domanda sufficiente ad
aumentare l’occupazione, l’opposto si è verificato con la tecnologia industriale data l’ampia gamma
di nuovi prodotti (e.g. auto). Attualmente l’ICT sembra non determinare una sufficiente
innovazione in termini di prodotto, in grado di far fronte all’estrema rapidità del cambiamento
tecnologico. Essa, più che alimentare la domanda dei consumatori, rappresenta un investimento
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Prima Versione.
delle imprese per migliorare i processi produttivi. Quindi più che generare nuovi posti di lavoro
tende a sopprimere quelli esistenti.
Ciò può avere implicazioni negative, se i disoccupati non trovano lavoro in altri settori, se il
mercato del lavoro non risponde bene, essendo rigido e la crescita del PIL non si mantiene a ritmi
stabili e consistenti. Si noti come la maggiore disoccupazione UE, rispetto agli US è dovuta alla
minore capacità di creare posti di lavoro nel settore dei servizi (e della PA).
Siamo abituati a pensare ad un’economia basata sull’alta tecnologia, che richiede il possesso di
un elevato livello di istruzione della forza lavoro ed alta qualità professionale digitale. Ma i
cambiamenti sono anche diversi; l’economia è basata oltre che sulle conoscenze, sulle
comunicazioni e quindi sulla capacità di creare moda, stile, qualità, cose molto soggettive. Perciò è
in grado di remunerare in modo elevato capacità soggettive anche fisiche (il calciatore, cantante
raggiunge facilmente il grande pubblico). Molte cose, inoltre, restano invariate, come gran parte dei
lavori materiali (nell’industria) e artigianali (e.g. idraulici). Infine, con l’aumento del reddito per
capite e le nuove possibilità, pesano sempre più i limiti dell’offerta e dello spazio, ci si scontra
sempre più con la congestione e l’impatto ambientale negativo.
Inizialmente l’uso di internet e ICT si è stato un chiaro vantaggio competitivo; le cosidette
dot.com avevano valutazioni elevate sul mercato borsistico, prima di fallire miseramente. Il
mercato, con i suoi spiriti animali, aveve colto la situazione, dirottando risorse, anche eccessive (in
termini di capitale finanziario ed umano), verso un settore con grandi possibilità di dare origine
celermente a nuova ricchezza, sguarnendo attività di sviluppo a più lungo termine.
Non vi è dubbio che internet sia un importante strumento di comunicazione, in grado di
migliorare la produttività e abbia creato una nuova categoria di industrie - Internet Service Provider
(ISP) e Portali (come Yahoo) – allargato lo spazio di competizione con società di media e telecom e
creato un nuovo spazio di vendita (al dettaglio per servizi finanziari, biglietti, libri, CD) e per le
transazioni tra privati (e.g. le aste on line) ed imprese. Nell’ambito dei beni intangibili e di facile
consegna è stata una rivoluzione, che ha determinato spostamenti di posizioni competitive e creato
ricchezza. Avere servizi basati su internet (come prima fax e telefoni) è però un vantaggio una
tantum. Il vero beneficio generalizzato è come si è visto liberare da attività interattive e ripetitive,
consentendo di dedicarsi ad altre attività.
Gli US sono avanti di 2–3 anni rispetto all’UE in termini di penetrazione di Internet, possiedono
le grandi società internet e dominano le tecnologie hardware e software, avendo capitalizzato sul
vantaggio di partire per primi. Ciò ha permesso loro di fare prima e più rapidamente gli scatti di
produttività, l’UE è indietro di 4-5 anni e lo svantaggio di produttività può abbisognare di un
intervento pubblico. Si tratta di afferrare rapidamente questo potenziale aumento di produttività e
crescita, anche per far fronte ai nuovi problemi strutturali derivanti dall’invecchiamento della
popolazione.
Negli US, i programmi militari-spaziali hanno favorito la creazione iniziale della massa critica di
scienziati e imprenditori interessati alla tecnologia negli anni ’60 e consentito di giungere ad
imprese con posizioni dominanti, sfruttate poi, grazie ai bassi costi di replicazione e alla creazione
di uno standard, in situazioni di quasi monopolio, difficilmente contestabile. Tuttavia, la sfida, più
che nella creazione, consiste nell’utilizzo della tecnologia, visti i bassi costi. Grazie al sempre più
rapido ed efficiente trasferimento di idee e tecnologie i ritardi possono essere ridotti rapidamente.
Più che una supremazia tecnologica e grandi investimenti di capitale materiale e umano, sembra
richiesta maggiore efficacia e rapidità nell’utilizzo di tecnologie note e possedute.
