Il fallimento allocativo e l`economia del benessere File

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L’intervento dello Stato per risolvere i fallimenti del
mercato
QUANDO IL BENESSERE
CONTA…
1
Dalla public choice all’economia del
benessere



Nella visione dell’economia del benessere al
centro vi è sempre l’individuo, tuttavia il metodo
diventa induttivo, cioè parte dall’osservazione
dei risultati dell’azione/non azione dello Stato
Infatti, anche se molti aspetti devono essere
lasciati alla libera azione del mercato,
quest’ultimo non sempre riesce ad allocare le
risorse in maniera efficiente; in questi casi le
istituzioni politiche devono sostituirsi al mercato,
individuando una serie di fallimenti di mercato da
risolvere
2
Sono questi i fallimenti che lo Stato corregge
attraverso le politiche di riforma strutturale
A cosa dovrebbero servire le riforme
strutturali? (vedi anche Jobs Study, OCSE, 1994)
3
4
I fallimenti del mercato(continua)
5
I fallimenti del mercato(continua)
6
Il fallimento del mercato e
l’intervento dello stato




Il fallimento del mercato produce quindi sempre un danno
sociale che può essere ridotto con l’intervento dello Stato
Questione CHIAVE: qual è il criterio più appropriato per
stabilire l’utilità dell’intervento dello Stato?
Abbiamo già visto che nel caso dell’intervento pubblico il
criterio paretiano non è il più adatto (l’azione economica
va intrapresa solo se offre la possibilità di migliorare la
posizione anche di un solo individuo, senza peggiorare
quella di nessun altro) è invece tipica la contrapposizione
con il miglioramento della situazione di qualcuno e il
peggioramento di quella altrui (teoria dei giochi con
equilibrio di Nash)
Il criterio che si adotterà quindi sarà quello che consente di
scegliere tra le varie possibilità quelle politiche che
massimizzano i benefici rispetto ai costi (valutazione
costi-benefici)
7
Costi-Benefici, Fallimento dello
Stato e beni

Il metodo costi-benefici non può tuttavia
prescindere dalla possibilità che lo stato fallisca
nel suo intento e questo può avvenire per
molteplici cause:




Distorsione organizzativa (sostituzione di benefici
pubblici con benefici privati)
Mancanza di un legame diretto tra introiti fiscali e spesa
pubblica
Le azioni del governo possono produrre a loro volta un
effetto negativo sul sistema economico
I beni sociali possono poi comportare
l’escludibilità di altri individui dal consumo o
comportare la rivalità nel consumo
contemporaneo ad altri, riducendone
l’ammontare disponibile
8
Tipologia di beni sociali

Abbiamo così il quadro dei beni (o servizi)
sui quali lo Stato può intervenire
9
L’intervento dello Stato nella
produzione dei beni sociali
10
POLITICHE
MICROECONOMICHE
Il Fallimento Allocativo: L’EFFICIENZA
STATICA E IL POTERE DI MERCATO.
Cellini: Capitolo 6 e 7
11
Concorrenza perfetta
p
O
i) il benessere sociale coincide con il surplus dei consumatori;
ii) le imprese: a) producono un bene perfettamente omogeneo;
b) non registrano alcun surplus perché hanno profitti nulli;
c) sono price taker;
iii) nel lungo periodo non vi sono barriere di sorta
all'entrata e all'uscita di imprese nel mercato;
iv) le imprese e i consumatori hanno
un’informazione perfetta.
Surplus dei
consumatori
S
pc
c
O’
qc
q
12
EFFICIENZA PARETIANA ED EQUILIBRIO IN
CONCORRENZA PERFETTA: IL I TEOREMA
DELL’ECONOMIA DEL BENESSERE

Esiste un legame stretto tra efficienza paretiana ed equilibrio in un
mercato di concorrenza perfetta  applicazione del concetto della
“mano invisibile”.

I teorema fondamentale dell’economia del benessere:
“in un sistema economico di concorrenza perfetta nel quale vi sia un
insieme completo di mercati, un equilibrio concorrenziale, se esiste,
è un ottimo paretiano”.

Da notare la rilevanza che assume l’assunto della completezza dei
mercati.

