I campi di concentramento in Abruzzo

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I CAMPI DI
CONCENTRAMENTO IN
ABRUZZO
Lavoro realizzato dalla classe
V^A MERCURIO dell’ITCGeT
“Tito Acerbo” Pescara
A.S. 2004-2005
Se questo è un uomo
Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scopritele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.
Primo Levi
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I cinesi internati nella Basilica di S. Gabriele a isola del
Gran Sasso
Il campo di concentramento di Isola del Gran Sasso era composto da due edifici: uno di essi era
costituito da un grande salone ubicato vicino alla Basilica di S. Gabriele e originariamente destinato
al ricovero dei pellegrini, mentre l’altro, un ex albergo di recente costruzione, si trovava a due
chilometri da Isola.
In seguito ad una serie di trasferimenti, gli internati presenti ad Isola del Gran Sasso risultarono
essere quasi tutti cinesi. Tra i prigionieri si registrava anche la presenza di Padre Antonio Tchang, il
quale era stato inviato dalla Santa Sede nel campo di concentramento con la finalità di convertire al
cattolicesimo i cinesi; questi ultimi, non solo rifiutarono la conversione, ma si dimostrarono piuttosto
ostili nei confronti del sacerdote, che, il 18 settembre del 1941, subì l’aggressione da parte di tre
internati, i quali, per tale evento, vennero trasferiti al campo di Ferramonti (Cosenza).
Nell’ottobre del 1943, la maggior parte degli internati venne spostata dalle autorità germaniche al
nord; nonostante ciò il campo continuò a funzionare fino al giugno del 1944, quando la zona venne
liberata dagli Alleati.
Il campo di concentramento di Nereto
Il campo di concentramento di Nereto era composto da tre edifici: due di essi erano costruzioni private,
mentre il terzo, detto “palazzo bacologico”, era un fabbricato di proprietà del consorzio agrario.
La maggioranza degli internati presenti a Nereto era costituita da ebrei, quasi tutti di nazionalità
tedesca; le condizioni di vita di questi ultimi risultavano piuttosto disagiate, a causa dell’inadeguatezza
dei locali, particolarmente umidi e per il fatto che, a differenza di quanto concesso negli altri campi, ai
prigionieri di Nereto era vietato uscire dallo stabile.
Tali condizioni favorirono episodi quali quello occorso il 13 settembre 1943: dodici internati slavi
riuscirono ad evadere dal campo, servendosi di cinque moschetti, prelevati dalla caserma dei carabinieri
del paese. I fuggitivi, però, vennero rintracciati, arrestati e riportati al campo nel giro di alcune ore.
Il 21 dicembre dello stesso anno, la maggior parte degli internati fu consegnata alle autorità tedesche e
questo episodio determinò la repentina fuga di altri prigionieri.
Coloro che rimasero a Nereto vissero, nei mesi successivi, in condizioni al limite della sopravvivenza:
le razioni alimentari, già scarse ed insufficienti, vennero ulteriormente dimezzate ed i locali che li
ospitavano erano privi di vetri, luce ed acqua,.
Il campo venne chiuso, per le "sopraggiunte esigenze belliche", il 1 febbraio 1944 ed i 69 internati
ancora qui presenti, vennero trasferiti al campo di Corropoli.
Il campo di concentramento di Notaresco
Quello di Notaresco fu uno dei primi campi di concentramento della provincia di Teramo
ad essere allestito e ad accogliere i primi internati. Coloro che subirono l’internamento nel
campo in questione erano, perlopiù, ebrei di varia nazionalità oppure apolidi, ai quali si
aggiunsero, nella primavera del 1942, partigiani dalmati ed istriani.
Tra il 1943 ed il 1944, in seguito ad una serie di trasferimenti, il numero degli internati si
ridusse drasticamente, ma, nonostante prossimo alla chiusura, il campo continuò a
funzionare fino al giugno 1944, registrando la presenza di soli cinque prigionieri.
