Filosofia del lavoro
a.a. 2011-2012
O l t r e l’ a l i e n a z i o n e.
Il lavoro come
risorsa antropologica di realizzazione.
INDICE
Modulo I: Filosofia del lavoro
a) Il disagio contemporaneo da lavoro
b)Questioni di compatibilità tra filosofia e lavoro
c) Antefatti storici di filosofia del lavoro
d) La filosofia del lavoro in senso pieno di Max Scheler
e) La divisione del lavoro. Breve storia
f)Il problema dell’alienazione del lavoro in K. Marx
g) La riduzione economicistica e la progressiva perdita di valenza
antropologica del lavoro
Modulo II: Fenomenologia del lavoro
a) La concezione del lavoro umano di Max Scheler
b) Il lavoro come “fare doppiamente diviso”
c) Il lavoro come eseguire un compito
d) Uno stratagemma filosofico per “superare” l'alienazione del
lavoro
e) Casi di lavoro felice per il ben-vivere/essere
MODULO I
Filosofia del lavoro
a) Il disagio contemporaneo da lavoro
Nella seconda metà XX secolo sono emersi numerosi segnali di
problematicità del lavoro :
- il workhaolism o sindrome da dipendenza da lavoro;
- il burn-out o sindrome dell'esaurimento affettivo, specie nelle helping
professions (Cfr.: allegato: D. VERDUCCI, Ritrovare l’empatia perduta)
- il mobbing o pratica della marginalizzazione nel lavoro
- la generazione «né studio né lavoro» ovvero 700.000 giovani tra i 18
e i 35 anni che in Italia si sentono vittime di una devastazione
lavorativa, al pari dei loro coetanei spagnoli, secondo i dati del
Rapporto Giovani 2008, elaborati dal Dip. Studi sociali e demografici
della Sapienza di Roma per conto del ministro della Gioventù
Giorgia Meloni e pubblicati dal Corriere della sera.
- l'uomo flessibile di R. Sennett, il cui carattere si destabilizza a causa
della instabilità del lavoro
K. Marx (1818-1883)
Era stato K. Marx tra i primi a denunciare
sia
ne Il Capitale* che nei Manoscritti economicofilosofici del 1844**
i rischi di depauperamento dell'umano
connessi con il lavoro
nella sua organizzazione capitalistica, generatrice
di alienazione (Enteusserung/Entfremdung).
*Il Capitale
Il Capitale (Das Kapital) è l'opera maggiore di Karl Marx
ed è considerata il testo-chiave del marxismo.
Il Libro I, Critica dell'economia politica, fu pubblicato
quando l’autore era ancora in vita (1867), mentre gli
altri uscirono postumi.
Il Libro II ed il III uscirono a cura di Friedrich Engels
rispettivamente nel 1885 e nel 1894.
Il Libro IV venne pubblicato (1905-1910) da
Kautsky con il titolo di Teorie del plusvalore.
Karl
**I Manoscritti economico-filosofici
del 1844
Si tratta di fogli di appunti su questioni economiche e
filosofiche che Marx scrisse mentre si trovava a Parigi, fra
la primavera e l'estate del 1844.
Egli vi affronta impegnativi temi economici, quali «il salario»,
il «profitto» del capitale, la «rendita fondiaria», il «lavoro
alienato», la «proprietà privata e il lavoro», la «proprietà
privata e il comunismo».
Alla fine c'è poi una «critica della dialettica e della filosofia
hegeliana in generale», che si ricollega alla Critica della
filosofia hegeliana del diritto pubblico del 1843.
Vi è però anche evidente l'eredità del materialista L.
Feuerbach, che aveva rivalutato l' «uomo reale, corporeo,
che sta sulla ferma e solida terra», di contro all'idealista
Hegel, per il quale «l'uomo è uguale ad autocoscienza».
I Manoscritti economico-filosofici del
1844
Di questa mole di appunti sono conservati tre
manoscritti, pubblicati per la prima volta nel
1932.
In essi Marx si appoggia alle minuziose notazioni
che aveva tratto dalle opere degli economisti
letti, opere che ora sottopone a critica
utilizzando
la
nozione
filosofica
di
«estraneazione» (Entfremdung/Enteusserung),
presa nel senso che le aveva dato L. Feuerbach
e combinata con indicazioni di Moses Hess..
Liberare il lavoro con la rivoluzione
Per uscire dalla condizione di alienazione, indotta
dal lavoro nella sua organizzazione capitalistica,
Marx proponeva
una rivoluzione socio-economica.
Egli riteneva che solo modificando l'assetto
capitalistico della società, si sarebbe potuto
liberare il lavoro dall'alienazione, facendolo
ritornare ad essere integrale espressione e
mezzo insostituibile della capacità umana di
produrre liberamente la propria vita.
Un dubbio
A quasi due secoli dall' ipotesi marxiana di
liberazione rivoluzionaria del lavoro,
ancora attendiamo l'aprirsi di una via d'uscita
nell'orizzonte socio-economico
e ci sentiamo anzi paralizzati dall'unilateralità
dell'aspettativa di una soluzione oggettiva al
problema dell'alienazione del lavoro.
Un dubbio ci sfiora:
e se ci fosse una via soggettiva da percorrere ,
sfuggita a Marx, mentre ci adoperiamo alla
trasformazione strutturale del mondo?
Un tentativo
Non ci resta che andare a rivisitare direttamente
la genesi delle “teorie/filosofie del lavoro” fino a
quella del “lavoro liberato”, sviluppata da Marx nei
Manoscritti economico-filosofici, preparatori delle
analisi economiche de Il Capitale,
per verificare se egli e altri come lui non siano
stati troppo frettolosi nel considerare tutte le
risorse soggettive oggettivate nel lavoro e,
nell'assetto capitalistico, definitivamente
fagocitate dal capitale.
b) Questioni di compatibilità tra filosofia e lavoro
Cfr.:
- D. Verducci, Il segmento mancante. Percorsi di
filosofia del lavoro, Carocci, Roma 2003, cap. I,
“Questioni trascendentali di compatibilità tra filosofia
e lavoro”, pp. 15-53 e 65-80
- D. Verducci, Gli esordi della filosofia del lavoro in
Max Scheler, in: G. Ciocca, D. Verducci (a cura di),
Cento anni di lavoro. Ricognizione multidisciplinare
sulle trasformazioni del lavoro nel XX secolo, Giuffrè,
Milano 2001, pp. 130-133.
c) Antefatti storici
di filosofia del lavoro
- La filosofia del lavoro in senso oggettivo
- Senso soggettivo della filosofia del lavoro
Cfr.: Verducci, Gli esordi della filosofia del lavoro in
Max Scheler, op. cit., pp. 134-137, pp. 138-142
d) La filosofia del lavoro in senso pieno
di Max Scheler
Cfr.: Verducci,
Gli esordi della filosofia del lavoro in Max Scheler,
op. cit.,
pp. 143-146
e) La divisione del lavoro. Breve storia
Testo di riferimento:
M. Kranzberg-J. Gies, Breve storia del lavoro.
L'organizzazione del lavoro umano nel suo processo
evolutivo, tr. it. a c. di G. Canavese e U. Livini,
Mondadori, Milano 1991.
Gli antropologi, che hanno studiato le società primitive tuttora
esistenti in varie parti del mondo, hanno scoperto che, nonostante
un vocabolario straordinariamente ricco per quanto riguarda gli
aspetti della caccia, della pesca e delle altre attività di sussistenza,
questi popoli non presentano un termine corrispondente al nostro
“lavoro”.
Cfr.: F. Boas, L'uomo primitivo, Laterza, Bari 1972.
Il lavoro in epoca preistorica
La spiegazione che è stata data di tale paradosso
linguistico è che tra quei gruppi di sussistenza il
lavoro era sinonimo di vita, perciò non lo si
designava. In quelle società a livello economico la
distinzione era solo tra il sonno e la veglia e
essere desti significava essere al lavoro.
Per molto tempo, circa 2.000.000 di anni,
l'esistenza stessa degli uomini consisteva
soprattutto di lavoro.
Alcune eccezioni
Occorre riconoscere, però, che alcuni testi
antichissimi riportano già la distinzione tra il tempo
del lavoro e il tempo del riposo.
La Bibbia, p. es., nel libro della Genesi, attribuito,
nella tradizione ebraica e cristiana prima
dell'avvento del metodo critico, a Mosè nel 1513
a.C. circa e riferentesi a fatti che Eusebio da
Cesarea calcola avvenuti nel 5199 a.C., mentre la
tradizione rabbinica pone nel 3760 a.C., racconta
che Dio creò il mondo in 6 giorni e il settimo
giorno si riposò.
