Filosofia del lavoro a.a. 2011-2012 O l t r e l’ a l i e n a z i o n e. Il lavoro come risorsa antropologica di realizzazione. INDICE Modulo I: Filosofia del lavoro a) Il disagio contemporaneo da lavoro b)Questioni di compatibilità tra filosofia e lavoro c) Antefatti storici di filosofia del lavoro d) La filosofia del lavoro in senso pieno di Max Scheler e) La divisione del lavoro. Breve storia f)Il problema dell’alienazione del lavoro in K. Marx g) La riduzione economicistica e la progressiva perdita di valenza antropologica del lavoro Modulo II: Fenomenologia del lavoro a) La concezione del lavoro umano di Max Scheler b) Il lavoro come “fare doppiamente diviso” c) Il lavoro come eseguire un compito d) Uno stratagemma filosofico per “superare” l'alienazione del lavoro e) Casi di lavoro felice per il ben-vivere/essere MODULO I Filosofia del lavoro a) Il disagio contemporaneo da lavoro Nella seconda metà XX secolo sono emersi numerosi segnali di problematicità del lavoro : - il workhaolism o sindrome da dipendenza da lavoro; - il burn-out o sindrome dell'esaurimento affettivo, specie nelle helping professions (Cfr.: allegato: D. VERDUCCI, Ritrovare l’empatia perduta) - il mobbing o pratica della marginalizzazione nel lavoro - la generazione «né studio né lavoro» ovvero 700.000 giovani tra i 18 e i 35 anni che in Italia si sentono vittime di una devastazione lavorativa, al pari dei loro coetanei spagnoli, secondo i dati del Rapporto Giovani 2008, elaborati dal Dip. Studi sociali e demografici della Sapienza di Roma per conto del ministro della Gioventù Giorgia Meloni e pubblicati dal Corriere della sera. - l'uomo flessibile di R. Sennett, il cui carattere si destabilizza a causa della instabilità del lavoro K. Marx (1818-1883) Era stato K. Marx tra i primi a denunciare sia ne Il Capitale* che nei Manoscritti economicofilosofici del 1844** i rischi di depauperamento dell'umano connessi con il lavoro nella sua organizzazione capitalistica, generatrice di alienazione (Enteusserung/Entfremdung). *Il Capitale Il Capitale (Das Kapital) è l'opera maggiore di Karl Marx ed è considerata il testo-chiave del marxismo. Il Libro I, Critica dell'economia politica, fu pubblicato quando l’autore era ancora in vita (1867), mentre gli altri uscirono postumi. Il Libro II ed il III uscirono a cura di Friedrich Engels rispettivamente nel 1885 e nel 1894. Il Libro IV venne pubblicato (1905-1910) da Kautsky con il titolo di Teorie del plusvalore. Karl **I Manoscritti economico-filosofici del 1844 Si tratta di fogli di appunti su questioni economiche e filosofiche che Marx scrisse mentre si trovava a Parigi, fra la primavera e l'estate del 1844. Egli vi affronta impegnativi temi economici, quali «il salario», il «profitto» del capitale, la «rendita fondiaria», il «lavoro alienato», la «proprietà privata e il lavoro», la «proprietà privata e il comunismo». Alla fine c'è poi una «critica della dialettica e della filosofia hegeliana in generale», che si ricollega alla Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico del 1843. Vi è però anche evidente l'eredità del materialista L. Feuerbach, che aveva rivalutato l' «uomo reale, corporeo, che sta sulla ferma e solida terra», di contro all'idealista Hegel, per il quale «l'uomo è uguale ad autocoscienza». I Manoscritti economico-filosofici del 1844 Di questa mole di appunti sono conservati tre manoscritti, pubblicati per la prima volta nel 1932. In essi Marx si appoggia alle minuziose notazioni che aveva tratto dalle opere degli economisti letti, opere che ora sottopone a critica utilizzando la nozione filosofica di «estraneazione» (Entfremdung/Enteusserung), presa nel senso che le aveva dato L. Feuerbach e combinata con indicazioni di Moses Hess.. Liberare il lavoro con la rivoluzione Per uscire dalla condizione di alienazione, indotta dal lavoro nella sua organizzazione capitalistica, Marx proponeva una rivoluzione socio-economica. Egli riteneva che solo modificando l'assetto capitalistico della società, si sarebbe potuto liberare il lavoro dall'alienazione, facendolo ritornare ad essere integrale espressione e mezzo insostituibile della capacità umana di produrre liberamente la propria vita. Un dubbio A quasi due secoli dall' ipotesi marxiana di liberazione rivoluzionaria del lavoro, ancora attendiamo l'aprirsi di una via d'uscita nell'orizzonte socio-economico e ci sentiamo anzi paralizzati dall'unilateralità dell'aspettativa di una soluzione oggettiva al problema dell'alienazione del lavoro. Un dubbio ci sfiora: e se ci fosse una via soggettiva da percorrere , sfuggita a Marx, mentre ci adoperiamo alla trasformazione strutturale del mondo? Un tentativo Non ci resta che andare a rivisitare direttamente la genesi delle “teorie/filosofie del lavoro” fino a quella del “lavoro liberato”, sviluppata da Marx nei Manoscritti economico-filosofici, preparatori delle analisi economiche de Il Capitale, per verificare se egli e altri come lui non siano stati troppo frettolosi nel considerare tutte le risorse soggettive oggettivate nel lavoro e, nell'assetto capitalistico, definitivamente fagocitate dal capitale. b) Questioni di compatibilità tra filosofia e lavoro Cfr.: - D. Verducci, Il segmento mancante. Percorsi di filosofia del lavoro, Carocci, Roma 2003, cap. I, “Questioni trascendentali di compatibilità tra filosofia e lavoro”, pp. 15-53 e 65-80 - D. Verducci, Gli esordi della filosofia del lavoro in Max Scheler, in: G. Ciocca, D. Verducci (a cura di), Cento anni di lavoro. Ricognizione multidisciplinare sulle trasformazioni del lavoro nel XX secolo, Giuffrè, Milano 2001, pp. 130-133. c) Antefatti storici di filosofia del lavoro - La filosofia del lavoro in senso oggettivo - Senso soggettivo della filosofia del lavoro Cfr.: Verducci, Gli esordi della filosofia del lavoro in Max Scheler, op. cit., pp. 134-137, pp. 138-142 d) La filosofia del lavoro in senso pieno di Max Scheler Cfr.: Verducci, Gli esordi della filosofia del lavoro in Max Scheler, op. cit., pp. 143-146 e) La divisione del lavoro. Breve storia Testo di riferimento: M. Kranzberg-J. Gies, Breve storia del lavoro. L'organizzazione del lavoro umano nel suo processo evolutivo, tr. it. a c. di G. Canavese e U. Livini, Mondadori, Milano 1991. Gli antropologi, che hanno studiato le società primitive tuttora esistenti in varie parti del mondo, hanno scoperto che, nonostante un vocabolario straordinariamente ricco per quanto riguarda gli aspetti della caccia, della pesca e delle altre attività di sussistenza, questi popoli non presentano un termine corrispondente al nostro “lavoro”. Cfr.: F. Boas, L'uomo primitivo, Laterza, Bari 1972. Il lavoro in epoca preistorica La spiegazione che è stata data di tale paradosso linguistico è che tra quei gruppi di sussistenza il lavoro era sinonimo di vita, perciò non lo si designava. In quelle società a livello economico la distinzione era solo tra il sonno e la veglia e essere desti significava essere al lavoro. Per molto tempo, circa 2.000.000 di anni, l'esistenza stessa degli uomini consisteva soprattutto di lavoro. Alcune eccezioni Occorre riconoscere, però, che alcuni testi antichissimi riportano già la distinzione tra il tempo del lavoro e il tempo del riposo. La Bibbia, p. es., nel libro della Genesi, attribuito, nella tradizione ebraica e cristiana prima dell'avvento del metodo critico, a Mosè nel 1513 a.C. circa e riferentesi a fatti che Eusebio da Cesarea calcola avvenuti nel 5199 a.C., mentre la tradizione rabbinica pone nel 3760 a.C., racconta che Dio creò il mondo in 6 giorni e il settimo giorno si riposò. La divisione del lavoro (1) Alla fine, ciò che fece saltare questo interminabile ciclo umano fu la scoperta della divisione del lavoro e quindi la sua organizzazione tramite la ripartizione in compiti assegnati ai più adatti allo scopo (uomini e donne, vecchi e giovani...). In poche migliaia di anni, l'organizzazione