vita Seneca è sicuramente una delle figure principali dell’età imperiale, costantemente dibattuto fra l’ideale filosofico di una vita ritirata e ascetica e l’anelito ad aiutare gli altri uomini mediante la partecipazione alla vita pubblica attiva. Nato a Cordova, in Spagna, nel 4 a.C., compie gli studi di retorica e di filosofia a Roma con maestri di indirizzo stoico-pitagorico da cui impara a ricercare la perfezione interiore per raggiungere la libertà dello spirito. A Roma si dedica alla carriera politica e forense e, grazie alla sua brillante oratoria, ottiene un immediato successo. Da subito però diventa un personaggio ‘scomodo’ per le sue idee, tanto che alla morte di Tiberio il nuovo imperatore, Claudio (succeduto a Tiberio), lo manda in esilio in Corsica per 8 anni (dal 41 al 49) fino a quando la stessa Agrippina, seconda moglie di Claudio dopo che questi aveva fatto uccidere la prima moglie Messalina, lo fa richiamare a Roma come precettore del figlio Nerone (futuro imperatore) considerandolo l’uomo di cultura più brillante del tempo. vita Nel periodo trascorso in isolamento in Corsica, abituato prima alla vita agiata di Roma, Seneca riflette su se stesso e attua un grande cambiamento sperimentando la solitudine in quel luogo allora selvaggio. Approfondisce così le sue riflessioni sul significato dell’esistenza trovando conforto nella filosofia stoica secondo cui il saggio deve saper sopportare con fermezza i colpi della sorte e che le sventure sono volute dalla provvidenza per mettere alla prova la forza d’animo del sapiente, il quale deve sempre ricercare un equilibrio interiore. vita Seneca accompagna l’ascesa al trono del giovane Nerone guidandolo nei primi anni con saggezza verso un governo ‘illuminato’ dalla sapienza filosofica nel tentativo di farne un sovrano clemente, ma il potere dell’imperatore degenera ben presto in una monarchia assoluta e così il suo principato si trasforma in tirannide. Nel 59 Nerone fa uccidere la sua stessa madre Agrippina, non sopportandone più l’oppressivo controllo. Da quel momento Seneca prende le distanze da lui e nel 62 si ritira dalla scena pubblica per dedicarsi solo alla sua vita privata. Tuttavia viene accusato di aver partecipato alla congiura dei Pisoni contro Nerone e riceve l’ordine di suicidarsi dallo stesso Nerone, forse manovrato dalla seconda moglie Poppea. Si suicida nel 65 stoicamente così come era vissuto. Il pensiero di Seneca: lo stoicismo Seneca è il massimo rappresentante dello stoicismo romano - lo stoicismo era stato fondato da Zenone nel III sec. a.C. -, filosofia che propone il completo distacco del saggio dal mondo delle passioni; il saggio vive al di sopra delle passioni umane e per questo gli dovrebbero essere indifferenti la ricchezza, la povertà, il potere, la fortuna. Si tratta di un invito a riscoprire i veri valori della vita. Il principio etico stoico è: “vivi secondo natura”, cioè secondo ragione, ovvero: adèguati all’ordine razionale (rapporto passioni – ragione). Comprendere gli altri attraverso la comprensione di sé “Prius gnosce te ipsum, deinde hunc mundum” (“Prima scruta te stesso, poi il mondo”) diceva Seneca – e “Si vis amari, ama!” (“Se vuoi essere amato, ama!”) Dietro Seneca c’è il pensiero di Terenzio (al tempo del circolo degli Scipioni) con l’ ‘humanitas’ e con quella bellissima massima: “Homo sum, humani nihil a me alienum puto” (= Sono un uomo e tutto ciò che è umano mi riguarda – traduzione non letterale). Un’altra frase significativa di Seneca è: “Non è da uomo di senno odiare chi erra, altrimenti odierebbe se stesso”, ovvero: non bisogna giudicare gli altri. Tante sue frasi e soprattutto tanti concetti fanno pensare a lui come ad un autore pre-cristiano. Gli ‘altri’ per Seneca sono aspetti di noi stessi da comprendere, da accettare e da amare ed egli dice questo sul piano razionale perché è la razionalità che ci fa capire che siamo tutti uguali e che non esistono né servi né padroni, né schiavi né liberi (Lettera 47 a Lucilio su come trattare gli schiavi: “Servi sunt, immo homines!”). Un’altra frase famosa è: “Comportati con gli inferiori come vorresti che i superiori si comportassero con te”, nella stessa lettera all’amico. E infine: “Vivi ogni giorno come se fosse l’ultimo” e “La vita può essere breve o lunga: dipende da come noi la viviamo” (dal “De brevitate vitae”). Ultima da ricordare (ma non in ordine di importanza) è: “suum esse”, cioè un invito letterale ad essere se stessi ‘impadronendosi’ e riappropriandosi di se stessi, in altre parole: essere padroni di se stessi, pensare con la propria testa. È fondamentalmente un invito alla ricerca di una propria libertà interiore che