Sociologia delle comunicazioni di massa (4 CFU) Prof. Giovannella Greco Comunicazione Media e Educazione 4. Giovani e media I giovani nella società mediale Il concetto di gioventù rimane, ancora oggi, assai complesso e poco definito: se nel linguaggio comune il termine indica individui che sono giovani per età, il concetto incorpora oltre a fattori anagrafici e biologici anche fattori psicologici e sociali. La gioventù non consiste, infatti, in una mera condizione fisiologica, ma nel passaggio dallo stato sociale di bambino a quello di adulto, che comporta modi diversi di pensare, comportarsi e rapportarsi agli altri. Ogni società presenta differenti fasce d’età, caratterizzate dall’unione d’individui con età simili (coorte). Molteplici e numerosi sono stati i dibattiti in merito alla definizione dell’ampiezza e della natura sociale di tali fasce le quali, per convenzione, vengono generalmente ricondotte a cinque tipologie principali: infanzia, adolescenza, gioventù, maturità, vecchiaia. Tra queste fasce, la gioventù solleva ancora numerosi dubbi e questioni: non solo è difficile racchiuderla in precisi confini temporali, ma il suo studio è reso ancora più arduo dal mutare delle condizioni sociali che influenzano e determinano il susseguirsi delle fasi nel ciclo di vita. In altre parole, non è possibile stabilire con certezza a che fascia d’età possono essere ricondotti gl’individui che comunemente chiamiamo giovani, perché non esiste una età precisa in cui si comincia ad essere giovane e, ancora meno, n’esiste una in cui si finisce di esserlo. Inoltre, se difficile è delimitare la categoria dei giovani in base ad una età biologica, ancora di più lo è se si tiene conto dell’età sociale degli individui, che li rende magari giovani per quanto riguarda certe funzioni sociali, e vecchi in rapporto ad altre. Da tali considerazioni emerge tutta la difficoltà di fornire una definizione sintetica di giovani e gioventù. Anche sul versante della ricerca dedicata ai giovani si rintracciano difficoltà a definire con precisione l’oggetto di studio; una incertezza – quella del ricercatore – che si specchia nella indefinitezza che caratterizza il campo e i protagonisti dell’indagine: «I giovani non sono più degli adolescenti, se l’adolescenza finisce con l’acquisizione della piena capacità sessuale di procreare, ma non sono ancora degli adulti, se la vita adulta significa piena assunzione di responsabilità sociali. I giovani possono allora venire definiti solo in negativo, come non più e non ancora?» (1). (1) Buzzi C., Cavalli A., de Lillo A. (a cura di), (1997), Giovani verso il duemila. Quarto rapporto IARD sulla condizione giovanile in Italia, il Mulino, Bologna, p. 15. Giovanni Levi e Jean-Claude Schmitt evidenziano una caratteristica della giovinezza che sembra costituire la vera differenza con le altre stagioni della vita umana: «… la giovinezza si caratterizza per il suo marcato carattere di liminalità. Infatti essa si colloca all’interno dei margini mobili tra la dipendenza infantile e l’autonomia dell’età adulta, in quel periodo di puro cambiamento e di inquietudine in cui si realizzano le promesse dell’adolescenza, tra l’immaturità sessuale e la maturità, tra la formazione e il pieno dispiego delle facoltà mentali, tra la mancanza e l’acquisizione di autorità e potere» (1). (1) Levi G., Schmitt J.