L’intervento dello Stato per risolvere i fallimenti del mercato QUANDO IL BENESSERE CONTA… 1 Dalla public choice all’economia del benessere Nella visione dell’economia del benessere al centro vi è sempre l’individuo, tuttavia il metodo diventa induttivo, cioè parte dall’osservazione dei risultati dell’azione/non azione dello Stato Infatti, anche se molti aspetti devono essere lasciati alla libera azione del mercato, quest’ultimo non sempre riesce ad allocare le risorse in maniera efficiente; in questi casi le istituzioni politiche devono sostituirsi al mercato, individuando una serie di fallimenti di mercato da risolvere 2 Sono questi i fallimenti che lo Stato corregge attraverso le politiche di riforma strutturale A cosa dovrebbero servire le riforme strutturali? (vedi anche Jobs Study, OCSE, 1994) 3 4 I fallimenti del mercato(continua) 5 I fallimenti del mercato(continua) 6 Il fallimento del mercato e l’intervento dello stato Il fallimento del mercato produce quindi sempre un danno sociale che può essere ridotto con l’intervento dello Stato Questione CHIAVE: qual è il criterio più appropriato per stabilire l’utilità dell’intervento dello Stato? Abbiamo già visto che nel caso dell’intervento pubblico il criterio paretiano non è il più adatto (l’azione economica va intrapresa solo se offre la possibilità di migliorare la posizione anche di un solo individuo, senza peggiorare quella di nessun altro) è invece tipica la contrapposizione con il miglioramento della situazione di qualcuno e il peggioramento di quella altrui (teoria dei giochi con equilibrio di Nash) Il criterio che si adotterà quindi sarà quello che consente di scegliere tra le varie possibilità quelle politiche che massimizzano i benefici rispetto ai costi (valutazione costi-benefici) 7 Costi-Benefici, Fallimento dello Stato e beni Il metodo costi-benefici non può tuttavia prescindere dalla possibilità che lo stato fallisca nel suo intento e questo può avvenire per molteplici cause: Distorsione organizzativa (sostituzione di benefici pubblici con benefici privati) Mancanza di un legame diretto tra introiti fiscali e spesa pubblica Le azioni del governo possono produrre a loro volta un effetto negativo sul sistema economico I beni sociali possono poi comportare l’escludibilità di altri individui dal consumo o comportare la rivalità nel consumo contemporaneo ad altri, riducendone l’ammontare disponibile 8 Tipologia di beni sociali Abbiamo così il quadro dei beni (o servizi) sui quali lo Stato può intervenire 9 L’intervento dello Stato nella produzione dei beni sociali 10 POLITICHE MICROECONOMICHE Il Fallimento Allocativo: L’EFFICIENZA STATICA E IL POTERE DI MERCATO. Cellini: Capitolo 6 e 7 11 Concorrenza perfetta p O i) il benessere sociale coincide con il surplus dei consumatori; ii) le imprese: a) producono un bene perfettamente omogeneo; b) non registrano alcun surplus perché hanno profitti nulli; c) sono price taker; iii) nel lungo periodo non vi sono barriere di sorta all'entrata e all'uscita di imprese nel mercato; iv) le imprese e i consumatori hanno un’informazione perfetta. Surplus dei consumatori S pc c O’ qc q 12 EFFICIENZA PARETIANA ED EQUILIBRIO IN CONCORRENZA PERFETTA: IL I TEOREMA DELL’ECONOMIA DEL BENESSERE Esiste un legame stretto tra efficienza paretiana ed equilibrio in un mercato di concorrenza perfetta applicazione del concetto della “mano invisibile”. I teorema fondamentale dell’economia del benessere: “in un sistema economico di concorrenza perfetta nel quale vi sia un insieme completo di mercati, un equilibrio concorrenziale, se esiste, è un ottimo paretiano”. Da notare la rilevanza che assume l’assunto della completezza dei mercati. Il I teorema dell’economia del benessere non ha portata propositiva. Definisce il concetto di efficienza allocativa 13 EFFICIENZA ED EQUITÁ: IL II TEOREMA DELL’ECONOMIA DEL BENESSERE L’ottimo paretiano non garantisce la condizione di equità; può essere cioè non desiderabile. Il pianificatore sociale può ovviare ad un rischio simile? Si Il secondo teorema dell’economia del benessere