Un primo ambito d’azione è quello del commercio elettronico che può consentire un elevato
aumento della produttività e richiede un contesto legale funzionante e una competizione per
l’accesso ad alta velocità e incentivazione dei meccanismi di apprendimento per le piccole imprese.
4. I problemi delle economie sviluppate e le loro cause
I problemi più seri delle economie sviluppate, più che dalle sfide della nuova economia,
dipendono da fattori solo in parte collegati alla globalizzazione come l’invecchiamento della
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Prima Versione.
popolazione, le crescenti diseguaglianze (dovute a disoccupazione e disparità retributive), richieste
di servizi pubblici (maggiori bisogni di istruzione e sanità) e regolamentazione e dai conflitti tra
sviluppo materiale ed ambiente. Si tratta di fenomeni spiegabili in larga parte con l’operare dei
fattori alla base della teoria economica, tecnologia e preferenze dei consumatori, operanti
all’interno delle stesse società ricche e sviluppate.
L’emergere dell’economia dei servizi (dove i prodotti sono realizzati quando consumati),
l’evoluzione della tecnologia, assieme alla necessità di far diminuire la disoccupazione tende a
generare l’esigenza di maggiore condizionalità dei benefici sociali per i disoccupati e flessibilità nel
mercato del lavoro.2
Rispetto agli US, l’Italia (e in generale l’UE) perseguono nel mercato del lavoro obiettivi sociali
in termini di sicurezza sociale. Essi sono caratterizzati da sistemi di determinazione delle
retribuzioni con la contrattazione collettiva a livello nazionale e d’impresa, la presenza di minimi
salariali obbligatori (superiori ai livelli US), restrizioni ai licenziamenti individuali e collettivi
(senza necessità economiche), norme sull’orario, sull’impiego a tempo pieno e temporaneo, congedi
parentali retribuiti ed elevati sussidi ai disoccupati. Ciò ha portato, con le mutate condizioni. ad una
disoccupazione maggiore e strutturale più che ciclica. Su tale base, i liberisti si oppongono alla
Carta sociale dell’UE sostenendo che la maggiore rigidità del mercato del lavoro comporta oneri
per le imprese e minore competitività, causando un livello elevato di disoccupazione rispetto ai
nostri competitori.
In realtà il problema cruciale sono gli ostacoli che la rigidità frappone alla creazione di nuovi
posti di lavoro nel settore dei servizi o all’incontro fra domanda ed offerta. E.g. il lavoro part-time
non deve essere visto necessariamente con connotati negativi, aumentando comunque le possibilità
di scelta (anche in termini di stile di vita).
Allargandosi il settore dei servizi, le imprese hanno dimensioni più ridotte ed un futuro
commerciale più volatile, il che porta a maggiori spostamenti fra imprese e tipologie di lavoro. A
differenza delle fabbriche, il personale aggiuntivo non qualificato migliora la qualità del servizio,
sollevando il personale da lavori ordinari e faticosi, ma si tratta di esigenze temporanee con
retribuzioni inferiori. Salari più elevati, frutti di vincoli e contrattazioni collettive, e difficoltà ad
assumere e licenziare portano ad una maggiore disoccupazione e/o ostacolano la crescita della
produttività. Quando la flessibilità è ridotta l’impresa automatizza al massimo e riduce
l’occupazione. Più che imporre salari minimi elevati, sarebbe utile consentire livelli inferiori per i
giovani che entrano nel mondo del lavoro e sussidiare i lavoratori con bassi salari. Le elevate
garanzie sui posti fissi determinano distorsioni, tenendo le categorie marginali fuori del mondo del
lavoro o costringendole a lavori temporanei sottopagati. Il lavoro part-time consente di far salire
l’occupazione provvisoria in periodi di punta come avvenuto negli UK ed US. La rigidità in materia
di qualificazione rende difficile far fronte alla domanda potenziale. Nei paesi non piccoli, come il
nostro, si pone il problema delle variazioni regionali.
La distruzione creativa dei posti e ruoli della nuova economia aumenta anche il bisogno di
flessibilità rispetto alla qualificazione. I cambiamenti in atto giustificano la tendenza verso una
maggiore liberalizzazione, consigliando interventi pubblici, che favoriscano la flessibilità delle
imprese nel ridimensionarsi per aumentare la produttività e incoraggino la creazione di nuovi posti
nei servizi. Non tutte le regolamentazioni hanno però effetti negativi in termini di produttività e
occupazione e i benefici di un aumento della liberalizzazione sono decrescenti. Ferie, congedi
parentali retribuiti e assegni familiari, nella misura in cui hanno effetti analoghi ad un’imposta
proporzionale, non aumentano necessariamente il costo del lavoro (redistribuendo risorse) o sulla
competitività, ma possono portare a benefici sociali. Nel contempo, agevolazioni all’effettiva
2
Oltre all’usuale flessibilità rispetto all’orario di lavoro (che spazia dall’orario flessibile al lavoro part time e
temporaneo), al salario reale (regolato più dal mercato che da norme e contrattazione collettiva) e geografica (che porta
a trasferirsi per seguire il lavoro) abbiamo una flessibilità numerica (che comporta una ragionevole facilità di assumere
e licenziare), funzionale (adattabilità a diversi ruoli) e delle capacità (aggiornamento della formazione e abilità).