-C., (1994), Storia dei giovani, Laterza, Roma-Bari, pp. VI-VII. Il concetto di liminalità presuppone che un individuo in uno spazio temporale non rigidamente definito, ad un certo punto, abbandoni definitivamente il confine (limen) e approdi ad un’altra stagione di vita. In Italia, e in forma diversa in molti paesi occidentali, tale limite è oggi oltrepassato sempre più tardi. Com’evidenziano i dati statistici e le ricerche europee, la soglia dell’età adulta è varcata con un ritardo (rispetto a tempi precedenti) sempre maggiore. Si parla di «moratoria prolungata» per descrivere un fenomeno che vede i giovani restare sospesi, prolungando gli studi, restando a casa con i genitori, differendo l’età del matrimonio sempre più in avanti, dilazionando quelle scelte che indicano l’abbandono definitivo dell’infanzia e dell’adolescenza e l’entrata nella vita adulta. Secondo Olivier Galland (1), la gioventù non è stata sempre distinta dalle altre età della vita e non lo è tuttora in alcune società tradizionali, ma non vi è dubbio che essa, in quanto categoria di pensiero, è una «invenzione della modernità», legata all’emergenza dell’individuo e dell’intimità familiare come valori, e all’idea sviluppata dalla filosofia dei Lumi che l’istruzione può permettere alla persona di uscire dalla sua condizione sociale originaria: la gioventù, che rappresentava essenzialmente un periodo di attesa e d’incompiutezza, diventa nel XVIII secolo l’età dell’ammaestramento e della preparazione alla vita adulta. (1) Galland O., (2002), Sociologie de la jeunesse, Armand Colin, Paris. I primi che hanno cercato di produrre una rappresentazione scientifica di questo periodo della vita sono stati gli psicologi i quali, all’inizio del XX secolo, hanno concepito la giovinezza come una età di crisi e di riorganizzazione che segue la pubertà, come una seconda nascita, come un processo di maturazione psicologica e sessuale. Solo più tardi, appaiono gli approcci sociologici alla gioventù, ad opera di pionieri come il sociologo americano Talcott Parsons i cui lavori, agl’inizi degli anni Quaranta, coincidono con la scolarizzazione di massa. Nel secondo dopoguerra, si apre un periodo di analisi culturalista, con gli studi di Edgar Morin che, dopo l’esplosione negli anni Sessanta della cultura giovanile e dei movimenti studenteschi, può essere considerato lo scopritore del fenomeno giovanile. A partire dalla metà degli Ottanta, un’altra generazione di sociologi tende, invece, a considerare la giovinezza come un passaggio tra diverse età della vita, come una porzione del ciclo di vita, e non più solo come una sottocultura isolata dal resto della società o come un fatto puramente ideologico. Si apre, così, un nuovo campo di studi: gli interrogativi che si pongono oggi, dal punto di vista sociologico, sono quelli di sapere come sia suddiviso questo periodo del ciclo della vita, nella realtà e nella rappresentazione che ne abbiamo, come venga definito, quali siano le soglie che lo caratterizzano, in che modo esse si articolino tra loro e varino nel tempo, secondo le generazioni, come si attui l’ingresso nella vita adulta. Lungo tutto il corso della seconda metà del XX secolo, i percorsi di socializzazione e comunicazione giovanile si sono canalizzati fortemente in dinamiche orizzontali con il gruppo dei pari, e flebilmente in discorsi (nel più frequente senso del distacco/discordanza) verticali con la famiglia e la scuola. Alle soglie del XXI secolo, tale corto-circuito educativo si allarga sempre di più includendo nei percorsi comunicativi dei nuovi giovani massicce dosi di consumi d’acquisto e culturali di media: è sotto gli occhi di tutti l’ampio parco tecnologico a loro disposizione, la raffinata competenza d’uso di tali strumenti e la variegata tastiera di accesso ad infinite offerte d’informazioni multimediali. Il dato più immediato è lo spostamento sistemico del baricentro formativo dalla scuola ai media, e il passaggio da modelli di socializzazione tramite mediazione, forniti dalle agenzie educative tradizionali, ad una socializzazione senza mediazioni, fornita dai media (1). Sulla base di queste tendenze, il sistema educativo è chiamato a fornire ai soggetti in formazione abilità e competenze mediali, assumendo i media come un nuovo “ambiente di vita” che dà forma alle esperienze cognitivo-emotive e socio-relazionali degli individui (2). (1) Morcellini M., (1997), Passaggio al futuro. Formazione e socializzazione