Il I teorema dell’economia del benessere non ha portata propositiva.
Definisce il concetto di
efficienza allocativa
13
EFFICIENZA ED EQUITÁ: IL II TEOREMA
DELL’ECONOMIA DEL BENESSERE




L’ottimo paretiano non garantisce la condizione di equità; può
essere cioè non desiderabile.
Il pianificatore sociale può ovviare ad un rischio simile? Si
Il secondo teorema dell’economia del benessere recita:
“se sono rispettate alcune condizioni relative alle funzioni di utilità
individuali e di produzione (insiemi di preferenze e di produzione
convessi), in presenza di mercati completi, qualsiasi posizione di
ottimo paretiano può essere realizzato come equilibrio
concorrenziale, previa un’adeguata distribuzione delle risorse (o
dotazioni iniziali) tra gli individui”.
Il II Teorema è interpretato come un metodo di divisione dei compiti
in capo allo Stato e al mercato.
Definisce il ruolo dello
Stato: garantire un’equa
distribuzione (rispetto alle
posizioni finali)
14
IL CONCETTO DI FALLIMENTO
Qualora uno dei presupposti della concorrenza
venga meno e nell’ipotesi in cui i mercati non
siano completi, si parla di fallimenti del mercato
microfondati.
 Tali fallimenti presuppongo un intervento da
parte delle autorità statali.

15
L’efficienza allocativa (statica)

Inoltre, anche quando le interazioni tra
privati non riescono a raggiungere un
equilibrio efficiente si ha un fallimento
(strategico), come risolverlo?




Regolamentazione di prezzi e quantità
Legislazione antitrust
Politiche per esternalità e beni pubblici
Politiche ambientali
16
Efficienza economica e benessere
sociale: un riassunto

Il benessere sociale è dato dalla somma del surplus dei produttori
(i.e. la somma dei profitti di ciascun produttore) e del surplus dei
consumatori (i.e. la somma della differenza tra il prezzo che ciascun
consumatore sarebbe disposto a pagare ed il prezzo pagato).

Una modifica dei prezzi incide sia su ciascuno degli addendi ma che
sulla somma.

Il benessere sociale è al suo minimo in presenza di un prezzo
monopolistico, mentre è al suo massimo in un prezzo di concorrenza
perfetta
17
Potere di mercato e benessere sociale

Il potere di mercato è la capacità di un’impresa di aumentare il prezzo
al di sopra del costo marginale

Il potere di mercato incide su:
 efficienza allocativa: all’aumentare del potere di mercato
aumenta la perdita di benessere sociale (caso estremo: Monopolio);

efficienza produttiva (la concorrenza seleziona le imprese
efficienti – ipotesi darwiniana – offrendo incentivi a ridurre i costi);

efficienza dinamica (in monopolio vi è incentivo ad innovare
solo se i profitti addizionali sono superiori ai costi; tuttavia, se
vi è troppa concorrenza, può ridursi la capacità di innovare delle
imprese).
18
Monopolio

Forma di mercato in cui un’unica impresa offre un prodotto per
il quale non esistono sostituti stretti.

I fattori che determinano la nascita di un monopolio possono
essere:
 Possesso di conoscenze particolari (segreto industriale)
 controllo esclusivo di input fondamentali;
 economie di scala (monopolio naturale);
 Brevetti, segreti commerciali;
 Tecnologia (costi fissi medi alti)
 licenze governative o appalti.
19
Inefficienza allocativa del monopolio
Per massimizzare i profitti, il
monopolista sceglie il livello di
prezzi in cui:
p
O
RMg = CMg
Surplus
consumatori
pm
R
Rendita
Surplus dei
di consumatori
monopolio
T
Perdita
di benessere
RMg>CMg e RMg < RMg
non sono un equilibrio possibile
S
pc
c
O’
qm
qc
q
20
Inefficienza produttiva del monopolio
(Managerial slackness)
p
O
p’m
pm
p’c
“The best of all monopoly profits is quiet life”*
Surplus
consumatori
Surplus
R’
consumatori
R
Rendita
di monopolio
Surplus
V dei
consumatori
T’
T
W
Perdita
di benessere
S
l’ipotesi è che in assenza di pressione
competitiva, il monopolista non
abbia incentivi ad adottare una
tecnologia efficiente;
i suoi CMg sono superiori
a quelli di imprese in
concorrenza
perfetta.
pc
c
O’
q’m qm
qc
q
21
*J. Hicks, The theory of monopoly, 1935
Rent seeking e inefficienza del monopolio
Per Posner*, il rent seeking dissipa l’intero profitto del monopolista
p
O
p’m
pm
p’c
Le sua assunzioni sono:
1. le spese sostenute per acquisire e mantenere la posizione
di monopolio eguagliano il valore del profitto atteso
R’
derivante dalla posizione di monopolio;
R
2. tali somme costituiscono un’inutile
spreco di risorse.
Surplus
consumatori
Rendita di
monopolio
V
T’
W
T
Perdita
di benessere
Esempio: Industria
Farmaceutica in Italia
S
pc
c
O’
q’m qm
qc
q
22
*R. Posner, The social cost of monopoly and regulation, 1975
Dal Monopolio all’Oligopolio: l’aumento
della concorrenzialità, come fare?