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Prima Versione.
circolazione dei lavoratori (inclusa la trasportabilità dei benefici pensionistici) a livello UE
aumenterebbe l’efficienza del mercato e consentirebbe alle imprese di realizzare i risparmi legali ed
amministrativi delle imprese US. Lo spostamento verso il libero mercato comporta la riduzione
degli obiettivi di solidarietà sociale affidati del merato del lavoro e la ridefinizione degli obiettivi
dell’impresa in termini di valore azionario (più che in termini di interessi generali). Interventi
redistributivi dei risultati economici, anche attraverso i servizi socio-sanitari gratuiti, non vanno
necessariamente abbandonati dallo Stato, il cui ruolo aumenta in tale ambito. La riduzione della
disoccupazione, se avviene come possibile a spese di un aumento delle diseguaglianze, richiede
sussidi per uscire dalla povertà e spese per istruzione e formazione. La maggiore insicurezza del
posto di lavoro richiede una maggiore protezione sociale. Infine, la maggiore mobilità di capitale e
lavoro impone limitazioni sull’imposizione e sulla progressività delle aliquote marginali e quindi
ripensamenti sulla struttura impositiva. Resta tuttavia libertà di scelta per trovare i giusti trade-off
tra efficienza ed equità nelle scelte collettive e sociali.
La concentrazione dei redditi aumenta, vista la tendenza delle retribuzioni più elevate (e.g.
manager, calciatori, cantanti, …) ad aumentare in termini reali e di quelle più basse a ridursi (anche
trascurando i capital gain dei ricchi). Mentre i nuovi imprenditori (Bill Gates) hanno accumulato
ricchezze con una rapidità incredibile rispetto ai predecessori (Rockfeller), la domanda di
manodopera e impiegati meno qualificati si è ridotta, grazie all’automazione e all’aumentata
concorrenza sui mercati. Ciò, assieme alla crescente insicurezza del lavoro, ha ridotto i redditi
minori. Ridimensionamento del personale e ICT hanno concentrato le decisioni nelle mani di pochi
impiegati, dirigenti e talenti di alto livello sempre meglio retribuiti e più indaffarati. In sostanza,
gusti dei consumatori con redditi più elevati e tecnologia dell’informazione hanno favorito la
fortuna di talenti soggettivi e di chi decide in base alle informazioni.
Quanto visto richiede una più efficace redistribuzione pubblica, compensativa della flessibilità
del mercato. In un’economia più diseguale, ciò si concreta anche con maggiore domanda
d’istruzione per raggiungere qualifiche superiori e redditi più elevati. Con i bisogni di servizi
aumenta la domanda di servizi sanitari, negli US sono più del 13% del PIL, meno del 9% in Italia.
Aumentare la produttività di tali servizi, anche usufruendo dell’automatizzazione, aumenta il
benessere collettivo. Ciò impone difficili scelte rispetto alla dimensione della produzione e della
spesa pubblica, al suo finanziamento ed alla partecipazione dei privati.
La regolamentazione non è solo il prodotto di una burocrazia, che mira ad espandere il proprio
ruolo, mettendo i bastoni fra le ruote di cittadini ed imprese, ma una risposta collettiva alle
domande dei consumatori di migliore qualità di vita, ambiente, sanità e sicurezza dei prodotti, dei
trasporti, del posto di lavoro, etc. Ciò si vede con l’emergere di una richiesta di assicurazione e di
una conflittualità giudiziaria, con cui si sostengono i propri diritti e combattono le discriminazioni.
Regolamentazioni e diritti impongono costi economici; possono rappresentare semplicemente un
dirottamento di risorse dal reddito disponibile a benefici sociali, ma anche comportare costi
addizionali. dovuti a complicazioni amministrative e obbligazioni legali. Tuttavia, anche la
litigiosità processuale, stile US, ha notevoli costi. Si possono quindi avere notevoli implicazioni per
la produttività, l’occupazione, che condizionano le performance economiche. Ciò impone l’attenta
ricerca di un equilibrio tra i benefici (spesso a favore di gruppi specifici) e costi (di norma diffusi),
per evitare eccessi. Standard ambientali più alti sono accettabili, se siamo disposti a pagarne i costi.