La divisione del lavoro (1)
Alla fine, ciò che fece saltare questo interminabile
ciclo umano fu la scoperta della divisione del
lavoro e quindi la sua organizzazione tramite la
ripartizione in compiti assegnati ai più adatti allo
scopo (uomini e donne, vecchi e giovani...).
In poche migliaia di anni, l'organizzazione del
lavoro si ramificò nella moderna società
industriale con le sue 25.000 diverse occupazioni
a tempo pieno, ognuna delle quali definisce colui
che la pratica in termini di reddito, istruzione,
status sociale, livello e stile di vita.
La divisione del lavoro (2)
La divisione del lavoro è probabilmente più
vecchia dell'Homo sapiens.
Attraverso la divisione dei compiti,
essa può aver giocato un ruolo
nella differenziazione dell'uomo dalle altre specie
animali,
promuovendo la costruzione degli strumenti,
la formazione di una più complessa struttura del
cervello e la comparsa del linguaggio.
Divisione del lavoro (3)
Nell'Era Paleolitica (2.000.000/1.000.000-10.000/8.000 a.
C.) la distribuzione del lavoro era in pratica
limitata alla raccolta del cibo.
La popolazione della terra era scarsa
e disseminata in gruppi isolati.
L'assenza di comunicazioni tra i gruppi
e l'insufficienza dei surplus di cibo
limitavano
una divisione del lavoro su basi geografiche,
sebbene chi viveva in prossimità di fiumi o sui litorali si
specializzasse nelle pesca e altri nella caccia e anche le
attività di raccolta spingessero a una certa
organizzazione all'interno del gruppo.
Pervasività del lavoro nella vita
Il dinamismo storico della divisione del lavoro e
della sua conseguente organizzazione ha avuto
un impatto incessante sull'intera società,
scuotendola più volte dalle fondamenta.
Al contrario, la percezione intellettuale del
fenomeno è a lungo rimasta inadeguata e solo
molto
lentamente
gli
uomini
divennero
consapevoli delle implicazioni per la vita delle
diverse modalità in cui il lavoro può essere
organizzato per svolgere i suoi compiti.
L'interdipendenza nel lavoro e la sociologia
Il fenomeno dell'interdipendenza umana che la divisione del
lavoro comporta, fu un elemento importante nella fondazione
della sociologia, la nuova scienza sorta nella prima metà del
XIX sec..
Si osservò infatti che nel regime della divisione del lavoro
avviene che il lavoratore singolo adempie una funzione
limitata e pertanto per soddisfare i propri bisogni deve fare
affidamento sul nesso che lo collega a molti altri lavoratori,
collocati in altre posizioni del sistema produttivo.
H. Spencer,* intellettuale vittoriano, concluse perciò che una
società può esistere solo quando in un gruppo di individui è
presente la cooperazione.
(H. Spencer, Principles of Sociology, Appleton, New York
1901; tr. it.,Principi di sociologia, Utet, Torino 1967)
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Emile Durkheim*
“...si è detto perfino che, quanto più le funzioni di un organismo
sono specializzate, tanto più elevato è il posto che esso occupa
nella scala animale […] La divisione del lavoro non è più soltanto
un'istituzione sociale scaturita dall'intelligenza e dalla volontà
dell'uomo, ma è un fenomeno biologico generale, le cui
condizioni debbono essere cercate, a quanto sembra, nelle
proprietà essenziali della materia organizzata. La divisione del
lavoro sociale si presenta come una forma particolare di questo
processo generale; e le società, conformandosi a questa legge,
sembrano cedere a una corrente che è nata molto prima di esse,
e che trascina nella medesima direzione l'intero mondo vivente”.
(E. Durkheim, De la division du travail social, Alcam, Paris 1893; tr
it.
La divisione del lavoro sociale, Edizioni di Comunità, Milano
1962, pp.
40-41).
-----------------------------------*Per saperne di più cerca su Wikipedia!
Emile Durkheim (2)
Nell'identificare l'organizzazione del lavoro a principio
esplicativo tanto dell'evoluzione biologica quanto di quella
sociale, assimilando specializzazione delle funzioni e divisione
del lavoro, Durkheim applicava le scoperte di Darwin alla
teoria sociale, secondo il costume del tempo.
Egli sottolineò il valore sociale dell'interdipendenza generata
dalla divisione del lavoro, che mostrava una capacità di tenere
unita la società pari a quello della religione, cui andava infatti
sostituendosi.
Emile Durkheim (3)
Durkheim colse anche il pericolo di “anomia” che poteva
derivare dalla crescente complessità sociale indotta dalla
divisione del lavoro. L'individuo infatti alla lunga avrebbe
potuto smarrire il senso della integrazione del proprio
ruolo con quello degli altri, divenendo psicologicamente
disgregato e smarrito, con la sensazione che la propria
vita fosse priva di significato.
Per evitare l’anomia Durkheim consiglia che il lavoratore
non perda di vista i suoi collaboratori e coltivi la
consapevolezza del fatto che “egli agisce nei loro
confronti e reagisce ad essi”.
E. Durkheim (3)
«Se l'individuo non sa
a cosa mirano le operazioni che svolge,
se non le ricollega a uno scopo,
può solo continuare il lavoro in modo abitudinario.
Ogni giorno ripete gli stessi movimenti con
monotona regolarità,
ma senza minimamente interessarsi ad essi
e senza comprenderli [...]
Non si può restare indifferenti di fronte a una tale
degradazione della natura umana»
Nel XX secolo
Molti pensatori del XX secolo hanno corredato
l’anomia di Durkheim di termini come
“alienazione” e “crisi di identità”,
sviluppando il versante del rapporto tra
soggettività e lavoro.
Altri scienziati sociali si sono invece applicati alla
relazione tra gli strumenti e le tecniche di
produzione e gli aspetti organizzativi del lavoro,
approfondendo la riflessione
nei termini di ciò che è interno o esterno al lavoro.
Nel XX sec.
Si è ovviamente rilevato che cambiamenti tecnologici
inducono variazioni (→)nell'organizzazione del lavoro:
«gli strumenti manuali implicano un'abilità manuale; il macchinario a
motore rimanda alla fabbrica; calcolatori e macchine transfer
implicano automazione».
Ma gradualmente è emerso anche il fenomeno meno eclatante
della relazione reciproca (↔) tra tecnologia e organizzazione
del lavoro.
Come ha scritto Peter Drucker* :
“Il lavoro, la sua struttura, organizzazione e concetti relativi devono
ciascuno per la sua parte potentemente condizionare gli strumenti e le
tecniche e il loro sviluppo”.
(P. Drucker, Work and Tools, in «Technology and Culture», 1, 1960,
30)
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p.
Nel XX sec.
In anni recenti si è rimasti sorpresi del fatto che, con
l'aumentare del numero di nazioni altamente industrializzate, sono
apparse modalità nuove e diverse di organizzare lo stesso
tipo di produzioni tecnicamente avanzate.
Le differenze di soggettività, nelle tradizioni, nelle forme di
intervento del governo e dei sindacati, nel modo di affrontare il
processo di lavoro da parte dei lavoratori sono risultate fonte
di determinazione di differenze oggettive nei tassi diversi di
produttività nelle fabbriche d'automobili negli Stati Uniti e all'estero,
perfino nelle fabbriche di proprietà della stessa azienda e che
producono automobili su linee di assemblaggio simili.
Tale fenomeno contraddice la teoria della “convergenza”
del fisico sovietico Andrej D. Sacharov, secondo la quale
l'azione di processi industriali e simili avrebbe alla fine condotto
alla scomparsa delle differenze tra le società sovietica e
americana.
Nel XX sec.
Inoltre, se per tutto il corso del XIX sec., in virtù
dell'avanzare del frazionamento all'interno di ogni
comunità produttiva, tra comunità diverse nello stesso
paese e tra diversi paesi del mondo, si formò un
mercato mondiale in continua espansione e si
avvalorò la convinzione che la divisione del lavoro,
come sistematica frantumazione delle mansioni nelle
loro componenti, diminuiva i costi e accresceva il
rendimento,
nel XX sec. si cominciò invece a dubitare di questo
assioma.
