FILOSOFIA MORALE 2014-15 Modulo I La mutata natura dell’agire umano Cfr.: H. Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, Torino 2009, pp. 3-32 Il mutamento dell’agire umano «A seguito di determinati sviluppi del nostro potere si è trasformata la natura dell’agire umano, e poiché l’etica ha a che fare con l’agire ne deduco che il mutamento della natura dell’agire umano esige anche un mutamento nell’etica» Duplice esigenza di mutamento dell’etica Il mutamento dell’etica richiesto è: 1) «nel senso che nuovi oggetti dell’agire hanno ampliato materialmente l’ambito dei casi ai quali vanno applicate le regole vigenti del comportamento» 2) nel senso «ben più radicale che la novità qualitativa di talune nostre azioni ha dischiuso una dimensione del tutto nuova di rilevanza etica che non era prevista in base ai punti di vista e ai canoni dell’etica tradizionale» I nuovi poteri «I nuovi poteri […] sono naturalmente quelli della tecnica moderna». Ma poiché l’uomo, attraverso tutte le epoche, non è mai stato privo di tecnica, l’interrogativo verte sulla «differenza umana della tecnica moderna da ogni tecnica precedente»: 1) In quale modo questa tecnica influisce sulla natura del nostro agire, modificandola? 2) In quale misura essa rende, sotto il suo dominio, l’agire diverso da ciò che è stato nel corso di tutti i tempi? L’uomo e la natura Già nel Coro dell’Antigone di Sofocle (V sec. a. C) l’ammonimento sul potere e l’agire dell’uomo risuona, in senso archetipico, di una nota tecnologica. Sofocle, Antigone, Coro: «Canto dell’uomo» Molte ha la vita forze tremende; eppure più dell’uomo nulla, vedi, è tremendo. Va sul mare canuto nell’umido aspro vento, solcando turgidezze che s’affondano in gorghi sonori. E la suprema fra gli dèi, la Terra, d’anno in anno affatica egli d’aratri sovvertitori e di cavalli preme tutta sommovendola. dei cieli aperti e l’umide tempeste nell’inospite gelo, a tutto armato l’uomo: che nulla inerme attende dal futuro. Ade soltanto non saprà mai fuggire, se pur medita sempre nuovi rifugi a non domati mali. Con ingegno che supera sempre l’immaginabile, ad ogni arte vigile, industre, egli si volge al male ora, ora al bene. Se le leggi osserva della sua terra e la fede giurata […] agli dèi di sua gente, sé con la patria esalta; un senza-patria Diede a sé la parola, il pensiero ch’è come il vento, il vivere civile, e i modi è chi s’ accosta, per sua folle audacia, al male." d’evitare gli assalti Commento (1) Il precedente «omaggio angosciato al potere angosciante dell’uomo narra della sua irruzione violenta e violentatrice nell’ordine cosmico, della sua temeraria invasione nelle varie sfere della natura grazie alla sua infaticabile intelligenza (=forza tremenda)». «Ci dice anche che l’uomo in virtù della facoltà autoappresa del discorso, del pensiero e del sentimento sociale, costruisce una casa per la sua autentica umanità – vale a dire la formazione artificiale della città». Commento (2) «La violazione della natura e la civilizzazione dell’uomo vanno di pari passo» «Entrambe sfidano gli elementi, l’una avventurandosi in essi e sopraffacendone le creature, l’altra edificando contro essi un’enclave al riparo della città e delle sue leggi». «L’uomo è l’artefice della propria vita in quanto umana; egli sottomette le circostanze alla propria volontà e ai propri bisogni e, tranne che dinanzi alla morte, non è mai disarmato» Commento (3) Il tono dell’omaggio resta, tuttavia, «contenuto, persino impaurito e nessuno può ritenerlo un’immodesta millanteria». Infatti, è scontata la consapevolezza che «l’uomo, malgrado tutta la grandezza della sua sconfinata inventiva, è ancor sempre piccolo se commisurato agli elementi». Commento (4) «Tutte le libertà che egli si prende con gli abitanti della terra, del mare e dell’aria, lasciano pur sempre immutata la natura che ingloba queste sfere e non ne intaccano le forze generatrici. Esse non vengono realmente danneggiate se dal loro grande regno egli se ne ritaglia uno piccolo tutto suo; durano nel tempo, mentre le sue imprese hanno un corso di breve durata. Per quanto tormentata di anno in anno dal suo aratro, la terra non ha età e non si lascia fiaccare; nella sua pazienza costante l’uomo può e deve aver fiducia ed è costretto ad adattarsi al suo ciclo. Altrettanto senza età è il mare […] e per quanto l’uomo possa trovare rimedio a molte malattie, la mortalità stessa non si piega alla sua astuzia» Commento (5) «Tutto ciò risulta vero perché prima del nostro tempo gli interventi dell’uomo sulla natura, come egli stesso li vedeva, furono essenzialmente superficiali e incapaci di turbare il suo equilibrio stabilito (L’analisi retrospettiva scopre che la verità non fu sempre così innocua)». Neppure è rintracciabile un’allusione al fatto che si tratti solo di un inizio, piuttosto meditando su ciò che ha fatto per umanizzare la propria vita, l’uomo è colto da un brivido davanti alla propria temerarietà. Commento (6) A maggior ragione ciò vale per quanto riguardava la delimitazione della città degli uomini come enclave umana che non coinvolgeva la natura delle cose. «L’invulnerabilità del tutto, le cui profondità