del lavoro si ramificò nella moderna società industriale con le sue 25.000 diverse occupazioni a tempo pieno, ognuna delle quali definisce colui che la pratica in termini di reddito, istruzione, status sociale, livello e stile di vita. La divisione del lavoro (2) La divisione del lavoro è probabilmente più vecchia dell'Homo sapiens. Attraverso la divisione dei compiti, essa può aver giocato un ruolo nella differenziazione dell'uomo dalle altre specie animali, promuovendo la costruzione degli strumenti, la formazione di una più complessa struttura del cervello e la comparsa del linguaggio. Divisione del lavoro (3) Nell'Era Paleolitica (2.000.000/1.000.000-10.000/8.000 a. C.) la distribuzione del lavoro era in pratica limitata alla raccolta del cibo. La popolazione della terra era scarsa e disseminata in gruppi isolati. L'assenza di comunicazioni tra i gruppi e l'insufficienza dei surplus di cibo limitavano una divisione del lavoro su basi geografiche, sebbene chi viveva in prossimità di fiumi o sui litorali si specializzasse nelle pesca e altri nella caccia e anche le attività di raccolta spingessero a una certa organizzazione all'interno del gruppo. Pervasività del lavoro nella vita Il dinamismo storico della divisione del lavoro e della sua conseguente organizzazione ha avuto un impatto incessante sull'intera società, scuotendola più volte dalle fondamenta. Al contrario, la percezione intellettuale del fenomeno è a lungo rimasta inadeguata e solo molto lentamente gli uomini divennero consapevoli delle implicazioni per la vita delle diverse modalità in cui il lavoro può essere organizzato per svolgere i suoi compiti. L'interdipendenza nel lavoro e la sociologia Il fenomeno dell'interdipendenza umana che la divisione del lavoro comporta, fu un elemento importante nella fondazione della sociologia, la nuova scienza sorta nella prima metà del XIX sec.. Si osservò infatti che nel regime della divisione del lavoro avviene che il lavoratore singolo adempie una funzione limitata e pertanto per soddisfare i propri bisogni deve fare affidamento sul nesso che lo collega a molti altri lavoratori, collocati in altre posizioni del sistema produttivo. H. Spencer,* intellettuale vittoriano, concluse perciò che una società può esistere solo quando in un gruppo di individui è presente la cooperazione. (H. Spencer, Principles of Sociology, Appleton, New York 1901; tr. it.,Principi di sociologia, Utet, Torino 1967) ----------------------------------------------*Per saperne di più cerca su Wikipedia! Emile Durkheim* “...si è detto perfino che, quanto più le funzioni di un organismo sono specializzate, tanto più elevato è il posto che esso occupa nella scala animale […] La divisione del lavoro non è più soltanto un'istituzione sociale scaturita dall'intelligenza e dalla volontà dell'uomo, ma è un fenomeno biologico generale, le cui condizioni debbono essere cercate, a quanto sembra, nelle proprietà essenziali della materia organizzata. La divisione del lavoro sociale si presenta come una forma particolare di questo processo generale; e le società, conformandosi a questa legge, sembrano cedere a una corrente che è nata molto prima di esse, e che trascina nella medesima direzione l'intero mondo vivente”. (E. Durkheim, De la division du travail social, Alcam, Paris 1893; tr it. La divisione del lavoro sociale, Edizioni di Comunità, Milano 1962, pp. 40-41). -----------------------------------*Per saperne di più cerca su Wikipedia! Emile Durkheim (2) Nell'identificare l'organizzazione del lavoro a principio esplicativo tanto dell'evoluzione biologica quanto di quella sociale, assimilando specializzazione delle funzioni e divisione del lavoro, Durkheim applicava le scoperte di Darwin alla teoria sociale, secondo il costume del tempo. Egli sottolineò il valore sociale dell'interdipendenza generata dalla divisione del lavoro, che mostrava una capacità di tenere unita la società pari a quello della religione, cui andava infatti sostituendosi. Emile Durkheim (3) Durkheim colse anche il pericolo di “anomia” che poteva derivare dalla crescente complessità sociale indotta dalla divisione del lavoro. L'individuo infatti alla lunga avrebbe potuto smarrire il senso della integrazione del proprio ruolo con quello degli altri, divenendo psicologicamente disgregato e smarrito, con la sensazione che la propria vita fosse priva di significato. Per evitare l’anomia Durkheim consiglia che il lavoratore non perda di vista i suoi collaboratori e coltivi la consapevolezza del fatto che “egli agisce nei loro confronti e reagisce ad essi”. E. Durkheim (3) «Se l'individuo non sa a cosa mirano le operazioni che svolge, se non le ricollega a uno scopo, può solo continuare il lavoro in modo abitudinario. Ogni giorno ripete gli stessi movimenti con monotona regolarità, ma senza minimamente interessarsi ad essi e senza comprenderli [...] Non si può restare indifferenti di fronte a una tale degradazione della natura umana» Nel XX secolo Molti pensatori del XX secolo hanno corredato l’anomia di Durkheim di termini come “alienazione” e “crisi di identità”, sviluppando il versante del rapporto tra soggettività e lavoro. Altri scienziati sociali si sono invece applicati alla relazione tra gli strumenti e le tecniche di produzione e gli aspetti organizzativi del lavoro, approfondendo la riflessione nei termini di ciò che è interno o esterno al lavoro. Nel XX sec. Si è ovviamente rilevato che cambiamenti tecnologici inducono variazioni (→)nell'organizzazione del lavoro: «gli strumenti manuali implicano un'abilità manuale; il macchinario a motore rimanda alla fabbrica; calcolatori e macchine transfer implicano automazione». Ma gradualmente è emerso anche il fenomeno meno eclatante della relazione reciproca (↔) tra tecnologia e organizzazione del lavoro. Come ha scritto Peter Drucker* : “Il lavoro, la sua struttura, organizzazione e concetti relativi devono ciascuno per la sua parte potentemente condizionare gli strumenti e le tecniche e il loro sviluppo”. (P. Drucker, Work and Tools, in «Technology and Culture», 1, 1960, 30) --------------------------------------------*Per saperne di più cerca su Wikipedia! p. Nel XX sec. In anni recenti si è rimasti sorpresi del fatto che, con l'aumentare del numero di nazioni altamente industrializzate, sono apparse modalità nuove e diverse di organizzare lo stesso tipo di produzioni tecnicamente avanzate. Le differenze di soggettività, nelle tradizioni, nelle forme di intervento del governo e dei sindacati, nel modo di affrontare il processo di lavoro da parte dei lavoratori sono risultate fonte di determinazione di differenze oggettive nei tassi diversi di produttività nelle fabbriche d'automobili negli Stati Uniti e all'estero, perfino nelle fabbriche di proprietà della stessa azienda e che producono automobili su linee di assemblaggio simili. Tale fenomeno contraddice la teoria della “convergenza” del fisico sovietico Andrej D. Sacharov, secondo la quale l'azione di processi industriali e simili avrebbe alla fine condotto alla scomparsa delle differenze tra le società sovietica e americana. Nel XX sec. Inoltre, se per tutto il corso del XIX sec., in virtù dell'avanzare del frazionamento all'interno di ogni comunità produttiva, tra comunità diverse nello stesso paese e tra diversi paesi del mondo, si formò un mercato mondiale in continua espansione e si avvalorò la convinzione che la divisione del lavoro, come sistematica frantumazione delle mansioni nelle loro componenti, diminuiva i costi e accresceva il rendimento, nel XX sec. si cominciò invece a dubitare di questo assioma. Oltre l'assioma della positività della divisione del lavoro Dopo che per oltre un secolo si era dato per scontato che il progresso dell'efficienza del lavoro industriale si collocava interamente nel campo della tecnologia, cioè era affidato principalmente all'incremento del numero delle macchine e al loro perfezionamento insieme all'ottimizzazione della loro applicazione nel contesto organizzativo, ci si accorse che la divisione del lavoro, così redditizia dal p. di v. oggettivo, poteva viceversa implicare perdite dal p. di v. soggettivo: perchè p. es. i lavoratori costretti a svolgere un unico compito si annoiano e producono meno o con minor precisione. Quasi improvvisamente, sul finire del XIX sec., riemerse l'importanza dell'individuo lavoratore nella produzione di fabbrica! b) L'avvento della produzione di massa Nel XX sec. matura l'avvento della produzione di massa, quasi a coronamento della precedente evoluzione del lavoro e delle sue due macro-fasi: 1. La fase pre-industriale - la prima divisione del lavoro; - irrigazione e classi sociali; - agricoltura, industria e ingegneria antiche; - la tecnologia medioevale; - le gilde e il sistema del putting out; - l'ingegneria, l'arte mineraria e la metallurgia medioevale; - le proto-fabbriche e il Nuovo Mondo. 