Indurre cambiamenti nei monopoli attraverso la
concorrenza tra imprese: l’oligopolio, un esempio
Che senso ha trasportare le acque minerali del Piemonte in
Calabria e viceversa? (ragionamento di Beppe Grillo)….(*)
Ha molto senso, perché la concorrenza aumenta→ maggior
numero d’imprese e maggiore vicinanza all’efficienza
allocativa, quali modelli esistono?


Oligopolio à la Bertrand (solo 2 imprese: “2 è un numero
grande per la concorrenza”): le imprese fissano i prezzi e la
concorrenza è indotta dal fissare un prezzo più basso della
rivale e prendersi tutto il mercato, ma se l’equilibrio esiste è
quello concorrenziale
Contendibilità (anche solo 1 impresa, ma “hit and run”)
(*) si veda: IL MERCATO di Giuseppe Bertola,
(http://www.lavoce.info/archives/23368/il-mercato/ , 28.12.2005)
23
Inefficienza statica: come risolverla?
1.
Regolamentazione (sì monopoli, ma occorre):



2.
3.
4.
Regole sulla Quantità
Regole sulla Qualità
Regole sul Prezzo (= costo medio, se monopolio naturale):
 regola del price-cap (es. prezzo autostrade, ferrovie, ecc.)
 Limite superiore al tasso di rendimento del capitale
 Concorrenza per il monopolio: asta (Demsetz, 1968)
 Contendibilità (Contestable markets, Baumol et al.1982)
Statalizzazione (monopoli pubblici), a cui è seguita→
PRIVATIZZAZIONE
Liberalizzazione (no monopoli/vendita di quelli
pubblici)
Legislazione antitust
24
Le misure per attuare la regolamentazione
LA DIMENSIONE DEL
MERCATO E DELL’IMPRESA E
LE REGOLE
25
La scuola di Harvard e l’efficienza




Si propone il paradigma strutture-condotterisultati
le barriere all’entrata, l’economia di scala, le
asimmetrie informative e i sunk cost, sono
l’origine della formazione di mercati
oligopolistici/monopolistici
essi portano alla formazione di prezzi superiori a
quelli di concorrenza e, quindi, a rendite per le
imprese
Occorre regolamentare tali mercati, riducendo i
fattori che impediscono il raggiungimento
dell’efficienza: tra concentrazione ed extraprofitti
26
vi è una correlazione diretta molto stretta
Occorre avere innanzitutto delle misure per
definire la dimensione del mercato…

Come misurare il livello di concorrenza?



Occorre una misura del risultato economico per
confrontarlo con quello concorrenziale:




Quanto potere di mercato esercitano le imprese (nel settore o
nell’industria)?
Quali sono i fattori che determinano il potere di mercato?
Tasso di rendimento (profitti x ogni lira investita)
Margine prezzo-costo (mark-up)
Rapporto tra valore di mercato e costo di sostituzione delle attività (q
di Tobin)
Inoltre serve conoscere il grado di concentrazione (struttura
del mercato): poche imprese = grande quota della
domanda


indice di Herfindal-Hirschman= somma del quadrato quote
mercato
Rapporto di concentrazione = solitamente la quota delle
vendite delle prime 4 o 8 imprese del settore (C4 o C8)
27
Struttura-Comportamento-Performance (Bain,
1951): Paradigma industriale tradizionale (scuola di
Harvard)

Quesiti di base:







1) le imprese hanno potere di mercato?
2) come fanno ad acquisirlo e a mantenerlo?
3) quali sono le conseguenze del potere di mercato?
4) le politiche pubbliche possono risolvere i problemi generati dal fatto
che le imprese detengono un certo grado di potere di mercato?
Struttura: fattori che determinano il grado di
concorrenzialità del mercato (ad es.: il livello della
concentrazione), che a sua volta determina il
Comportamento: condotta delle imprese nel mercato, che
influisce sui
Risultati economici: capacità del mercato di produrre
benessere per i consumatori (ad es.: i prezzi si avvicinano
al costo marginale di produzione)
28
Vediamo questo modello interpretativo: le diverse
strutture, i diversi comportamenti e risultati
economici
Comportamento
Risultato
29
Il risultato economico