non vengono turbate dall’invadenza umana, vale a dire la sostanziale immobilità della natura in quanto ordine cosmico, costituiva in effetti lo sfondo di tutte le imprese dell’uomo mortale, inclusi i suoi interventi in quell’ordine stesso». Commento (7) La vita dell’uomo si svolgeva tra il permanente della natura e il mutevole delle sue opere, la più grande delle quali fu la città, cui l’uomo potè conferire un certo grado di durata mediante le leggi che per essa ideò e si accinse ad onorare. Ma alla lunga nessuna certezza caratterizzava questa continuità artificiale: neppure all’interno del suo spazio artificiale, malgrado tutta la libertà che esso concede all’autodeterminazione, l’arbitrario potrà mai rimpiazzare le condizioni dell’esistenza umana. Persino nel suo prodotto artificiale, il mondo sociale, il controllo dell’uomo è scarso e la sua natura costante riesce ad avere il sopravvento. Commento (8) Era, purtuttavia, questa cittadella di sua stessa creazione, nettamente separata dal resto delle cose e affidata alla sua tutela, l’intero e unico ambito della responsabilità umana. La natura, infatti, provvedeva a se stessa e, se adeguatamente incalzata e sollecitata con intelligenza e spirito inventivo, anche all’uomo. Nella città invece, ossia nella formazione sociale artificiale, in cui gli uomini hanno rapporti con gli altri uomini, l’intelligenza deve unirsi alla moralità, perché quest’ultima è l’anima della sua esistenza. È qui, perciò, che dimora anche ogni etica tradizionale, conformandosi alle dimensioni dell’agire così condizionate. L’etica tradizionale Da quanto precede, Jonas individua 4 caratteristiche dell’etica tradizionale: 1) Ogni rapporto con il mondo extraumano, concernente la sfera della téchne (=abilità manuale), era neutrale sotto il profilo etico, sia rispetto all’oggetto che al soggetto. Rispetto all’oggetto perché nessuna arte/téchne poteva incidere, se non in misura irrilevante, sulla capacità di autoconservazione della natura o apportare un danno permanente all’integrità dell’ordine naturale nel suo insieme. Rispetto al soggetto agente perché la téchne come azione non si ergeva come «progresso autogiustificantesi verso il fine primario dell’umanità», ma si contestualizzava nell’ambito di ciò che la necessità della natura consentiva. Etica tradizionale (2) 2) La dimensione e il significato etico appartenevano alle azioni riguardanti la sfera del rapporto diretto dell’uomo con il suo simile, incluso il rapporto con se stesso. Ogni etica tradizionale era infatti antropocentrica. Etica tradizionale (3) 3) Per tutto quanto riguardava l’agire nella sfera antropologica, l’entità «uomo» fu considerata costante nella sua essenza o condizione di fondo e non suscettibile di divenire essa stessa oggetto della téchne/arte trasformatrice . Etica tradizionale (4) 4) Il bene e il male dell’agire erano considerati nell’azione, nella prassi stessa oppure nella sua portata immediata, né erano oggetto di pianificazione a distanza di tempo o spazio. Il comportamento giusto aveva i suoi criteri diretti e il suo compimento quasi immediato, il lungo corso delle conseguenze era rimesso al caso, al destino, alla provvidenza. Il campo effettivo dell’azione era ristretto, il lasso di tempo per la previsione, la determinazione dei fini e l’imputazione di responsabilità era breve. Etica tradizionale (4 bis) 4 bis) L’etica aveva a che fare con il qui e l’ora dell’azione, con le occasioni che si presentano agli uomini ovvero con le situazioni ricorrenti e tipiche della vita privata e pubblica. L’uomo buono era colui che affrontava con virtù e saggezza tali circostanze, coltivando in se stesso tali capacità e rassegnandosi per il resto all’ignoto. Commento (1) Ristrettezza del volere Tutte le massime morali del passato contemplano l’agente e i suoi simili come temporalmente partecipanti a un presente comune e spazialmente condividenti un luogo comune: sono coloro che vivono ora con me e stanno in qualche forma di rapporto spaziale con me (vicino, amico o nemico, superiore e subordinato, più forte o più debole, ….., reciproci) ad avanzare una pretesa sul mio comportamento in quanto questo li condiziona con le sue azioni o omissioni. Ogni moralità tradizionale era orientata a questo cerchio ristretto dell’agire: il cerchio della reciprocità Commento (2) Ristrettezza del sapere Alla ristrettezza del volere corrispondeva nell’etica tradizionale un sapere ugualmente limitato: il sapere accessibile a tutti gli uomini di buona volontà, non la conoscenza dello scienziato o degli esperti. «La leva breve del potere umano non richiedeva la leva lunga del sapere predittivo; la brevità dell’una era tanto poco colpevole quanto quella dell’altra. Proprio perché il bene umano conosciuto nella sua universalità è lo stesso in ogni tempo la sua realizzazione o violazione ha luogo in ogni tempo, e il suo luogo completo è sempre il presente» (p. 9). Jonas verifica questa situazione tanto in I. Kant quanto in Aristotele. Commento (3) Portata del sapere nell’etica in Kant In proposito Kant si spinse ad affermare che «in sede morale la ragione umana può essere portata, anche