2. La fase industriale - la rivoluzione industriale e la nascita della fabbrica; - l'avvento della produzione di massa: il sistema americano - l'avvento dell'automazione La rivoluzione industriale Nelle vecchie corporazioni artigiane, l'unità occupazionale era il lavoratore individuale; il suo lavoro era essenzialmente fatto a mano ed egli, di solito, eseguiva tutte le operazioni necessarie per la produzione di un singolo oggetto. L'introduzione delle macchine determinò una situazione del tutto diversa. Il processo lavorativo veniva ora frantumato in una serie di operazioni divise, ciascuna delle quali era eseguita da individui che in essa si specializzavano. La descrizione classica della nuova tecnica fu data da Adam Smith* nel primo capitolo della sua opera Ricerca sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni (pubblicata il 9 marzo 1776), in cui descrive una fabbrica di spilli. ---------------------------*Per saperne di più cerca su Wikipedia! Il lavoro nella fabbrica «Un operaio non addestrato a questa manifattura, che la divisione del lavoro ha reso un mestiere speciale e che non conosca l'uso delle macchine che vi si impiegano, l'invenzione delle quali è stata probabilmente originata dalla stessa divisione del lavoro, potrà a malapena, applicandosi al massimo, fabbricare un solo spillo al giorno, e certamente non ne potrà fabbricare venti. Ma, nel modo in cui si esegue ora tale fabbricazione, non soltanto essa è un mestiere speciale, ma si divide in molti rami, la maggior parte dei quali è analogamente un mestiere speciale. Un uomo tira il filo di metallo, un altro lo tende, un terzo lo taglia, un quarto lo appunta, un quinto lo arrotola alla estremità in cui deve farsi la testa; farne la testa richiede due o tre operazioni distinte, collocarla è un'operazione speciale, pulire gli spilli è un'altra e un'altra ancora è disporli dentro la carta; e in tal modo l'importante mestiere di fare uno spillo si divide in circa 18 operazioni distinte.... Il lavoro nella fabbrica ...18 operazioni distinte, che in alcune fabbriche sono tutte eseguite da operai distinti, benchè in altre fabbriche lo stesso uomo ne eseguirà talvolta 2 o 3. Ho visto una piccola fabbrica di questo genere, che occupava soltanto 10 uomini e nella quale, di conseguenza, ciascuno di loro eseguiva 2 o 3 operazioni diverse. Ma sebbene essi fossero assai poveri, e perciò non disponessero di tutte le macchine necessarie, pure, quando si impegnavano potevano fabbricare complessivamente 12 libbre di spille al giorno. Una libbra contiene oltre 4.000 spilli di media grandezza. Quelle 10 persone potevano dunque fabbricare assieme oltre 48.000 spilli al giorno». La produzione di massa E' la tecnica di produrre grandi quantità di beni a basso costo unitario, tramite un'organizzazione sistematica di uomini e macchine. 6 sono i suoi fattori costitutivi: 1. la standardizzazione del prodotto; 2. l'intercambiabilità delle parti; 3. una lavorazione di precisione tale che le parti si adattino l'una all'altra; 4.la meccanizzazione del processo di fabbricazione per raggiungere un alto volume di produzione; 5. la sincronizzazione del flusso di materie prime alle macchine con il flusso della produzione delle macchine; 6. la continuità del processo lavorativo, sia per eliminare i momenti morti sia per mantenere il flusso costante dei materiali in lavorazione Il sistema americano della produzione di massa La produzione di massa fu la logica conseguenza della rivoluzione industriale inglese, che comportando «il passaggio progressivo dalla “manifattura” alla “macchinofattura”» (S. Buchanan, Technology as a System of Exploitation, in C.F. Stover, The technological Order, Wayne State University Press, Detroit Michigan, 1963, p. 156) significò: - la frantumazione delle operazioni manuali dell'artigiano nelle loro parti componenti - la sostituzione ad esse di operazioni compiute da macchine instancabili, perchè dotate di motori - la “razionalizzazione” del sistema produttivo della fabbrica, secondo modelli più complessi di operazioni produttive, fondati sull'efficienza in termini di costi Il sistema americano della produzione di massa Fu tuttavia in America che gli effetti della rivoluzione industriale di matrice inglese,“esplosero”. Per ragioni: - geografiche-materiali: .la ricchezza del territorio di energia idraulica, carbone e altre risorse di base - umane: .il fatto culturale per cui: “in America gli uomini servono Dio, in tutta sincerità e serietà, ponendosi come obiettivo l'efficienza economica” (Ch. L. Sanford, The intellectual origins and new wordliness of American industry, «Journal of Economic History», 18, 1958, p. 16); .la carenza di lavoratori specializzati, che orientò a valorizzare l' “abilità incorporata nella macchina”, in termini di velocità e precisione della produzione, ma a scapito dell'eleganza; .l'ingegnosità yankee* .un mercato in rapida espansione) L'ingegnosità yankee Per ingegnosità yankee si intende l'intelligente attitudine a darsi da fare, volta esclusivamente a fini pratici. Ne è un esempio significativo il caso Lowell. Il mercante di Boston, Francis Cabot Lowell, impadronitosi, attraverso una personale attività di “spionaggio industriale” fatta in Inghilterra, del progetto del telaio meccanico, fece costruire tale macchina da un esperto meccanico del New England, Paul Moody, e integrò con successo tutte le fasi della produzione tessile in un solo opificio. Lowell si dedicò alla produzione di pochissimi tipi di panno economico e altamente standardizzato, derivanti tutti da un unico tipo di filato standard. L'ingegnosità yankee (2) Nel 1820, tre anni dopo la morte di Lowell, la sua fabbrica, la Boston Manufacturing Company, aveva in funzione 5376 fusi e 175 telai meccanici, che lavoravano annualmente 450.000 libbre di cotone. Inoltre Lowell fu il pioniere dell'impiego di forza-lavoro femminile negli Stati Uniti, reclutando ragazze adolescenti dalle fattorie del New England e alloggiandole in dormitori e in pensioni nel luogo dell'opificio. Dei 264 operai, impiegati nello stabilimento di Lowell a Waltham nel 1820, 225 erano donne e ragazze, 13 erano ragazzi e solo 26 uomini. Così attraverso un efficiente uso del macchinario, Lowell rese vantaggiosa la tipica carenza americana di forza-lavoro specializzata. L'ingegnosità yankee (3) Nel 1834, la città di nome Lowell nel Massachussets, era il centro più importante dell'industria tessile del New England, con 8 grandi imprese, che avevano in funzione complessivamente 116.000 fusi e 4.000 telai, che impiegavano 6.600 lavoratori di cui 5.000 erano donne. Il sistema americano di produzione (1) Nonostante il vantaggio iniziale dell'Inghilterra nella produzione delle macchine, a seguito dell'impulso dato da uomini come Lowell, che nel tempo non diminuì, anzi si accrebbe, l'America assunse, nel corso del XIX secolo, una posizione preminente