recita: “se sono rispettate alcune condizioni relative alle funzioni di utilità individuali e di produzione (insiemi di preferenze e di produzione convessi), in presenza di mercati completi, qualsiasi posizione di ottimo paretiano può essere realizzato come equilibrio concorrenziale, previa un’adeguata distribuzione delle risorse (o dotazioni iniziali) tra gli individui”. Il II Teorema è interpretato come un metodo di divisione dei compiti in capo allo Stato e al mercato. Definisce il ruolo dello Stato: garantire un’equa distribuzione (rispetto alle posizioni finali) 14 IL CONCETTO DI FALLIMENTO Qualora uno dei presupposti della concorrenza venga meno e nell’ipotesi in cui i mercati non siano completi, si parla di fallimenti del mercato microfondati. Tali fallimenti presuppongo un intervento da parte delle autorità statali. 15 L’efficienza allocativa (statica) Inoltre, anche quando le interazioni tra privati non riescono a raggiungere un equilibrio efficiente si ha un fallimento (strategico), come risolverlo? Regolamentazione di prezzi e quantità Legislazione antitrust Politiche per esternalità e beni pubblici Politiche ambientali 16 Efficienza economica e benessere sociale: un riassunto Il benessere sociale è dato dalla somma del surplus dei produttori (i.e. la somma dei profitti di ciascun produttore) e del surplus dei consumatori (i.e. la somma della differenza tra il prezzo che ciascun consumatore sarebbe disposto a pagare ed il prezzo pagato). Una modifica dei prezzi incide sia su ciascuno degli addendi ma che sulla somma. Il benessere sociale è al suo minimo in presenza di un prezzo monopolistico, mentre è al suo massimo in un prezzo di concorrenza perfetta 17 Potere di mercato e benessere sociale Il potere di mercato è la capacità di un’impresa di aumentare il prezzo al di sopra del costo marginale Il potere di mercato incide su: efficienza allocativa: all’aumentare del potere di mercato aumenta la perdita di benessere sociale (caso estremo: Monopolio); efficienza produttiva (la concorrenza seleziona le imprese efficienti – ipotesi darwiniana – offrendo incentivi a ridurre i costi); efficienza dinamica (in monopolio vi è incentivo ad innovare solo se i profitti addizionali sono superiori ai costi; tuttavia, se vi è troppa concorrenza, può ridursi la capacità di innovare delle imprese). 18 Monopolio Forma di mercato in cui un’unica impresa offre un prodotto per il quale non esistono sostituti stretti. I fattori che determinano la nascita di un monopolio possono essere: Possesso di conoscenze particolari (segreto industriale) controllo esclusivo di input fondamentali; economie di scala (monopolio naturale); Brevetti, segreti commerciali; Tecnologia (costi fissi medi alti) licenze governative o appalti. 19 Inefficienza allocativa del monopolio Per massimizzare i profitti, il monopolista sceglie il livello di prezzi in cui: p O RMg = CMg Surplus consumatori pm R Rendita Surplus dei di consumatori monopolio T Perdita di benessere RMg>CMg e RMg < RMg non sono un equilibrio possibile S pc c O’ qm qc q 20 Inefficienza produttiva del monopolio (Managerial slackness) p O p’m pm p’c “The best of all monopoly profits is quiet life”* Surplus consumatori Surplus R’ consumatori R Rendita di monopolio Surplus V dei consumatori T’ T W Perdita di benessere S l’ipotesi è che in assenza di pressione competitiva, il monopolista non abbia incentivi ad adottare una tecnologia efficiente; i suoi CMg sono superiori a quelli di imprese in concorrenza perfetta. pc c O’ q’m qm qc q 21 *J. Hicks, The theory of monopoly, 1935 Rent seeking e inefficienza del monopolio Per Posner*, il rent seeking dissipa l’intero profitto del monopolista p O p’m pm p’c Le sua assunzioni sono: 1. le spese sostenute per acquisire e mantenere la posizione di monopolio eguagliano il valore del profitto atteso R’ derivante dalla posizione di monopolio; R 2. tali somme costituiscono un’inutile spreco di risorse. Surplus consumatori Rendita di monopolio V T’ W T Perdita di benessere Esempio: Industria Farmaceutica in Italia S pc c O’ q’m qm qc q 22 *R. Posner, The social cost of monopoly and regulation, 1975 Dal Monopolio all’Oligopolio: l’aumento della concorrenzialità, come fare? Indurre cambiamenti nei monopoli attraverso la concorrenza tra imprese: l’oligopolio, un esempio Che senso ha trasportare le acque minerali del Piemonte in Calabria e viceversa? (ragionamento di Beppe Grillo)….