I Campi di concentramento di Tortoreto Stazione (Alba
Adriatica) e Tortoreto Alto
Il campo di concentramento di Tortoreto fu allestito in due edifici, distanti l’uno dall’altro circa sette
chilometri: uno di essi, una villa privata, si trovava a Tortoreto Stazione (l’attuale Alba Adriatica), sulla
via statale Pescara-Ancona, mentre l’altro, un vecchio fabbricato, si trovava a Tortoreto Alto. Proprio
per la distanza che intercorreva fra i due edifici, la gestione e la direzione del campo, affidate ad un
unico funzionario, risultavano piuttosto difficoltose.
Gli internati nel campo di Tortoreto furono essenzialmente ebrei, soprattutto di nazionalità tedesca; in
seguito all’evolversi degli eventi bellici, però, il 5 maggio 1943, il Ministero dell’Interno ne dispose il
trasferimento e stabilì che il campo venisse utilizzato per l’internamento di uomini responsabili di
infrazioni annonarie. Tale decisione fu determinata dal fatto che la zona costiera abruzzese era
diventata importante dal punto di vista bellico e perciò le autorità militari temevano possibili sabotaggi
e attività di spionaggio da parte degli internati politicamente orientati. Dopo questo trasferimento, il
campo per alcuni giorni rimase vuoto; in seguito, nel luglio 1943, solo l’edificio di Tortoreto Alto tornò
ad essere occupato da 12 internati. Nel novembre successivo solo 2 internati rimasero nel campo, ma,
successivamente, anch’essi vennero trasferiti al campo di Corropoli.
Tossicia
Il Campo di Tossicia, tra i luoghi di internamento istituiti nella provincia di Teramo, fu quello
con le maggiori carenze igenico-sanitarie; qui, infatti, gli internati vivevano in condizioni
disumane.
Esso era composto da tre stabili: due di essi, quello appartenente a De Fabii e Mattei e quello
di proprietà dell’avvocato Mirti, vennero adibiti a campo di concentramento nel giugno 1940,
mentre il terzo, di proprietà di Di Marco, fu preso in affitto dal Ministero dell’Interno e,
quindi, attivato solo nel novembre 1941.
I primi internati, tutti ebrei tedeschi, arrivarono a Tossicia nell’agosto 1940; nel corso dei
mesi il numero dei prigionieri aumentò, a causa dell’arrivo di alcuni cinesi, che a partire dal
1941 rimasero gli unici occupanti del campo.
Nel maggio del 1942 i cinesi furono trasferiti ad Isola del Gran Sasso ed il campo rimase
vuoto fino al 22 giugno, quando arrivarono a Tossicia 35 zingari provenienti da Lubiana.
Nonostante le proteste, gli internati vivevano in condizioni precarie e disagevoli: erano
ammassati nei due fatiscenti edifici, alcuni di essi erano addirittura sprovvisti di indumenti e
costretti a dormire per terra; data la scarsità di cibo riuscivano a sopravvivere solo grazie alle
elemosine mendicate dalle donne più anziane nei paesi limitrofi.
Il 26 settembre 1943 gli internati, approfittando della mancanza di illuminazione, fuggirono
dal campo per ignota destinazione.
Dopo l’evasione degli zingari il campo rimase inutilizzato e nel dicembre 1943 fu adibito ad
alloggio per gli sfollati provenienti da Napoli.
Casoli, il campo per gli ebrei
Il campo di concentramento di Casoli venne attivato il 14 giugno 1940 ed era composto
da due edifici: uno, che aveva la capienza di 50 posti, era di proprietà dell'avvocato
Vincenzo Tilli, mentre l'altro, che poteva ospitare 30 persone, era costituito da una ex
scuola di proprietà del comune.
Il campo di Casoli era segnalato dalle autorità come sede idonea per l'internamento dei
soggetti più pericolosi, ma il Ministero dell'Interno vi inviò principalmente ebrei di
nazionalità tedesca e austriaca.
Grazie alla gestione magnanima del campo, da parte del Podestà del luogo, le
condizioni degli internati di Casoli, almeno all'inizio, non furono particolarmente dure.