Oltre l'assioma della positività
della divisione del lavoro
Dopo che per oltre un secolo si era dato per scontato
che il progresso dell'efficienza del lavoro industriale si
collocava interamente nel campo della tecnologia, cioè
era affidato principalmente all'incremento del numero
delle macchine e al loro perfezionamento insieme
all'ottimizzazione della loro applicazione nel contesto
organizzativo,
ci si accorse
che la divisione del lavoro, così redditizia dal p. di v.
oggettivo, poteva viceversa implicare perdite dal p. di v.
soggettivo: perchè p. es. i lavoratori costretti a svolgere
un unico compito si annoiano e producono meno o con
minor precisione.
Quasi improvvisamente, sul finire del XIX sec., riemerse
l'importanza dell'individuo lavoratore nella produzione di
fabbrica!
b) L'avvento della produzione di massa
Nel XX sec. matura l'avvento della produzione di massa, quasi
a coronamento della precedente evoluzione del lavoro e delle sue
due macro-fasi:
1. La fase pre-industriale
- la prima divisione del lavoro;
- irrigazione e classi sociali;
- agricoltura, industria e ingegneria antiche;
- la tecnologia medioevale;
- le gilde e il sistema del putting out;
- l'ingegneria, l'arte mineraria e la metallurgia
medioevale;
- le proto-fabbriche e il Nuovo Mondo.
2. La fase industriale
- la rivoluzione industriale e la nascita della fabbrica;
- l'avvento della produzione di massa: il sistema americano
- l'avvento dell'automazione
La rivoluzione industriale
Nelle vecchie corporazioni artigiane, l'unità occupazionale era il
lavoratore individuale; il suo lavoro era essenzialmente fatto a
mano ed egli, di solito, eseguiva tutte le operazioni necessarie
per la produzione di un singolo oggetto.
L'introduzione delle macchine determinò una situazione del
tutto diversa.
Il processo lavorativo veniva ora frantumato in una serie di
operazioni divise, ciascuna delle quali era eseguita da individui
che in essa si specializzavano.
La descrizione classica della nuova tecnica fu data da Adam
Smith* nel primo capitolo della sua opera Ricerca sopra la
natura e le cause della ricchezza delle nazioni (pubblicata il 9
marzo 1776), in cui descrive una fabbrica di spilli.
---------------------------*Per saperne di più cerca su Wikipedia!
Il lavoro nella fabbrica
«Un operaio non addestrato a questa manifattura, che la
divisione del lavoro ha reso un mestiere speciale e che non
conosca l'uso delle macchine che vi si impiegano, l'invenzione
delle quali è stata probabilmente originata dalla stessa divisione
del lavoro, potrà a malapena, applicandosi al massimo,
fabbricare un solo spillo al giorno, e certamente non ne potrà
fabbricare venti. Ma, nel modo in cui si esegue ora tale
fabbricazione, non soltanto essa è un mestiere speciale, ma si
divide in molti rami, la maggior parte dei quali è analogamente
un mestiere speciale. Un uomo tira il filo di metallo, un altro lo
tende, un terzo lo taglia, un quarto lo appunta, un quinto lo
arrotola alla estremità in cui deve farsi la testa; farne la testa
richiede due o tre operazioni distinte, collocarla è un'operazione
speciale, pulire gli spilli è un'altra e un'altra ancora è disporli
dentro la carta; e in tal modo l'importante mestiere di fare uno
spillo si divide in circa 18 operazioni distinte....
Il lavoro nella fabbrica
...18 operazioni distinte, che in alcune fabbriche sono
tutte eseguite da operai distinti, benchè in altre fabbriche
lo stesso uomo ne eseguirà talvolta 2 o 3.
Ho visto una piccola fabbrica di questo genere, che
occupava soltanto 10 uomini e nella quale, di
conseguenza, ciascuno di loro eseguiva 2 o 3 operazioni
diverse. Ma sebbene essi fossero assai poveri, e perciò
non disponessero di tutte le macchine necessarie, pure,
quando
si
impegnavano
potevano
fabbricare
complessivamente 12 libbre di spille al giorno. Una libbra
contiene oltre 4.000 spilli di media grandezza. Quelle 10
persone potevano dunque fabbricare assieme oltre
48.000 spilli al giorno».
La produzione di massa
E' la tecnica di produrre
grandi quantità di beni a basso costo unitario,
tramite un'organizzazione sistematica di uomini e macchine.
6 sono i suoi fattori costitutivi:
1. la standardizzazione del prodotto;
2. l'intercambiabilità delle parti;
3. una lavorazione di precisione tale che le parti si adattino l'una
all'altra;
4.la meccanizzazione del processo di fabbricazione per
raggiungere un alto volume di produzione;
5. la sincronizzazione del flusso di materie prime alle macchine
con il flusso della produzione delle macchine;
6. la continuità del processo lavorativo, sia per eliminare i
momenti morti sia per mantenere il flusso costante dei materiali in
lavorazione
Il sistema americano della produzione di
massa
La produzione di massa fu la logica conseguenza della
rivoluzione industriale inglese, che comportando
«il passaggio progressivo dalla “manifattura” alla
“macchinofattura”»
(S. Buchanan, Technology as a System of Exploitation, in C.F. Stover,
The technological Order, Wayne State University Press, Detroit Michigan,
1963, p. 156)
significò:
- la frantumazione delle operazioni manuali dell'artigiano nelle
loro parti componenti
- la sostituzione ad esse di operazioni compiute da macchine
instancabili, perchè dotate di motori
- la “razionalizzazione” del sistema produttivo della fabbrica,
secondo modelli più complessi di operazioni produttive, fondati
sull'efficienza in termini di costi
Il sistema americano della produzione di massa
Fu tuttavia in America che gli effetti della rivoluzione industriale di
matrice inglese,“esplosero”. Per ragioni:
- geografiche-materiali:
.la ricchezza del territorio di energia idraulica, carbone e altre
risorse di base
- umane:
.il fatto culturale per cui: “in America gli uomini servono Dio, in tutta
sincerità e serietà, ponendosi come obiettivo l'efficienza economica”
(Ch. L. Sanford, The intellectual origins and new wordliness of American industry,
«Journal of Economic History», 18, 1958, p. 16);
.la carenza di lavoratori specializzati, che orientò a valorizzare l'
“abilità incorporata nella macchina”, in termini di velocità e
precisione della produzione, ma a scapito dell'eleganza;
.l'ingegnosità yankee*
.un mercato in rapida espansione)
L'ingegnosità yankee
Per ingegnosità yankee si intende l'intelligente attitudine a
darsi da fare, volta esclusivamente a fini pratici.
Ne è un esempio significativo il caso Lowell.
Il mercante di Boston, Francis Cabot Lowell, impadronitosi,
attraverso una personale attività di “spionaggio industriale”
fatta in Inghilterra, del progetto del telaio meccanico, fece
costruire tale macchina da un esperto meccanico del New
England, Paul Moody, e integrò con successo tutte le fasi
della produzione tessile in un solo opificio.
Lowell si dedicò alla produzione di pochissimi tipi di panno
economico e altamente standardizzato,
derivanti tutti da un unico tipo di filato standard.
L'ingegnosità yankee (2)
Nel 1820, tre anni dopo la morte di Lowell, la sua fabbrica,
la Boston Manufacturing Company, aveva in funzione 5376
fusi e 175 telai meccanici, che lavoravano annualmente
450.000 libbre di cotone.
Inoltre Lowell fu il pioniere dell'impiego di forza-lavoro
femminile negli Stati Uniti, reclutando ragazze adolescenti
dalle fattorie del New England e alloggiandole in dormitori e
in pensioni nel luogo dell'opificio.
Dei 264 operai, impiegati nello stabilimento di Lowell a
Waltham nel 1820, 225 erano donne e ragazze, 13 erano
ragazzi e solo 26 uomini.
Così attraverso un efficiente uso del macchinario, Lowell rese
vantaggiosa la tipica carenza americana di forza-lavoro
specializzata.
L'ingegnosità yankee (3)
Nel 1834, la città di nome Lowell nel
Massachussets, era il centro più importante
dell'industria tessile del New England, con 8
grandi imprese, che avevano in funzione
complessivamente 116.000 fusi e 4.000 telai, che
impiegavano 6.600 lavoratori di cui 5.000 erano
donne.
Il sistema americano di produzione
(1)
Nonostante il vantaggio iniziale dell'Inghilterra
nella produzione delle macchine, a seguito
dell'impulso dato da uomini come Lowell, che nel
tempo non diminuì, anzi si accrebbe, l'America
assunse, nel corso del XIX secolo, una posizione
preminente nelle forme di ulteriore sviluppo della
rivoluzione industriale,
Dando luogo a quello che fu conosciuto come «il
sistema americano di produzione»
Il sistema americano di produzione
Il SAP era
«un metodo di fabbricazione,
attraverso cui venivano prodotti
complessi strumenti meccanici
con una serie di operazioni
compiute a macchina in modo sequenziale».