La misurazione dei risultati economici consente di quantificare
il potere di mercato
Cosa si misura:
 il tasso di profitto ⇒ ad es.: rapporto tra tasso di rendimento
(ROI, ecc.) e profitti economici (p = Ricavi – costi del lavoro costi dei materiali - costi del capitale), margine di profitto
unitario: (p - MC) o mark-up (p – MC)/p (Lerner);
 Indice di Lerner ⇒ media ponderata dei margini di profitto di
ciascuna impresa, con pesi proporzionali alle rispettive quote
di mercato
 la q di Tobin ⇒ rapporto tra valore di mercato dell’impresa e il
suo valore basato sul costo di sostituzione del suo capitale
fisso (costo di lungo periodo che deve essere sostenuto per
acquistare un bene capitale di qualità analoga).
30
Un esempio di q di Tobin
Rapporto fra la somma dei valori di mercato di azioni e obbligazioni
di un’impresa e il valore di rimpiazzo (o ricostituzione)
degli attivi necessari al funzionamento dell’impresa stessa. Un valore di q>1 indica
da un lato la vantaggiosità di effettuare investimenti nell’impresa,
dall’altro una potenziale sopravvalutazione rispetto al valore equilibrato q=1
31
Le misure della concentrazione

La misura della concentrazione può essere in generale
rappresentata da una somma delle quote di mercato detenute
dalle singole imprese, ponderate in funzione delle dimensioni
relative di queste ultime. Ciò può essere espresso come segue:

dove:
 C è la misura della concentrazione;

si è la quota di mercato dell'impresa i-esima (con si>0 e
s
i
1; e
i

h(si) è la ponderazione attribuita alla quota di mercato
dell’impresa i-esima.
32
Come definiamo l’indice di Lerner?
Indice di Lerner: formula
33
Strutture di mercato e misure


Con le misure della struttura di mercato si esamina la
variazione dei risultati economici al variare della struttura
Cosa si misura:




la concentrazione industriale;
la concentrazione degli acquirenti ⇒ la concentrazione
delle imprese acquirenti può controbilanciare il potere dei
venditori e spingere i prezzi verso il basso
le barriere all’entrata ⇒ se restano sostanziali nel lungo
periodo, i prezzi tenderanno a fissarsi a livelli superiori a quelli
concorrenziali;
il grado di sindacalizzazione ⇒ in un’industria
sindacalizzata, i lavoratori si assicurano una quota dei profitti,
attraverso salari più elevati, provocando per questa via un
aumento dei prezzi.
34
La quota di mercato

Quota di mercato (prodotti omogenei) ⇒ in
unità fisiche: se q è un prodotto omogeneo, e qi è
l’output dell’impresa i-esima in un certo periodo
di tempo (anno), e Q è l’output nazionale
(mondiale) nello stesso periodo, allora la quota i
del mercato nazionale (mondiale) sarà: si = qi/Q:


C4 rappresenta la quota di mercato delle prime 4
imprese
C8 la quota delle prime 8 (si veda la tabella seguente
per un esempio di relazione tra struttura e risultato)
35
C’è una relazione tra misure di
concentrazione e risultato economico
36
L’indice di Herfindal Hirschman
(HHI index)
L’HHI è un’ulteriore misura della
concentrazione ed è pari alla somma dei
quadrati delle quote di mercato di
ciascuna impresa
 Esempio: consideriamo un mercato nel
quale siano 3 le imprese a coprire
rispettivamente il 50%, il 30% e il 20%
del mercato. L’HHI è pari a: 3800=
2500+900+400

37
Valori per diversi indici di concentrazione
nell’industria manifatturiera
38
Le regole e le misure



La disponibilità di misure atte a definire il tipo di inefficienza
presente nel mercato induce il regolamentatore ad
intervenire attraverso politiche che definiremo di antitrust e
che tratteremo in seguito come conseguenza della
trasformazione storica del sistema produttivo italiano
Il grado di intervento sarà guidato dalla misura della
perdita di efficienza, di cui il grado di concentrazione del
mercato è una buona approssimazione, come già
sottolineato
In questo contesto trattiamo invece una tipologia di
interventi suggeriti dagli economisti della scuola di Chicago,
per i quali non c’è correlazione diretta tra concentrazione ed
extraprofitti e per garantire l’esistenza di monopoli con un
grado di efficienza maggiore bastano i mercati contendibili
39
Regole del mercato contendibile
1.
2.
3.