nelle forme di ulteriore sviluppo della rivoluzione industriale, Dando luogo a quello che fu conosciuto come «il sistema americano di produzione» Il sistema americano di produzione Il SAP era «un metodo di fabbricazione, attraverso cui venivano prodotti complessi strumenti meccanici con una serie di operazioni compiute a macchina in modo sequenziale». Ciò implicava la costruzione di grandi lotti di parti esattamente identiche – parti intercambiabili – che potevano essere accoppiate l'una all'altra, per formare macchine o altri strumenti. I prerequisiti di questo sistema produttivo erano: a) la produzione di massa b) l'uso di macchine utensili dotate di un proprio motore e progettate per un lavoro specifico c) calibri per garantire l'uniformità nella precisione Il SAP Sebbene il cosiddetto SAP non abbia realmente avuto origine negli Stati Uniti, fu lì che raggiunse il suo pieno sviluppo. Gli storici nazionalisti hanno attribuito a Eli Whitney* l'invenzione delle parti intercambiabili, ma è ormai confermato che molti continentali lo anticiparono già nel XVIII sec., p. es. l'ingegnere francese Marc Brunel, esule in Inghilterra, e che egli fu probabilmente solo uno dei molti americani che quella invenzione propagandarono. *Eli Whitney All'inizio del 1798, Eli Whitney si impegnò con il governo americano a costruire 10.000 fucili in 28 mesi, un impegno senza dubbio basato sulla tecnica delle parti intercambiabili prodotte a macchina. Nel 1820, tale tecnica si era ormai diffusa nelle fabbriche di armi del Connecticut, dove si usavano macchine utensili dotate di forza motrice autonoma, per produrre parti intercambiabili per armi di piccole dimensioni. Nel 1830 il principio si era diffuso alle fabbriche del New England. Il SAP (2) Tra gli anni '70/'80 dell'Ottocento, il sistema americano produceva a pieno ritmo macchine utensili e altri prodotti industriali. Gli utensili manuali erano stati quasi universalmente sostituiti da macchine utensili, cui erano addetti lavoratori semispecializzati, il che aumentava immensamente la produzione e abbassava i costi. La superiorità dell'industria americana nella standardizzazione e nella intercambiabilità delle parti, costituì la base indispensabile per il successivo grande stadio di sviluppo della rivoluzione industriale, cioè la linea di assemblaggio. La linea di assemblaggio Anche se la linea di assemblaggio viene sempre associata al nome di Henry Ford, fu in realtà Henry M. Leland, fondatore della Cadillac Motor Company, a raggiungere i più rigorosi standard di uniformità per ogni componente delle sue auto. La linea di assemblaggio (2) Nel 1908 a una mostra della tecnica americana in Inghilterra, il distributore inglese di Leland fece portare 3 auto Cadillac sulla pista di prova del Royal Automobil Club, fece ammassare e mescolare alla rinfusa tutte le parti componenti, fece scartare da funzionari del Club 90 parti prese a caso, che furono sostituite con altre prese dai magazzini. Le 3 Cadillac furono poi riassemblate e fecero un percorso di prova di 500 miglia senza il minimo inconveniente. La linea di assemblaggio (3) Il SAP era pronto ad assumere la forma che lo caratterizzerà nel XX secolo. Le macchine utensili avevano aperto la via alla trasformazione dell'organizzazione del lavoro: a) incorporando l'abilità nella macchina, b) rendendo possibile una rigorosa intercambiabilità c) parcellizzando il lavoro stesso nelle sue parti componenti Henry Ford La linea di assemblaggio semovente Henry Ford (Deaborn, 30 luglio 1863-Detroit, 7 aprile 1947) è stato un imprenditore statunitense. Fu uno dei fondatori della Ford Motor Company, società produttrice di automobili, ancora oggi una delle maggiori società del settore negli USA e nel mondo. Egli ebbe la genialità di sintetizzare gli elementi della tecnica della linea di assemblaggio, già presenti sulla scena produttiva, realizzando una combinazione di straordinaria efficacia per la produzione di massa del bene allora strutturalmente più complesso, l'automobile. Henry Ford (2) In particolare, egli introdusse nell'industria automobilistica, la linea di assemblaggio semovente, la cui «idea, nella sua forma generale venne dal carrello aereo che gli inscatolatori di Chicago usavano per la confezione del manzo» (dall'Autobiografia). Fu infatti nell'industria americana della conservazione della carne di Chicago e Cincinnati che si sviluppò, sorprendentemente, alla fine del XIX sec, la linea di assemblaggio. Nei mattatoi erano da tempo in uso, per spostare le pesanti carcasse degli animali da un lavoratore all'altro, carrelli muniti di ganci, che scorrevano su rotaie poco sopra l'altezza di un uomo. Quando si pensò di collegare i carrelli con catene, così da formare una linea continua e di collegare a un motore tale linea, per muovere le carcasse a un ritmo regolare, nacque la vera linea di assemblaggio, o di smontaggio, in questo caso. Henry Ford (3) Con l'introduzione della linea di assemblaggio, ogni lavoratore doveva necessariamente concentrarsi su di un solo compito ripetitivo e i movimenti inutili sia degli uomini che dei materiali furono in questo modo automaticamente limitati. Ora era la velocità del carrello che poteva essere regolata a piacere a determinare il ritmo della produzione, che subito aumentò decisamente. Henry Ford (4) Henri Ford progettò inoltre la sua Ford Modello T, l'immortale Flivver o Tin Lizzie, in modo da essere meccanicamente semplice e soddisfare i due requisiti fondamentali della produzione di massa, la durata e l'economicità d'esercizio. A ciò egli aggiunse un prezzo alla portata del mercato di massa, 600 $ e infatti nel 1912, la produzione del Modello T, venduto a questo prezzo, non riuscì a stare al passo con la domanda! Henry Ford (5) Il 1° maggio 1913, Ford cominciò a sperimentare la nuova linea di assemblaggio semovente, per la produzione di magneti ovvero generatori; mise così a punto il sistema e la produzione aumentò tanto che nel 1929, quando una Ford Modello T era venduta a 290$, metà delle vetture in circolazione nel mondo erano vetture Ford Modello T. Ovviamente, per stare al passo nel rifornimento, tutti i fornitori di pezzi si adeguarono a tale organizzazione del lavoro, che si diffuse ovunque. Henry Ford (6) Dalla produzione di massa di automobili, che aveva conseguito l'obiettivo di abbassare i prezzi senza incidere sulla qualità, si aprì la possibilità di una produzione di massa in una società di consumo di massa. Sulla produzione di massa Kranzberg e Gies, Breve storia del lavoro, cit., pp. 115-118. Frederick Winslow Taylor F. W. Taylor fu l'ingegnere che nel decennio 1880/1890 diede una base organizzativa unitaria al lavoro industriale, ideando un insieme di principi teorici capaci di ottimizzare l'efficienza di qualsiasi lavoro. La sua impresa audace e innovativa portò alla nascita di un campo di studi completamente nuovo: l'analisi scientifica del lavoro o «ingegneria industriale» (Industrial Engineering). Grazie ad essa la funzione direttiva, di pianificazione, coordinamento e supervisione, venne ad assumere una posizione dominante nel processo produttivo. Un nuovo tipo di lavoratore L'introduzione della linea di assemblaggio cambiò radicalmente la vita dei lavoratori: ora essi non potevano allontanarsi e tornare a recuperare di lì a poco, perchè la linea richiedeva in ogni minuto non solo la loro presenza, ma la loro attenzione. Il nuovo tipo di lavoratore viveva un particolare rapporto con i materiali e gli utensili: la macchina imponeva il suo ritmo al processo lavorativo e il lavoratore divenne un componente della macchina, per il quale l'età e la qualificazione acquisita con l'esperienza rappresentavano uno svantaggio! Tre nuove classi di lavoratori Proprio mentre i lavoratori sperimentavano una sorta di dequalificazione, ci fu una rapida proliferazione di personale direttivo e impiegatizio. Apparvero sulla scena industriale 3 nuove classi di lavoratori, numericamente assai rilevanti. 