Ma tale atteggiamento tollerante nei confronti degli internati provocò la reazione dei
fascisti del posto, che denunciarono sia l'internato polacco Hermann Datyner, perché
esercitava la professione di medico nel paese, sia il Podestà stesso, perché ne elogiava
le capacità professionali. In seguito a tali rimostranze, Hermann Datyner venne
trasferito al campo di Istonio Marina, mentre per il Podestà non ci furono conseguenze
significative. La condizione degli internati divenne più difficile nel corso dei mesi, a
causa del sovraffollamento. Il numero delle presenze nel campo, difatti, fu, fino alla sua
chiusura, sempre elevato e il 6 novembre del 1942 la Croce Rossa Internazionale fece
presente al Ministero dell'Interno che, oltre il sovraffollamento, gli internati
lamentavano la scarsità e la mancanza di cibo.
Il campo cessò di funzionare subito dopo 1'8 settembre 1943.
Il campo di concentramento nell'asilo infantile
"Principessa di Piemonte" a Chieti.
Il campo di Chieti fu istituito nella sede dell’asilo infantile “Principessa di Piemonte”, i cui
bambini vennero sistemati nell'Istituto S. Maddalena.
Il campo ospitò essenzialmente internati stranieri, soprattutto di nazionalità inglese e francese, ma
rimase in funzione per un tempo relativamente breve, poiché il Podestà di Chieti chiese ed ottenne
dal Prefetto della città la restituzione dell'edificio, dal momento in cui non era stato possibile
trovare, per il nuovo anno scolastico, sistemazioni alternetive per i bambini delle scuole materne.
Gli internati presenti vennero trasferiti a Montechiarugolo, Casoli e Manfredonia.
Istonio Marina
(Vasto)
Il campo di Istonio Marina fu uno dei primi ad essere allestiti: l’11 giugno
1940 esso risultava già attivo. Il campo aveva una capienza massima di 170
persone, poiché era costituito dall’albergo di Oreste Ricci e dalla villa
Marchesani. In tale località erano internati i cittadini italiani ritenuti pericolosi
per lo Stato e gli slavi.
Nel gennaio del ’41, il direttore del campo scoprì un’organizzazione
sovversiva che si andava costituendo, nonostante le condizioni restrittive, i cui
promotori furono trasferiti nella colonia delle isole Tremiti.
Le condizioni di vita del campo erano difficoltose a causa della mancanza di
spazio e di servizi igienici, per le difficoltà di approvvigionamento del vitto
nonché per l’atteggiamento arbitrario tenuto dal direttore.
Dopo il 25 luglio del 1943, le autorità militari chiesero la chiusura del campo,
poiché nei pressi del paese si stavano portando a termine delle fortificazioni,
su cui gli internati, tra cui vi erano anche delle presunte spie, avrebbero
potuto, in qualche modo, riferire agli Alleati. Nonostante il paventato pericolo,
il Ministero dell’Interno, per mancanza di posti in altri campi, ordinò di
trasferire solo i prigionieri più pericolosi e il campo continuò a funzionare fino
al settembre del 1945.
Lama dei Peligni
Il campo di Lama dei Peligni fu istituito nella villa di Camilla Borrelli, che si
trovava all’interno del paese e la cui capienza fu stimata in 80 posti.
Il campo ospitò numerosi internati, quasi tutti stranieri, ma essi, anche dopo
pochi giorni, venivano generalmente smistati in altri campi. Nonostante ciò, esso
rimase sempre occupato sino alla chiusura, avvenuta l’8 settembre 1943. Gli
internati di Lama dei Peligni godettero di una relativa libertà, soprattutto in virtù
del fatto che consumavano il vitto nelle trattorie del paese, dove avevano dei
contatti con gli abitanti del posto, che si mostrarono sempre benevoli nei loro
confronti. A rendere difficili, invece, le condizioni di vita furono essenzialmente
il freddo e la frequente mancanza d'acqua corrente.