(*) Ha molto senso, perché la concorrenza aumenta→ maggior numero d’imprese e maggiore vicinanza all’efficienza allocativa, quali modelli esistono? Oligopolio à la Bertrand (solo 2 imprese: “2 è un numero grande per la concorrenza”): le imprese fissano i prezzi e la concorrenza è indotta dal fissare un prezzo più basso della rivale e prendersi tutto il mercato, ma se l’equilibrio esiste è quello concorrenziale Contendibilità (anche solo 1 impresa, ma “hit and run”) (*) si veda: IL MERCATO di Giuseppe Bertola, (http://www.lavoce.info/archives/23368/il-mercato/ , 28.12.2005) 23 Inefficienza statica: come risolverla? 1. Regolamentazione (sì monopoli, ma occorre): 2. 3. 4. Regole sulla Quantità Regole sulla Qualità Regole sul Prezzo (= costo medio, se monopolio naturale): regola del price-cap (es. prezzo autostrade, ferrovie, ecc.) Limite superiore al tasso di rendimento del capitale Concorrenza per il monopolio: asta (Demsetz, 1968) Contendibilità (Contestable markets, Baumol et al.1982) Statalizzazione (monopoli pubblici), a cui è seguita→ PRIVATIZZAZIONE Liberalizzazione (no monopoli/vendita di quelli pubblici) Legislazione antitust 24 Le misure per attuare la regolamentazione LA DIMENSIONE DEL MERCATO E DELL’IMPRESA E LE REGOLE 25 La scuola di Harvard e l’efficienza Si propone il paradigma strutture-condotterisultati le barriere all’entrata, l’economia di scala, le asimmetrie informative e i sunk cost, sono l’origine della formazione di mercati oligopolistici/monopolistici essi portano alla formazione di prezzi superiori a quelli di concorrenza e, quindi, a rendite per le imprese Occorre regolamentare tali mercati, riducendo i fattori che impediscono il raggiungimento dell’efficienza: tra concentrazione ed extraprofitti 26 vi è una correlazione diretta molto stretta Occorre avere innanzitutto delle misure per definire la dimensione del mercato… Come misurare il livello di concorrenza? Occorre una misura del risultato economico per confrontarlo con quello concorrenziale: Quanto potere di mercato esercitano le imprese (nel settore o nell’industria)? Quali sono i fattori che determinano il potere di mercato? Tasso di rendimento (profitti x ogni lira investita) Margine prezzo-costo (mark-up) Rapporto tra valore di mercato e costo di sostituzione delle attività (q di Tobin) Inoltre serve conoscere il grado di concentrazione (struttura del mercato): poche imprese = grande quota della domanda indice di Herfindal-Hirschman= somma del quadrato quote mercato Rapporto di concentrazione = solitamente la quota delle vendite delle prime 4 o 8 imprese del settore (C4 o C8) 27 Struttura-Comportamento-Performance (Bain, 1951): Paradigma industriale tradizionale (scuola di Harvard) Quesiti di base: 1) le imprese hanno potere di mercato? 2) come fanno ad acquisirlo e a mantenerlo? 3) quali sono le conseguenze del potere di mercato? 4) le politiche pubbliche possono risolvere i problemi generati dal fatto che le imprese detengono un certo grado di potere di mercato? Struttura: fattori che determinano il grado di concorrenzialità del mercato (ad es.: il livello della concentrazione), che a sua volta determina il Comportamento: condotta delle imprese nel mercato, che influisce sui Risultati economici: capacità del mercato di produrre benessere per i consumatori (ad es.: i prezzi si avvicinano al costo marginale di produzione) 28 Vediamo questo modello interpretativo: le diverse strutture, i diversi comportamenti e risultati economici Comportamento Risultato 29 Il risultato economico La misurazione dei risultati economici consente di quantificare il potere di mercato Cosa si misura: il tasso di profitto ⇒ ad es.: rapporto tra tasso di rendimento (ROI, ecc.) e profitti economici (p = Ricavi – costi del lavoro costi dei materiali - costi del capitale), margine di profitto unitario: (p - MC) o mark-up (p – MC)/p (Lerner); Indice di Lerner ⇒ media ponderata dei margini di profitto di ciascuna impresa, con pesi proporzionali alle rispettive quote di mercato la q di Tobin ⇒ rapporto tra valore di mercato dell’impresa e il suo valore basato sul costo di sostituzione del suo capitale fisso (costo di lungo periodo che deve essere sostenuto per acquistare un bene capitale di qualità analoga). 