1) Personale di controllo: il grande incremento della dimensione della linea produttiva comportò l'estensione della linea d'autorità. 2) Personale di “staff” e di “line”: professionisti non direttamente impiegati nella produzione, ma essenziali a garantire il funzionamento delle operazioni accessorie 3) Personale di vendita: assicurava il flusso dei prodotti dalle fabbriche al consumatore ed era forza-lavoro addestrata e organizzata. Elton Mayo Fu Elton Mayo a mettere a fuoco la complessità del rapporto tra il lavoratore e il suo lavoro, quando le scienze del comportamento presero finalmente il loro posto sulla scena industriale, a fianco delle scienze fisiche e dell'ingegneria. Finalmente venne riconosciuto che gli uomini erano qualcosa di più dell'homo oeconomicus di A. Smith o dell'homo mechanicus di F. W. Taylor! L'effetto Hawthorne Lettura delle pp. 153-155 da: Kranzberg e Gies, Breve storia del lavoro, cit. La logica dell'automazione Lettura delle pp. 158-167 da: Kranzberg e Gies, Breve storia del lavoro, cit. Un commento Così il sociologo industriale francese, Georges Friedmann*, giudica questo stadio della rivoluzione industriale consistente nella supermeccanizzazione della produzione attraverso la linea di assemblaggio e l'automazione: «La meccanizzazione porta a una duplice evoluzione simultanea e contaddittoria: da una parte i compiti divisi, spogliati di iniziativa e responsabilità e di altre facoltà complessive, aumentano: in questo consiste la “despiritualizzazione” del lavoro. Ma dall'altra, compaiono compiti preparatori, l'attrezzaggio, il controllo del lavoro, il lavoro di costruzione di macchine complesse, che richiedono un certo addestramento. E ancora di più, questi lavori in cui, a causa della meccanizzazione, l'operazione di trasformazione diretta del materiale si è venuta separando dalle mani del lavoratore, non richiedono più caratteristiche come la velocità o la forma dell'esecuzione, ma la precisione e l'attenzione; e cioè caratteristiche qualitative e non quantitative. E' la qualità del lavoro che in questo caso mostra l'abilità del lavoratore. Così i processi di despiritualizzazione e di rispiritualizzazione del lavoro vanno avanti contemporaneamente». Un commento Sebbene Friedmann ammetta che la nuova tecnologia industriale comporta più despiritualizzazione che rispiritualizzazione, egli sottolinea anche che «non c'è un rigido determinismo per l'una o per l'altra di queste evoluzioni...La scelta dipende dal contesto socioeconomico in cui l'evoluzione avviene». Infatti, a fronte di una iniziale decrescita degli operai specializzati all'inizio dell'industrializzazione, quando le macchine hanno cominciato a sostituire completamente gli operai non specializzati è cresciuta l'incidenza degli operai specializzati. Il giudizio profetico del principe Kropotkin All'inizio del XX secolo, il principe Kropotkin, intellettuale rivoluzionario russo, osservò che «proprio nella misura in cui il lavoro richiesto all'individuo nella moderna produzione diventa sempre più semplice e più facile da imparare, e perciò monotono e tedioso, i bisogni dell'individuo di variare il suo lavoro, per esercitare tutte le sue capacità, divengono sempre più importanti». La soluzione proposta dal principe Kropotkin di integrare il lavoro, invece che suddividerlo, fu notevole presagio dei programmi di job enrichment varati negli anni intorno al 1970. *Georges Friedmann Georges Friedmann, nato a Parigi nel 1902, è considerato il fondatore della sociologia del lavoro umanista. Dopo gli studi in chimica industriale si è laureato in filosofia alla “Ecole Normale”; ha iniziato ad occuparsi di problemi del lavoro e del progresso tecnico dal 1930 ed ha dedicato la maggior parte delle indagini allo studio del rapporto tra l’uomo e la macchina nella società industriale. Nel 1946 la sua tesi, “Problemi umani del macchinismo industriale”, ha introdotto in Francia la nuova sociologia del lavoro. All’inizio degli anni ’60, ha cominciato ad esplorare un altro campo della cultura tecnica: le comunicazioni e la cultura di massa. A capo del centro di studi sociologici (CNRS) si è rivelato un grande organizzatore e promotore di ricerche. Nel 1967 ha fondato insieme ad Edgar Morin e Roland Barthes la rivista “Communications”. Opere di G. Friedmann - Dove va il lavoro umano?, trad. di Bruno Abbina, Milano, Edizioni di Comunita, 1951 - Lavoro in frantumi, Milano, Edizioni di Comunità, 1960 - Tecnica, educazione e vita moderna, Roma, Armando, 1961 - Leibniz et Spinoza, Paris, Gallimard, 1962 - Trattato di sociologia del lavoro, trad. di Massimo Paci, Milano, Edizioni di Comunita, 1963 - L' uomo e la tecnica, Milano, ETAS Kompass, 1968 - Problemi umani del macchinismo industriale, trad. di Bruno Maffi, Torino, Einaudi, 1972 - La crisi del progresso. Saggio di storia delle idee (1895-1935), a cura di M. Nacci, Guerini e Associati, Milano1994 f) Il problema dell’alienazione del lavoro in K. Marx La questione del lavoro Molti segnali ci attestano, oggi, che il lavoro e la sua divisione da fonte della ricchezza delle nazioni, come Adam Smith* l'aveva scoperto, è diventato portatore di problematicità e non solo economica ma addirittura umana. *Il lavoro in Adam Smith La ricchezza delle nazioni (An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations), pubblicata il 9 marzo 1776, è la principale opera di Adam Smith, ritenuto il fondatore dell'economia politica liberale. L'opera è contestualizzata storicamente nel periodo che precede la Guerra d'Indipendenza americana (1779). Venne pubblicata nel 1776, l'anno della Dichiarazione d'Indipendenza americana. Il monopolio dell'industria manufatturiera inglese fu una delle cause scatenanti il conflitto con l'Inghilterra che non voleva la nascita di un'industria sul suolo americano. A. Smith assunse una posizione contraria all'intervento statale, perchè l'affermazione del laissez-faire nel caso americano avrebbe significato il mantenimento delle importazioni dalla madrepatria inglese. Proprio a tale politica economica la teoria smithiana forniva un fondamento teorico. In quest'opera comparve la metafora della mano invisibile, tanto cara agli ideologi del liberismo economico. *Il lavoro in Adam Smith La Ricchezza delle nazioni consta di 5 Libri: nel Libro Primo, Delle cause del progresso nelle capacità produttive del lavoro e dell'ordine secondo cui il prodotto viene naturalmente a distribuirsi tra i diversi ceti della popolazione, vengono trattati gli effetti della divisione del lavoro ed è esposta in dettaglio la teoria smithiana del valore e della distribuzione del reddito; nel Libro Secondo, Della natura, dell'accumulazione e dell'impiego dei fondi, viene affrontato il ruolo svolto dalla moneta e la teoria dell'accumulazione del capitale; il Libro Terzo, Del diverso progresso della prosperità nelle diverse nazioni, contiene un'esposizione critica della storia economica dalla caduta dell'impero romano; il Libro Quarto, Dei sistemi di economia politica, è un piccolo trattato di storia del pensiero economico e contiene la critica radicale della dottrina mercantilistica e fisiocratica; il Libro Quinto, Del reddito del sovrano e della repubblica, analizza il ruolo dello Stato e delle finanze statali nello sviluppo economico. *Il lavoro in Adam Smith Smith individua nel lavoro svolto «il fondo da cui ogni nazione trae in ultima analisi tutte le cose necessarie e comode della vita». Tuttavia, nota Smith, la quantità della produzione sarà il risultato di due cause distinte: «l'arte, la destrezza e l'intelligenza con cui vi si esercita il lavoro», che sono le determinanti della capacità produttiva dello stesso; il rapporto tra coloro che sono impiegati in lavori produttivi e coloro che non lo sono, quelli che Smith chiama lavoratori improduttivi. In Smith la ricchezza di una nazione non deriva quindi dalla quantità di risorse naturali o metalli preziosi di cui essa può disporre, come ritenevano i mercantilisti, né è generata solo dalla terra, l'unica risorsa capace di produrre un sovrappiù per i fisiocratici, ma dal lavoro produttivo in essa svolto e dalla capacità produttiva di tale lavoro. *Il lavoro in Adam Smith Nel Capitolo I Smith passa all'individuazione dei fattori che influiscono su tale produttività. A tale proposito afferma: « La causa del progresso nelle capacità produttive del lavoro, nonché della maggior parte dell'arte, destrezza e intelligenza con cui il lavoro viene svolto e diretto, sembra sia stata la divisione del lavoro » (La Ricchezza delle Nazioni - Grandi Tascabili Economici Newton, Roma, 1995, pp. 66) *Il lavoro in Adam Smith Nelle società moderne, in cui la divisione del lavoro si è pienamente affermata, la maggior parte delle cose di cui un uomo ha bisogno le trae dal lavoro di altri. « [Un uomo] sarà ricco o povero secondo la quantità di lavoro che può comandare, ovvero che può permettersi di comprare. Il valore di una merce...