Lanciano
Quello di Lanciano, fu uno dei campi destinati all’internamento delle sole donne, almeno fino
al 1942, anno in cui esse furono sostituite dagli slavi. Esso fu istituito nel giugno del 1940,
nella villa di Filippo Sorge ed aveva una capienza massima di 55 posti. Essendo un campo
femminile, la direzione fu affidata ad una donna. Nel 1942, il Ministero dell’Interno stabilì
che le internate, per lo più donne di varie nazionalità, che professavano la religione ebraica,
venissero trasferite nel campo di Pollenza (Macerata) e fossero sostituite da uomini. Nel
febbraio dello stesso anno, infatti, arrivarono a Lanciano dei reclusi slavi, considerati
“elementi comunisti politicamente pericolosi”. In breve tempo, il campo divenne
sovraffollato e i prigionieri lamentavano la mancanza d’acqua e di servizi igienici; le
condizioni di vita erano rese ancor più difficoltose dalla mancanza di un’infermeria e dal
fatto che molte delle stanze della villa erano senza vetri, il che causava continui episodi di
malattie da raffreddamento e reumatismi. Verso la metà dell’ottobre del 1943, tutti gli
internati fuggirono e nonostante ciò, benché vuoto, il campo, continuò a funzionare fino al 28
ottobre 1943, quando anche il servizio di vigilanza abbandonò il posto fisso di RR.CC. e il
campo venne occupato dai militari tedeschi.
Corropoli
Il campo di concentramento di Corropoli venne istituito nel 1941, nel monastero dei frati Celestini,
denominato Badia. Gli internati in tale campo risultavano essere, perlopiù, slavi e comunisti italiani,
già condannati dal Tribunale Speciale alla misura restrittiva del confino.
Nel 1942, un anonimo riferì alla prefettura di Teramo che gli internati di Corropoli godevano di
troppa libertà; dopo alcuni e accurati sopralluoghi, però, le accuse risultarono infondate, poiché gli
ispettori constatarono e, quindi, riferirono al Ministero dell’Interno, che: nel campo vigeva il
massimo rigore, tale che, nei casi di mancanza di disciplina, non si lesinavano punizioni, le quali, per
gli internati più indisciplinati, coincidevano con trasferimenti in campi più duri; che gli internati
erano soggetti a stretta sorveglianza ed autorizzati ad uscire solo per acquistare le provviste per la
mensa comune e solo se accompagnati da un’agente.
Nel 1943 nel campo si verificarono diversi incidenti, causati dal modo arbitrario con il quale le
guardie ed il direttore applicavano il regolamento; ciò fece scaturire le lamentele degli internati che
arrivarono a chiedere, invano, il trasferimento in altri campi. Per evitare la fuga degli internati
vennero applicate all’edificio recinzioni con filo spinato e si dispose una sorveglianza più attenta.
Ciò non impedì, il 19 settembre del 1943, ad una formazione partigiana di entrare nel campo e di
liberare 36 internati jugoslavi.
Nel gennaio 1944 un telegramma del Ministero degli Interni richiedeva, con la massima urgenza, il
trasferimento degli internati al campo di Servegliano. Dopo lo smistamento dei prigionieri, sia nel
campo indicato dal Ministero, sia verso quelli presenti nel nord della penisola, il campo di Corropoli
venne chiuso a fine maggio.
Il campo di Città S.Angelo, l’unico in provincia
di Pescara
Il campo di Città S. Angelo venne istituito in un fabbricato preso in affitto dal
Ministero dell’Interno nel giugno del 1940. Nonostante la repentina e pronta
attivazione, esso rimase vuoto fino al febbraio 1941, quando vi furono inviati dei
cittadini dalmati. Nel corso dei mesi ed in seguito ad una serie di trasferimenti, la
categoria degli internati di Città S. Angelo divenne piuttosto omogenea, difatti essa era
costituita quasi completamente da cittadini jugoslavi, la maggior parte dei quali
schedata come “comunisti”. In seguito ad alcuni incidenti, furono limitate le libertà
degli internati e soprattutto le loro occasioni di contatto con la popolazione locale, dal
momento in cui essi erano stati ritenuti, appunto, colpevoli di aver “confabulato con gli
abitanti del comune” e di aver propagandato le loro idee sovversive.
Col volgere del tempo il numero degli internati diminuì progressivamente e nell’ultimo
periodo in cui il campo rimase aperto, la difficoltà a reperire il cibo e la presenza di
due tubercolotici, resero le condizioni di vita degli internati sempre più precarie. Il
campo venne definitivamente chiuso nell’aprile 1944.