tra vecchi e nuovi media, Franco Angeli, Milano. (2) Greco G., (2004), L’avvento della società mediale. Riflessioni su politica, sport, educazione, Franco Angeli, Milano. «In questi ultimi decenni si è assistito ad un crescente fenomeno di “giovanilizzazione” della società, alla corsa sfrenata al mantenimento se non proprio di uno stato reale almeno di un’apparenza giovanile» (1). Come dimostra la nascita e la proliferazione di strutture adibite al benessere fisico, specializzate nel mantenimento e nei trattamenti anti-age, va emergendo la «convinzione che la condizione giovanile vada preservata il più a lungo possibile poiché essere giovani equivale ad essere felici, ad essere flessibili e aperti ai cambiamenti, ad essere reversibili ed abili a cogliere le nuove possibilità che si prospettano. Per molti il passaggio dalla giovinezza alla maturità è visto con paura e viene rimandato il più possibile nel tempo perché equivale al venir meno di tutti i privilegi tipici dell’età giovanile» (2). (1) Pasqualini C., (2005), Adolescenti nella società complessa, Franco Angeli, Milano, p. 60. (2) Ibidem. In altre parole, come ha già evidenziato Morin nei primi anni Sessanta, la giovinezza è diventata un mito e un oggetto di culto della società complessa (1). Esiste, infatti, una stretta connessione tra società frammentata e mito della giovinezza. A partire da alcuni concetti quali quelli di «società dell’incertezza» (2), policentrismo dell’esperienza, frammentazione, globalizzazione, vuoto etico e reversibilità delle scelte, possiamo ipotizzare che la gioventù, proprio per le caratteristiche che la connotano, è «la condizione che meglio si adatta al clima culturale, politico e sociale in cui siamo chiamati a vivere quotidianamente» (3). (1) Morin E., (1963), L’industria culturale, il Mulino, Bologna, pp. 161-173. (2) Bauman Z., (1999), La società dell’incertezza, il Mulino, Bologna. (3) Pasqualini C., (2005), op. cit., p. 61. In ultima analisi, il paradigma dominante di questa fase storica è quello della giovanilizzazione, in cui l’età sociale si disancora da quella biologica, rendendo il soggetto libero di consacrare la propria parabola esistenziale al mito imperante della giovinezza. La giovinezza si diffonde a livello sociale, diviene oggetto di culto e di desiderio di generazioni diverse, il suo mito si globalizza e alimenta mode e consumi. Per certi versi, si potrebbe anche dire che negli ultimi decenni la giovinezza ha subito un processo di proletarizzazione, nel senso che da condizione privilegiata di pochi e di una determinata età è diventata condizione di molti e di tutte le età. Essa, inoltre, potrebbe essere considerata come possibile risposta di tipo tattico alla incertezza che caratterizza la nostra società, alla frammentazione sociale e al vuoto etico tipici di questa epoca storica. Quando le certezze diminuiscono, quando la società diviene eticamente neutra, anomica, e affida ai singoli individui la possibilità di scegliere, si ha come reazione il ripiegamento della persona sul proprio io, unico legislatore della propria esistenza (1). L’autocentrazione del soggetto, oltre ad accentuare le tendenze all’individualismo, fa sì che ciascuno decida le strategie che ritiene migliori per soddisfare i propri bisogni di appartenenza e relazionali, che restano fondamentali. (1) Lasch C., (1984), The Minimal Self. Psychic Survival in Troubled Times, Norton, New York (trad. it. L’io minimo. La mentalità della sopravvivenza in un’epoca di turbamenti, Feltrinelli, Milano, 1985). Dunque la giovinezza, come età sociale disancorata da quella biologica, sembra adattarsi bene a questo periodo storico. Ciò che la rende desiderabile a tutte le età, facendola diventare il mito da seguire, è la sua stessa peculiarità: il suo non essere più e non essere ancora, la sua natura di transizione, di flessibilità, di centrazione sul presente come unica