30 Un esempio di q di Tobin Rapporto fra la somma dei valori di mercato di azioni e obbligazioni di un’impresa e il valore di rimpiazzo (o ricostituzione) degli attivi necessari al funzionamento dell’impresa stessa. Un valore di q>1 indica da un lato la vantaggiosità di effettuare investimenti nell’impresa, dall’altro una potenziale sopravvalutazione rispetto al valore equilibrato q=1 31 Le misure della concentrazione La misura della concentrazione può essere in generale rappresentata da una somma delle quote di mercato detenute dalle singole imprese, ponderate in funzione delle dimensioni relative di queste ultime. Ciò può essere espresso come segue: dove: C è la misura della concentrazione; si è la quota di mercato dell'impresa i-esima (con si>0 e s i 1; e i h(si) è la ponderazione attribuita alla quota di mercato dell’impresa i-esima. 32 Come definiamo l’indice di Lerner? Indice di Lerner: formula 33 Strutture di mercato e misure Con le misure della struttura di mercato si esamina la variazione dei risultati economici al variare della struttura Cosa si misura: la concentrazione industriale; la concentrazione degli acquirenti ⇒ la concentrazione delle imprese acquirenti può controbilanciare il potere dei venditori e spingere i prezzi verso il basso le barriere all’entrata ⇒ se restano sostanziali nel lungo periodo, i prezzi tenderanno a fissarsi a livelli superiori a quelli concorrenziali; il grado di sindacalizzazione ⇒ in un’industria sindacalizzata, i lavoratori si assicurano una quota dei profitti, attraverso salari più elevati, provocando per questa via un aumento dei prezzi. 34 La quota di mercato Quota di mercato (prodotti omogenei) ⇒ in unità fisiche: se q è un prodotto omogeneo, e qi è l’output dell’impresa i-esima in un certo periodo di tempo (anno), e Q è l’output nazionale (mondiale) nello stesso periodo, allora la quota i del mercato nazionale (mondiale) sarà: si = qi/Q: C4 rappresenta la quota di mercato delle prime 4 imprese C8 la quota delle prime 8 (si veda la tabella seguente per un esempio di relazione tra struttura e risultato) 35 C’è una relazione tra misure di concentrazione e risultato economico 36 L’indice di Herfindal Hirschman (HHI index) L’HHI è un’ulteriore misura della concentrazione ed è pari alla somma dei quadrati delle quote di mercato di ciascuna impresa Esempio: consideriamo un mercato nel quale siano 3 le imprese a coprire rispettivamente il 50%, il 30% e il 20% del mercato. L’HHI è pari a: 3800= 2500+900+400 37 Valori per diversi indici di concentrazione nell’industria manifatturiera 38 Le regole e le misure La disponibilità di misure atte a definire il tipo di inefficienza presente nel mercato induce il regolamentatore ad intervenire attraverso politiche che definiremo di antitrust e che tratteremo in seguito come conseguenza della trasformazione storica del sistema produttivo italiano Il grado di intervento sarà guidato dalla misura della perdita di efficienza, di cui il grado di concentrazione del mercato è una buona approssimazione, come già sottolineato In questo contesto trattiamo invece una tipologia di interventi suggeriti dagli economisti della scuola di Chicago, per i quali non c’è correlazione diretta tra concentrazione ed extraprofitti e per garantire l’esistenza di monopoli con un grado di efficienza maggiore bastano i mercati contendibili 39 Regole del mercato contendibile 1. 2. 