è quindi uguale alla quantità di lavoro che essa...mette in grado di comandare. Il lavoro è dunque la misura reale del valore di scambio di tutte le merci. » (La Ricchezza delle Nazioni - Grandi Tascabili Economici Newton, Roma, 1995, pp. 82) * Il lavoro in A. Smith Il salario «Il prodotto del lavoro costituisce la ricompensa naturale, o salario, del lavoro. » Sia il profitto che la rendita sono «deduzioni del prodotto del lavoro». In seguito all'accumulazione dei fondi e alla proprietà privata sulla terra, che sostituisce la «situazione originaria...in cui tutto il prodotto del lavoro appartiene al lavoratore», « in tutte le arti e le manifatture, la maggioranza degli operai ha bisogno di un padrone che anticipi i materiali del lavoro, i salari e il mantenimento, finché il lavoro non sia portato a termine. Questi ha una quota sul prodotto del loro lavoro, ossia sul valore che il lavoro aggiunge ai materiali su cui si esercita; in questa quota consiste il suo profitto». (La Ricchezza delle Nazioni, cit., pp. 107-108) * Il lavoro in A. Smith La ripartizione della quota spettante al lavoratore e di quella spettante al proprietario dei fondi è dunque tendenzialmente conflittuale. Entrambi tendono a coalizzarsi per aumentare la loro quota, ma Smith lucidamente a tale proposito osserva: «Non è comunque difficile prevedere quale delle due parti in una situazione normale prevarrà nella contesa...I padroni, essendo in numero minore, possono coalizzarsi più facilmente; e la legge, del resto, autorizza o almeno non proibisce le loro coalizioni, mentre proibisce quelle degli operai...[Inoltre] in tutte queste contese i padroni possono resistere più a lungo...Nel lungo periodo l'operaio può essere tanto necessario al padrone quanto il padrone all'operaio, ma la necessità non è altrettanto immediata» (La Ricchezza delle Nazioni, cit., pp. 109). Il limite minimo del salario è determinato da quel livello strettamente necessario alla sussistenza del lavoratore e della sua famiglia. K. Marx (1818-1883) Era stato K. Marx tra i primi a denunciare sia ne Il Capitale* che nei Manoscritti economicofilosofici del 1844** i rischi di depauperamento dell'umano connessi con il lavoro nella sua organizzazione capitalistica, generatrice di alienazione (Enteusserung/Entfremdung). *Il Capitale Il Capitale (Das Kapital) è l'opera maggiore di Karl Marx ed è considerata il testo-chiave del marxismo. Il Libro I, Critica dell'economia politica, fu pubblicato quando l’autore era ancora in vita (1867), mentre gli altri uscirono postumi. Il Libro II ed il III uscirono a cura di Friedrich Engels rispettivamente nel 1885 e nel 1894. Il Libro IV venne pubblicato (1905-1910) da Karl Kautsky con il titolo di Teorie del plusvalore. **I Manoscritti economico-filosofici del 1844 Si tratta di fogli di appunti su questioni economiche e filosofiche che Marx scrisse mentre si trovava a Parigi, fra la primavera e l'estate del 1844. Egli vi affronta impegnativi temi economici, quali «il salario», il «profitto» del capitale, la «rendita fondiaria», il «lavoro alienato», la «proprietà privata e il lavoro», la «proprietà privata e il comunismo». Alla fine c'è poi una «critica della dialettica e della filosofia hegeliana in generale», che si ricollega alla Critica dell'anno precedente. Vi è però anche evidente l'eredità del materialista L. Feuerbach, che aveva rivalutato l' «uomo reale, corporeo, che sta sulla ferma e solida terra», di contro all'idealista Hegel, per il quale «l'uomo è uguale ad autocoscienza». I Manoscritti economico-filosofici del 1844 Di questa mole di appunti sono conservati tre manoscritti, pubblicati per la prima volta nel 1932. In essi Marx si appoggia a minuziosi appunti che aveva tratto dalle opere degli economisti letti, opere che ora sottopone a critica utilizzando la nozione filosofica di «estraneazione» (Entfremdung/Enteusserung), presa nel senso che le aveva dato L. Feuerbach e combinata con indicazioni di Moses Hess. Ludwig Feuerbach (1804-1872) Feuerbach nel celebre libro del 1841, L'essenza del Cristianesimo, aveva descritto la dinamica di estraneazione antropologica che presiede alla formulazione dell'idea di Dio, come un trasferimento su quest'ente immaginario, che l'uomo compie, di tutte le qualità sue proprie nel massimo grado, alienandole da sé. Moses Hess (1812-1875) In un saggio, Sul denaro, destinato agli Annali franco-tedeschi e mai pubblicato per la chiusura della rivista, Hess affermò che nella moderna società industriale c'era una fonte di alienazione antropologica ben maggiore di quella rappresentata dalle idee religiose: nel regime capitalistico l'uomo aliena se stesso nella ricchezza, che sotto forma di denaro, gli si erge di fronte come un'entità estranea, sostanzialmente ostile perchè non riesce a controllarla. Liberare il lavoro con la rivoluzione Per uscire dalla condizione di alienazione, indotta dal lavoro nella sua organizzazione capitalistica, Marx proponeva una rivoluzione socio-economica. Egli riteneva che solo modificando l'assetto capitalistico della società, si sarebbe potuto liberare il lavoro dall'alienazione, facendolo ritornare ad essere integrale espressione e mezzo insostituibile della capacità umana di produrre liberamente la propria vita. Un dubbio A quasi due secoli dall' ipotesi marxiana di liberazione rivoluzionaria del lavoro, ancora attendiamo l'aprirsi di una via d'uscita nell'orizzonte socio-economico e ci sentiamo anzi paralizzati dall'unilateralità dell'aspettativa di una soluzione oggettiva al problema dell'alienazione del lavoro. Un dubbio ci sfiora: e se ci fosse una via soggettiva da percorrere , sfuggita a Marx, mentre ci adoperiamo alla trasformazione strutturale del mondo? Un tentativo Non ci resta che andare a rivisitare direttamente la teoria del “lavoro liberato”, sviluppata da Marx nei Manoscritti economicofilosofici, preparatori delle analisi economiche de Il Capitale, per verificare se egli non sia stato troppo frettoloso nel considerare tutte le risorse soggettive oggettivate nel lavoro e, nell'assetto capitalistico, definitivamente fagocitate dal capitale. Manoscritti economico-filosofici del 1844 Lettura e commento dal Ms. I, §§ XXII, XXIII, XXIV, XXV (K. Marx, Oekonomisch-philosophische Manuskripte aus dem Jahre 1844, in: MEW, Erg. 1, pp. 511-520; tr. it. in: A. Negri, Filosofia del lavoro. Storia antologica, vol. IV, Marzorati, Milano 1985, pp. 990-998). Il lavoro estraniato (1) Dice Marx: «Noi partiamo da un fatto presente e non ci trasportiamo come fa l'economista quando vuole dare una spiegazione in una condizione originaria soltanto immaginata. Il fatto presente è che «il lavoratore diventa tanto più povero quanta più ricchezza produce, quanto più la sua produzione aumenta in potenza e in volume» (Ms. 