certezza, il suo atteggiamento di non scelta o di scelta non definitiva e reversibile. L’età adulta, con tutte le responsabilità che le sono proprie, fa paura, non è più un mito da seguire; dunque è preferibile restare giovani. Le indagini sociologiche più recenti mostrano una difficoltà nel definire esattamente chi siano i giovani e, più che di giovani, si parla dell’essere giovanili. I giovani scompaiono per troppo successo, e «quella rappresentazione che vedeva la gioventù come emblema dell’uomo moderno si realizza nella modernità dispiegata nell’idea di un uomo moderno che è realmente sempre giovane» (1). (1) Santambrogio A., (2002), “Le rappresentazioni sociali dei giovani in Italia: alcune ipotesi interpretative”, in F. Crespi (a cura di), Le rappresentazioni sociali dei giovani, Carocci, Roma, p. 36. Sebbene attorno alla nozione di generazione giovanile permanga una certa confusione, si può asserire che i giovani del nuovo secolo sono diversi da quelli degli anni Sessanta e Settanta i quali, a loro volta, si distinguono da quelli degli anni Ottanta, Novanta e del nuovo secolo (1). Donati e Colozzi hanno proposto una periodizzazione della generazione giovanile, al fine di evidenziare le peculiarità dell’attuale generazione rispetto a quelle delle decadi precedenti (2): (1) Jedlowski P., Leccardi C., (2003), Sociologia della vita quotidiana, il Mulino, Bologna. (2) Donati P., Colozzi I. (a cura di), (1997), Giovani e generazioni, Il Mulino, Bologna. Decadi Generazione giovanile Anni Cinquanta Contrapposizione con gli adulti Anni Sessanta Classe sociale Movimento collettivo Anni Settanta Stile di consumo Anni Ottanta Perdita di specificità del concetto Primi tentativi di ripensare il concetto Anni Novanta Consapevolezza che il concetto è datato Ridefinizione del concetto Negli anni Cinquanta, la generazione giovanile è stata pensata a partire dallo scontro tra genitori antiquati e gioventù irrequieta (bruciata), ovvero dal conflitto strutturale tra fasce d’età che, dalla famiglia, si proiettava sull’intera società. A partire dagli anni Sessanta, è stata definita come nuovo soggetto sociale che esprimeva il disagio non più nella famiglia, ma nella sfera pubblica. Negli anni Settanta, questa visione ha ricevuto ulteriore impulso da una concezione consumistica e comunicativa della generazione giovanile. Negli anni Ottanta, appare chiaro che questi modi di pensare hanno portato ad una concezione del tutto equivoca di gioventù, e prende avvio un processo di ripensamento della generazione giovanile. A partire dagli anni Novanta, si fanno strada nuove concezioni. Ciò richiede, ripensamento del generazione. necessariamente, concetto stesso un di Se per generazione intendiamo un gruppo d’individui della stessa età, che sente di vivere una stessa esperienza storica e si sente portatore di un progetto comune e di una serie d’ideali nei quali crede e di cui diviene attore sociale, siamo costretti a registrare che i giovani del nuovo secolo non sono una generazione; anzi, sono una non-generazione. In quali termini, allora, possiamo ancora parlare di generazione giovanile? Una risposta possibile risiede nella comune esperienza dell’incertezza. La nuova generazione giovanile è accomunata dall’incertezza che sembra caratterizzare i suoi vissuti e le singole biografie: ciascun individuo sa di essere il solo legislatore della propria vita e della propria condotta; la norma si fa privata e la morale diviene individualizzata; ciò che conta è scegliere, con tutti i risvolti che tale inedita libertà di scelta comporta. In ultima analisi, volendo descrivere l’evoluzione storica più recente delle rappresentazioni sociali dei giovani (1), si possono evidenziare tre differenti percorsi, definibili rispettivamente come: radicalizzazione, differenziazione e diffusione. • Il primo produce una identità fortemente oppositiva, tale da portare anche alla