3. Le imprese che vogliono entrare in questo mercato non devono essere svantaggiate rispetto a quelle che già vi operano: accesso alle medesime tecnologie e informazioni, agli stessi prezzi degli input produttivi (materie prime, tecnologie, componenti, forza lavoro, energia, risorse finanziarie ecc.) disponibili per le aziende già sul mercato. Più in generale, non vi devono essere barriere all’entrata. non vi devono essere sunk cost, costi non recuperabili, né costi di uscita dal mercato stesso. è necessario che il periodo di tempo che occorre a una nuova azienda per entrare nel mercato sia inferiore a quello che le imprese già presenti possono impiegare per adeguare i propri prezzi. Se tutte queste condizioni sono soddisfatte, le imprese che operano sul mercato non potranno fare altro che comportarsi come se si trovassero in un mercato in concorrenza perfetta. 40 I monopoli non sono sempre inefficienti: il monopolio naturale …Potrebbe essere soddisfatta una quota maggiore di domanda Il monopolio naturale può conseguire la soluzione di second best senza intervento pubblico quando 41 opera in un mercato 'contendibile', ovvero un mercato in cui è possibile per qualunque impresa entrare e uscire senza costo. Ovvero quando vi sia una minaccia credibile di concorrenza. Regolamentazione: La teoria dei mercati contendibili* (1) Un mercato è contendibile quindi, solo quando le imprese operanti non possono opporre ai contendenti potenziali alcuna barriera strategica o legale o di altro tipo (mano invisibile debole): ... C(q, t ) C ( t ) C (q, t ) con C ( t ) 0 0 0 s 0 n 0 s Sunk cost l’unico modo per impedire l’entrata è rendere il mercato poco attraente fissando prezzi sostenibili La concorrenza potenziale impedisce di esercitare il potere di mercato Se il mercato è contendibile, anche la presenza di una sola impresa non determina perdita di benessere sociale *W.J. Baumol- J.C. Panzar- R.D. Willig, Contestable markets and theory of industry structure, 1982 42 La teoria dei mercati contendibili (2) Condizioni di contendibilità (concorrenza hit & run) I concorrenti potenziali possono entrare nel mercato applicando un prezzo inferiore a quello praticato dall’impresa/e operante/i (cioè p=Cme), ed uscire prima che l’impresa/e operante possa reagire causando loro delle perdite (cioè t>t0 ); inoltre... i consumatori devono reagire istantaneamente alle variazioni di prezzo; l’entrante non deve sopportare costi non recuperabili (sunk cost) nel periodo t0; almeno per un certo lasso di tempo, l’impresa operante non può reagire all’entrata abbassando il prezzo al di sotto di quello praticato dall’entrante (= credibilità con t>t0 dove t è il tempo necessario per cambiare il prezzo da parte dell’incumbent). 43 Qual è il ruolo del regolamentatore? La teoria dei mercati contendibili suggerisce che il regolatore dovrebbe consentire l'entrata anche in un mercato di monopolio naturale. Infatti tale teoria sostiene che il compito del regolatore non è controllare i prezzi e le decisioni di produzione dell'incumbent (no attività antitrust), ma realizzare politiche che assicurino le condizioni per la contendibilità ossia libertà di entrata, uscita senza costi e lenta variazione dei prezzi da parte dell'incumbent in risposta all'entrata. La realtà ha dimostrato che questa teoria non è completamente valida, poiché le barriere esisstono 44 Dalla teoria positiva a quella normativa: DALLA NAZIONALIZZAZIONE ALLE POLITICHE ANTITRUST 45 La nazionalizzazione in Italia: soluzione alternativa 1. 2. 3. In questo sistema possiamo evidenziare 3 livelli di governo: alla base la società per azioni il cui capitale è detenuto principalmente dal pubblico (via IRI, ente di diritto pubblico) l’ente pubblico di gestione, che si posiziona ad un livello intermedio, ed esercita un’attività di direzione tecnica nei confronti delle società partecipate, Il livello superiore è quello politico, cioè è il ministero (MEF) che nomina i vertici degli enti pubblici, quindi esercita una direzione politica 46 delle holding con il potere di nomina. Le imprese a partecipazione pubblica sono state raggruppate in holding: l’IRI controllava le partecipazioni industriali, bancarie, finanziarie e altri