permetta agli uomini di essere liberi. Le sententiae Tutte queste frasi si chiamano ‘sententiae’ e sono caratteristiche dello stile di Seneca; tutte riguardano il perfezionamento spirituale. La ‘sententia’ più famosa è: “protinus vive!” = “vivi intensamente!”, che equivale a: vivi subito!, vivi adesso! Questa massima, contenuta nel “De brevitate vitae” richiama il “carpe diem” di Orazio, con la differenza che Orazio non era stoico ma epicureo. In entrambi i casi l’invito è quello a stare nel presente, nell’ “hic et nunc” (qui e ora), mentre (secondo Seneca) in molte occasioni noi dissipiamo il nostro tempo pur senza sapere quanto ancora ci resta da vivere; se lo sapessimo, di certo non lo butteremmo via e invece ci comportiamo come se fossimo immortali. Cerchiamo allora di vivere al meglio l’oggi. Lo stile Le sue ‘sentenze’ sono di solito brevi frasi ricche di un particolare effetto e per questo facilmente memorizzabili. La ‘brevitas’ è in grado di sintetizzare un’idea proponendo un’immagine che si imprime nella memoria coinvolgendo emotivamente prima che razionalmente il lettore. Il critico letterario Alfonso Traìna l’ha definito il “linguaggio dell’interiorità” che “esorta al bene”, ad un perfezionamento morale. Lo stile di Seneca risponde al suo desiderio di libertà, anche espressiva, e per questo è quanto di più lontano si possa immaginare dallo stile ricercato e fondato su strutture sintattiche rigide di Cicerone, tanto che per Seneca si parla di ‘inconcinnitas’ (asimmetria) volutamente contrapposta alla ‘concinnitas’ (simmetria) di Cicerone. Rispettivamente: ipotassi (cioè prevalenza di subordinate nel periodo) per Cicerone e paratassi (prevalenza di coordinate) per Seneca con appunto la presenza di frasi sentenziose. La varietà è previlegiata rispetto alla simmetria. Lettere Morali a Lucilio Si tratta di una raccolta di lettere all’amico Lucilio; le lettere, che costituiscono una sorta di trattato filosofico, vogliono essere uno strumento di crescita morale in grado di agire sulla coscienza per indirizzare l’amico verso la ‘sapientia’. A titolo di esempio ricordiamo l’epistola 47 su come trattare gli schiavi: “Sono schiavi, sì, ma prima di tutto sono uomini!”; “Il numero dei nemici è uguale a quello degli schiavi: essi non sarebbero di per sé nostri nemici se noi non li rendessimo tali”; “Se vuoi essere amato, ama” (in latino: “Si vis amari, ama”). La funzione della lettera è quella di ricercare il bene = funzione parenetica. opere Le opere filosofiche di Seneca sono state per la maggior parte raccolte, dopo la sua morte, nei 12 libri dei ‘Dialoghi’: i “Dialogorum Libri”. Essi comprendono le 3 ‘consolazioni’: La Consolatio ad Marciam indirizzata alla figlia dello storico Cremuzio Cordo per consolarla della perdita di un figlio - il genere della ‘consolazione’, già proprio della tradizione filosofica greca, trattava un repertorio di temi morali cari a Seneca come quello della precarietà della vita e quello della fugacità del tempo - ; La Consolatio ad Helviam matrem per tranquillizzare la propria madre sulla sorte del suo stesso figlio, Seneca; La Consolatio ad Polybium, potente liberto di Claudio, per consolarlo della perdita del fratello; opere Il De vita beata (= La vita felice), scritto per difendersi dall’accusa di chi lo tacciava di incoerenza fra ciò che professava (“siamo tutti uguali”) e l’alto tenore di vita che conduceva. Parlando della felicità Seneca non biasima la ricchezza materiale, anzi: riconosce che una certa stabilità economica aiuta indubbiamente ad essere sereni nella vita; l’importante è che la ricchezza non sia mai un fine, ma solo un mezzo per conseguire appunto la felicità. I ricchi non devono diventare ‘schiavi’ del denaro; il vero obiettivo della vita dell’uomo saggio, ricco o povero che sia, dev’essere la ricerca della virtù; opere Il De constantia sapientis affronta anch’esso il tema del distacco del saggio dalle contingenze terrene: il saggio dev’essere ‘forte’ soltanto della propria fermezza interiore; Il De tranquillitate animi affronta il problema della partecipazione del saggio alla vita pubblica e in particolare alla vita politica (esperienza vissuta in prima persona da Seneca alla corte di Nerone): l’ideale sarebbe trovare una giusta “via di mezzo” (quella che Orazio in età augustea aveva chiamato l’ “aurea mediocritas”), un compromesso tra l’ ‘otium’ contemplativo e l’impegno morale del ‘civis’; in ogni caso l’obiettivo del sapiente dev’essere sempre quello di giovare con la propria serenità non a se stesso, ma agli altri in nome del bene comune; Il De otio, scritto ai tempi dell’esilio forzato in Corsica, parla del ritiro (obbligato) di Seneca