1, § XXII, tr. it., p. 990). Il lavoro estraniato (2) Nella normalità lavorativa, continua Marx, «il prodotto del lavoro è il lavoro che si è fissato in un oggetto, che si è materializzato, è l'oggettivazione del lavoro. La realizzazione del lavoro è la sua oggettivazione» Ma, «questa realizzazione del lavoro nelle condizioni dell'economia politica [a regime capitalistico] si manifesta come perdita di realtà del lavoratore, l'oggettivazione come perdita e schiavitù dell'oggetto, l'appropriazione come estraneazione, come alienazione» (Ms. 1, § XXII, tr. it. p. 991). Il lavoro estraniato (3) «L'appropriazione dell'oggetto si manifesta a tal punto come estraneazione che, quanti più oggetti il lavoratore produce tanto meno può possedere e tanto più è preso sotto il dominio del suo prodotto: il capitale» Il lavoro estraniato (4) Nella misura in cui, come avviene nell'economia borghese capitalistica, il lavoro è principalmente rivolto ad accumulare un capitale/proprietà, risulta bloccato il ritorno sul soggetto lavoratore del prodotto del lavoro. Il lavoro estraniato (5) Marx enfatizza tale difficoltà di ritorno soggettivo sul lavoratore del prodotto del suo lavoro: «è chiaro, su questo presupposto [=il dato di fatto che l'operaio si rapporta al prodotto del proprio lavoro come ad un oggetto estraneo], che quanto più il lavoratore si svuota nel lavoro, tanto più potente diventa il mondo estraneo, oggettivo, quello che egli si crea di fronte, tanto più povero diventa lui stesso, il suo mondo interiore, tanto meno egli ha di proprio» (p. 991). Il lavoro estraniato (6) Marx generalizza il carattere alienante che l'oggettivazione del lavoro assume nell'assetto capitalistico dell'economia, estendendolo anche all'oggettivazione religiosa: «Proprio come nella religione. Quanto più l'uomo pone in dio tanto meno mantiene in se stesso. Il lavoratore mette la sua vita nell'oggetto; ma allora essa non appartiene più a lui, bensì all'oggetto» (p. 991). Il lavoro estraniato (7) Così Marx conclude: «Noi abbiamo certamente ricavato il concetto del lavoro estraniato (della vita estraniata) dall'economia politica come risultato del movimento della proprietà privata. Nell'analisi di questo concetto, però si mostra che, se la proprietà privata appare come fondamento e causa originaria del lavoro estraniato, essa è piuttosto una conseguenza del medesimo, come pure gli dei, originariamente, non sono la causa originaria, bensì l'effetto dello smarrimento dell'intelletto dell'uomo. Successivamente questo rapporto si rovescia in reciproco effetto di scambio. Soltanto nell'ultimo punto culminante dello sviluppo della proprietà privata, questa rivela nuovamente il suo segreto: che, cioè, essa, da una parte è prodotto del lavoro alienato e, secondariamente, che essa è il mezzo per il cui tramite il lavoro si aliena, la realizzazione di questa alienazione» (p. 998). Il lavoro estraniato (8) Il risultato è che così l'alienazione del lavoro nell'assetto capitalistico determina una circolarità viziosa, dalla quale la soggettività non sembra in grado di fuoriuscire con le sue forze, essendosi privata/alienata della sua intera vitalità. La liberazione della soggettività deve perciò giungere dall'esterno, da una trasformazione dell'assetto oggettivo quale è la rivoluzione g) La riduzione economicistica e la progressiva perdita di valenza antropologica del lavoro Cfr. : D. Verducci, Fenomenologia ed economia, in: D. Verducci (a cura di), Disseminazioni fenomenologiche. A partire dalla fenomenologia della vita, Eum, Macerata 2007, pp. 143-160. MODULO II Fenomenologia del lavoro Attendere la liberazione del lavoro Ancor oggi un'idea marxiana di lavoro aleggia su di noi: lavorare significa inevitabilmente alienarsi, solo per pochi privilegiati il lavoro è mezzo di autorealizzazione! Mentre attendiamo quel cambiamento strutturale, profetizzato dalla scienza socio-economica marxiana, continuiamo a lavorare, Ma mentalmente curiamo di arginare i presunti danni antropologici del lavoro, “evadendo” il più possibile dal lavoro e procurandoci con le nostre stesse mani alienazione!. Un dubbio Ma davvero il lavoro è così totalmente e ineluttabilmente bloccato dal morto capitale, nel benefico ritorno sulla soggettività del suo prodotto, nel quale esso rende disponibile alla soggettività ciò per cui questa l'aveva attivato? Davvero la soggettività ha consegnato tutta la sua vitalità al suo lavoro, privandosene completamente? Un dubbio verificato Ma allora, come spiegare i sempre più numerosi casi di “immigrazione felice”, che documentano che ci si può esporre a dosi massicce di alienazione di lavoro e per lungo tempo e salvaguardare la propria umanità, fino a realizzare il proprio progetto di vita buona? Un tentativo di risposta Proprio per rispondere a una simile domanda, Max Scheler, in un breve saggio del 1899, Arbeit und Ethik/Lavoro ed etica, ci offre l'opportunità di abbozzare un esperimento mentale (cfr.: tr. it. di D. Verducci, Città Nuova, Roma 1997, pp. 79-81) . L'esperimento mentale di Max Scheler Si tratta di immaginare il caso in cui uno solo lavora ad un solo prodotto e di metterne a fuoco il vissuto, in modo da evidenziare l'essenza del lavoro umano. L'esperimento mentale da Max Scheler FASE I: Quando un artigiano si trova davanti a un pezzo di legno grezzo, in primo luogo emerge in lui la domanda su che cosa farne. Si attivano cioè i processi “morali” con i quali egli avverte in ciò che è, la sporgenza di ciò che ha da essere e non è ancora, lo determina, applicando la riflessione al contenuto del sentire assiologico (=se ne fa un'idea/scopo) e lo porge all'intenzionalità volontativa, che lo interiorizza, ponendoselo come scopo nel volere-delfare. L'esperimento mentale di Max Scheler FASE II: In secondo luogo, una volta che disponga dello scopo da realizzare o volere-del-fare, la volontà si volge al volerfare e comanda alle membra di muoversi in conformità a ciò che la realizzazione dello scopo richiede: così la volontà attiva il processo esecutivo dello scopo, che dà luogo al prodotto nella realtà extramentale o comunque oggettiva. L'esperimento mentale di Max Scheler Dalla descrizione fenomenologica del lavoro, emerge che, 1) c'è una marcata distinzione tra le due principali fasi lavorative, la fase ideativo-finalizzatrice e quella realizzativo-esecutiva ovvero il lavoro è intrinsecamente «divisione del lavoro» (Arbeitsteilung), 2) in linea di principio, non v'è esclusione tra la dimensione morale/finalizzatrice della persona umana che, ponendosi uno scopo da realizzare, dà avvio al lavoro e lo dirige e quella esecutiva degli automatismi psico-fisici del vivente umano, per mezzo dei quali, nella seconda fase del lavoro, gli scopi progettati soggettivamente giungono a realizzazione in prodotti oggettivati. L'esperimento mentale di Max Scheler Certamente, il soggetto ha dovuto sperimentare l'insoddisfazione per la situazione di possesso solo ideale dello scopo. Ha dovuto inoltre misurarsi con la resistenza che al suo progetto opponevano gli automatismi fisici e vitali. Ha provato dispiacere e fatica. Ma il risultato di tutto ciò, in una condizione di integralità lavorativa, non è solo l'estraneazione/alienazione, per la quale pure si passa necessariamente, dovendo andare dal piano soggettivo-ideale a quello oggettivo-reale, quanto l'attraversamento-dell'alienazione, il venirne-a-capo, per un ritorno del prodotto elaborato sulla soggettività, che la soddisfa e la incrementa, rendendole disponibile ciò che non lo era, ma di cui essa avvertiva l'esigenza e per la quale ha lavorato. L'esperimento mentale di Max Scheler Anzi, il lavoro, nella sua completezza procedurale di finalizzazione ed esecuzione, vi si manifesta quale dispositivo di cui l'uomo è naturalmente dotato per vivere umanamente, posto che egli viene al mondo svincolato dall'istintualità e «aperto al mondo», cioè