messa in discussione radicale di alcuni elementi portanti dell’intero sistema sociale. • Il secondo porta da una parte ad accettare alcune regole di base, e dall’altra a sottolineare la diversità dell’identità di gruppo, senza che questo fatto conduca a punti di rottura definitivi e radicali. • Il terzo implica l’estensione di alcuni modelli identitari di gruppo a tutto il contesto sociale, che sostanzialmente finisce col farli propri. (1) Santambrogio A., (2002), Le rappresentazioni sociali dei giovani in Italia: alcune ipotesi interpretative, in F. Crespi (a cura di), Le rappresentazioni sociali dei giovani, Carocci, Roma. Queste rappresentazioni si sono realizzate in epoche differenti, a ciascuna delle quali corrisponde un diverso paradigma. Dopo una “fase zero”, che va dal 1950 al 1967, nella quale giovane è solo un aggettivo che si applica ad una fase del ciclo della vita e corrisponde a modelli culturali e di comportamento piuttosto standardizzati e legati alla tradizione, si possono evidenziare altre tre fasi. Dal 1968 al 1980, si assiste alla piena affermazione dei giovani in quanto soggetto autonomo, e questa loro autonomia non può più essere ricondotta a quella di altri soggetti sociali. È in questa fase che si forma il paradigma del conflitto. Dal 1981 al 2000, il paradigma del disagio interviene a segnare il passaggio dei giovani da soggetto a oggetto sociale. Dal 2000 ad oggi, giovane torna ad essere un aggettivo che, però, non si riferisce più ad una specifica fascia d’età, ma potenzialmente a tutte le età. Prende avvio in questa fase quel processo di giovanilizzazione, per via del quale dai giovani si passa alla retorica della giovinezza. Giovani e media Il protagonismo e la crescente pervasività dei media, in ogni ambito della vita umana, hanno modificato profondamente l’esperienza del mondo delle giovani generazioni, le loro modalità d’interagire con le sue diverse realtà e con gli altri. La dilatazione degli eventi, delle informazioni, delle immagini, dei suoni, delle emozioni di cui – grazie ai media – possono essere in qualche modo testimoni ha dato vita a nuove forme di esperienza e di comunicazione. In questo nuovo scenario, cambiano i caratteri della vita quotidiana e l’esperienza tende a farsi sempre più mediata: Ciò significa, innanzi tutto, che: la presenza del corpo, l’interazione con l’ambiente fisico, il «fare» sono ridotti ai minimi termini; al contrario, si ampliano i contenuti di ciò che veniamo a sapere, che possiamo immaginare o al cui suono possiamo «vibrare». Sapere, immaginare, vibrare emotivamente hanno sempre fatto parte dell’esperienza… ma mai si erano sganciati a questo modo dal fare, dal rischiare – almeno un po’ – in prima persona…(1). (1) Jedlowski P., (1994), Il sapere dell’esperienza, Il Saggiatore, Milano, pp. 119-120. Assumendo l’esperienza come un processo di apprendimento grazie al quale, interpretando ciò che attraversiamo, impariamo come comportarci, un processo che non ci lascia mai identici a noi stessi, ma ci trasforma, una questione che si pone è se e come possiamo considerare esperienza quella “mediata”. Rispetto a tale questione, non vi è dubbio che i personaggi che incontriamo nei media non sono persone in carne ed ossa, così come le situazioni e le emozioni cui partecipiamo non si svolgono in luoghi e contesti in cui siamo fisicamente presenti. Tuttavia nei media incontriamo quanto meno noi stessi. E non è detto che ciò non ci trasformi. In ogni caso, tra la vita e le sue rappresentazioni si stabilisce una circolarità: ciò di cui siamo edotti grazie ai media è reincastonato nella quotidianità tanto quanto la quotidianità lo è nei testi mediali; quello che si instaura è un gioco di citazioni reciproche che non lascia nessuno immutato (1). (1) Jedlowski P., (2005), Un giorno dopo l’altro. La vita quotidiana fra esperienza e routine, Il Mulino, Bologna, p. 148. I media influenzano