Ciò implicava la costruzione di grandi lotti di parti
esattamente identiche – parti intercambiabili – che potevano
essere accoppiate l'una all'altra,
per formare macchine o altri strumenti.
I prerequisiti di questo sistema produttivo erano:
a) la produzione di massa b) l'uso di macchine utensili dotate
di un proprio motore e progettate per un lavoro specifico
c) calibri per garantire l'uniformità nella precisione
Il SAP
Sebbene il cosiddetto SAP non abbia realmente
avuto origine negli Stati Uniti, fu lì che raggiunse il
suo pieno sviluppo. Gli storici nazionalisti hanno
attribuito a Eli Whitney* l'invenzione delle parti
intercambiabili, ma è ormai confermato che molti
continentali lo anticiparono già nel XVIII sec., p.
es. l'ingegnere francese Marc Brunel, esule in
Inghilterra, e che egli fu probabilmente solo uno
dei molti americani che quella invenzione
propagandarono.
*Eli Whitney
All'inizio del 1798, Eli Whitney si impegnò con il
governo americano a costruire 10.000 fucili in 28
mesi, un impegno senza dubbio basato sulla
tecnica delle parti intercambiabili prodotte a
macchina.
Nel 1820, tale tecnica si era ormai diffusa nelle
fabbriche di armi del Connecticut,
dove si usavano macchine utensili dotate di forza
motrice autonoma, per produrre parti
intercambiabili per armi di piccole dimensioni.
Nel 1830 il principio si era diffuso alle fabbriche
del New England.
Il SAP (2)
Tra gli anni '70/'80 dell'Ottocento, il sistema americano
produceva a pieno ritmo macchine utensili e altri prodotti
industriali.
Gli utensili manuali erano stati quasi universalmente
sostituiti da macchine utensili, cui erano addetti lavoratori
semispecializzati, il che aumentava immensamente la
produzione e abbassava i costi.
La superiorità dell'industria americana nella
standardizzazione e nella intercambiabilità delle parti,
costituì la base indispensabile per il successivo grande
stadio di sviluppo della rivoluzione industriale,
cioè la linea di assemblaggio.
La linea di assemblaggio
Anche se la linea di assemblaggio viene sempre
associata al nome di Henry Ford, fu in realtà
Henry M. Leland, fondatore della Cadillac Motor
Company, a raggiungere i più rigorosi standard di
uniformità per ogni componente delle sue auto.
La linea di assemblaggio (2)
Nel 1908 a una mostra della tecnica americana in
Inghilterra, il distributore inglese di Leland fece
portare 3 auto Cadillac sulla pista di prova del
Royal Automobil Club, fece ammassare e
mescolare alla rinfusa tutte le parti componenti,
fece scartare da funzionari del Club 90 parti prese
a caso, che furono sostituite con altre prese dai
magazzini. Le 3 Cadillac furono poi riassemblate
e fecero un percorso di prova di 500 miglia senza
il minimo inconveniente.
La linea di assemblaggio (3)
Il SAP era pronto ad assumere la forma che lo
caratterizzerà nel XX secolo.
Le macchine utensili avevano aperto la via alla
trasformazione dell'organizzazione del lavoro:
a) incorporando l'abilità nella macchina,
b) rendendo possibile una rigorosa
intercambiabilità
c) parcellizzando il lavoro stesso nelle sue parti
componenti
Henry Ford
La linea di assemblaggio semovente
Henry Ford (Deaborn, 30 luglio 1863-Detroit, 7 aprile 1947) è
stato un imprenditore statunitense.
Fu uno dei fondatori della Ford Motor Company, società
produttrice di automobili, ancora oggi una delle maggiori società
del settore negli USA e nel mondo.
Egli ebbe la genialità di sintetizzare gli elementi della tecnica della
linea di assemblaggio, già presenti sulla scena produttiva,
realizzando una combinazione di straordinaria efficacia per la
produzione di massa del bene allora strutturalmente più
complesso, l'automobile.
Henry Ford (2)
In particolare, egli introdusse nell'industria automobilistica, la linea
di assemblaggio semovente, la cui «idea, nella sua forma generale
venne dal carrello aereo che gli inscatolatori di Chicago usavano
per la confezione del manzo» (dall'Autobiografia).
Fu infatti nell'industria americana della conservazione della carne
di Chicago e Cincinnati che si sviluppò, sorprendentemente, alla
fine del XIX sec, la linea di assemblaggio.
Nei mattatoi erano da tempo in uso, per spostare le pesanti
carcasse degli animali da un lavoratore all'altro, carrelli muniti di
ganci, che scorrevano su rotaie poco sopra l'altezza di un uomo.
Quando si pensò di collegare i carrelli con catene, così da formare
una linea continua e di collegare a un motore tale linea, per
muovere le carcasse a un ritmo regolare, nacque la vera linea di
assemblaggio, o di smontaggio, in questo caso.
Henry Ford (3)
Con l'introduzione della linea di assemblaggio,
ogni lavoratore doveva necessariamente
concentrarsi su di un solo compito ripetitivo e i
movimenti inutili sia degli uomini che dei materiali
furono in questo modo automaticamente limitati.
Ora era la velocità del carrello che poteva essere
regolata a piacere a determinare il ritmo della
produzione, che subito aumentò decisamente.
Henry Ford (4)
Henri Ford progettò inoltre la sua Ford Modello T,
l'immortale Flivver o Tin Lizzie, in modo da essere
meccanicamente semplice e soddisfare i due
requisiti fondamentali della produzione di massa,
la durata e l'economicità d'esercizio.
A ciò egli aggiunse un prezzo alla portata del
mercato di massa, 600 $ e infatti nel 1912, la
produzione del Modello T, venduto a questo
prezzo, non riuscì a stare al passo con la
domanda!
Henry Ford (5)
Il 1° maggio 1913, Ford cominciò a sperimentare
la nuova linea di assemblaggio semovente, per la
produzione di magneti ovvero generatori; mise
così a punto il sistema e la produzione aumentò
tanto che nel 1929, quando una Ford Modello T
era venduta a 290$, metà delle vetture in
circolazione nel mondo erano vetture Ford
Modello T.
Ovviamente, per stare al passo nel rifornimento,
tutti i fornitori di pezzi si adeguarono a tale
organizzazione del lavoro, che si diffuse ovunque.
Henry Ford (6)
Dalla produzione di massa di automobili, che
aveva conseguito l'obiettivo di abbassare i prezzi
senza incidere sulla qualità, si aprì la possibilità di
una produzione di massa in una società di
consumo di massa.
Sulla produzione di massa
Kranzberg e Gies, Breve storia del lavoro, cit.,
pp. 115-118.
Frederick Winslow Taylor
F. W. Taylor fu l'ingegnere che nel decennio 1880/1890
diede una base organizzativa unitaria al lavoro
industriale, ideando
un insieme di principi teorici capaci di ottimizzare
l'efficienza di qualsiasi lavoro.
La sua impresa audace e innovativa portò alla nascita di
un campo di studi completamente nuovo:
l'analisi scientifica del lavoro o «ingegneria industriale»
(Industrial Engineering).
Grazie ad essa la funzione direttiva, di pianificazione,
coordinamento e supervisione, venne ad assumere
una posizione dominante nel processo produttivo.
Un nuovo tipo di lavoratore
L'introduzione della linea di assemblaggio cambiò
radicalmente la vita dei lavoratori: ora essi non
potevano allontanarsi e tornare a recuperare di lì
a poco, perchè la linea richiedeva in ogni minuto
non solo la loro presenza, ma la loro attenzione.
Il nuovo tipo di lavoratore viveva un particolare
rapporto con i materiali e gli utensili: la macchina
imponeva il suo ritmo al processo lavorativo e il
lavoratore divenne un componente della
macchina, per il quale l'età e la qualificazione
acquisita con l'esperienza rappresentavano uno
svantaggio!
Tre nuove classi di lavoratori
Proprio mentre i lavoratori sperimentavano una sorta di
dequalificazione, ci fu una rapida
proliferazione di personale direttivo e impiegatizio.
Apparvero sulla scena industriale 3 nuove classi di
lavoratori, numericamente assai rilevanti.
1) Personale di controllo: il grande incremento della
dimensione della linea produttiva comportò l'estensione
della linea d'autorità.