Tollo, il campo per i comunisti jugoslavi
Il Campo di Tollo venne istituito nel novembre del 1941 e i primi internati, 42 comunisti
ritenuti “pericolosi politicamente”, provenienti dai campi di concentramento dell’Albania,
vi arrivarono nel febbraio del’42. Il campo di Tollo presentava delle difficoltà particolari
legate a due fattori: le condizioni igienico-sanitarie degli internati, alcuni dei quali
addirittura affetti da scabbia; la poca garanzia di efficienza offerta dall’edificio civile in
cui era stato attivato il campo ed a cui non erano state apportate modifiche. Per
quest’ultima ragione in particolare, gli internati vennero trasferiti in altre località e si
stabilì che il campo venisse destinato alla reclusione delle donne colpevoli di infrazioni
annonarie; ma a causa della difficoltà di reperire in zona una donna che potesse svolgere il
ruolo di direttrice, il Ministero decise di inviare a Tollo solo uomini responsabili della
medesima infrazione. Il campo venne chiuso nell’ottobre del 1943 e fino ad allora rimase
vuoto, quando non ospitò un numero esiguo di internati.
Il Campo di Concentramento a Civitella del Tronto
Il campo di Civitella del Tronto era composto da tre edifici: un ospizio, un convento e un'abitazione privata, i
quali erano in grado di ospitare 230 internati, anche se il maggior numero di presenze si registrò il 9 novembre
del 1940, quando risultarono presenti nel campo 109 prigionieri, perlopiù ebrei tedeschi.
Nell’aprile del 1941 due internati zingari, Bernard G. Battista e suo figlio Michele, riuscirono a fuggire dal
campo, facilitati in ciò dalla mancanza di sorveglianza, che dopo la soppressione del corpo di guardia dei
carabinieri era stata affidata a due agenti della Pubblica Sicurezza.
L'anno seguente, vennero assegnati al campo di Civitella del Tronto 107 ebrei inglesi, provenienti dalla Libia,
i cui capi famiglia inviarono una lettera di protesta al Ministero dell'Interno, per denunciare l'impossibilità di
vivere con solo 60/70 metri quadrati per passeggiare all'aperto ed in cui richiedevano una libera uscita
giornaliera, della durata di alcune ore. Contemporaneamente a quella degli internati, al Ministero arrivò
un'altra lettera, quella di un anonimo, che si diceva meravigliato della benevolenza delle autorità nei confronti
dei prigionieri, che venivano considerati più ospiti che persone sottoposte a sorveglianza. Il Ministero, in
seguito a tale denuncia, non tardò ad intervenire, limitando la libertà degli internati di allontanarsi dal campo e
sostituendone il direttore. Nel 1944 il Ministero dell'Interno inviò numerose circolari alla Prefettura di Teramo,
nelle quali sollecitava il trasferimento degli internati in tutta la provincia verso il nord della penisola. In
seguito a queste disposizioni gli internati vennero prima trasferiti a Fossoli, dalla polizia tedesca, e poi, nei
campi di sterminio tedeschi.
Gli internati del campo di Civitella che furono deportati in Germania ebbero sorti diverse: di quelli inviati nel
lager di Bergen Belsen solo alcuni vennero uccisi, mentre quelli destinati ad Auschwitz morirono quasi tutti.
Dopo il trasferimento degli internati, il campo di Civitella venne chiuso il 22 maggio 1944.