nell’intelletto più comune, a grande esattezza e perfezione» (Fondazione della metafisica dei costumi, in Scritti morali, a cura di P. Chiodi, UTET, Torino 1986, p. 47). Aggiungendo, poco oltre, che «non c’è bisogno né di scienza né di filosofia per sapere ciò che si deve fare per essere onesti e buoni, e perfino saggi e virtuosi…[La ragione comune può] sperare di cogliere nel segno quanto può riprometterselo in ogni caso il filosofo» (ivi, p. 59). Per concludere che non ho «bisogno di grande perspicacia per sapere cosa debbo fare affinchè la mia azione sia moralmente buona. Inesperto nell’andamento delle cose, incapace di far fronte a tutto ciò che accade» sono comunque in grado di sapere come devo regolarmi in base alla legge (ivi, p. 60). Commento (3) Portata del sapere nell’etica di Aristotele Per Aristotele l’aspetto cognitivo dell’agire morale ha un’importanza molto maggiore che in Kant. Infatti dall’esperienza e dal giudizio dipende largamente a suo parere la conoscenza della situazione e di ciò che è adeguato ad essa. Tuttavia tale sapere non ha niente a che vedere con la scienza teoretica. Ovviamente il concetto generale del bene umano in quanto tale, riferito alle supposte costanti della natura e della condizione umana può trovare una sua propria elaborazione teoretica, ma la sua traduzione nella prassi richiede una conoscenza del qui e ora che è completamente ateoretica. Commento (3) Il sapere della virtù La conoscenza peculiare della virtù riguarda il dove, quando, in rapporto a chi, come e cosa si deve fare e pertanto resta limitata all’occasione immediata nel cui contesto definito l’azione, in quanto propria dello stesso agente individuale, prende l’avvio e giunge alla sua conclusione. Il «bene» o il «male» dell’azione è interamente stabilito entro questo contesto a breve termine. La sua paternità non viene mai messa in discussione e la sua qualità morale le è direttamente immanente. Nessuno era ritenuto responsabile per le conseguenze involontarie di un suo atto ben intenzionato, ben ponderato e ben eseguito (Jonas, cit., p. 9). Domanda Da quanto fin qui esposto, rispondere alla domanda: «Perché il tema etico della responsabilità non è emerso con impellenza nella pre-modernità?» Nuove dimensioni della responsabilità La tecnica moderna ha introdotto azioni, oggetti e conseguenze tali che l’etica tradizionale non è più in grado di abbracciarli. 1) l’enormità della potenza dell’uomo, già osservata nel Coro dell’Antigone, oggi è diventata di tutt’altro tipo; 2) L’ammonimento al singolo di osservare le leggi non è più sufficiente; 3) gli dei al cui diritto ci si appellava per arginare il corso rovinoso delle azioni umane, sono scomparsi; 4) Restano valide le norme dell’etica del prossimo (di giustizia, misericordia, onestà, ecc.) per la sfera dell’interazione umana quotidiana. Nuove dimensioni della responsabilità Ma la sfera interindividuale è oscurata dal crescere di quella dell’agire collettivo, nella quale l’attore, l’azione e l’effetto non sono più gli stessi. È l’imporsi della sfera dell’agire collettivo, a causa dell’enormità delle sue forze, ad imporre all’etica una nuova dimensione della responsabilità, mai prima immaginata. La vulnerabilità della natura La natura, p. es., che in epoca pre-moderna era considerata eticamente neutrale sia dal punto di vista oggettivo che soggettivo, ora mostra una vulnerabilità all’intervento tecnico dell’uomo, che era insospettata prima che cominciasse a manifestarsi in danni irrevocabili. Ciò modificò interamente la concezione che avevamo di noi stessi e del nostro agire quali fattori causali nel sistema cosmico e aggiunse l’intera biosfera del pianeta tra gli oggetti di nostra responsabilità La vulnerabilità della natura (2) Questioni etiche poste dalla natura come responsabilità umana: 1) Che genere di obbligo comporta? 2) Si tratta di un interesse solamente utilitaristico come non sgozzare l’oca che depone le uova d’oro o tagliare il ramo su cui si è seduti? 3) Chi è questo «si»? 4) Qual è il «mio» interesse nel suo restare seduto o precipitare? Vulnerabilità della natura (3) Per rispondere alle domande precedenti va osservato che nella nuova situazione etica indotta dall’affermarsi della tecnica moderna, 1) mentre permane l’impostazione antropocentrica dell’etica tradizionale, perchè il condizionamento naturale del destino umano rende l’interesse alla conservazione della natura, un interesse morale; 2) si instaurano differenze notevoli. Vulnerabilità della natura (4) 1) l’estensione spaziale e temporale delle serie causali attivate dalla prassi tecnica, anche se in vista di scopi prossimi, ha spazzato via la restrizione dell’agire etico tradizionale alla prossimità e alla contemporaneità; 2) i processi causali attivati sono irreversibili; 3) hanno un ordine di grandezza complessivo impensabile prima; 4) hanno un carattere cumulativo Vulnerabilità della natura (5) Il carattere cumulativo delle serie causali attivate dalla tecnica moderna comporta che «gli effetti si addizionano in modo tale che la condizione delle azioni e delle scelte successive non è più uguale a quella dell’agente iniziale, ma risulta