2) Personale di “staff” e di “line”: professionisti non
direttamente impiegati nella produzione, ma essenziali a
garantire il funzionamento delle operazioni accessorie
3) Personale di vendita: assicurava il flusso dei prodotti
dalle fabbriche al consumatore ed era forza-lavoro
addestrata e organizzata.
Elton Mayo
Fu Elton Mayo a mettere a fuoco la complessità
del rapporto tra il lavoratore e il suo lavoro,
quando le scienze del comportamento presero
finalmente il loro posto sulla scena industriale, a
fianco delle scienze fisiche e dell'ingegneria.
Finalmente venne riconosciuto che gli uomini
erano qualcosa di più dell'homo oeconomicus di
A. Smith o dell'homo mechanicus di F. W. Taylor!
L'effetto Hawthorne
Lettura delle pp. 153-155
da:
Kranzberg e Gies, Breve storia del lavoro, cit.
La logica dell'automazione
Lettura delle pp. 158-167
da:
Kranzberg e Gies, Breve storia del lavoro, cit.
Un commento
Così il sociologo industriale francese, Georges Friedmann*, giudica
questo stadio della rivoluzione industriale consistente nella
supermeccanizzazione della produzione attraverso la linea di
assemblaggio e l'automazione:
«La meccanizzazione porta a una duplice evoluzione simultanea e
contaddittoria: da una parte i compiti divisi, spogliati di iniziativa e
responsabilità e di altre facoltà complessive, aumentano: in questo
consiste la “despiritualizzazione” del lavoro. Ma dall'altra, compaiono
compiti preparatori, l'attrezzaggio, il controllo del lavoro, il lavoro di
costruzione di macchine complesse, che richiedono un certo
addestramento. E ancora di più, questi lavori in cui, a causa della
meccanizzazione, l'operazione di trasformazione diretta del materiale si
è venuta separando dalle mani del lavoratore, non richiedono più
caratteristiche come la velocità o la forma dell'esecuzione, ma la
precisione e l'attenzione; e cioè caratteristiche qualitative e non
quantitative. E' la qualità del lavoro che in questo caso mostra l'abilità
del lavoratore. Così i processi di despiritualizzazione e di
rispiritualizzazione del lavoro vanno avanti contemporaneamente».
Un commento
Sebbene Friedmann ammetta che la nuova
tecnologia industriale comporta più
despiritualizzazione che rispiritualizzazione, egli
sottolinea anche che «non c'è un rigido
determinismo per l'una o per l'altra di queste
evoluzioni...La scelta dipende dal contesto socioeconomico in cui l'evoluzione avviene».
Infatti, a fronte di una iniziale decrescita degli
operai specializzati all'inizio
dell'industrializzazione, quando le macchine
hanno cominciato a sostituire completamente gli
operai non specializzati è cresciuta l'incidenza
degli operai specializzati.
Il giudizio profetico del principe
Kropotkin
All'inizio del XX secolo, il principe Kropotkin, intellettuale
rivoluzionario russo, osservò che
«proprio nella misura in cui il lavoro richiesto all'individuo
nella moderna produzione diventa sempre più semplice e
più facile da imparare, e perciò monotono e tedioso, i
bisogni dell'individuo di variare il suo lavoro, per
esercitare tutte le sue capacità, divengono sempre più
importanti».
La soluzione proposta dal principe Kropotkin di integrare
il lavoro, invece che suddividerlo, fu notevole presagio
dei programmi di job enrichment varati negli anni intorno
al 1970.
*Georges Friedmann
Georges Friedmann, nato a Parigi nel 1902, è considerato il fondatore
della sociologia del lavoro umanista. Dopo gli studi in chimica industriale
si è laureato in filosofia alla “Ecole Normale”; ha iniziato ad occuparsi di
problemi del lavoro e del progresso tecnico dal 1930 ed ha dedicato la
maggior parte delle indagini allo studio del rapporto tra l’uomo e la
macchina nella società industriale. Nel 1946 la sua tesi, “Problemi umani
del macchinismo industriale”, ha introdotto in Francia la nuova sociologia
del lavoro.
All’inizio degli anni ’60, ha cominciato ad esplorare un altro campo della
cultura tecnica: le comunicazioni e la cultura di massa. A capo del centro
di studi sociologici (CNRS) si è rivelato un grande organizzatore e
promotore di ricerche. Nel 1967 ha fondato insieme ad Edgar Morin e
Roland Barthes la rivista “Communications”.
Opere di G. Friedmann
- Dove va il lavoro umano?, trad. di Bruno Abbina, Milano, Edizioni di Comunita,
1951
- Lavoro in frantumi, Milano, Edizioni di Comunità, 1960
- Tecnica, educazione e vita moderna, Roma, Armando, 1961
- Leibniz et Spinoza, Paris, Gallimard, 1962
- Trattato di sociologia del lavoro, trad. di Massimo Paci, Milano, Edizioni di
Comunita, 1963
- L' uomo e la tecnica, Milano, ETAS Kompass, 1968
- Problemi umani del macchinismo industriale, trad. di Bruno Maffi, Torino, Einaudi,
1972
- La crisi del progresso. Saggio di storia delle idee (1895-1935), a cura di M. Nacci,
Guerini e Associati, Milano1994
f)
Il problema dell’alienazione del lavoro in
K. Marx
La questione del lavoro
Molti segnali ci attestano, oggi, che il lavoro e la sua
divisione
da fonte della ricchezza delle nazioni,
come Adam Smith* l'aveva scoperto,
è diventato portatore di problematicità
e non solo economica ma addirittura umana.
*Il lavoro in Adam Smith
La ricchezza delle nazioni (An Inquiry into the Nature and Causes of the
Wealth of Nations), pubblicata il 9 marzo 1776, è la principale opera di Adam
Smith, ritenuto il fondatore dell'economia politica liberale.
L'opera è contestualizzata storicamente nel periodo che precede la Guerra
d'Indipendenza americana (1779). Venne pubblicata nel 1776, l'anno della
Dichiarazione d'Indipendenza americana.
Il monopolio dell'industria manufatturiera inglese fu una delle cause scatenanti
il conflitto con l'Inghilterra che non voleva la nascita di un'industria sul suolo
americano. A. Smith assunse una posizione contraria all'intervento statale,
perchè l'affermazione del laissez-faire nel caso americano avrebbe significato il
mantenimento delle importazioni dalla madrepatria inglese. Proprio a tale
politica economica la teoria smithiana forniva un fondamento teorico.
In quest'opera comparve la metafora della mano invisibile, tanto cara agli
ideologi del liberismo economico.
*Il lavoro in Adam Smith
La Ricchezza delle nazioni consta di 5 Libri:
nel Libro Primo, Delle cause del progresso nelle capacità produttive del lavoro e
dell'ordine secondo cui il prodotto viene naturalmente a distribuirsi tra i diversi ceti
della popolazione, vengono trattati gli effetti della divisione del lavoro ed è esposta
in dettaglio la teoria smithiana del valore e della distribuzione del reddito;
nel Libro Secondo, Della natura, dell'accumulazione e dell'impiego dei fondi, viene
affrontato il ruolo svolto dalla moneta e la teoria dell'accumulazione del capitale;
il Libro Terzo, Del diverso progresso della prosperità nelle diverse nazioni,
contiene un'esposizione critica della storia economica dalla caduta dell'impero
romano;
il Libro Quarto, Dei sistemi di economia politica, è un piccolo trattato di storia del
pensiero economico e contiene la critica radicale della dottrina mercantilistica e
fisiocratica;
il Libro Quinto, Del reddito del sovrano e della repubblica, analizza il ruolo dello
Stato e delle finanze statali nello sviluppo economico.
*Il lavoro in Adam Smith
Smith individua nel lavoro svolto
«il fondo da cui ogni nazione trae in ultima analisi tutte le cose necessarie e
comode della vita».
Tuttavia, nota Smith, la quantità della produzione sarà il risultato di due cause
distinte:
 «l'arte, la destrezza e l'intelligenza con cui vi si esercita il lavoro», che sono le
determinanti della capacità produttiva dello stesso;
 il rapporto tra coloro che sono impiegati in lavori produttivi e coloro che non lo
sono, quelli che Smith chiama lavoratori improduttivi.
In Smith la ricchezza di una nazione non deriva quindi dalla quantità di risorse
naturali o metalli preziosi di cui essa può disporre, come ritenevano i mercantilisti,
né è generata solo dalla terra, l'unica risorsa capace di produrre un sovrappiù per i
fisiocratici, ma dal lavoro produttivo in essa svolto e dalla capacità produttiva di
tale lavoro.