Le imprese che vogliono entrare in questo mercato non devono
essere svantaggiate rispetto a quelle che già vi operano: accesso
alle medesime tecnologie e informazioni, agli stessi prezzi degli
input produttivi (materie prime, tecnologie, componenti, forza
lavoro, energia, risorse finanziarie ecc.) disponibili per le
aziende già sul mercato. Più in generale, non vi devono essere
barriere all’entrata.
non vi devono essere sunk cost, costi non recuperabili, né costi
di uscita dal mercato stesso.
è necessario che il periodo di tempo che occorre a una nuova
azienda per entrare nel mercato sia inferiore a quello che
le imprese già presenti possono impiegare per adeguare i propri
prezzi.
Se tutte queste condizioni sono soddisfatte, le imprese che
operano sul mercato non potranno fare altro che comportarsi
come se si trovassero in un mercato in concorrenza perfetta.
40
I monopoli non sono sempre
inefficienti: il monopolio naturale
…Potrebbe essere soddisfatta una quota maggiore di domanda
Il monopolio naturale può conseguire la soluzione di second best senza intervento pubblico quando
41
opera in un mercato 'contendibile', ovvero un mercato in cui è possibile per qualunque impresa
entrare e uscire senza costo. Ovvero quando vi sia una minaccia credibile di concorrenza.
Regolamentazione: La teoria dei mercati
contendibili* (1)


Un mercato è contendibile quindi, solo quando le imprese
operanti non possono opporre ai contendenti potenziali
alcuna barriera strategica o legale o di altro tipo (mano
invisibile debole):
...
C(q, t )  C ( t )  C (q, t ) con C ( t )  0
0
0
s


0
n
0
s
Sunk cost
l’unico modo per impedire l’entrata è rendere il
mercato poco attraente fissando prezzi sostenibili
La concorrenza potenziale impedisce di esercitare il potere
di mercato
Se il mercato è contendibile, anche la presenza di una sola
impresa non determina perdita di benessere sociale
*W.J. Baumol- J.C. Panzar- R.D. Willig,
Contestable markets and theory of industry structure, 1982
42
La teoria dei mercati contendibili (2)
Condizioni di contendibilità (concorrenza hit & run)

I concorrenti potenziali possono entrare nel mercato applicando un
prezzo inferiore a quello praticato dall’impresa/e operante/i (cioè
p=Cme), ed uscire prima che l’impresa/e operante possa reagire
causando loro delle perdite (cioè t>t0 ); inoltre...

i consumatori devono reagire istantaneamente alle variazioni di
prezzo;

l’entrante non deve sopportare costi non recuperabili (sunk cost)
nel periodo t0;

almeno per un certo lasso di tempo, l’impresa operante non può
reagire all’entrata abbassando il prezzo al di sotto di quello
praticato dall’entrante (= credibilità con t>t0 dove t è il tempo
necessario per cambiare il prezzo da parte dell’incumbent).
43
Qual è il ruolo del regolamentatore?



La teoria dei mercati contendibili suggerisce che il
regolatore dovrebbe consentire l'entrata anche in un
mercato di monopolio naturale.
Infatti tale teoria sostiene che il compito del regolatore non
è controllare i prezzi e le decisioni di produzione
dell'incumbent (no attività antitrust), ma realizzare
politiche che assicurino le condizioni per la contendibilità
ossia
 libertà di entrata, uscita senza costi e
 lenta variazione dei prezzi da parte dell'incumbent in
risposta all'entrata.
La realtà ha dimostrato che questa teoria non è
completamente valida, poiché le barriere esisstono
44
Dalla teoria positiva a quella normativa:
DALLA NAZIONALIZZAZIONE
ALLE POLITICHE ANTITRUST
45
La nazionalizzazione in Italia: soluzione
alternativa