diversa da essa in maniera crescente e sempre più un risultato di ciò che già è stato fatto». «Anzi, l’accumulazione in quanto tale, non paga di trasformare le condizioni iniziali fino a renderle irriconoscibili, è in grado di erodere la base dell’intera serie, il suo stesso presupposto». «Tutto ciò dovrebbe essere co-voluto nel volere l’azione singola, se questa ha da essere responsabile sotto il profilo morale» (p. 11). Il nuovo ruolo del «sapere» nella morale Emerge a questo punto come «dovere impellente», produrre «un sapere che corrisponda in ordine di grandezza alle dimensioni causali del nostro agire». Ma il nostro sapere predittivo resta inevitabilmente al di sotto del sapere tecnico che conferisce potere al nostro agire. Il riconoscimento dell’ignoranza diventa una componente dell’etica, cui spetta il compito di istruire il sempre più necessario autocontrollo del nostro smisurato potere. Il nuovo ruolo del «sapere» nella morale (2) A fronte del riconoscimento d’ignoranza da parte del sapere predittivo, l’etica dovrà allora svolgere il suo nuovo immane compito di salvaguardare la condizione globale della vita umana e del futuro lontano della specie, anzi della sua sopravvivenza, sulla base dell’elaborazione di una nuova concezione dei diritti e dei doveri? Ampliamento della concezione di diritti e doveri In realtà, ora che l’intera biosfera è sotto il nostro potere tecnologico, sempre più emerge quanto la dimensione antropocentrica sia insufficiente per la nuova etica. La biosfera, la natura extraumana, su cui dominiamo, è anche in qualche modo «data in custodia all’uomo» e perciò «avanza nei nostri confronti una sorta di pretesa morale non soltanto a nostro, ma anche a suo favore e in base a un proprio diritto». La ricerca del bene umano appare insufficiente a sostenere il compito della nuova etica. Si richiede di integrarla con la ricerca del bene delle cose extraumane, «estendendo il riconoscimento dei ‘fini in sé’ al mondo naturale e includendone la cura nel concetto di bene umano». Ampliamento della concezione di diritti e doveri (2) «Un muto appello a preservarne l’integrità sembra salire dalla totalità minacciata del mondo vivente». Dobbiamo vedere in ciò soltanto l’espressione del nostro sentire, al quale indulgere nella misura in cui vogliamo e possiamo permettercelo? Oppure dobbiamo prestarle ascolto, riconoscendo vincolante la sua pretesa, perché sanzionata dalla natura delle cose? Ampliamento della concezione di diritti e doveri (3) Se l’appello che avvertiamo dalla natura extraumana si basa sulla «natura delle cose», ciò indica che il ripensamento dell’etica tradizionale antropocentrica deve andare ben al di là della dottrina dell’agire cioè dell’etica. Esso deve avanzare fino alla dottrina dell’essere, alla metafisica, che deve tornare a costituire il fondamento di ogni etica. Domanda Da quanto fin qui esposto, rispondere alla domanda: «Perché il tema etico della responsabilità è emerso con impellenza a partire dalla modernità?» La tecnologia come ‘vocazione’ dell’umanità La techne antica, mezzo dotato di limitata adeguatezza nei confronti di fini prossimi e ben definiti, si è oggi trasformata in «un illimitato impulso progressivo della specie, nella sua impresa più significativa, il cui incessante superarsi e avanzare verso mete sempre più elevate si è tentati di ravvisare come vocazione dell’uomo e il cui traguardo di dominio sulle cose e sull’uomo stesso appare come l’adempimento della sua destinazione» La tecnologia come ‘vocazione’ dell’umanità (2) L’homo faber trionfa sia sul suo oggetto esterno sia sulla costituzione interna dell’homo sapiens, di cui prima non era che una sua parte ausiliaria. Le dinamiche di finalizzazione tecnica acquistano una posizione centrale nei processi di finalizzazione soggettiva dell’uomo e perciò, anche a prescindere dalle sue opere, la tecnologia assume valenza etica. La tecnologia come ‘vocazione’ dell’umanità (3) Come la tecnologia ha potuto affermarsi in questo modo? L’ambiente artificiale in espansione, che la creazione cumulativa della tecnica produce, determina un effetto retroattivo di potenziamento delle forze realizzative, che da un lato sono costrette a un continuamente rinnovato impegno creativo per il mantenimento e l’ulteriore sviluppo e, dall’altro, sono compensate da accresciuto successo, che ne rafforza la pretesa. La tecnologia come ‘vocazione’ dell’umanità (4) La finalizzazione tecnologica è così l’unica che offre all’agente un doppio feed-back positivo dovuto 1) alla soddisfazione della necessità funzionale 2) alla soddisfazione dell’ orgoglio della prestazione, in virtù della ricompensa del successo. La tecnologia come ‘vocazione’ dell’umanità (3) Tale duplice soddisfazione che la finalizzazione tecnologica comporta alimenta la crescente superiorità di una parte della natura umana su tutte le altre e a loro scapito. Qualunque caratteristica appartenga alla natura umana nella sua integrità (p. es. la contemplazione o l’azione non tecnica) viene eclissata in prestigio dall’aumento del potere che l’agire tecnico consente. Quest’ultimo perciò vincola sempre più a sé le forze