dalla scena politica e della conseguente riscoperta della vita appartata con i suoi pregi; Il De providentia affronta il problema dell’amara constatazione che nella vita sembra spesso che i buoni siano puniti e i cattivi premiati dalla sorte: ebbene, secondo Seneca la volontà dei disegni divini è superiore alla volontà degli uomini. Gli dei mettono alla prova le persone oneste e virtuose attraverso tutta una serie di difficoltà da superare per rafforzare la loro ‘virtus’ (la forza d’animo). → Collegamento interdisciplinare con italiano: Manzoni, Promessi Sposi (il concetto di Provvidenza): “Il Signore non turba mai la gioia dei suoi figli se non per prepararne loro una più certa e più grande” (= fine cap. VIII, quello dell’ “addio monti”); inoltre nella tragedia ‘Adelchi’: il concetto di “provvida sventura” (morte di Ermengarda, coro dell’atto IV): una sofferenza per i giusti voluta non dal destino, ma dalla stessa Provvidenza. opere Il DE BREVITATE VITAE (sempre all’interno dei ‘Dialoghi’) è forse la sua opera più famosa. È dedicato al prefetto dell’annona (= colui che aveva il compito di riscuotere le tasse) Paolino. Tratta della fugacità del tempo e dell’apparente brevità della vita: essa in realtà non è affatto breve, siamo noi che la rendiamo tale quando usiamo male il nostro tempo; c’è una grande differenza tra ‘tempo’ e ‘vita’: la vera ‘vita’ è il tempo speso bene alla ricerca del perfezionamento spirituale; tutto il resto è soltanto ‘tempo’. Il messaggio che Seneca vuole trasmettere è un invito a non essere superficiali, a non fermarsi all’apparenza delle cose e ad occuparsi piuttosto della propria interiorità per essere felici. La felicità infatti, secondo Seneca, è alla portata di tutti, al di là del successo e dei beni materiali. Cosa ci resta alla fine della vita? Dice Seneca: “Non meno triste è la fine di chi muore contando il suo gruzzolo, fra le risate di chi aspettava da tempo quel momento” (cap. XX del “De brevitate vitae”). → Collegamento interdisciplinare con italiano: Verga, “La roba”, fine di Mazzarò: “Roba mia, vientene con me!”. opere Non compresi nei ‘Dialoghi’ sono invece: Le Naturales quaestiones, l’unica opera senecana di carattere scientifico sui fenomeni atmosferici e celesti, dai temporali ai terremoti; I 7 libri del De beneficiis sulla natura e sulle varie modalità degli atti di beneficenza; Seneca affronta la tematica della generosità e della filantropia forse in seguito al fallimento del suo progetto di una monarchia ‘illuminata’ (dalla sapienza) per un buon governo di Nerone, il quale avrebbe invece dovuto essergli grato; Il De clementia è un altro testo indirizzato a Nerone per illustrargli l’ideale del buon sovrano capace di governare non per mezzo della forza (tirannide), ma appunto con clemenza. Seneca illustra il proprio programma politico attraverso l’educazione del ‘princeps’ e la funzione della filosofia alla guida dello Stato. opere L’ultima opera nota di Seneca è l’Apokolokyntosis: letteralmente = la trasformazione di Claudio in zucca (forse come emblema di stupidità, da cui l’attuale ‘zuccone’). Il titolo richiama per assonanza l’apoteosi, cioè l’esatto contrario. L’opera è stata composta dopo la morte dello stesso Claudio (padre di Nerone). È nota anche col titolo: Ludus de morte Claudii. Si tratta di una parodia della classica divinizzazione dell’imperatore, l’antitesi di ciò che aveva decretato il senato alla sua morte. Nella finzione letteraria Claudio, defunto, capisce di essere morto quando assiste al suo stesso funerale e sente il canto funebre corale che celebra ironicamente le sue virtù; egli vorrebbe essere assunto fra gli dei, ma questi decidono invece di farlo scendere negli inferi, dove per di più viene condannato a fare da cancelliere al proprio liberto Menandro come giusta punizione della sua arroganza in vita (una sorta di ‘contrappasso’). Viene presentata una caricatura di tutti i difetti sia fisici che morali di Claudio, descritto come uno sciocco, uno sprovveduto e insieme un mostro di crudeltà. L’opera rientra nel genere della satira menippea inaugurata da Varrone nel I sec. a.C. (come il ‘Satyricon’ di Petronio). Ricordiamo che le satire menippee erano concepite come ‘frecciatine’ politiche miste di prosa e versi, condotte con spirito arguto ma non offensivo, soltanto giocoso e beffardo per non scadere mai nella volgarità e per rimanere sempre nell’ambito di una beffa elegante. Sappiamo da Tacito negli ‘Annali’ che lo stesso Seneca aveva scritto – su commissione – l’elogio funebre di Claudio che era stato poi letto da Nerone in senato; l’Apokolokyntosis rappresenta la parodia di quel suo ipocrita discorso di allora.