Danilo Cargnello, Alterità e alienità
Fioriti Editore, Roma 2010
“È qui,
in questa limitazione rigorosa dell’incontro
che ci si può render conto dell’ambiguità fondamentale dello psichiatra
il quale come medico tende ad obiettivare il paziente inquadrandolo nelle dimensioni dell’alienazione,
e come uomo tende a ricercare l’aspetto dell’alterità,
in una oscillazione perpetua e in una irrisolubile ambivalenza.”
(In Callieri “La dimensione ambigua dell’incontro con lo psicotico”, Comprendere 19, 2009)
Danilo Cargnello (1911-1998) si incammina in un processo di descrizione dell’antropologia
fenomenologica di Ludwig Binswanger (1881-1966), allo scopo di procedere ad
un’esamina completa della posizione fenomenologico-antropologica, oltre al rapporto tra
psichiatria classica e modus operandi della Daseinsanalyse (da ora D.). Delinea esaustive
descrizioni filosofiche circa la fenomenologia, l’antropologia e la fenomenologiaantropologica, attraversa i diversi approcci fenomenologici e sottolinea il proprio indirizzo
scientifico derivato dalla fenomenologia di Binswanger, (mutuata dalla filosofia di
Heidegger (1889-1976), diversa dalla fenomenologia psicopatologica di Jaspers (18831969)).
Cargnello condivide l’approccio epistemologico di Binswanger che denunciava i modelli
della psichiatria, della psicanalisi e della psicologia clinica dell’epoca, basati sulla
concezione meccanicistica e biologica dell’Uomo. Dal punto di vista metodologico
Binswanger proponeva nuove interpretazioni dell’individuo, basate sull’idea che ogni
comportamento, anche il più “patologico”, potesse comprendere in sé un significato
rispetto all’essenza dell’uomo. Dal punto di vista psicoterapeutico, infine, egli sosteneva
una nuova teoria del rapporto medico-paziente, in cui non si esigeva una differenza
funzionale né posizionale tra i due: una teoria dello sviluppo esistenziale dell’individualità
umana, ovvero l’incontro tra due individui e la loro esistenza.
L’invito di Cargnello agli psichiatri recita tali parole:
Essi devono sopportare la situazione ambigua di chi «Deve muoversi, come pratico e
come studioso, su due piani diversi», perché la psichiatria «costringe chi la esercita a
oscillare tra un aver-qualcosa-di-fronte e un essere-con-qualcuno».
Dunque il malessere che l’autore sente è legato alla modalità con cui la medicina, e la
psichiatria nello specifico, decide di approcciarsi al paziente.
L’autore in “Alterità e alienità” (1977) non muove accuse dirette alla psichiatria né presenta
un manifesto ideologico antipsichiatrico, delinea piuttosto un articolato percorso che
consta di tre parti.
La prima parte è caratterizzata dall’identificazione del modello teorico di provenienza
dell’autore, dei sui maestri, delle opere e dei concetti fondamentali da cui prende avvio la
ricerca e lo studio fenomenologico. Questa prima parte dell’opera è presentata nel capitolo
sulle “Configurazioni fondamentali dell’umana presenza nell’antropologia fenomenologica
di Binswanger” (cap.1) e in “La proporzione antropologica” (cap.2).
Una seconda parte, molto interessante, intende situare la dottrina scientifica
fenomenologico-antropolologica in un contesto più ampio, culturale e terapeutico. L’autore
cerca di analizzare il modo in cui la D. si rapporta alla psichiatria e alla psicoanalisi.
Soprattutto è importante il lavoro di paragone attuato con la dottrina freudiana
(Psychoanalyse); nello specifico si indaga il delinearsi di quadri dottrinali e impostazioni
epistemologiche contemporanee ma diverse, sebbene accomunate dall’esigenza
impellente di rompere con la canonica modalità di operare della psichiatria (Proprio su
questa tematica presenta un trascritto intitolato “Dal naturalismo psicoanalitico alla
fenomenologia antropologica della D.: da Freud a Binswanger” (1961) che viene
inizialmente concepito per un pubblico di filosofi (“Archivio di filosofia”, 1961) e che finirà
per essere inserito nell’opera “Alterità e alienità”, del 1966, redatta nel 1972 (“Alterità e
alienità: Introduzione alla fenomenologia antropoanalitica) e poi nel 1977. Cap. 3)
Le differenze che emergono, però, tra psicoanalisi e fenomenologia esistenziale sono
palpabili, e l’autore non rinuncia a sottolineare come, nonostante la reciproca funzionalità
e giustizia intellettuale, la D. ha scopi, mezzi e processi totalmente diversi dalla
psicoanalisi. La D. non cura in modo esplicito, sebbene implicitamente poi si dimostri
anche avere una funzione terapeutica, ma si identifica piuttosto nella funzione di
“stampella conoscitiva”, fino ad allora mancante, della psichiatria, della psicologia, della
psicopatologia. Inoltre la D. non si basa su un modello precostituito della psiche umana;
né indaga il cosa, rinunciando perentoriamente ad un giudizio di causalità sull’uomo. La
terza parte dell’opera è dedicata al rapporto tra la clinica e la D. La scelta dell’autore
ricade sulla descrizione della mania (“Aspetti modali e momenti costitutivi del mondo
maniacale”. Cap.4), seppur la D. spesso venga utilizzata per indagare i fenomeni psicotici,
in linea agli interessi presentati in materia dallo stesso Binswanger (L. Binswanger,
"Melanconia e Mania", Torino 1977). È in questa ultima parte dell’opera che si coglie la
reale funzione della D. e il perché Cargnello decida di pubblicare per ben tre volte
un’opera dal titolo “Alterità e alienità”. Il pensiero che si struttura nel testo, e si accorpa
praticamente in questo ultimo capitolo, è che non esiste alcuna oggettiva “alienità”, a
meno che non si decida di considerare la malattia mentale come uno stato di alienazione.