l’attuale conformazione del senso comune e, dunque, la conformazione della nostra esperienza. Il processo di compressione spazio-temporale di cui parla D. Harvey (1) o di sganciamento dello spazio dal tempo cui allude A. Giddens (2) comporta, infatti, una parziale de-fisicizzazione dell’esperienza e, al tempo stesso, un emancipazione del senso comune da legami univoci con un territorio. J.B. Thompson (3) utilizza i termini di simultaneità despazializzata e di intimità non reciproca a distanza, per descrivere una inedita forma di esperienza, impensabile prima dell’avvento dei media elettronici. (1) Harvey D., (1993), La crisi della modernità, Il Saggiatore, Milano. (2) Giddens A., (1994), Le conseguenze della modernità, Il Mulino, Bologna. (3) Thompson J.B., (1998), Mezzi di comunicazione e modernità. Una teoria sociale dei media, Il Mulino, Bologna. Se in qualsiasi periodo storico precedente lo “stesso tempo” implicava lo “stesso luogo”, oggi, grazie ai media: • luoghi non fisicamente accessibili sono presenti nel nostro orizzonte, a portata dei nostri saperi e delle nostre azioni; • siamo fisicamente in un luogo e, nello stesso tempo, possiamo essere a conoscenza di ciò che accade in un altro; • siamo soli ma, contemporaneamente, possiamo essere con altri; • appartenenze e identità possono ridefinirsi sulla base di interessi, valori, immaginari comuni, senza più corrispondere necessariamente a spazi fisici condivisi. Venendo ad includere materiali provenienti da contesti diversi da quelli in cui il corpo è collocato, l’esperienza si trasforma – come osserva Jedlowski (1) – in un curioso equilibrio fra sentimenti di presenza e di assenza, ovvero tra la percezione di essere lì e di non essere lì. Ciò trasforma le persone e i loro orizzonti di senso e di azione, come dimostrano in particolare gli studi su giovani e media condotti nel nostro Paese. La cornice che fa da sfondo al rapporto che essi intrattengono con i media e caratterizzata da una serie di elementi: (1) Jedlowski P., (2005), op. cit. • le tradizionali agenzie educative (famiglia e scuola, innanzi tutto) hanno conosciuto una crisi di proporzioni mai viste prima. • nell’intera società si è verificato un progressivo dissolvimento di qualunque idea forte d’identità, mentre si sono affermati valori quali flessibilità, adattabilità, aggiornamento continuo che evidenziano la crescente difficoltà delle persone ad inserirsi in un contesto (culturale, affettivo, lavorativo) stabile. • l’affermazione di modelli adolescenziali (connotati, per lo più, in chiave estetica), ad ogni livello e ad ogni età, hanno contribuito a rendere ancora più confusa nei giovani la percezione di sé. L’instabilità tipica del mondo contemporaneo ha contribuito ad aumentare l’importanza dei media i quali, configurandosi non solo come suggeritori di mode, ma soprattutto di modi attraverso i quali affrontare le varie vicissitudini della vita, sono percepiti, oltre che come veicoli attraverso cui scambiare messaggi, ricevere informazioni, conoscere cose nuove, anche come mezzi mediante i quali costruire legami sociali e identità personali, come uno spazio protetto all’interno del quale sperimentare il rapporto con la realtà e con le altre persone senza correre rischi, attraverso l’adesione fantastica a personaggi, modelli, contesti continuamente intercambiabili (1). (1) CENSIS-UCSI, (2004), Giovani & Media. Terzo Rapporto sulla comunicazione in Italia, Franco Angeli, Milano. In ultima analisi, i media rappresentano per i giovani componenti essenziali del mondo in cui vivono e fanno esperienza: • con loro si confrontano per crescere; • a loro si rivolgono per formare la propria identità e il proprio sistema di valori; • in loro si specchiano per verificare se l’immagine di sé che proiettano all’esterno risulta efficace. Le ricerche scientifiche, condotte negli ultimi anni nel nostro Paese, mettono in