Le regole vanno quindi verificate nel tempo, in termini di costi e di validità, in modo da sopprimere
quelle non più utili. Specifiche regolamentazioni, procedure burocratiche defatiganti o altre
restrizioni, che scoraggiano la creazione di nuove imprese, possono essere costose in termini di
creazione di nuovi posti di lavoro. Esse sono spesso dovuti a inerzia burocratica e difesa di interessi
acquisiti. In tale ambito, semplificazioni ed esenzioni per le piccole imprese sono giustificate. Si
pensi al caso UK, dove accanto ai taxi esistono minicab e altri servizi concorrenziali offerti da
privati, con benefici per consumatori e lavoratori.
Sviluppo materiale ed ambiente entrano in conflitto, in paesi densamente popolati, come l’UE,
quando crescono i bisogni di abitazioni e trasporti (beni ad alta elasticità rispetto al reddito). La
casa è ad esempio un bene posizionale ed esiste uno numero limitato di posti desiderabili.
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Prima Versione.
Diventando più ricchi desideriamo case più belle e viaggiare di più ma non sopportiamo rumore,
inquinamento e congestionamento ed i danni ambientali che ciò provoca.
A livello internazionale, il problema sorge rispetto a risorse scarse acqua, petrolio e
assorbimento dell’inquinamento (e.g. nelle acque e nell’atmosfera). Ad es. il diritto all’emissione di
CO2 nell’atmosfera va considerato un bene limitato e conteso da allocare tra le varie attività e
limitare per l’impatto ambientale.
5. Le scelte fiscali e del welfare state
Abbiamo già riportato l’opinione che una maggiore competitività implichi una riduzione di
imposte, regolamenti e welfare state. A chi vuole uno stato minimo si contrappone però chi chiede
ostacoli alla concorrenza sleale dei paesi emergenti, ed armonizzazione di imposte e standard a
livello UE. Anche in questo caso bisogna evitare pregiudizi, impostando una corretta discussione
scientifica, esaminando costi e benefici sociali delle varie opzioni.
Se, vista la necessità di un approccio più liberista, lo Stato accetta un ruolo minore nella gestione
dell’economia e dei mercati, ciò non implica che non possa concetrarsi sulle funzioni essenziali,
quale quella sociale, evitando che la società si disgreghi e si spezzi il patto sociale. L’ampiezza di
tali funzioni dipende dalle preferenze della collettività e dalla loro sostenibilità economica.
Il miglioramento dell’efficienza delle imprese di pubblica utilità (anche attraverso una loro
privatizzazione, e.g. per acqua ed elettricità) ed un approccio basato sulla creazione di valore,
aumentano il benessere della collettività, così come la riduzione delle rigidità sul mercato del
lavoro. Ciò non implica una deregolamentazione totale in questi settori ed il venir meno di standard
e protezione di consumatori e lavoratori.
Il sistema capitalistico funziona bene solo se sono disponibili in misura appropriata beni con
caratteristiche pubbliche (quali ordine, giustizia, protezione dell’ambiente, trasporti pubblici), sono
garantite eguali opportunità (in settori quali istruzione, sanità, previdenza) si opera un’adeguata
redistribuzione nell’ambito dell’assistenza (anche con trasferimenti in denaro a favore dei poveri,
disoccupati, anziani) ed adeguate regolamentazioni (in termini di norme sanitarie, sicurezza,
standard e controlli). La spesa di tali servizi aumenta col crescere del reddito, anche perché si hanno
ridotti miglioramenti della produttività, con l’invecchiamento della popolazione e per garantire
l’inclusione sociale. Per aumentare il benessere possiamo utilizzare la tecnologia per elevare la
produttività in tali servizi.
Inoltre, la convenienza fiscale dei paesi a minore pressione non impone l’eliminazione del
welfare state, ma, al limite, un suo ridisegno, che eviti l’emergere di un vasto sottoproletariato e il
diffondersi della criminalità. Come visto, i limiti alla libertà d’azione imposti dai mercati globali è
piuttosto esigua.
La pressione fiscale deve essere però sostenibile; sono quindi da evitare alti livelli di
indebitamento a sostegno di un’eccessiva spesa pubblica, che significano irresponsabilità
economica più che coraggio politico. L’indebitamento può però variare, in relazione al ciclo
economico, in corrispondenza a minore imposte e maggiore spesa nel welfare, svolgendo un’utile
funzione di stabilizzatore automatico e stimolando l’economia. Rigore finanziario e lotta
all’inflazione non sono di per sé ostacoli ad un’elevata occupazione.