dell’uomo, di cui nel contempo atrofizza l’identità completa e l’essere integrale (Jonas, cit., p. 14). La tecnologia come ‘vocazione’ dell’umanità (4) Agli occhi dell’uomo contemporaneo stesso, «nell’idea programmatica che determina il suo essere attuale altrettanto quanto lo rispecchia», «egli è sempre più il produttore di ciò che ha prodotto e l’esecutore di ciò che può eseguire, ma soprattutto il programmatore di ciò che sarà in grado di fare». E questo ‘egli’ non siamo né voi né io: sono l’attore e l’agire collettivo nel futuro indefinito! Nuovi imperativi morali «Se la sfera produttiva è penetrata nel dominio dell’agire che conta, allora la moralità deve penetrare nella sfera produttiva, dalla quale un tempo si era tenuta lontana e dovrà farlo sotto forma di politica pubblica. In effetti il mutamento di natura dell’agire umano modifica la natura stessa della politica». La politica modificata (1) L’affermarsi unilaterale dell’agire tecnologico ha cancellato il confine tra ‘polis’ e ‘natura’, estendendo la città degli uomini alla totalità della natura terrena e usurpandone il posto. 1) Il naturale è stato fagocitato dall’artificiale. 2) La totalità degli artefatti, le opere dell’uomo che come mondo operano su e per mezzo di lui, producono un nuovo tipo di ‘natura’, ossia una peculiare necessità dinamica con la quale libertà umana si trova ad essere confrontata in modo del tutto nuovo. La politica modificata (2) Una volta era possibile dire: fiat justitia pereat mundus, «sia fatta giustizia e vada in rovina il mondo» (Svetonio l’attribuisce a Gaio Cassio Longino uno degli assassini di Giulio Cesare), perché ‘mondo’ significava naturalmente l’enclave rinnovabile nel tutto-che-non-va-mai-in-rovina. Oggi quella frase non si può più dire perché l’andare in rovina del tutto per effetto di azioni umane, giuste o ingiuste che siano, è diventata una possibilità reale. La città totale deve ora darsi leggi perché ci sia un mondo per le generazioni future! La politica modificata (3) Il cambiamento non consiste tanto nel fatto che non sia più riconosciuto l’assioma generale o il persuasivo auspicio dell’immaginazione speculativa che in futuro debba esistere un mondo adatto ad essere abitato dagli uomini e che debba essere abitato in qualunque futuro da un’umanità degna di questo nome, assioma e auspicio indimostrabili al pari dell’enunciato che sia preferibile l’esistenza del mondo alla sua non esistenza. Il cambiamento sta nel fatto che ora tutto ciò diventa proposizione morale, obbligazione pratica nei confronti dei posteri, principio decisionale dell’azione attuale, a causa della comparsa delle nostre nuove forze tecnologiche e del correlato sapere predittivo, di portata senza precedenti. La politica modificata (4) In sintesi: Per la politica delle epoche pre-tecnologiche la presenza dell’uomo nel mondo era un dato originario e indiscutibile dal quale scaturiva ogni idea di dovere nel comportamento umano. Oggi essa stessa è diventata un oggetto dell’obbligazione e precisamente dell’obbligazione di assicurare per l’avvenire il presupposto fondamentale di ogni obbligazione ossia la presenza di semplici candidati a un universo morale nel mondo fisico. Occorre dunque conservare il mondo in modo che restino intatte le condizioni di quella presenza, salvaguardandone cioè la loro vulnerabilità nei confronti della minaccia. Confronto dei nuovi imperativi con l’imperativo categorico kantiano (1) L’imperativo categorico kantiano affermava: «Agisci in modo che tu possa volere che la massima della tua azione diventi legge universale». Il contrassegno dell’azione morale è qui riconoscibile in un carattere logico di non auto-contraddizione della ragione con se stessa, cioè della sua dimensione individuale con quella universale. Il ‘poter volere’ o il ‘non potere’ esprime compatibilità o incompatibilità logica e non approvazione o non approvazione morale. Cfr. esempio del prestito. Confronto dei nuovi imperativi con l’imperativo categorico kantiano Secondo Jonas, il formalismo dell’imperativo kantiano, che trascura il fattore tempo (cfr., Jonas, cit., p. 17), è incapace a obbligare ciò che la situazione attuale sembra esigere, cioè la responsabilità verso le generazioni future e l’umanità futura in genere (cfr., Jonas, cit., §3, pp. 16-17). Confronto con l’imperativo categorico kantiano Poiché contradditorio è ciò che si afferma e si nega nello stesso tempo e sotto il medesimo rispetto, non sono affatto autocontraddittorie né l’idea che l’umanità in futuro cessi di esistere né l’idea che la felicità delle generazioni presenti sia ottenuta al prezzo della sventura o addirittura dell’inesistenza delle generazioni future, o viceversa. Nel caso della scelta per il sacrificio del presente a vantaggio del futuro si ha certo la continuazione della serie umana, ma il dover continuare della serie, piuttosto che il suo cessare, a causa della decisione del sacrificio del futuro per il presente, non è deducibile dalla regola di autocoerenza interna della serie. Un tale imperativo può essere solo esterno e anteriore al dovere kantiano e perciò fondabile soltanto nell’ambito della metafisica (cfr. Jonas, cit., §3, pp. 16-17). Confronto dei nuovi imperativi con l’imperativo categorico kantiano (2) Un imperativo adeguato al nuovo tipo di agire umano e di soggetto agente potrebbe avere le seguenti forme, tutte comprensive della dimensione temporale del futuro: 1) «Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra» 2) «Agisci in modo che le conseguenze della tua azione non distruggano la possibilità futura di tale vita» 3) «Non mettere in pericolo le condizioni della sopravvivenza indefinita dell’umanità sulla terra» 4) «Includi nella tua scelta attuale, l’integrità futura dell’uomo come oggetto della tua volontà» Portata dell’imperativo kantiano L’imperativo kantiano si rivolge al comportamento privato; è diretto all’individuo e il suo criterio è il presente. Esso esorta ciascuno a ponderare cosa succederebbe se la massima della propria azione attuale diventasse principio di una legislazione universale = universalizzazione ipotetica, proiezione puramente logica dell’io individuale a un ‘tutti’ immaginario, causalmente indeterminato. Non vengono prese in considerazione le conseguenze reali della scelta e il principio non è quello della responsabilità oggettiva ma quello della autodeterminazione soggettiva. Procede per estrapolazioni in un ordine sempre-presente di compatibilità astratta. Nuovo imperativo Il nuovo imperativo evoca la coerenza non dell’atto con se stesso, ma quella dei suoi effetti ultimi con la continuità dell’attività umana nell’avvenire. La sua universalizzazione riguarda le azioni della collettività che si universalizzano nella misura in cui hanno successo, perciò ‘totalizzano’ se stesse nello svolgersi della loro dinamica e non possono avere altro sbocco che nella configurazione di uno stato universale di cose. Procede per estrapolazioni in un futuro reale calcolabile, che è l’orizzonte della nostra responsabilità. Forme precedenti di etica del futuro Nel corso della storia dell’etica tradizionale sono però riscontrabili almeno tre esempi di etica non immediatamente riducibile a etica della presenza e della sincronicità come l’etica dell’intenzione kantiana. Si tratta di: 1) l’etica del compimento nell’al di là; 2) l’etica della responsabilità dello statista circa il futuro; 3) l’utopia moderna. L’etica del compimento nell’al di là Si tratta dell’etica religiosa che imposta «la condotta terrena fino al sacrificio della felicità in vista della salvezza eterna dell’anima» (Jonas, cit., p. 18). L’agire attuale non deve produrre causalmente lo stato futuro, ma soltanto qualificare, in vista di questo, il singolo individuo agli occhi di Dio, al quale però la fede deve riservarne la realizzazione. . L’etica del compimento nell’al di là. Versione ‘moderata’ Nella versione ‘moderata’ dell’etica della salvezza dell’anima (p. es. etica giudaica), la vita accetta a Dio è già di per sé la vita migliore, più degna di essere vissuta e quanto al contenuto dei suoi imperativi (giustizia, amore per il prossimo, purezza, ecc.) è analoga a un’etica intramondana classica. Anzi, se si scegliesse la vita ben accetta a Dio solo per ottenere la salvezza, si perderebbe qualcosa nella capacità di tale condotta di qualificare l’individuo! Ma proprio per questo essa appare essere un’etica della simultaneità e dell’immediatezza perché ciò che ne determina il contenuto non è il fine ultramondano come conseguenza ma la modalità della vita terrena ben accetta a Dio L’etica del compimento nell’al di là. Versione ‘estrema’ Nella versione ‘estrema’ della fede nella salvezza dell’anima, p. es. nel caso della scommessa metafisica di Pascal, l’adempimento della vita gradita a Dio non ha il carattere del valore in se stesso, ma solo quello di essere la posta in gioco in una scommessa, persa la quale, vale a dire mancato il conseguimento del premio eterno, tutto sarebbe perduto. Anche qui, però, Jonas fa notare che i motivi per cui si sceglie il comportamento dell’ascesi radicale, volta a mortificare i sensi e a negare la vita, non hanno valore ‘causale’, cioè non sono gli effetti di esso a far conseguire il fine, come nel caso del consueto calcolo edonistico, perché il finito e l’infinito, il temporale e l’eterno sono incommensurabili. L’etica del compimento nell’al di là. Versione ‘estrema’ Si sceglie dunque una vita ascetica quale «via dell’interna realizzazione degli scopi a partire dal proprio agire», perciò ci troviamo di nuovo di fronte ad un’etica dell’immediatezza e della simultaneità: «una forma, egoistica e individualistica quanto si vuole, di etica dell’autoperfezione, la quale nei momenti di illuminazione spirituale a cui i suoi sforzi la possono condurre può godere già qui la ricompensa futura sotto forma di esperienza mistica dell’assoluto» (Jonas, cit., p. 20). La responsabilità dello statista circa il futuro La lungimiranza dello statista per il bene futuro della comunità e quindi la durata della sua creazione legislativa e istituzionale è ciò che determinò nell’antichità la lode rivolta a Solone e Licurgo e il biasimo verso Pericle. Tuttavia l’aspetto temporale non è mai evidenziato prima dell’età della tecnica, nel senso che non ci si curava