*Il lavoro in Adam Smith
Nel Capitolo I Smith passa all'individuazione dei fattori che influiscono su tale
produttività. A tale proposito afferma:
« La causa del progresso nelle capacità produttive del lavoro, nonché della
maggior parte dell'arte, destrezza e intelligenza con cui il lavoro viene svolto e
diretto, sembra sia stata la divisione del lavoro »
(La Ricchezza delle Nazioni - Grandi Tascabili
Economici Newton, Roma, 1995, pp. 66)
*Il lavoro in Adam Smith
Nelle società moderne, in cui la divisione del lavoro si è pienamente
affermata, la maggior parte delle cose di cui un uomo ha bisogno le trae dal
lavoro di altri.
« [Un uomo] sarà ricco o povero secondo la quantità di lavoro che può
comandare, ovvero che può permettersi di comprare. Il valore di una
merce...è quindi uguale alla quantità di lavoro che essa...mette in grado di
comandare. Il lavoro è dunque la misura reale del valore di scambio di tutte
le merci. »
(La Ricchezza delle Nazioni - Grandi Tascabili
Economici Newton, Roma, 1995, pp. 82)
* Il lavoro in A. Smith
Il salario
«Il prodotto del lavoro costituisce la ricompensa naturale, o
salario, del lavoro. »
Sia il profitto che la rendita sono «deduzioni del prodotto del lavoro».
In seguito all'accumulazione dei fondi e alla proprietà privata sulla terra,
che sostituisce la «situazione originaria...in cui tutto il prodotto del
lavoro appartiene al lavoratore»,
« in tutte le arti e le manifatture, la maggioranza degli operai ha
bisogno di un padrone che anticipi i materiali del lavoro, i salari e il
mantenimento, finché il lavoro non sia portato a termine. Questi ha una
quota sul prodotto del loro lavoro, ossia sul valore che il lavoro aggiunge
ai materiali su cui si esercita; in questa quota consiste il suo profitto».
(La Ricchezza delle Nazioni, cit., pp. 107-108)
* Il lavoro in A. Smith
La ripartizione della quota spettante al lavoratore e di quella spettante al
proprietario dei fondi è dunque tendenzialmente conflittuale. Entrambi
tendono a coalizzarsi per aumentare la loro quota, ma Smith lucidamente a
tale proposito osserva:
«Non è comunque difficile prevedere quale delle due parti in una
situazione normale prevarrà nella contesa...I padroni, essendo in numero
minore, possono coalizzarsi più facilmente; e la legge, del resto, autorizza o
almeno non proibisce le loro coalizioni, mentre proibisce quelle degli
operai...[Inoltre] in tutte queste contese i padroni possono resistere più a
lungo...Nel lungo periodo l'operaio può essere tanto necessario al padrone
quanto il padrone all'operaio, ma la necessità non è altrettanto immediata»
(La Ricchezza delle Nazioni, cit., pp. 109).
Il limite minimo del salario è determinato da quel livello strettamente
necessario alla sussistenza del lavoratore e della sua famiglia.
K. Marx (1818-1883)
Era stato K. Marx tra i primi a denunciare
sia
ne Il Capitale* che nei Manoscritti economicofilosofici del 1844**
i rischi di depauperamento dell'umano
connessi con il lavoro
nella sua organizzazione capitalistica,
generatrice di alienazione
(Enteusserung/Entfremdung).
*Il Capitale
Il Capitale (Das Kapital) è l'opera maggiore di Karl Marx ed è
considerata il testo-chiave del marxismo.
Il Libro I, Critica dell'economia politica, fu pubblicato quando
l’autore era ancora in vita (1867), mentre gli altri uscirono postumi.
Il Libro II ed il III uscirono a cura di Friedrich Engels
rispettivamente nel 1885 e nel 1894.
Il Libro IV venne pubblicato (1905-1910) da Karl Kautsky con il
titolo di Teorie del plusvalore.
**I Manoscritti economico-filosofici
del 1844
Si tratta di fogli di appunti su questioni economiche e filosofiche che
Marx scrisse mentre si trovava a Parigi, fra la primavera e l'estate del
1844.
Egli vi affronta impegnativi temi economici, quali «il salario», il
«profitto» del capitale, la «rendita fondiaria», il «lavoro alienato», la
«proprietà privata e il lavoro», la «proprietà privata e il
comunismo».
Alla fine c'è poi una «critica della dialettica e della filosofia
hegeliana in generale», che si ricollega alla Critica dell'anno
precedente.
Vi è però anche evidente l'eredità del materialista L. Feuerbach, che
aveva rivalutato l' «uomo reale, corporeo, che sta sulla ferma e
solida terra», di contro all'idealista Hegel, per il quale «l'uomo è
uguale ad autocoscienza».
I Manoscritti economico-filosofici del
1844
Di questa mole di appunti sono conservati tre manoscritti,
pubblicati per la prima volta nel 1932.
In essi Marx si appoggia a minuziosi appunti che aveva tratto
dalle opere degli economisti letti, opere che ora sottopone a
critica utilizzando la nozione filosofica di «estraneazione»
(Entfremdung/Enteusserung), presa nel senso che le aveva
dato L. Feuerbach e combinata con indicazioni di Moses
Hess.
Ludwig Feuerbach (1804-1872)
Feuerbach nel celebre libro del 1841,
L'essenza del Cristianesimo, aveva descritto la
dinamica di estraneazione antropologica che
presiede alla formulazione dell'idea di Dio, come
un trasferimento su quest'ente immaginario, che
l'uomo compie, di tutte le qualità sue proprie nel
massimo grado,
alienandole da sé.
Moses Hess (1812-1875)
In un saggio, Sul denaro, destinato agli Annali
franco-tedeschi e mai pubblicato per la
chiusura della rivista, Hess affermò che nella
moderna società industriale c'era una fonte di
alienazione antropologica ben maggiore di
quella rappresentata dalle idee religiose: nel
regime capitalistico l'uomo aliena se stesso
nella ricchezza, che sotto forma di denaro, gli si
erge di fronte come un'entità estranea,
sostanzialmente ostile perchè non riesce a
controllarla.
Liberare il lavoro con la rivoluzione
Per uscire dalla condizione di alienazione, indotta dal
lavoro nella sua organizzazione capitalistica, Marx
proponeva una rivoluzione socio-economica.
Egli riteneva che solo modificando l'assetto
capitalistico della società, si sarebbe potuto
liberare il lavoro dall'alienazione, facendolo
ritornare ad essere integrale espressione e mezzo
insostituibile della capacità umana di produrre
liberamente la propria vita.
Un dubbio
A quasi due secoli dall' ipotesi marxiana di liberazione
rivoluzionaria del lavoro,
ancora attendiamo l'aprirsi di una via d'uscita
nell'orizzonte socio-economico
e ci sentiamo anzi paralizzati dall'unilateralità
dell'aspettativa di una soluzione oggettiva al problema
dell'alienazione del lavoro.
Un dubbio ci sfiora:
e se ci fosse una via soggettiva da percorrere ,
sfuggita a Marx, mentre ci adoperiamo alla
trasformazione strutturale del mondo?
Un tentativo
Non ci resta che andare a rivisitare
direttamente la teoria del “lavoro liberato”,
sviluppata da Marx nei Manoscritti economicofilosofici, preparatori delle analisi economiche
de Il Capitale,
per verificare se egli non sia stato troppo
frettoloso nel considerare tutte le risorse
soggettive oggettivate nel lavoro e,
nell'assetto capitalistico, definitivamente
fagocitate dal capitale.
Manoscritti economico-filosofici del 1844
Lettura e commento dal Ms. I,
§§ XXII, XXIII, XXIV, XXV
(K. Marx, Oekonomisch-philosophische
Manuskripte aus dem Jahre 1844,
in: MEW, Erg. 1, pp. 511-520;
tr. it. in: A. Negri, Filosofia del lavoro. Storia
antologica, vol. IV, Marzorati, Milano 1985, pp.
990-998).
Il lavoro estraniato (1)
Dice Marx:
«Noi partiamo da un fatto presente e non ci trasportiamo
come fa l'economista quando vuole dare una spiegazione
in una condizione originaria soltanto immaginata.
Il fatto presente è che
«il lavoratore diventa tanto più povero quanta più
ricchezza produce, quanto più la sua produzione aumenta
in potenza e in volume»
(Ms. 1, § XXII, tr. it., p. 990).