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L’internamento in Abruzzo
- La pratica dell’internamento
- Categorie di internati
- L’organizzazione dei campi
- Le disposizioni contro gli ebrei
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La vita nei campi di concentramento
- Direzione e vigilanza
- Alimentazione
- Sussidi e assistenza
- Condizioni igieniche e sanitarie
- Corrispondenza postale
- Lavoro e tempo libero
- Sovraffollamento e spostamenti

L’internamento dopo l’8 settembre 1943
-L’internamento in Abruzzo dopo l’armistizio
-La persecuzione degli ebrei e le “anticamere dello sterminio”
-L’occupazione tedesca e gli internati
-Il contributo degli internati alla Resistenza
-Dalla deportazione alla Liberazione
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CARTINA CLICCABILE
Cartina
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L’internamento
L’internamento, secondo il diritto internazionale, è una misura restrittiva della libertà personale, che tutti gli
Stati hanno la facoltà di applicare in caso di guerra. Esso non è regolato da particolari accordi, anche se, per la
sua attuazione, ci si attiene alla convenzione sul trattamento dei prigionieri di guerra, siglato a Ginevra nel
1929. La sua applicazione prevede il trasferimento dei cittadini appartenenti a Stati nemici o, in casi specifici,
anche dei propri, dalle zone di guerra verso località militarmente meno importanti, all’interno dello Stato.
Nel corso della Seconda Guerra Mondiale, tale pratica venne ampiamente utilizzata ed, in particolare, il
regime fascista predispose due forme d’internamento: quello libero (cioè in comuni diversi da quelli della
residenza abituale) e quello nei campi di concentramento. Le due forme di internamento erano differenziate,
oltre che per i diversi sistemi di controllo e di restrizioni della libertà personale, dai diversi criteri di
assegnazione: nei campi venivano internate le persone ritenute pericolose, nei comuni, invece, gli elementi
meno temibili; mentre per i sospetti di spionaggio era previsto il confino in località insulare.
Le località scelte per l’istituzione dei campi di concentramento si collocano per lo più nell’Italia centromeridionale (in particolare modo in Abruzzo, Marche e Molise) ed esse furono ritenute particolarmente adatte
a tale scopo per una serie di motivi: erano considerate zone militarmente poco importanti, i cui luoghi
risultavano essere impervi ed in cui si registrava una scarsa concentrazione di abitanti, i quali, peraltro, erano
considerati poco politicizzati. Per l’istituzione dei campi vennero utilizzati edifici già esistenti, di proprietà
demaniale o presi in affitto; gli internati liberi, invece, vennero sistemati in pensioni o in camere ammobiliate.
Il 1° giugno 1940 il Ministero dell’Interno inviò alle Prefetture la seguente circolare telegrafica:
“Appena dichiarato lo stato di guerra, dovranno essere arrestate e tradotte in carcere le persone pericolosissime sia italiane che
straniere di qualsiasi razza, capaci di turbare l’ordine pubblico e commettere sabotaggi o attentati, nonché le persone italiane e
straniere segnalate dai centri di controspionaggio per l’immediato internamento.”
In base a questa disposizione, infatti, appena l’Italia entrò in guerra, ci furono i primi arresti e nei giorni
successivi i conseguenti trasferimenti in località d’internamento.
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Categorie di internati
L’internamento colpì sia quei soggetti ritenuti “pericolosi nelle contingenze belliche”, sia
quelli considerati “pericolosi per il regime”.
Nell’ambito della categoria degli stranieri, il maggior numero di internati fu costituito da
slavi, mentre per quanto riguarda gli ebrei stranieri, subirono l’internamento anche coloro
che facevano parte dell’Asse, ovvero ebrei tedeschi ed austriaci.
Degli ebrei italiani, invece, vennero internati solo quelli ritenuti pericolosi per motivi
politici e sociali, poiché l’elemento “razza” non costituiva condizione sufficiente per tale
provvedimento.
Un’ulteriore categoria di cittadini di nazionalità italiana, che subì l’internamento, anche
se in modo più blando, fu rappresentata dai lavoratori rimpatriati d’autorità dalla
Germania.
A queste tipologie bisogna aggiungere gli internati per reati comuni, quali i traffici
illeciti, le infrazioni annonarie e la prostituzione, i quali vennero internati in appositi
campi.
L’organizzazione dei campi
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A differenza dei lager tedeschi, di cui si conosce tutto, le informazioni inerenti i campi di concentramento
presenti in Italia sono ancora scarse, poiché la ricerca in tale campo è iniziata solo da alcuni anni; comunque
quel che si sa con certezza è che, con l’avvento del fascismo, l’istituto dell’internamento venne perfezionato
e la sua applicazione non si basò più su leggi organiche, ma venne regolata da semplici note e circolari, che
lo resero un altro mezzo dell’apparato repressivo fascista.