servizi; l’EFIM controllava le partecipazioni nei settori metallurgico e meccanico; l’ENI quelle petrolifere, tessili e petrolchimiche, l’EAGG le imprese del settore cinematografico, l’EAGAT le imprese nel settore termale e l’EGAM le imprese nel settore minerario Oggi invece: vedi moodle le partecipate 47 … ad oggi nulla è cambiato a parte la forma societaria 48 Le cause che hanno portato alla privatizzazione in Italia: 1990 La normativa comunitaria che induce gli stati membri alla comunità europea ad attuare procedure di liberalizzazione dei mercati, ma non obbliga gli Stati alla privatizzazione anzi cerca di promuovere la presenza nel settore di più società, senza che nessuna possa ricevere aiuti dallo stato; la necessità dello stato di far cassa, e quindi di privatizzare le società con un rendimento migliore per far sì che si riduca sostanziosamente il grande debito statale pregresso (Relazione al Parlamento); la diffidenza nei confronti dello Stato che proprio negli anni ’90 era aumentata vertiginosamente, per i diffusi fenomeni di corruzione; favorire un azionariato diffuso nella popolazione, proprio come viene scritto nell’art. 47 della Costituzione italiana. 49 Condizioni per le privatizzazioni Nel marzo del 1990, sorse una Commissione per il riassetto del patrimonio mobiliare pubblico e per le privatizzazioni che stabilì un documento atto a determinare le condizioni per l’adozione di una prima misura governativa per definire le regole generali delle privatizzazioni. Successivamente vennero emessi una seri di atti normativi riguardanti la privatizzazione, tra cui: il D.L. n 386, convertita nella legge 5 del 1992, che riconosceva agli enti la possibilità di trasformarsi in Spa, ma tale legge non riscontra molto successo dal punto di vista pratico. il D.L. n. 333, convertito nella Legge 8 agosto 1992, n. 359, si è avuta la trasformazione dell’IRI, l’ENI, l’ENEL e l’INA in società per azioni con assegnazione delle azioni al Ministero del Tesoro che si vide attribuire anche le azioni della Bnl Spa e dell’IMI spa (decreto Amato). 50 La trasformazione in SpA Il 25 marzo 1992 il CIPE stabilì che la trasformazione degli enti in società per azioni rappresentava “la prima fase di un più complesso processo di privatizzazione che prevede il successivo collocamento sul mercato di quote del settore pubblico dell’economia”. Queste disposizioni produssero un cambiamento della missione degli ex-enti di gestione, spostando l’obiettivo del management verso la conduzione degli affari con “criteri di economicità ed efficienza secondo le regole del mercato” 51 Privatizzazione non significa liberalizzazione… La privatizzazione formale non avvia la liberalizzazione del mercato, infatti IRI, ENEL e ENI operano in regime di concessione con durata almeno ventennale, quindi le nuove SpA continuano a fare quello che faceva l’organismo pubblico, in sostanza si è avviata la privatizzazione ma con essa non si era dato luogo alla nascita del relativo mercato. 52 Verso una maggiore concorrenzialità? 53 Oggi a che punto siamo? Nel DPEF 2010-13 si rilevano ancora alcune possibilità di alienazione di parti di aziende ancora in quota al Ministero dell’Economia La Cassa Depositi e Prestiti provvede in parte alla gestione delle aziende partecipate Nel nuovo DEF 2014 (Documento di Economia e Finanza, p. 51) si prevedono la cessione del 40% di Poste Italiane, del 49% (max) di ENAV, del pacchetto di partecipazione nella holding STH della STMicroelectronics e di proprietà detenute da società controllate indirettamente come CDP e Ferrovie dello Stato. Oggi: http://www.dt.mef.gov.it/it/attivita_istituzionali/privatizzazi oni/ 54 Gli effetti economici Il processo di privatizzazione italiano ha contribuito significativamente al risanamento dei conti pubblici, all'accrescimento delle dimensioni del mercato finanziario, al rilancio delle imprese in corso di privatizzazione e alla minor presenza dello stato nell'economia. L'utilizzo degli incassi delle privatizzazioni per l'abbattimento del debito pubblico ha contribuito a ridurre di circa 