Il lavoro estraniato (2)
Nella normalità lavorativa, continua Marx,
«il prodotto del lavoro è il lavoro che si è fissato in un
oggetto, che si è materializzato, è l'oggettivazione del
lavoro. La realizzazione del lavoro è la sua
oggettivazione»
Ma,
«questa realizzazione del lavoro nelle condizioni
dell'economia politica [a regime capitalistico] si manifesta
come perdita di realtà del lavoratore, l'oggettivazione
come perdita e schiavitù dell'oggetto, l'appropriazione
come estraneazione, come alienazione» (Ms. 1, § XXII, tr.
it. p. 991).
Il lavoro estraniato (3)
«L'appropriazione dell'oggetto si manifesta a tal punto
come estraneazione che, quanti più oggetti il
lavoratore produce tanto meno può possedere e
tanto più è preso sotto il dominio del suo
prodotto: il capitale»
Il lavoro estraniato (4)
Nella misura in cui,
come avviene nell'economia borghese capitalistica,
il lavoro è principalmente rivolto
ad accumulare un capitale/proprietà,
risulta bloccato
il ritorno sul soggetto lavoratore
del prodotto del lavoro.
Il lavoro estraniato (5)
Marx enfatizza tale difficoltà di ritorno soggettivo sul
lavoratore del prodotto del suo lavoro:
«è chiaro, su questo presupposto [=il dato di fatto che
l'operaio si rapporta al prodotto del proprio lavoro
come ad un oggetto estraneo], che quanto più il
lavoratore si svuota nel lavoro, tanto più potente
diventa il mondo estraneo, oggettivo, quello che egli si
crea di fronte, tanto più povero diventa lui stesso, il
suo mondo interiore, tanto meno egli ha di proprio»
(p. 991).
Il lavoro estraniato (6)
Marx generalizza il carattere alienante che
l'oggettivazione del lavoro assume nell'assetto
capitalistico dell'economia, estendendolo anche
all'oggettivazione religiosa:
«Proprio come nella religione. Quanto più l'uomo
pone in dio tanto meno mantiene in se stesso. Il
lavoratore mette la sua vita nell'oggetto; ma allora
essa non appartiene più a lui, bensì all'oggetto» (p.
991).
Il lavoro estraniato (7)
Così Marx conclude:
«Noi abbiamo certamente ricavato il concetto del lavoro estraniato
(della vita estraniata) dall'economia politica come risultato del
movimento della proprietà privata. Nell'analisi di questo concetto,
però si mostra che, se la proprietà privata appare come
fondamento e causa originaria del lavoro estraniato, essa è
piuttosto una conseguenza del medesimo, come pure gli dei,
originariamente, non sono la causa originaria, bensì l'effetto dello
smarrimento dell'intelletto dell'uomo. Successivamente questo
rapporto si rovescia in reciproco effetto di scambio. Soltanto
nell'ultimo punto culminante dello sviluppo della proprietà privata,
questa rivela nuovamente il suo segreto: che, cioè, essa, da una
parte è prodotto del lavoro alienato e, secondariamente, che essa è
il mezzo per il cui tramite il lavoro si aliena, la realizzazione di
questa alienazione» (p. 998).
Il lavoro estraniato (8)
Il risultato è che così l'alienazione del lavoro
nell'assetto capitalistico determina una
circolarità viziosa, dalla quale la soggettività
non sembra in grado di fuoriuscire con le sue
forze, essendosi privata/alienata della
sua intera vitalità.
La liberazione della soggettività deve perciò
giungere dall'esterno, da una trasformazione
dell'assetto oggettivo quale è la rivoluzione
g) La riduzione economicistica e
la progressiva perdita di valenza
antropologica del lavoro
Cfr. :
D. Verducci, Fenomenologia ed economia,
in: D. Verducci (a cura di), Disseminazioni
fenomenologiche. A partire dalla fenomenologia
della vita, Eum, Macerata 2007, pp. 143-160.
MODULO II
Fenomenologia del lavoro
Attendere la liberazione del lavoro
Ancor oggi un'idea marxiana di lavoro
aleggia su di noi:
lavorare significa inevitabilmente alienarsi,
solo per pochi privilegiati il lavoro è mezzo di autorealizzazione!
Mentre attendiamo quel cambiamento strutturale, profetizzato
dalla scienza socio-economica marxiana,
continuiamo a lavorare,
Ma mentalmente curiamo
di arginare i presunti danni antropologici del lavoro,
“evadendo” il più possibile dal lavoro e procurandoci con le
nostre stesse mani alienazione!.
Un dubbio
Ma davvero il lavoro è così totalmente e
ineluttabilmente bloccato dal morto capitale, nel
benefico ritorno sulla soggettività del suo
prodotto, nel quale esso rende disponibile alla
soggettività ciò per cui questa l'aveva attivato?
Davvero la soggettività ha consegnato tutta
la sua vitalità al suo lavoro, privandosene
completamente?
Un dubbio verificato
Ma allora, come spiegare i sempre più numerosi
casi di “immigrazione felice”, che documentano
che ci si può esporre a dosi massicce di
alienazione di lavoro e per lungo tempo e
salvaguardare la propria umanità, fino a
realizzare il proprio progetto
di vita buona?
Un tentativo di risposta
Proprio per rispondere a una simile domanda,
Max Scheler, in un breve saggio del 1899, Arbeit
und Ethik/Lavoro ed etica,
ci offre l'opportunità di abbozzare un esperimento
mentale
(cfr.: tr. it. di D. Verducci, Città Nuova, Roma
1997, pp. 79-81) .
L'esperimento mentale di
Max Scheler
Si tratta di immaginare il caso in cui uno solo
lavora ad un solo prodotto e di metterne a fuoco il
vissuto, in modo da evidenziare l'essenza del
lavoro umano.
L'esperimento mentale da Max Scheler
FASE I:
Quando un artigiano si trova davanti a un pezzo di legno
grezzo, in primo luogo emerge in lui la domanda su che
cosa farne.
Si attivano cioè i processi “morali” con i quali egli
avverte in ciò che è, la sporgenza di ciò che ha da essere
e non è ancora, lo determina, applicando la riflessione al
contenuto del sentire assiologico (=se ne fa
un'idea/scopo) e lo porge all'intenzionalità volontativa, che
lo interiorizza, ponendoselo come scopo nel volere-delfare.
L'esperimento mentale di Max Scheler
FASE II:
In secondo luogo, una volta che disponga dello scopo da
realizzare o volere-del-fare, la volontà si volge al volerfare e comanda alle membra di muoversi in conformità a
ciò che la realizzazione dello scopo richiede: così la
volontà attiva il processo esecutivo dello scopo, che dà
luogo al prodotto nella realtà extramentale o comunque
oggettiva.
L'esperimento mentale di Max Scheler
Dalla descrizione fenomenologica del lavoro, emerge
che,
1) c'è una marcata distinzione tra le due principali fasi
lavorative, la fase ideativo-finalizzatrice e quella
realizzativo-esecutiva ovvero il lavoro è intrinsecamente
«divisione del lavoro» (Arbeitsteilung),
2) in linea di principio, non v'è esclusione tra la dimensione
morale/finalizzatrice
della persona umana
che,
ponendosi uno scopo da realizzare, dà avvio al lavoro e lo
dirige e quella esecutiva degli automatismi psico-fisici del
vivente umano, per mezzo dei quali, nella seconda fase
del lavoro, gli scopi progettati soggettivamente giungono a
realizzazione in prodotti oggettivati.
L'esperimento mentale di Max Scheler
Certamente,
il
soggetto
ha
dovuto
sperimentare
l'insoddisfazione per la situazione di possesso solo ideale dello scopo.
Ha dovuto inoltre misurarsi con la resistenza che al suo
progetto opponevano gli automatismi fisici e vitali.
Ha provato dispiacere e fatica.
Ma il risultato di tutto ciò, in una condizione di integralità
lavorativa, non è solo l'estraneazione/alienazione, per la quale pure si
passa necessariamente, dovendo andare dal piano soggettivo-ideale
a quello oggettivo-reale,
quanto l'attraversamento-dell'alienazione, il venirne-a-capo, per
un ritorno del prodotto elaborato sulla soggettività, che la soddisfa e la
incrementa, rendendole disponibile ciò che non lo era, ma di cui essa
avvertiva l'esigenza e per la quale ha lavorato.