Le imposte e i contributi spostano il reddito dai consumi individuali a quelli collettivi, se
incidono sulle retribuzioni nette. In sostanza, imposte e contributi aumentano i benefici relativi a
servizi e trasferimenti pubblici e sono accettate se i benefici sono maggiori dei costi della rinunzia a
beni privati addizionali. Il discorso si complica se si è all’interno di un’unione monetaria con un
tasso di cambio non competitivo. È quindi necessario ridurre le retribuzioni (i consumi privati) o la
fiscalità (i consumi pubblici) a seconda delle preferenze collettive. È inoltre possibile che il mercato
del lavoro non sia efficiente, per la presenza di sindacati che oppongono resistenza all’incidenza
delle imposte sui redditi netti, ed aumenti il costo del lavoro e la disoccupazione, essendo il lavoro
sostituito dal capitale (meno costoso). Ciò costituisce un argomento a favore della flessibilità, che
non ostacola la scelta dei livelli desiderati di imposte e spesa pubblica e non rende difficili rilevanti
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Prima Versione.
aumenti della fiscalità volti a riequilibrare i bilanci pubblici e previdenziali. Infine evidenzia
l’importanza di costruire un consenso popolare per rendere chiare e accettate le implicazioni di
maggiori imposte.
Gli ostacoli reali alla sostenibilità delle imposte sono gli effetti di disincentivo, elusione e
migrazione. Elevati livelli delle imposte incidono negativamente sulla propensione al lavoro ed al
risparmio. L’offerta di lavoro aumenta se l’effetto reddito (che induce a lavorare di più per
compensare la perdita di reddito) predomina sull’effetto sostituzione (che induce a sostituire al
lavoro il meno costoso tempo libero, data la diminuzione della retribuzione oraria). L’effetto dei
contributi è invece negativo, essendo molto minore l’effetto reddito (se i benefici corrispondono
alle imposte pagate). In generale, gli effetti fiscali sono ridotti e tendenzialmente negativi, salvo nel
caso del lavoro del coniuge con figli dove il disincentivo al lavoro è rilevante (aumentando la
convenienza del lavoro domestico). Ciò significa per converso che anche forti tagli delle aliquote
impositive hanno effetti piuttosto ridotti, salvo per le aliquote veramente elevate che colpiscono i
più ricchi (o i più poveri nel caso di trappola della povertà). Il forte incentivo è dovuto al fatto che
una riduzione dell’aliquota di 15 punti dall’85% al 70% raddoppia il reddito disponibile al margine
da un’ora addizionale di lavoro e non è raggiungibile per basse aliquote, poiché equivale a ridurre
l’aliquota del 50% a zero. A ciò può contrapporsi l’uscita del mondo del lavoro (riduzione
dell’offerta di lavoro), se la riduzione delle imposte consente di accumulare più in fretta il livello
desiderato di ricchezza, salvo questo aumenti a causa dell’elevarsi dei redditi altrui.
Elevati livelli delle imposte (e.g. sui capital gain) riducono anche la propensione al risparmio,
diminuendo il rendimento dell’investimento. Anche qui abbiamo effetto reddito e sostituzione e
l’esperienza US mostra come il crescere dei capital gain possa ridurre la propensione al risparmio.
Ciò non toglie che aliquote elevate possano scoraggiare i risparmiatori e distorcere l’investimento,
meglio quindi allargare la base imponibile e ridurre le aliquote.
Infine, l’evidenza a favore del caso di elusione ed emigrazione fiscale sembra piuttosto ridotto.
In termini d’imposta societaria i profitti generati in un paese sono ivi assoggettati ad imposta.
Inoltre, vi sono altri fattori rilevanti come la qualità di infrastrutture e manodopera, vicinanza di
fornitori e mercati (specialmente rilevanti per la natura locale del settore dei servizi). Considerando
le imposte personali emerge una mancanza di mobilità generale, dato che molti preferiscono restare
nel proprio paese. Il personale qualificato tende a concentrarsi dove vi è una massa critica di
imprese che richiedono tali competenze e, dati i vantaggi cumulativi di tale aree, difficilmente
risente della competizione fiscale. Anche internet non sembra erodere in misura notevole le basi
imponibili del consumo, solo scommesse, libri, cd, …, sono vulnerabili.
In conclusione, imposte elevate hanno effetti economici rilevanti, ma ai livelli attuali mancano
chiare evidenze rispetto a risparmio ed occupazione. Anche negli US i tagli delle imposte non
hanno portato a aumenti nella crescita sotto Reagan, come invece è avvenuto dopo il loro aumento,
sotto Clinton. Il limite effettivo è dato dall’approvazione popolare/elettorale e questo porta il
politico a creare debito pubblico quando supera il limite del consenso. In realtà, al di là della
volontà collettiva, il livello delle spesa pubblica riflette anche la forza dei gruppi lobbistici del
settore pubblico, le spese a fini elettorali e l’inerzia burocratica, una volta esistenti i programmi di
spesa tendono a permanere.