L’alienazione è qualcosa che si struttura in una particolare condizione dell’esistenza
umana, quando l’individuo perde la sua spontanea essenza e si trova imbrigliato in una
condizione di costrizione, “l’essere-costretto-ad-essere”. La malattia mentale, nell’ottica
Daseinsanalitica, è un fenomeno, alla stregua di altri fenomeni umani, che esprime e
racchiude un senso “altro” di essere-nel-mondo dell’individuo, di esser-Ci, dell’umana
presenza, intesa come la capacità dell’uomo di “abitare il mondo”. Come tale, ovvero
come fenomeno, la malattia mentale è indagabile e non trascendente.
Il percorso di conoscenza della malattia non si determina tramite teorie presupposte, come
la psichiatria propone da secoli di fare; non tramite atti interpretativi, come la psicoanalisi
intende sostenere; non è conoscibile dunque in alcun modo se ci si impone uno schema
interpretativo di partenza, in cui incasellare, rinchiudere, stereotipare, l’essere e la sua
modalità di esser-Ci nel mondo.
La conoscenza, piuttosto, è raggiungibile in proporzione alla possibilità di entrare in
contatto con l’altro e con la sua esistenza, che colpisce i nostri sensi provocando in noi la
comprensibilità dell’umana presenza. Il fenomeno mentale non è né un mero fenomeno di
natura, dunque indagabile secondo leggi precostituite, né una mera soggettività di chi lo
esamina e di chi lo vive; bensì è il modo in cui la presenza si progetta nel suo originario
esistere (existere). La malattia mentale non deve essere colta come tale, ovvero come
malattia cioè diversità dalla norma e dal comune condividere, ma letta nell’umana
globalità dell’individuo.
Questo atteggiamento epistemologico è possibile mettendo tra parentesi (epoche,ossia
"sospensione") le conoscenze preposte e strutturate che nutrono la clinica e il clinico;
accogliendo l’altro in un rapporto di dualità, più similare alla dualità dell’amore e
dell’amicizia, che non alla dualità del rapporto medico-paziente (la cura -Sorge- esiste
nell’incontro tra due diversi “modi-di-essere nel mondo”). Il Dasein è sempre Mit-dasein,
ovvero la possibilità di “essere-nel-mondo-con-gli altri”. Dobbiamo raggiungere la
comprensione del fenomeno ponendoci sempre tre quesiti: chi è l’altro? Come è? Il mondo
in cui è? In tal modo è possibile conoscere tutte le manifestazioni in cui l’esaminato
spontaneamente è, si esprime e si è espresso. Inoltre, l’uso dell’analisi del linguaggio nella
sua forma, ovvero come il linguaggio si esprime rispetto certi contenuti, ridarà al clinico
molte informazioni. Per forma del linguaggio dobbiamo intendere la temporalità e la
spazialità con cui il linguaggio si esprime, ovvero l’analisi della storicità dell’altro tramite le
parole da lui espresse, il modo in cui si presenta e in cui si è presentato, le sue
trasformazioni nel tempo e nello spazio, appunto la globalità del suo esser-Ci.
Solo con questo modo di avvicinarsi all’altro, detentore del fenomeno di malattia mentale,
potremmo comprendere cosa realmente il soggetto esperisce, come vive, cos’è nel mondo
tramite il fenomeno stesso della malattia.
È chiaro, così, come la D. non sostituisca la psichiatria ma si offra appannaggio della
stessa, sia nel processo di contatto con “certi-modi-di essere” altrimenti irraggiungibili e
dunque talvolta “alienanti”, sia nella possibilità di adoperare se stessi e le comuni capacità
di contatto con l’altro per comprenderlo.
Il concetto di alterità (dal latino “alter”) rimanda all’idea dell’incontro tra due diversità, e il
suo significato diviene sinonimo di alienazione (dal latino “alienus”) nell’esistenzialismo,
nel senso, però, di alienazione dell’individuo da se stesso. Perciò l’alienazione non è mai
una condizione di giudizio di un individuo verso un altro considerato diverso, bensì è una
condizione che l’individuo esperisce verso se stesso.
L’altro (l’alterità) diviene alieno (l’alienità) nella misura in cui noi ci poniamo verso di lui in
uno stato di giudizio, più che di comprensione. Infatti essere “alieno” significa essere posti
in una condizione di “essere-costretti-ad-essere” ,essere solo nel segno di un altrui
imposizione, fino alla completa alienazione di se stessi.
Così comprendere il fenomeno della malattia mentale significa affidarsi alla parola del
malato, lasciandosi trasportare entro e oltre la malattia, nei suoi misteri spesso indicibili e
nelle sue mille possibilità di esistenza.
Alessia Zoppi