L'esperimento mentale di Max Scheler
Anzi, il lavoro, nella sua completezza procedurale di
finalizzazione ed esecuzione, vi si manifesta quale
dispositivo di cui l'uomo è naturalmente dotato per vivere
umanamente, posto che egli viene al mondo svincolato
dall'istintualità e «aperto al mondo», cioè incapace di
un'immediata fruibilità della natura, compresa la sua,
come documentano le ricerche di antropologia filosofica
e scientifica (M. Scheler, H. Plessner, A. Gehlen, L. Bolk,
A. Portmann)
Patologia del lavoro
E' vero tuttavia che il lavoro umano,
oggi, nel mondo occidentale,
non risulta più in grado di riconsegnare
al soggetto, che l'ha attivato e diretto,
i risultati poietici conseguiti.
Una grave patologia sembra averlo colpito,
simile a quella diagnosticata da Marx.
Patologia del lavoro
Secondo il Marx dei Manoscritti e delCapitale,
la viva referenzialità di uomo e natura,
intessuta dal lavoro,
sarebbe stata uccisa
dal morto capitale, che vi si è interposto.
Patologia del lavoro
Anche secondo Hanna Arendt:
«dal punto di vista della natura è piuttosto l'opera
del lavoro che è distruttiva, perchè il processo
dell'operare sottrae materia alla natura senza
restituirgliela, come avviene nel rapido corso del
metabolismo naturale del corpo vivente».
Patologia del lavoro
E' certamente vero che la forma che il lavoro
umano ha assunto nel mondo contemporaneo,
ha enfatizzato la fase esecutiva a scapito di quella
finalizzatrice, demandata sempre più, già prima
dell'avvento del fordismo-taylorismo, all' organizzazione
anonima, tecnica, sociale e di mercato, considerata più
adeguata a padroneggiare i numerosi fattori in gioco.
Patologia del lavoro
Sembra di conseguenza che ai soggetti lavoratori
non resti davvero che eseguire ciò che la morta
organizzazione stabilisce in vista del conseguimento
della maggiore utilità economica generale,
ma a danno del ritorno sul soggetto individuale e
sociale del prodotto del lavoro e con esso della stessa
forma di vita lavorativa, che perde così ogni carattere
di vita umana, riducendosi ad automatismo naturale,
spesso vissuto anche compulsivamente.
Apertura dell'orizzonte
Dalla fenomenologia del lavoro si apre un punto
di fuga in quest'orizzonte che, finchè è
considerato interamente consegnato a entità
“morte” (capitale, organizzazione), sembra
definitivamente chiuso, come Marx aveva
affermato.
Apertura d’orizzonte
Si è visto infatti che la fase esecutiva del lavoro,
quella che dipende dal fine “tecnico” che la volontà
ordina alle membra di eseguire e l’organizzazione
impone ai lavoratori,
s u b e n t r a solo ad un certo punto della prassi di
finalizzazione, che si era avviata a partire
dall’avvertire assiologico di qualcosa che aveva –
da-essere, di un’esigenza/bisogno/desiderio da
soddisfare.
Apertura d’orizzonte
Dunque,
l’assunzione
da
parte
dell’
organizzazione della finalità tecnica da
eseguire, non esaurisce il campo dell’umana
capacità morale/di finalizzazione, che anzi
viene più fortemente investita della
responsabilità di riguadagnare ai propri
progetti di vita, il segmento lavorativo
sottoposto all’organizzazione per motivi di
efficienza.
Apertura d’orizzonte
Ciò significa che il lavoro-dell’uomo non può
propriamente consistere o assestarsi nella sua sola
fase oggettivo-esecutiva, come accade invece al
lavoro dell’animale o della macchina.
Infatti, per lavorare, il lavoratore deve disporre di un
certo “sapere dello scopo” del suo lavoro e volerlo,
almeno per quel minimo che gli consente di muovere
opportunamente le membra, come nel caso delle
azioni miste, volontarie e involontarie insieme,
documentate da Aristotele*.
*Le azioni miste secondo Aristotele
«Quando si gettano fuori bordo i propri averi durante le
tempeste [è discutibile se siano azioni volontarie o
involontarie], giacchè in generale nessuno butta via
volontariamente, ma chiunque abbia senno lo fa per salvare se
stesso e tutti gli altri. Simili azioni sono dunque miste, ma
assomigliano di più a quelle volontarie, giacchè sono fatte
oggetto di scelta nel momento determinato in cui sono
compiute e il fine dell'azione dipende dalle circostanze […] In
questo caso si agisce volontariamente, giacchè il principio
che muove come strumenti le parti del corpo in simili
azioni è nell'uomo stesso: e le cose di cui ha in se stesso il
principio, dipende da lui farle o non farle. Tali azioni sono
dunque volontarie, anche se in assoluto sono involontarie,
giacchè nessuno sceglierebbe nessuna delle azioni di tal
genere per se stessa»
(Aristotele, Etica Nicomachea, III, 1, 1110a 8-20).
Apertura d’orizzonte
Ed è qui, nel personale e intimo momento motivazionale posto al
suo effettivo avvio, che il lavoro, anche quello più parcellizzato
e rigidamente organizzato, in quanto è dell’uomo, si mostra
profondamente e inalienabilmente integrato nel contesto eticoontologico soggettivo.
Ciò non sottrae l’attività del lavoratore alla completa immersione
nella dinamica esecutiva oggettivata e oggettivante, ma
consente di riscattare quella fase di inevitabile alienazione
tecnica, con la ricomprensione dell’interezza dell’attività
lavorativa (fase1+fase2) nell’ambito del personale piano
morale di vita, che il lavoratore intende perseguire.
Apertura d’orizzonte
Si tratta quindi di riprendere individualmente consapevolezza della
possibilità che si profila, di conseguire un riequilibrio
antropologico, operando un personale super-intenzionamento
etico del lavorare sociale organizzato attraverso la
considerazione di quest’ultimo come “compito” che si svolge
per realizzare la propria vita (cfr.: il dovere morale della cura sui
nel cui ambito rientrava il lavoro salariato già secondo Ch.
Wolff).
Ciò non va ovviamente confuso con l’adesione alla mission
aziendale o con il boicottaggio di essa, perché al contrario
svolge la funzione di innestare proprio la finalizzazione tecnica
e di utilità del lavoro, nell’ambito del personale progetto di vita
di ciascun lavoratore, e di promuovere con successo
l’attraversamento dell’alienazione e il ritorno al soggetto, come
realizzato, dello scopo “morale” che l’aveva motivato a lavorare
allo scopo tecnico impostogli dall’organizzazione.
Apertura d’orizzonte
L’osservazione fenomenologica
ci ha così evidenziato che il lavoro umano,
nella sua stessa natura di fare diviso,
mantiene aperte per l'umano,
pur nella condizione “capitalistica” dell'economia,
vie d’uscita dall'alienazione.
Apertura d'orizzonte
Infatti, nella misura in cui nega immediatezza
all’esecuzione produttiva e la sottopone tanto alla
finalizzazione tecnica quanto alla prassi etica di
finalizzazione, il lavoro dell’uomo si mostra, rispetto al
lavoro in fisica o in economia, come un plus-lavoro
come hanno segnalato alcuni socialisti non scientifici,
quali Pierre Joseph Proudhon e Charles Peguy.
Il lavoro secondo Peguy
Un tempo gli operai non erano servi.
Lavoravano.
Coltivavano un onore, assoluto, come si addice a un onore.
La gamba di una sedia doveva essere ben fatta.
Era naturale, era inteso. Era un primato.
Non occorreva che fosse ben fatta per il salario, o in
modo proporzionale al salario.
Non doveva essere ben fatta per il padrone,
né per gli intenditori, né per i clienti del padrone.
Doveva essere ben fatta di per sé, in sé, nella sua stessa natura.
Una tradizione venuta, risalita da profondo della razza,
una storia, un assoluto, un onore esigevano che quella gamba di sedia
fosse ben fatta.
E ogni parte della sedia fosse ben fatta.
E ogni parte della sedia che non si vedeva era lavorata con
la medesima perfezione delle parti che si vedevano.
Secondo lo stesso principio delle cattedrali.
E sono solo io — io ormai così imbastardito — a farla adesso tanto lunga.
Per loro, in loro non c’era neppure l’ombra di una riflessione.
Il lavoro stava là. Si lavorava bene.
Non si trattava di essere visti o di non essere visti.
Era il lavoro in sé che doveva essere ben fatto.
Apertura d'orizzonte
Il lavoro umano si rivela così
portatore di un surplus-di-valore,
che è in grado di porre a servizio della vita buona
la sua valenza di produzione materiale,
cosicchè
sempre si possa vivere-lavorando-per-ben-vivere
e mai ci si debba ridurre
a lavorare-per-sopravvivere o a vivere-per-lavorare,
neppure quando è realmente così.