della «pianificazione anticipata di qualcosa che diventerà realtà soltanto per i posteri ma che è ancora irrangiungibile per i coevi» (Jonas, cit., p. 20). Al contrario, lo stato migliore è quello che resiste al tempo e che per resistere ha bisogno sia della eccezionale saggezza costituente del legislatore sia della costante saggezza di governo dello statista. La responsabilità dello statista circa il futuro La lungimiranza dell’uomo di stato consiste, quindi, nella saggezza e nella moderazione che egli dedica al presente. Quest’ultimo non sussiste in vista di un futuro diverso ma, destino permettendo, dà buona prova di sé in un futuro identico. La durata risulta essere una conseguenza collaterale di ciò che è bene ora e in ogni tempo. L’agire politico presenta perciò un raggio di incidenza e responsabilità più ampio di quello privato, ma la sua etica nell’accezione premoderna è etica della presenza, anche se si applica a una forma di vita di più lunga durata. L’utopia moderna Nella politica dell’utopia moderna compare un’escatologia dinamica della storia prima sconosciuta seppure preparata dalle escatologie religiose pre-moderne. Nel Messianismo, p. es., si riproduce quanto accadeva a livello individuale nelle etiche religiose moderate o anche in quelle estreme. L’utopia moderna (2) Soltanto con il progresso moderno, come fatto e idea, sorge la possibilità di concepire ciò che è precedente come un gradino verso l’attuale e ciò che è attuale come gradino verso il futuro. + escatologia secolarizzata che assegna all’assoluto immanentizzato un posto finito nel tempo + idea di una dinamica teleologica del processo che conduce allo stato definitivo = premesse concettuali per la politica utopica L’utopia moderna (3) Heinrich Heine: «Edificare il regno dei cieli sulla terra» Anche senza un’idea precisa di che cosa sia questo regno dei cieli terreno, noi disponiamo però di una concezione degli eventi umani che «mediatizza radicalmente tutto il passato, ossia lo condanna alla provvisorietà, privandolo della sua validità autonoma o rendendolo nel migliore dei casi un veicolo per il conseguimento dell’autentico che deve ancora venire, facendone cioè un mezzo per il fine futuro, il solo ad essere valido» (Jonas, cit., p. 23). La filosofia marxista della storia Per l’etica dell’azione marxista non risultano più veri i due caratteri dell’etica tradizionale della presenzialità e della costanza della natura umana. L’agire ha luogo in vista di un futuro che né gli attori né le vittime né i contemporanei si godranno. L’etica dell’escatologia rivoluzionaria considera se stesa come etica della transizione, mentre l’etica autentica (sostanzialmente ignota) le subentrerà a pieno diritto solo quando ne avrà creato le condizioni attraverso la propria autoeliminazione L’etica marxista del futuro Si dà dunque già il caso di un’etica del futuro, così caratterizzata per 1) portata previsionale; 2) arco temporale della responsabilità assunta, 3) estensione dell’oggetto: l’intera umanità; 4) intensione dell’oggetto: l’intero essere dell’uomo futuro; 5) seria considerazione dei poteri della tecnica N.B. di Jonas 1) Il potere della tecnica sul destino umano ha superato persino quello del comunismo che, al pari del capitalismo, pensava semplicemente di potersene servire. 2) L’etica del futuro di cui Jonas è alla ricerca, a differenza di quella capitalistica e di quella comunista, che pure hanno a che vedere con le potenzialità utopiche della tecnica, non è escatologica, anzi è anti-utopica del tutto, in un senso però ancora da precisare. L’uomo in quanto oggetto della tecnica Le nuove forme e dimensioni dell’agire nell’età della tecnica esigono un’etica della previsione e della responsabilità in qualche modo proporzionale alle eventualità con cui ha a che fare. L’homo faber rivolge la sua techne non soltanto all’ambito non-umano, ma anche a se stesso, apprestandosi a riprogettare con ingegnosità l’inventore e l’artefice di tutto il resto, fino a preannunciare il superamento dell’uomo stesso. Mai prima d’ora il pensiero etico s’era trovato a prendere in considerazione la scelta di alternative a quelli che erano considerati i dati definitivi della costituzione umana. Carattere utopico del nostro agire nell’età della tecnica Il potere tecnologico, in base al tipo e all’ordine di grandezza dei suoi effetti a valanga, ci fa avanzare verso obiettivi di un genere in precedenza peculiare alle utopie. Infatti, il potere tecnologico ha trasformato quelli che solevano essere giochi sperimentali e forse illuminanti della ragione speculativa, in progetti concorrenti di iniziative da attuarsi, optando per le quali ci troviamo a scegliere fra gli estremi di conseguenze a lungo termine e in larga parte sconosciute, ma del cui intrinseco estremismo siamo informati: essi concernono lo stato complessivo della natura sul nostro pianeta e la specie delle creature che lo debbono o meno popolare. Carattere utopico del nostro agire nell’età della tecnica (2) Viviamo continuamente all’ombra di un utopismo non voluto, intrinseco, automatico e siamo perciò continuamente alle prese con opzioni su prospettive ultime