incapace di un'immediata fruibilità della natura, compresa la sua, come documentano le ricerche di antropologia filosofica e scientifica (M. Scheler, H. Plessner, A. Gehlen, L. Bolk, A. Portmann) Patologia del lavoro E' vero tuttavia che il lavoro umano, oggi, nel mondo occidentale, non risulta più in grado di riconsegnare al soggetto, che l'ha attivato e diretto, i risultati poietici conseguiti. Una grave patologia sembra averlo colpito, simile a quella diagnosticata da Marx. Patologia del lavoro Secondo il Marx dei Manoscritti e delCapitale, la viva referenzialità di uomo e natura, intessuta dal lavoro, sarebbe stata uccisa dal morto capitale, che vi si è interposto. Patologia del lavoro Anche secondo Hanna Arendt: «dal punto di vista della natura è piuttosto l'opera del lavoro che è distruttiva, perchè il processo dell'operare sottrae materia alla natura senza restituirgliela, come avviene nel rapido corso del metabolismo naturale del corpo vivente». Patologia del lavoro E' certamente vero che la forma che il lavoro umano ha assunto nel mondo contemporaneo, ha enfatizzato la fase esecutiva a scapito di quella finalizzatrice, demandata sempre più, già prima dell'avvento del fordismo-taylorismo, all' organizzazione anonima, tecnica, sociale e di mercato, considerata più adeguata a padroneggiare i numerosi fattori in gioco. Patologia del lavoro Sembra di conseguenza che ai soggetti lavoratori non resti davvero che eseguire ciò che la morta organizzazione stabilisce in vista del conseguimento della maggiore utilità economica generale, ma a danno del ritorno sul soggetto individuale e sociale del prodotto del lavoro e con esso della stessa forma di vita lavorativa, che perde così ogni carattere di vita umana, riducendosi ad automatismo naturale, spesso vissuto anche compulsivamente. Apertura dell'orizzonte Dalla fenomenologia del lavoro si apre un punto di fuga in quest'orizzonte che, finchè è considerato interamente consegnato a entità “morte” (capitale, organizzazione), sembra definitivamente chiuso, come Marx aveva affermato. Apertura d’orizzonte Si è visto infatti che la fase esecutiva del lavoro, quella che dipende dal fine “tecnico” che la volontà ordina alle membra di eseguire e l’organizzazione impone ai lavoratori, s u b e n t r a solo ad un certo punto della prassi di finalizzazione, che si era avviata a partire dall’avvertire assiologico di qualcosa che aveva – da-essere, di un’esigenza/bisogno/desiderio da soddisfare. Apertura d’orizzonte Dunque, l’assunzione da parte dell’ organizzazione della finalità tecnica da eseguire, non esaurisce il campo dell’umana capacità morale/di finalizzazione, che anzi viene più fortemente investita della responsabilità di riguadagnare ai propri progetti di vita, il segmento lavorativo sottoposto all’organizzazione per motivi di efficienza. Apertura d’orizzonte Ciò significa che il lavoro-dell’uomo non può propriamente consistere o assestarsi nella sua sola fase oggettivo-esecutiva, come accade invece al lavoro dell’animale o della macchina. Infatti, per lavorare, il lavoratore deve disporre di un certo “sapere dello scopo” del suo lavoro e volerlo, almeno per quel minimo che gli consente di muovere opportunamente le membra, come nel caso delle azioni miste, volontarie e involontarie insieme, documentate da Aristotele*. *Le azioni miste secondo Aristotele «Quando si gettano fuori bordo i propri averi durante le tempeste [è discutibile se siano azioni volontarie o involontarie], giacchè in generale nessuno butta via volontariamente, ma chiunque abbia senno lo fa per salvare se stesso e tutti gli altri. Simili azioni sono dunque miste, ma assomigliano di più a quelle volontarie, giacchè sono fatte oggetto di scelta nel momento determinato in cui sono compiute e il fine dell'azione dipende dalle circostanze […] In questo caso si agisce volontariamente, giacchè il principio che muove come strumenti le parti del corpo in simili azioni è nell'uomo stesso: e le cose di cui ha in se stesso il principio, dipende da lui farle o non farle. Tali azioni sono dunque volontarie, anche se in assoluto sono involontarie, giacchè nessuno sceglierebbe nessuna delle azioni di tal genere per se stessa» (Aristotele, Etica Nicomachea, III, 1, 1110a 8-20). Apertura d’orizzonte Ed è qui, nel personale e intimo momento motivazionale posto al suo effettivo avvio, che il lavoro, anche quello più parcellizzato e rigidamente organizzato, in quanto è dell’uomo, si mostra profondamente e inalienabilmente integrato nel contesto eticoontologico soggettivo. Ciò non sottrae l’attività del lavoratore alla completa immersione nella dinamica esecutiva oggettivata e oggettivante, ma consente di riscattare quella fase di inevitabile alienazione tecnica, con la ricomprensione dell’interezza dell’attività lavorativa (fase1+fase2) nell’ambito del personale piano morale di vita, che il lavoratore intende perseguire. Apertura d’orizzonte Si tratta quindi di riprendere individualmente consapevolezza della possibilità che si profila, di conseguire un riequilibrio antropologico, operando un personale super-intenzionamento etico del lavorare sociale organizzato attraverso la considerazione di quest’ultimo come “compito” che si svolge per realizzare la propria vita (cfr.: il dovere morale della cura sui nel cui ambito rientrava il lavoro salariato già secondo Ch. Wolff). Ciò non va ovviamente confuso con l’adesione alla mission aziendale o con il boicottaggio di essa, perché al contrario svolge la funzione di innestare proprio la finalizzazione tecnica e di utilità del lavoro, nell’ambito del personale progetto di vita di ciascun lavoratore, e di promuovere con successo l’attraversamento dell’alienazione e il ritorno al soggetto, come realizzato, dello scopo “morale” che l’aveva motivato a lavorare allo scopo tecnico impostogli dall’organizzazione. Apertura d’orizzonte L’osservazione fenomenologica ci ha così evidenziato che il lavoro umano, nella sua stessa natura di fare diviso, mantiene aperte per l'umano, pur nella condizione “capitalistica” dell'economia, vie d’uscita dall'alienazione. Apertura d'orizzonte Infatti, nella misura in cui nega immediatezza all’esecuzione produttiva e la sottopone tanto alla finalizzazione tecnica quanto alla prassi etica di finalizzazione, il lavoro dell’uomo si mostra, rispetto al lavoro in fisica o in economia, come un plus-lavoro come hanno segnalato alcuni socialisti non scientifici, quali Pierre Joseph Proudhon e Charles Peguy. Il lavoro secondo Peguy Un tempo gli operai non erano servi. Lavoravano. Coltivavano un onore, assoluto, come si addice a un onore. La gamba di una sedia doveva essere ben fatta. Era naturale, era inteso. Era un primato. Non occorreva che fosse ben fatta per il salario, o in modo proporzionale al salario. Non doveva essere ben fatta per il padrone, né per gli intenditori, né per i clienti del padrone. Doveva essere ben fatta di per sé, in sé, nella sua stessa natura. Una tradizione venuta, risalita da profondo della razza, una storia, un assoluto, un onore esigevano che quella gamba di sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia che non si vedeva era lavorata con la medesima perfezione delle parti che si vedevano. Secondo lo stesso principio delle cattedrali. E sono solo io — io ormai così imbastardito — a farla adesso tanto lunga. Per loro, in loro non c’era neppure l’ombra di una riflessione. Il lavoro stava là. Si lavorava bene. Non si trattava di essere visti o di non essere visti. Era il lavoro in sé che doveva essere ben fatto. Apertura d'orizzonte Il lavoro umano si rivela così portatore di un surplus-di-valore, che è in grado di porre a servizio della vita buona la sua valenza di produzione materiale, cosicchè sempre si possa vivere-lavorando-per-ben-vivere e mai ci si debba ridurre a lavorare-per-sopravvivere o a vivere-per-lavorare, neppure quando è realmente così.