1.
2.
3.
In questo sistema possiamo evidenziare 3 livelli
di governo:
alla base la società per azioni il cui capitale è
detenuto principalmente dal pubblico (via IRI,
ente di diritto pubblico)
l’ente pubblico di gestione, che si posiziona ad
un livello intermedio, ed esercita un’attività di
direzione tecnica nei confronti delle società
partecipate,
Il livello superiore è quello politico, cioè è il
ministero (MEF) che nomina i vertici degli enti
pubblici, quindi esercita una direzione politica
46
delle holding con il potere di nomina.
Le imprese a partecipazione pubblica








sono state raggruppate in holding:
l’IRI controllava le partecipazioni industriali,
bancarie, finanziarie e altri servizi;
l’EFIM controllava le partecipazioni nei settori
metallurgico e meccanico;
l’ENI quelle petrolifere, tessili e petrolchimiche,
l’EAGG le imprese del settore cinematografico,
l’EAGAT le imprese nel settore termale e
l’EGAM le imprese nel settore minerario
Oggi invece: vedi moodle le partecipate
47
… ad oggi nulla è cambiato a parte la
forma societaria
48
Le cause che hanno portato alla
privatizzazione in Italia: 1990




La normativa comunitaria che induce gli stati membri
alla comunità europea ad attuare procedure di
liberalizzazione dei mercati, ma non obbliga gli Stati alla
privatizzazione anzi cerca di promuovere la presenza nel
settore di più società, senza che nessuna possa ricevere
aiuti dallo stato;
la necessità dello stato di far cassa, e quindi di
privatizzare le società con un rendimento migliore per far sì
che si riduca sostanziosamente il grande debito statale
pregresso (Relazione al Parlamento);
la diffidenza nei confronti dello Stato che proprio negli anni
’90 era aumentata vertiginosamente, per i diffusi fenomeni
di corruzione;
favorire un azionariato diffuso nella popolazione,
proprio come viene scritto nell’art. 47 della Costituzione
italiana.
49
Condizioni per le privatizzazioni




Nel marzo del 1990, sorse una Commissione per il riassetto
del patrimonio mobiliare pubblico e per le privatizzazioni
che stabilì un documento atto a determinare le condizioni
per l’adozione di una prima misura governativa per definire
le regole generali delle privatizzazioni.
Successivamente vennero emessi una seri di atti normativi
riguardanti la privatizzazione, tra cui:
il D.L. n 386, convertita nella legge 5 del 1992, che
riconosceva agli enti la possibilità di trasformarsi in Spa,
ma tale legge non riscontra molto successo dal punto di
vista pratico.
il D.L. n. 333, convertito nella Legge 8 agosto 1992, n.
359, si è avuta la trasformazione dell’IRI, l’ENI, l’ENEL e
l’INA in società per azioni con assegnazione delle azioni al
Ministero del Tesoro che si vide attribuire anche le azioni
della Bnl Spa e dell’IMI spa (decreto Amato).
50
La trasformazione in SpA



Il 25 marzo 1992 il CIPE stabilì che la
trasformazione degli enti in società per azioni
rappresentava
“la prima fase di un più complesso processo di
privatizzazione che prevede il successivo
collocamento sul mercato di quote del settore
pubblico dell’economia”.
Queste disposizioni produssero un cambiamento
della missione degli ex-enti di gestione,
spostando l’obiettivo del management verso la
conduzione degli affari con “criteri di economicità
ed efficienza secondo le regole del mercato”
51
Privatizzazione non significa
liberalizzazione…

La privatizzazione formale non avvia la
liberalizzazione del mercato, infatti IRI,
ENEL e ENI operano in regime di
concessione con durata almeno
ventennale, quindi le nuove SpA
continuano a fare quello che faceva
l’organismo pubblico, in sostanza si è
avviata la privatizzazione ma con essa non
si era dato luogo alla nascita del relativo
mercato.
52
Verso una maggiore concorrenzialità?
53
Oggi a che punto siamo?




Nel DPEF 2010-13 si rilevano ancora alcune possibilità di
alienazione di parti di aziende ancora in quota al Ministero
dell’Economia
La Cassa Depositi e Prestiti provvede in parte alla gestione
delle aziende partecipate
Nel nuovo DEF 2014 (Documento di Economia e Finanza,
p. 51) si prevedono la cessione del 40% di Poste Italiane,
del 49% (max) di ENAV, del pacchetto di partecipazione
nella holding STH della STMicroelectronics e di proprietà
detenute da società controllate indirettamente come CDP e
Ferrovie dello Stato.
Oggi:
http://www.dt.mef.gov.it/it/attivita_istituzionali/privatizzazi
oni/
54
Gli effetti economici