luce che il contesto generale d’impiego dei media da parte dei giovani è molto più esteso di quello degli adulti, con una maggiore propensione all’uso con funzione di svago e una minore attrazione verso i media a stampa. Ad avere delle modalità di fruizione particolari dei media sembrano essere, per lo più, i giovani sotto i vent’anni: passata questa soglia, le loro abitudini cominciano ad avvicinarsi a quelle degli adulti, tanto da far ritenere che, almeno dal punto di vista dei consumi multimediali, la vera giovinezza sia l’adolescenza. Le parole-chiave che contraddistinguono le pratiche di consumo giovanili sono: immediatezza, leggerezza, velocità, superficialità; ma queste caratteristiche si accompagnano ad un bisogno di coinvolgimento emotivo e di approfondimento, e alla ricerca di soggetti autorevoli cui fare riferimento. I giovani hanno una concezione emotiva e sentimentale del loro rapporto con i media, che usano piegandoli alle proprie esigenze (è il caso della radio, di cui apprezzano la capacità d’interagire con loro utilizzando lo stesso linguaggio) oppure impiegandoli per abitudine o svago ma non amandoli (è il caso della televisione, davanti alla quale passano molto tempo, ma che raramente suscita il loro entusiasmo). Considerando la comunicazione come uno scambio tra pari, essi ritengono che strumenti come la televisione, i giornali e la stessa radio (peraltro, molto amata) trasmettano informazioni, per cui hanno a che fare più con la conoscenza che con le emozioni, mentre individuano nel telefono cellulare e, in minor misura, in internet gli strumenti più adatti a svolgere questo ruolo relazionale. Più in generale, i giovani costruiscono dei percorsi personali d’impiego dei media, selezionando tra i contenuti e i codici proposti quelli ritenuti più adeguati alla propria esperienza soggettiva. Sul piano dei contenuti, più che ad una particolare categoria di argomenti, le loro preferenze vanno a ciò che in una prospettiva aperta si propone per la sua stringente attualità. La conseguenza principale di questo atteggiamento consiste nel rapido esaurirsi dell’interesse nei confronti di qualsiasi argomento, non appena questo risulti datato. Un altro aspetto riguarda la distinzione, operata dai giovani, tra comunicazione interpersonale e informazione di massa, sulla cui base si fa strada anche la divisione tra quello che essi conoscono personalmente (esperienza diretta) e quello che è veicolato e determinato dai media (esperienza mediata). Di conseguenza, la realtà (ovvero: ciò che accade al di là della propria esperienza personale) è composta da flash che si consumano nel momento in cui i media li presentano nella loro contemporaneità. Con ciò, un evento acquisisce la dignità di avvenimento reale solo nella misura in cui riesce ad entrare nel circuito mediatico. Per questa via, i giovani tendono a considerare come reale ogni rappresentazione proposta dai media, sia che si tratti di una realtà che esiste indipendentemente dai media, sia che risulti costruita come un evento mediatico, sia che si presenti come fiction, e dunque come una manifestazione prodotta dall’immaginazione. Passando all’esame dei loro codici preferiti, essi tendono a privilegiare quelli che consentono di attivare una dimensione esplorativa ed emotiva, piuttosto che processi di comprensione intellettuale. Preferiscono, infatti, una logica impressionistica, legata all’intuizione sensoriale e al rimando ad esperienze vissute, mentre la logica analitica, rivolta al conoscere e al comprendere, è considerata con sospetto o, comunque, estranea. Ciò che essi sembrano temere di più è la presenza di un progetto pedagogico nei media; anzi, appaiono refrattari all’idea stessa che vi possa essere un progetto. Vivere alla giornata cogliendo quello che, di volta in volta, produce un piacere immediato è il tipo di rapporto che i giovani tendono ad intrattenere con i