Tuttavia, le precedenti ragioni impongono un limite alla quota delle spese collettive, imponendo
delle scelte: l’individuazione di obiettivi essenziali e la necessità di riformare gli istituti del welfare
state inefficienti e le strutture fiscali distorsive seguendo un atteggiamento pragmatico nella scelta
dei mezzi.
Per raggiungere gli obiettivi essenziali dell’inclusione sociale bisogna investire in provvedimenti
che rafforzano la coesione sociale, incentivino chi lavora, rafforzando le comunità locali come negli
US, evitando l’insorgere di situazioni di degrado, ghetti ed atti di vandalismo. Nell’ambito della
sicurezza sociale bisogna ridurre le spese che non hanno né carattere pubblico né finalità
redistributive. Sotto il profilo fiscale, aumentare le imposte su esternalità (energia e ambiente),
proprietà e beni di lusso e limare le aliquote più elevate (data anche la maggiore mobilità di lavoro
qualificato e capitale).
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Prima Versione.
È opportuno, infine, perseguire una maggiore armonizzazione a livello europeo, per consentire
una corretta competizione nel mercato UE dove c’è libera circolazione di lavoro e capitale. Vanno
ridotti gli eccessi della concorrenza fiscale all’interno dell’UE (evitando elusione e migrazione
fiscale), impedendo forme concorrenza sleale, pur mantenendo come negli US una certa libertà di
scegliere livelli e strutture di imposte e spese a livello nazionale, che può avere effetti positivi,
instaurando una certa concorrenza tra settori pubblici, aumentandone l’efficienza. Negli US le
aliquote nazionali delle imposte su reddito, patrimonio e valore aggiunto variano fra gli stati.
Si potrebbe ad esempio introdurre un’aliquota minima sulle imposte sulle società, accise e
alcolici ed adottare invece un approccio unitario sull’imposizione sull’energia per scopi industriali e
la dove maggiore è la minaccia di erosione dell’imponibile. Il problema è se tali decisioni vadano
adottate come oggi solo all’unanimità. La maggioranza non è necessaria, se come oggi si manifesta
una naturale convergenza delle aliquote più sensibili politicamente (sulle società al 30% e massima
sul reddito al 40%), ma è utile superare l’unanimità per non rischiare di trovarsi domani in un
pericolose rincorse al ribasso dei livelli dell’imposizione e della spesa.
In conclusione, quanto visto ci consente di affermare che per il politico esiste un notevole ambito
per scelte di politica fiscale e sociale (livelli impositivi, spesa sociale, crescita, standard ambientali
e legislazione del lavoro) sul quale cercare il consenso popolare. Non esiste una vera connessione
tra stato minimo, successo economico e benessere. Il libero mercato non è una cosa giusta in se, ma
un utile strumento per raggiungere il benessere nella misura in cui funziona e la teoria economica
va applicata con intelligenza e pragmatismo. Da solo il mercato rischia persino di distruggersi
creando forti diseguaglianze e insicurezze. Sono ugualmente da evitare eccessi di statalismo e
politiche irresponsabili dove alti livelli di indebitamento sostengono una spesa pubblica eccessiva
ed inefficiente. Nell’ambito di un capitalismo liberale, con economia di mercato, sono possibili
coraggiose scelte sociali (non di mercato), senza forti implicazioni in termini di declino economico
e disoccupazione, con rinunce probabilmente inferiori al 10% del PIL e quasi trascurabili in termini
di benessere materiale effettivo. Una maggiore onestà nei dibattiti su fisco e welfare sarebbe
apprezzabile, consentendo ai consumatori di arrivare correttamente alle proprie scelte.
6. I conflitti tra sviluppo materiale ed ambiente
Molti elementi dell’economia sono di carattere fisico più che virtuale e l’impatto della crescita
economica sull’ambiente confligge con la domanda dei consumatori per standard ambientali più
elevati. I consumatori individuali realizzando i propri bisogni entrano in conflitto con le loro
esigenze collettive di migliorare l’ambiente in cui vivono. Questo è un ambito dove il mercato non
funziona, nessuno compra il godimento dell’ambiente in porzioni individuali. Se la competitività
globale non crea, di per sé, ostacoli insormontabili, si impongono scelte che considerino
attentamente benefici e costi. La collettività deve soppesare i benefici attribuiti al miglioramento
ambientale con i costi in termini di beni privati cui rinuncia.