20.000 miliardi la spesa per interessi sul debito pubblico. … ma anche a ridurre il numero di occupati (naturale conseguenza per un monopolio/oligopolio privato) Infine il monopolio non è sempre un male… ma… 55 Una valutazione di sintesi (Boitani e Grillo): (i) privatizzazioni ed efficienza Le privatizzazioni si sono accompagnate ad aumento dell’efficienza gestionale, del fatturato, della redditività e dei dividendi … le imprese finanziarie (almeno fino alla crisi) e le società di cui lo Stato ha ceduto il controllo hanno recuperato redditività. … ma non sono state fattore di sviluppo: non c’è evidenza di mutamento nella struttura patrimoniale, negli investimenti, nell’occupazione: soprattutto nelle imprese che operano in settori protetti e/o su cui lo Stato ha mantenuto il controllo il recupero di redditività si è risolto in ampia misura in aumento dei dividendi. 56 Una valutazione di sintesi: (ii) privatizzazioni e mercati finanziari Il peso delle imprese privatizzate supera il 60% della capitalizzazione di Borsa. Nelle società privatizzate la dispersione degli azionisti è più ampia di quella della maggiori società quotate … … ma nessuna società privatizzata è diventata una public company: il controllo è dello Stato o di un azionista privato (spesso con quote di minoranza). 57 Una valutazione di sintesi: (iii) privatizzazioni e finanza pubblica E’ stata sempre presente l’esigenza di «fare cassa»: le società privatizzate sono state vendute a prezzi alti, scontando le attese di rendite di monopolio. I proventi complessivi delle privatizzazioni hanno contribuito alla estinzione di ca. il 9% del debito pubblico. Nel secondo periodo, i dividendi allo Stato hanno rappresentato fonte rilevante di entrate correnti. 58 Dalla statalizzazione alla privatizzazione: politiche antitrust I costituendi monopoli/oligopoli privati hanno bisogno di essere regolamentati Le politiche della concorrenza o politiche antitrust sono finalizzate a questo obiettivo e comprendono: l’insieme delle norme ed azioni volte ad assicurare che la concorrenza sul mercato non sia ristretta in modo tale da portare detrimento alla collettività, cioè da ridurre il benessere sociale complessivo. Il punto di riferimento ideale è l’allocazione ottimale delle risorse, con relativo massimo del benessere sociale, ottenibile dall’equilibrio in un mercato di concorrenza perfetta (CP). l’ideale della CP serve come metro di giudizio per valutare i diversi esiti di mercato del mondo reale, non come traguardo effettivo di policy-making 59 Politiche della concorrenza L’approccio corretto è quello di comparare i diversi assetti istituzionali, spontanei e non, del mercato e scegliere quello che massimizza il benessere come soluzione di second best. Quali gli obiettivi? Preservare il corretto funzionamento del mercato (no accordi o intese tra imprese) Contrastare l’abuso di posizione dominante Es: discriminazione di prezzo Barriere all’entrata Imposizione di clausole contrattuali vessatorie Impedire acquisizioni e fusioni di imprese che portino alle concentrazioni industriali 60 Fonti normative di competition policy In USA: Sherman Act 1890 §1: restraint of trade; §2: monopolization. Clayton Act 1914: 4 principi chiave che vietano discriminazioni di prezzo Abuso di posizione dominante Acquisizioni e fusioni Di dirigere due società che comportano la violazione della concorrenza. In Europa: Trattato di Roma 1957 e successivi Art.2: concorrenza come strumento per il benessere dei cittadini europei; Art.81: accordi verticali tra imprese; Art.82: abuso di posizione dominante. In Italia: Legge 287/1990 "Norme per la tutela della concorrenza e del 61 mercato” istitutiva dell’AGCM (Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato) Perché combattere i monopoli Il primo e principale motivo per cui le politiche per la concorrenza cercano di contrastare la formazione di monopoli è per evitare la DWL connessa al monopolio. In realtà, sul piano del benessere sociale, la presenza di un monopolio comporta due effetti: Effetto distributivo: spostamento di