Una di tali circolari, infatti, istituì lo “Schedario M”, in cui venivano registrati i dati degli internati, dal
momento in cui esso comprendeva la scheda e la cartella personale, la cartella biografica e il fascicolo
personale.
A livello amministrativo la pratica dell’internamento venne gestita dall’Ufficio Internati, il quale era diviso in
due sezioni, una per gli internati civili pericolosi italiani, l’altra per gli stranieri ed aveva la competenza di
adottare il provvedimento dell’internamento e di assegnare le località di destinazione.
Per quanto riguarda l’aspetto organizzativo e gestionale, nel 1940 il Ministero dell’Interno mandò ai prefetti e
al questore di Roma delle prescrizioni per i campi di concentramento, fra queste le più importanti erano le
seguenti:
1) il funzionario dovrà stabilire entro quale spazio gli internati possono circolare o cose simili;
2) dovranno essere fatti tre appelli al giorno;
3) gli internati potranno consumare i pasti in esercizi o presso le famiglie private del posto;
4) gli internati sussidiati possono riunirsi in mense sia presso esercizi che presso famiglie private;
5) gli internati hanno l’obbligo di mantenere una buona condotta;
6) agli internati bisognosi sarà corrisposto una diaria di lire 6,50;
7) le spese per medicinali comuni saranno a carico del Ministero;
8) qualora fossero necessari interventi chirurgici gli interessati potranno essere ricoverati nell’ospedale più
vicino.
Le disposizioni contro gli ebrei
Dopo l’ingresso dell’Italia in guerra, vennero predisposti provvedimenti anche nei
confronti degli elementi ebraici; in particolare gli ebrei stranieri residenti in Italia
(tranne quelli appartenenti a stati neutrali) e più precisamente quelli che “vi sono
venuti con pretesti, inganno o mezzi illeciti”, cominciarono ad essere considerati
appartenenti a Stati nemici e quindi passibili di internamento.
Così quest’ultimo, che all’origine non era stato concepito come un provvedimento
antisemita, entrò a far parte della politica razziale del fascismo.
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Direzione e vigilanza nei campi di concentramento
La direzione dei campi di concentramento abruzzesi venne affidata ai Commissari di Polizia o ai podestà dei paesi
in cui erano dislocati. Il ruolo principale svolto da questi ultimi era quello di amministrare il campo, far rispettare
le disposizioni previste per gli internati, segnalare alle prefetture eventuali lavori per la manutenzione dei campi,
redigere un regolamento interno del campo, aggiornare l’elenco delle presenze, controllare i pacchi che
arrivavano agli internati, denunciare eventuali infrazioni da parte dei prigionieri e punire i più indisciplinati.
Riguardo le sanzioni che i direttori potevano infliggere agli internati, la testimonianza di Maria Eisenstein,
internata nel campo femminile di Lanciano, ce ne chiarisce la diversa natura: le punizioni gravi contemplavano la
reclusione in carcere, nelle isole e nei campi di rigore; quelle ritenute leggere, ma non meno umilianti e seccanti
delle prime, riguardavano la proibizione di uscire di casa o di recarsi nei centri abitati; categoria a parte era
costituita dalle punizioni private, quelle non ufficiali, definite anche le più odiose, riguardanti, perlopiù, la
mancata consegna della posta, che poteva protrarsi anche per settimane.
Per la sorveglianza nei campi era prevista l’istituzione di un posto fisso dei carabinieri, a meno che nelle
vicinanze non vi fosse già una caserma o mancasse lo spazio necessario. Nello svolgere il loro compito i
carabinieri venivano affiancati da due agenti della Pubblica Sicurezza. Gli addetti alla sorveglianza dovevano fare
la guardia notte e giorno agli edifici adibiti a campi, controllare che il regolamento fosse rispettato e fare l’appello
al mattino, a mezzogiorno e la sera.