Il processo di privatizzazione italiano ha contribuito
significativamente al risanamento dei conti pubblici,
all'accrescimento delle dimensioni del mercato
finanziario,
al rilancio delle imprese in corso di privatizzazione e
alla minor presenza dello stato nell'economia.
L'utilizzo degli incassi delle privatizzazioni per
l'abbattimento del debito pubblico ha contribuito a
ridurre di circa 20.000 miliardi la spesa per interessi
sul debito pubblico.
… ma anche a ridurre il numero di occupati (naturale
conseguenza per un monopolio/oligopolio privato)
Infine il monopolio non è sempre un male… ma…
55
Una valutazione di sintesi (Boitani e
Grillo): (i) privatizzazioni ed efficienza

Le privatizzazioni si sono accompagnate ad aumento
dell’efficienza gestionale, del fatturato, della redditività e dei
dividendi …


le imprese finanziarie (almeno fino alla crisi) e le società di cui lo Stato
ha ceduto il controllo hanno recuperato redditività.
… ma non sono state fattore di sviluppo: non c’è evidenza di
mutamento nella struttura patrimoniale, negli investimenti,
nell’occupazione:

soprattutto nelle imprese che operano in settori protetti e/o su cui lo
Stato ha mantenuto il controllo il recupero di redditività si è risolto in
ampia misura in aumento dei dividendi.
56
Una valutazione di sintesi:
(ii) privatizzazioni e mercati finanziari

Il peso delle imprese privatizzate supera il 60% della
capitalizzazione di Borsa.

Nelle società privatizzate la dispersione degli azionisti è più
ampia di quella della maggiori società quotate …

… ma nessuna società privatizzata è diventata una public
company: il controllo è dello Stato o di un azionista privato
(spesso con quote di minoranza).
57
Una valutazione di sintesi:
(iii) privatizzazioni e finanza pubblica
E’ stata sempre presente l’esigenza di «fare cassa»:
le società privatizzate sono state vendute a prezzi alti,
scontando le attese di rendite di monopolio.
 I proventi complessivi delle privatizzazioni hanno
contribuito alla estinzione di ca. il 9% del debito
pubblico.
 Nel secondo periodo, i dividendi allo Stato hanno
rappresentato fonte rilevante di entrate correnti.

58
Dalla statalizzazione alla privatizzazione:
politiche antitrust



I costituendi monopoli/oligopoli privati hanno bisogno di
essere regolamentati
Le politiche della concorrenza o politiche antitrust
sono finalizzate a questo obiettivo e comprendono:
 l’insieme delle norme ed azioni volte ad assicurare che
la concorrenza sul mercato non sia ristretta in modo tale
da portare detrimento alla collettività, cioè da ridurre il
benessere sociale complessivo.
Il punto di riferimento ideale è l’allocazione ottimale delle
risorse, con relativo massimo del benessere sociale,
ottenibile dall’equilibrio in un mercato di concorrenza
perfetta (CP).
 l’ideale della CP serve come metro di giudizio per
valutare i diversi esiti di mercato del mondo reale, non
come traguardo effettivo di policy-making
59
Politiche della concorrenza


L’approccio corretto è quello di comparare i
diversi assetti istituzionali, spontanei e non, del
mercato e scegliere quello che massimizza il
benessere come soluzione di second best.
Quali gli obiettivi?


Preservare il corretto funzionamento del mercato (no
accordi o intese tra imprese)
Contrastare l’abuso di posizione dominante




Es: discriminazione di prezzo
Barriere all’entrata
Imposizione di clausole contrattuali vessatorie
Impedire acquisizioni e fusioni di imprese che portino
alle concentrazioni industriali
60
Fonti normative di competition policy
In USA:
 Sherman Act 1890
 §1: restraint of trade;
 §2: monopolization.
 Clayton Act 1914: 4 principi chiave che vietano




discriminazioni di prezzo
Abuso di posizione dominante
Acquisizioni e fusioni
Di dirigere due società che comportano la violazione della concorrenza.
In Europa:
 Trattato di Roma 1957 e successivi
 Art.2: concorrenza come strumento per il benessere dei
cittadini europei;
 Art.81: accordi verticali tra imprese;
 Art.82: abuso di posizione dominante.
In Italia:

Legge 287/1990 "Norme per la tutela della concorrenza e del
61
mercato” istitutiva dell’AGCM (Autorità Garante della
Concorrenza e del Mercato)
Perché combattere i monopoli


Il primo e principale motivo per cui le politiche
per la concorrenza cercano di contrastare la
formazione di monopoli è per evitare la DWL
connessa al monopolio.
In realtà, sul piano del benessere sociale, la
presenza di un monopolio comporta due effetti:


Effetto distributivo: spostamento di welfare da SC a SP
(Surplus del Produttore)
Effetto allocativo: riduzione del benessere totale  DWL

Tale effetto lo si può considerare anche come prodotto da
uno “sviamento” di risorse rispetto al first best della CP.
62
Perché combattere i monopoli (2)
L’effetto distributivo è qualcosa di
negativo solo se l’obiettivo dell’antitrust è
aumentare il SC (surplus del
consumatore).
 Inoltre il monopolio comporta altri due
costi, come già rilevato, in termini di
benessere sociale che peggiorano la
dimensione della perdita allocativa:



Managerial slackness (Hicks, 1935)
Rent seeking costs (Posner, 1975)
63
Quindi, perché regolare il monopolio



Ciò che conta è la causa di esistenza del
monopolio, perché il potere di mercato dipende
da questo.
Se il monopolio esiste perché l’entrata è
bloccata, allora l’impresa gode del massimo
potere di mercato e quindi si giustifica
l’intervento del policy-maker.
Se però esiste un monopolio ma il mercato è
contendibile, l’intervento non è giustificato
perché il potere di mercato di fatto non esiste.

Tesi di Chicago: il monopolista in un mercato
contendibile è comunque costretto a comportarsi da
impresa di concorrenza perfetta se vuole evitare
l’ingresso di rivali. Quindi il mercato si autoregola, senza
64
l’intervento pubblico.
Una valutazione di sintesi per l’Italia:
(iv) privatizzazioni e concorrenza

Le privatizzazioni non sono state strumento di liberalizzazione e di
allargamento dei mercati concorrenziali:
 (i) non sono emersi nuovi attori e alcuni operatori industriali hanno
riposizionato il business in attività di rent-seeking;
 la combinazione tra recupero della redditività e «settori protetti» ha di
fatto dato luogo a un trasferimento di rendite dallo Stato ai privati;
 gli elevati dividendi delle società a controllo pubblico (ENI e Enel)
evidenziano un conflitto di interesse tra Stato azionista e Stato
regolatore;
 la coincidenza di interessi tra pubblico e privato ha depotenziato il
ruolo della regolazione, preservando alti livelli di profittabilità delle
imprese;
 la regolazione è stata in alcuni casi limitata o distorta dalle modalità con
cui la privatizzazione è stata realizzata, ovvero dai contratti impliciti
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stipulati al momento della privatizzazione.
Quale «obiettivo» oggi?

Se l’obiettivo è la riduzione del debito pubblico, si ripropone il «fare cassa», prevalso
nell’esperienza del precedente ventennio; ma con un parziale mutamento di prospettiva. Ciò che
conta è vendere imprese potenzialmente lucrose, che possono essere tali per due ragioni: perché
(i) (almeno potenzialmente) efficienti; oppure perché (ii) dotate di potere di mercato.

Nel secondo caso si ripropone un modello già noto, con il rischio che lo stimolo all’efficienza,
anche dopo la privatizzazione, resti debole. Difficile dire qual è il beneficio collettivo di trasferire
un monopolio pubblico a un monopolio privato, non sottoposto ad adeguata regolazione.

Se si fa leva sull’efficienza potenziale dell’impresa da privatizzare: occorre cambiare la gestione
prima della vendita, cercando l’«efficienza» dell’impresa pubblica con modifiche nell’indirizzo di
policy e adeguata selezione degli amministratori (il governo Renzi e quello Gentiloni sembrano
essersi confrontato con questo punto). Ma privatizzare non è necessario per l’efficienza della
gestione, perché farlo? Se l’aumento del flusso atteso dei benefici è indipendente dal controllo,
privatizzare ha un senso solo se il tasso di sconto del soggetto pubblico è più alto di quello dei
privati (ipotesi difficile da giustificare).

Anche in chiave di schemi di partnership pubblico-privata, la letteratura teorica fa leva sulla
premessa che il vantaggio del pubblico risiede nella circostanza che il costo delle risorse finanziarie
è, per lo Stato, minore che per l’operatore privato.

Resta la prospettiva più pessimista: vendere i «gioielli di famiglia» per far fronte, alla fine, a
spese correnti.
66
E quindi arriviamo alla prima conclusione
rispetto al nostro modello di riferimento
67
Le liberalizzazioni non sono state sufficienti ad aumentare la concorrenza
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