media, vissuti con sospetto ogni qual volta danno l’impressione di volere insegnare loro qualcosa. Ne consegue una evidente contraddizione: essi si affidano ai media per la loro formazione, ma non vogliono che i media li formino. Di questa contraddizione vive il rapporto dei giovani e degli adolescenti con i media. Fondamentale, inoltre, è la dimensione tecnologica del mezzo che, a prescindere dai contenuti veicolati, rappresenta essa stessa un fattore positivo in quanto consente di eliminare le barriere spazio-temporali (il messaggio arriva ovunque e immediatamente, permettendo a chi lo riceve di sentirsi al centro del flusso degli eventi), di realizzare una partecipazione simulata (quindi: senza rischi, ma appagante) agli avvenimenti che vengono rappresentati, e di rispiarmare fatica (le tecnologie provvedono a mostrare il reale, evitando lo sforzo necessario per comprenderlo). La questione che rimane aperta è perché, nonostante l’esaltazione della comunicazione orizzontale, i mass media conservino intatto il loro potere di attrazione su adolescenti e giovani. Per rispondere a questa domanda, bisogna prendere in considerazione i loro modelli di fruizione. A differenza del pubblico adulto che cerca nei media il soddisfacimento di bisogni informativi, quello giovanile assegna loro dei compiti relazionali. In realtà, queste due funzioni risultano intrecciate a tutte le età, ma tra gli adulti prevale più spesso la tendenza ad usare i media per sapere qualcosa sul mondo o, almeno, per dare un senso al disordine degli eventi che si verificano, collocandoli lungo una scala di valori messa a punto anche con il concorso dell’esperienza di fruizione dei media, mentre tra i giovani e gli adolescenti ciò che prevale nel momento in cui si accostano ai media è sapere che gli altri vedono, sentono, ascoltano le stesse cose cui essi prestano attenzione. In questo modo, si alimenta quel senso di appartenenza a una comunità di simili che, proprio per il fatto di avvicinarsi nello stesso momento agli stessi messaggi, acquisiscono una identità di gruppo. In quanto consumatori di mass media, essi non si sentono isolati nella comunità dei loro pari, e sanno che potranno parlare di quello a cui si sono accostati con la certezza del fatto che gli altri li capiranno. Inoltre, per quanto possano vivere una condizione periferica e marginale, tramite i mass media hanno l’impressione di collocarsi al centro del mondo, di sentirsi protagonisti di qualunque evento potendovi partecipare nel momento stesso in cui si verifica: partecipare, senza essere coinvolti personalmente in quello che accade, secondo un modello di fruizione in base al quale tendono a considerarsi spettatori di un mondo in cui tutto finisce per sistemarsi come per magia, grazie alla tecnologia; anche se questa sensazione di onnipotenza, determinata dalla interiorizzazione dei procedimenti narrativi diffusi dai mass media, produce molto spesso il rifiuto dell’impegno rivolto al conseguimento di un fine, della fatica necessaria per ottenere dei risultati portando a compimento un progetto. Infine, sempre grazie ai mass media, essi sono in grado di accedere a un grande repertorio di storie che producono stupore, meraviglia, commozione, grazie alle quali possono combattere la noia, vissuta come il nemico in agguato in qualunque momento della giornata; l’altro grande nemico è rappresentato dal senso di angoscia, provocato dai mille problemi che quotidianamente sono costretti ad affrontare. Sotto questo aspetto, i mass media forniscono un ottimo strumento di fuga dalla realtà, considerato l’apparato ludico ed evasivo che propongono, ma anche di fuga nella realtà, grazie all’opportunità che forniscono d’immergersi in problemi di ampio respiro e di rilevante impatto sociale, però abbastanza lontani dalla propria esperienza quotidiana da poter essere utilizzati come uno “spazio protetto” in cui rifugiarsi.