che richiedono somma saggezza. Ma ciò è impossibile per l’uomo in generale e ancora di più per l’uomo contemporaneo, che vive la costante riduzione della salutare distanza fra questioni quotidiane, di comune prudenza e questioni ultime, di saggezza illuminata ed è inoltre orientato a negare l’esistenza dell’oggetto di tale somma saggezza, cioè il valore assoluto e la verità oggettiva. Carattere utopico del nostro agire nell’età della tecnica e nuova etica A causa del carattere utopico del nostro agire attuale, la nuova etica richiede un nuovo genere di umiltà, «riserbo responsabile», indotta non dalla limitatezza ma dell’eccesso del nostro potere di fare, «potenziale quasi escatologico dei nostri processi tecnici», rispetto al nostro potere di prevedere, «ignoranza circa le conseguenze ultime» e di valutare e giudicare. Carattere utopico del nostro agire nell’età della tecnica e nuova politica Sorge il dubbio, nella prospettiva di una nuova etica della responsabilità per un futuro lontano e della sua legittimazione, che il governo rappresentativo non possa bastare a soddisfare, in base ai suoi principi e con i suoi procedimenti normali le nuove richieste. Infatti, negli attuali governi rappresentativi, soltanto gli interessi presenti acquistano voce, facendo valere il proprio peso ed esigendo considerazione. Questo è il modo in cui concretamente i diritti trovano riconoscimento. Carattere utopico del nostro agire nell’età della tecnica e nuova politica (2) Il ‘futuro’ non è dunque rappresentato in alcun organo collegiale né è una forza che possa ‘gettare il proprio peso’ sulla bilancia. Ciò che non è esistente non possiede nessuna lobby e i non nati sono impotenti. Il rendiconto dovuto a questi ultimi non è ancora una realtà politica nell’attuale processo decisionale e quando essi lo potranno esigere, noi, i colpevoli, non ci saremo più! Carattere utopico del nostro agire nell’età della tecnica e nuova politica (3) Quale forza deve rappresentare il futuro nel presente? Prima ancora che venga all’ordine del giorno la questione della attuazione pratica di una qualunque politica, scaturente dalla nuova etica, quest’ultima deve trovare la sua teoria, sulla quale si possano fondare gli imperativi e i divieti e un sistema di «devi» e «non devi». Prima della questione: quale potere esecutivo o d’indirizzo viene la questione: quale intuizione o quale sapere valutativo deve rappresentare il futuro nel presente? Il vuoto etico «È questo il punto in cui resto bloccato e dove tutti ci incagliamo», riconosce Jonas. Infatti proprio quel movimento del sapere moderno nella forma delle scienze naturali, che ci ha messo in possesso di quelle forze, il cui impiego deve ora essere normato, ha spazzato via, con un’ineluttabile complementarietà, i fondamenti da cui si erano potuto dedurre le norme, distruggendo anzi la stessa idea di norma. Il vuoto etico (2) Non è scomparso il senso normativo ed esso può ancora applicarsi a determinate norme. Sta però diventando sempre più insicuro, mancando dell’appoggio di un sapere che lo sanzioni e dovendo fronteggiare le clamorose pretese dell’avidità e della paura. Inoltre, risulta infondato e infondabile sul piano della superiorità del sapere tecnologico, che ha saputo neutralizzare, in rapporto al valore, prima la natura e poi l’uomo stesso. Il vuoto etico (3) Conclude Jonas: «Ora tremiamo nella nudità di un nihilismo nel quale il massimo potere si unisce al massimo di vuoto, il massimo di capacità al minimo sapere intorno agli scopi». La questione religiosa Senza ristabilire la categoria del sacro, distrutta radicalmente dall’illuminismo scientifico, possiamo disporre di un’etica capace di imbrigliare le forze estreme, che possediamo e continuiamo, quasi coattivamente, ad acquisire e esercitare? La paura potrebbe svolgere una funzione deterrente, ma solo per le conseguenze a breve termine, che potrebbero coinvolgerci. Soltanto il timore della trasgressione del sacro è indipendente dai calcoli della paura e dal conforto dell’incertezza delle conseguenze ancora lontane. Necessità della morale Ma, mentre si può dire della religione, quale dato di fatto che determina l’uomo, che esiste o meno, l’etica si trova nella necessità di esistere perché gli uomini agiscono e l’etica mette ordine nelle azioni e regola il potere di agire. È però soltanto sotto la pressione di effettive abitudini d’azione e in generale della circostanza che comunque si agisce senza che lo si debba imporre, che l’etica entra in scena quale istanza regolatrice sotto la guida del bene e del lecito. Necessità della nuova morale Tale pressione prende oggi le mosse dalle nuove potenzialità tecnologiche dell’azione, il cui esercizio consegue alla loro esistenza. Si cerca perciò un’etica che sia in grado di affermare la sua validità teoretica nei confronti dell’agire tecnologico e poi di assumerne la direzione. Infatti si è appurato sia che l’agire collettivo-cumulativotecnologico è di tipo nuovo per quanto riguarda gli oggetti e le dimensioni sia che non è più neutrale sotto il profilo etico, in virtù delle sue conseguenze che sono indipendenti d ogni intenzione diretta.