Vanno quindi superati gli ostacoli frapposti dagli interessi acquisiti che si oppongono a politiche
ambientali, abusando della retorica del libero mercato (il peso delle regolamentazioni rende
l’economia meno competitiva), così come la retorica verde che vede nel mercato stesso il problema
(economie non di mercato hanno avuto rispetto ancor minore dell’ambiente). Il mercato è lo
strumento principe per fare le scelte migliori sotto il profilo dell’efficienza, ma in questo caso è
necessario un correttivo per considerare costi e benefici collettivi. L’industria ha ridotto molti
inquinanti e la qualità dell’aria e dell’acqua è migliorata a seguito di pressioni sociali, politiche
(imposte e norme funzionano).
Il problema è complesso perché - come mostra il teorema di Coase che indica la soluzione
nell’attribuzione dei diritti (e.g. a non essere inquinato o ad inquinare) - esiste un problema
redistributivo e quindi un trade-off distributivo tra gruppi diversi, va quindi trovato un equilibrio tra
sacrifici individuali e benefici collettivi. Inoltre, è difficile misurare i benefici (costi) dalla riduzione
di inquinamento, devastazione del paesaggio, congestione, rumore, ...; beni che non si possono
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Prima Versione.
acquistare in porzioni individuali sul mercato. È anche difficile valutare i costi, finiti e non
cumulativi, di perita di competitività e riduzione (temporanea) dell’occupazione. Nondimeno, i
costi esistono e sono riflessi nei diversi prezzi delle proprietà nelle zone meno degradate.
È utile servirsi del mercato, per ottenere i risultati al costo minimo, informando in anticipo sugli
obiettivi. Segnali di prezzo ed altri incentivi portano ad un processo continuo ed infinito che riduce
i costi e accresce i profitti. I costi si riducono drasticamente se si lascia operare il mercato, che, con
l’innovazione e la ricerca, selezioneràa i processi meno costosi per produrre beni con le qualità
desiderate, realizzando gli effetti desiderati nel modo meno costoso.
Politiche intese a migliorare il funzionamento del mercato (imponendo un prezzo per il
congestionamento, facendo pagare l’uso della strada) sono utili e realizzabili e non costituiscono un
limite alla libertà economica, ma fanno pagare un costo che i privati pongono a carico della
collettività.
La mobilità personale crea congestionamento ed inquinamento atmosferico ed acustico,
generando costi per i quali il mercato non mi chiede di pagare. Anche in questo caso, con imposte e
definizione dei diritti è possibile migliorare il funzionamento dei mercati, riducendo il degrado della
mobilità e dell’ambiente. L’imposta sui carburanti riflette quindi solo in parte tali esternalità. In
genere, si possiede un’auto per scegliere come muoversi, se il trasporto pubblico recupera oltre i
costi variabili quelli fissi, è vantaggioso utilizzare l’auto. L’offerta di trasporti pubblici è quindi
subottimale e ciò incentiva ulteriormente all’uso dell’auto. Per spezzare il circolo vizioso possiamo
far pagare l’utilizzo dello spazio stradale affollato (con pedaggi e imposte) sovvenzionando i costi
fissi dei trasporti pubblici attuando implicitamente una distribuzione dei diritti. Un simile principio
può applicarsi a destinazioni congestionate, come i maggiori siti storici, artistici e naturalistici.
Simile il discorso per gli impatti ambientali esterni relativi alla costruzione di infrastrutture per il
trasporto, che dovrebbero risarcire almeno gli effetti negativi sui prezzi delle proprietà. Tali costi
potrebbero essere ridotti con opportuni accorgimenti, tunnel, barriere antirumore …
Se il peso di un’imposta, o una regolamentazione ambientale, colpisce tutti i settori in modo
eguale non vi sono impatti di rilievo su competitività ed occupazione. Se per la collettività, il costo
fiscale è minore del beneficio ambientale la scelta è corretta e l’aggiustamento può avvenire in parte
con una riduzione dei redditi reali e/o una svalutazine del cambio (aumento relativo dei prezzi delle
importazioni), senza effetti sulla competitività. Ciò avviene solo se sono coinvolti i settori dei beni
aperti al commercio estero come ad esempio quelli ad uso intenso dell’energia. Ne segue un effetto
permanente una tantum sul benessere (una riduzione dell’attività di tali settori, parzialmente
compensato dall’aumento di altri settori, con un eventuale peggioramento della ragione di scambio)
ed uno temporaneo sull’occupazione (che deve spostarsi tra i diversi settori). Il rischio è però che la
situazione ambientale globale peggiori se l’attività emigra in paesi con standard ambientali
inferiori, per questo è necessario raggiungere accordi ad ampio raggio sui problemi ambientali.