welfare da SC a SP (Surplus del Produttore) Effetto allocativo: riduzione del benessere totale DWL Tale effetto lo si può considerare anche come prodotto da uno “sviamento” di risorse rispetto al first best della CP. 62 Perché combattere i monopoli (2) L’effetto distributivo è qualcosa di negativo solo se l’obiettivo dell’antitrust è aumentare il SC (surplus del consumatore). Inoltre il monopolio comporta altri due costi, come già rilevato, in termini di benessere sociale che peggiorano la dimensione della perdita allocativa: Managerial slackness (Hicks, 1935) Rent seeking costs (Posner, 1975) 63 Quindi, perché regolare il monopolio Ciò che conta è la causa di esistenza del monopolio, perché il potere di mercato dipende da questo. Se il monopolio esiste perché l’entrata è bloccata, allora l’impresa gode del massimo potere di mercato e quindi si giustifica l’intervento del policy-maker. Se però esiste un monopolio ma il mercato è contendibile, l’intervento non è giustificato perché il potere di mercato di fatto non esiste. Tesi di Chicago: il monopolista in un mercato contendibile è comunque costretto a comportarsi da impresa di concorrenza perfetta se vuole evitare l’ingresso di rivali. Quindi il mercato si autoregola, senza 64 l’intervento pubblico. Una valutazione di sintesi per l’Italia: (iv) privatizzazioni e concorrenza Le privatizzazioni non sono state strumento di liberalizzazione e di allargamento dei mercati concorrenziali: (i) non sono emersi nuovi attori e alcuni operatori industriali hanno riposizionato il business in attività di rent-seeking; la combinazione tra recupero della redditività e «settori protetti» ha di fatto dato luogo a un trasferimento di rendite dallo Stato ai privati; gli elevati dividendi delle società a controllo pubblico (ENI e Enel) evidenziano un conflitto di interesse tra Stato azionista e Stato regolatore; la coincidenza di interessi tra pubblico e privato ha depotenziato il ruolo della regolazione, preservando alti livelli di profittabilità delle imprese; la regolazione è stata in alcuni casi limitata o distorta dalle modalità con cui la privatizzazione è stata realizzata, ovvero dai contratti impliciti 65 stipulati al momento della privatizzazione. Quale «obiettivo» oggi? Se l’obiettivo è la riduzione del debito pubblico, si ripropone il «fare cassa», prevalso nell’esperienza del precedente ventennio; ma con un parziale mutamento di prospettiva. Ciò che conta è vendere imprese potenzialmente lucrose, che possono essere tali per due ragioni: perché (i) (almeno potenzialmente) efficienti; oppure perché (ii) dotate di potere di mercato. Nel secondo caso si ripropone un modello già noto, con il rischio che lo stimolo all’efficienza, anche dopo la privatizzazione, resti debole. Difficile dire qual è il beneficio collettivo di trasferire un monopolio pubblico a un monopolio privato, non sottoposto ad adeguata regolazione. Se si fa leva sull’efficienza potenziale dell’impresa da privatizzare: occorre cambiare la gestione prima della vendita, cercando l’«efficienza» dell’impresa pubblica con modifiche nell’indirizzo di policy e adeguata selezione degli amministratori (il governo Renzi e quello Gentiloni sembrano essersi confrontato con questo punto). Ma privatizzare non è necessario per l’efficienza della gestione, perché farlo? Se l’aumento del flusso atteso dei benefici è indipendente dal controllo, privatizzare ha un senso solo se il tasso di sconto del soggetto pubblico è più alto di quello dei privati (ipotesi difficile da giustificare). Anche in chiave di schemi di partnership pubblico-privata, la letteratura teorica fa leva sulla premessa che il vantaggio del pubblico risiede nella circostanza che il costo delle risorse finanziarie è, per lo Stato, minore che per l’operatore privato. Resta la prospettiva più pessimista: vendere i «gioielli di famiglia» per far fronte, alla fine, a spese correnti. 66 E quindi arriviamo alla prima conclusione rispetto al nostro modello di riferimento 67 Le liberalizzazioni non sono state sufficienti ad aumentare la concorrenza