Anche per questo su temi come l’energia è sensato cercare un accordo ed una disciplina a livello
europeo, tendendo verso una regolamentazione come quella UK che consente al mercato di
funzionare e applicando imposte sull’uso dell’energia crescenti per limitare i danni ambientali. Tale
politica diviene anche più viabile, dato che gli effetti su prosperità e competitività diminuiscono
tanto più allarghiamo l’ambito di applicazione della norma o dell’imposta, dal paese all’UE o ai
paesi più ricchi (UE+US+Giappone+…). Per ridurre il consumo di energia (o ridurne l’esternalità)
servono risorse supplementari (al settore energetico) altri input, ad esempio sotto forma di
investimenti di capitale per non abbassare la produttività del lavoro.
Il connesso problema del surriscaldamento necessita di un’azione a livello mondiale con un’equa
divisione dei diritti di emissione. L’aumento delle emissioni di gas (provenienti per il 60% dal
mondo ricco) è un esperimento collettivo ad alto rischio, destinato molto probabilmente a generare
surriscaldamento con un impatto ambientale ed economico dai costi elevati, come i cambiamenti
climatici del passato. La mancanza di certezza non è un valido argomento perché la collettività lo
trascuri, in tutte le decisioni individuali e imprenditoriali non vi sono certezze ma solo probabilità.
Alcuni evidenziano potenziali benefici, quali l’aumento dei benefici nelle zone più fredde, restano
tuttavia i problemi di innalzamento dei mari, desertificazione, diffusione delle malattie tropicali.
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Prima Versione.
Intere popolazioni dovranno trasferirsi, e ovunque si dovranno modificare le attività e le
infrastrutture umane (ad iniziare dalle abitazioni) essendo queste strettamente legate alle situazioni
climatiche. Il fatto è che i prezzi e i comportamenti privati di mercato non riflettono questi costi
futuri, mancando informazione ed incentivi. Anche per stabilizzare semplicemente la situazione
(con un probabile aumento di 3 gradi) le dimensioni dei cambiamenti sono enormi, dovendo le
emissioni scendere non del 5-10% come negli accordi di Kyoto, ma più del 50%. Nel lungo periodo
non ci sono problemi, dato che l’energia solare da sola supera diecimila volte il fabbisogno umano
(per non parlare del potenziale del vento e del mare). I costi di breve periodo sono però elevati,
tuttavia accettabili; la riduzione della crescita stimata (meno del 0,5% del PIL del 2010) equivale ad
arrivare al 2010 con qualche mese di ritardo. Come negli anni ’70 con la crisi petrolifera un
aumento dei prezzi può produrre cambiamenti rapidi e sostanziali nella domanda (quando
l’efficienza media nell’uso di combustibile è migliorata quasi del 20% in 8 anni). L’impatto
dell’aumento dei prezzi avrebbe limitati effetti sulle ragioni di scambio e sulla disoccupazione,
specie se oltre all’UE si coinvolgessero gli US. Dopotutto l’attuale modalità di sviluppo non solo
nuoce all’ambiente, ma ci rende dipendenti dalle regioni attualmente più instabili del mondo e i
costi del cambiamento sembrano abbordabili. Non ci sono quindi motivi per non fare la prima
mossa. Aumenti graduali delle imposte potrebbero essere utilizzate per ridurre i costi della nuova
manodopera e aumentare l’occupazione o tagliare l’imposta sul reddito, come sperimentato negli
UK.
Esistono, altre, limitazioni alla disponibilità di input economici essenziali, dovute ad es. alla
densità della popolazione (terreni edificabili) e risorse naturali non riproducibili. La
cementificazione dovuta a insediamenti urbani e industriali che riduce inoltre gli spazi verdi è uno
di questi esempi. Limitare tali insediamenti, con norme urbanistiche che difendono il verde, la
natura e il paesaggio, ha ovviamente dei costi, poiché la possibilità di una maggiore espansione
fisica facilita la crescita economica. Riducendo l’input spazio, come usuale diminuisce la
produttività degli altri input ma si ottengono benefici ambientali. Se si ostacola la crescita dei
distretti industriali, una volta avviati, si penalizzano dei settori e la loro creazione d’occupazione,
con impatti economici anche notevoli. È quindi opportuno programmare correttamente in anticipo
lo sviluppo di tali insediamenti.
Ad esempio, considerando l’ambito degli ambienti urbani la scelta è quanto investire nella
qualità della vita (creando ambienti confortevoli), con adeguati spazi e trasporti pubblici,
inquinamento, congestione e rumore ridotti, in modo che i prezzi riflettano i costi ambientali,
riducendo il costo delle ristrutturazioni ed aumentando quello delle nuove abitazioni (evitando un
impatto fiscale perverso). Ovviamente, bisogna evitare di avvantaggiare i più fortunati che già
possiedono un’abitazione, con un’attuazione che eviti di creare forti privilegi.