L’Alimentazione
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Il Ministero dell’Interno stabilì che per l’approvvigionamento nei campi di concentramento si stipulassero degli
accordi con aziende e produttori locali. I Prefetti abruzzesi, quindi, siglarono delle convenzioni con trattorie,
esercizi alimentari e con qualche contadino, da cui gli internati acquistavano, utilizzando gran parte del loro
sussidio governativo, i viveri necessari.
La particolare condizione degli internati, induceva spesso i fornitori ad approfittare della situazione; ciò
avvenne, ad esempio, a Lanciano, dove le donne presenti nel campo di internamento femminile acquistavano i
generi alimentari dalle contadine del luogo, che più volte, approfittando della stato di necessità nel quale esse si
trovavano, aumentavano i prezzi in modo ingiustificato, provocando le loro vane lamentele.
Nei campi dove fu possibile, venne approntata una mensa comune e a tal fine la direzione dei campi tratteneva
dal sussidio degli internati 5,5 lire per l’acquisto dei generi alimentari, ma, con l’inasprirsi della guerra, la quota
fu portata a 7 lire; essa prevedeva: al mattino ¼ di latte misto a surrogato e a mezzogiorno un piatto di minestra,
un secondo (se il mercato ne era provvisto), verdura e frutta fresca, ovvero formaggio o marmellata.
Tale trattamento alimentare non venne sempre rispettato e in molti campi si verificarono diversi episodi di borsa
nera.
Nei campi dove non fu possibile approntare una mensa comune, gli internati consumavano i pasti nelle locali
trattorie o presso famiglie, che, in cambio di denaro, cucinavano anche per alcuni di loro.
Con l’inasprirsi delle contingenze belliche divenne più difficile reperire il cibo e ciò provocò malcontenti che
costrinsero il Ministero della Guerra e quello dell’Agricoltura e Foreste ad intervenire, tramite l’emanazione di
disposizioni volte al miglioramento del trattamento alimentare dei prigionieri di guerra e degli internati civili.
Nonostante le intenzioni delle nuove norme, la situazione degli internati non migliorò.
Nell’ultimo periodo in cui i campi rimasero aperti, le condizioni di vita peggiorarono sensibilmente. I generi
alimentari diventarono introvabili e i prezzi proibitivi, specialmente per gli internati, che, con le loro scarse
risorse, erano costretti ad acquistare i viveri al mercato nero.
Sussidi e assistenza
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Gli internati indigenti, ossia coloro che possedevano meno di 400 lire, avevano diritto ad un sussidio
giornaliero identico a quello che veniva elargito ai confinati politici; inoltre, veniva concessa loro una
“carta individuale d’abbigliamento”, con la quale essi potevano richiedere i vestiti e le calzature, dopo
averne documentato l’effettiva necessità al Ministero dell’Interno. Il sussidio veniva quasi interamente
utilizzato per comperare i generi alimentari, tanto che le stesse autorità lo ribattezzarono “sussidio di
soccorso alimentare”, e pertanto rimaneva molto poco per far fronte alle altre necessità. Con l’aumento
dei prezzi e la svalutazione della lira, specie durante il periodo bellico, il sussidio, una prima volta il 1
maggio 1941 ed una seconda il 1 luglio del 1944, venne maggiorato per gli uomini e per le mogli, mentre
fu abbassato per i minorenni.
Per quanto riguarda gli ebrei, essi, tramite la DELASEM (Delegazione Assistenza Emigrati Ebrei) di
Genova e la “Mensa dei Bambini” di Milano, ricevevano assistenza economica, religiosa, medica e
culturale.
La Croce Rossa Italiana e quella Internazionale (tramite il suo delegato in Italia Pierre Lambert) oltre a
fornire assistenza agli internati, ispezionava i campi, accompagnato dall’Ispettore Generale Rosati, e
denunciava le situazioni in cui non veniva rispettato il trattato di Ginevra.
L’assistenza sanitaria, invece, veniva assicurata dai medici condotti che eseguivano periodicamente visite
sia individuali sia generali.
Condizioni igieniche e sanitarie
Le condizioni igieniche e sanitarie dei campi abruzzesi, nella maggior parte dei casi,
risultavano pessime. I medici provinciali, che erano addetti al controllo igienico-sanitario dei
campi, la CRI e gli Ispettori Generali, spesso denunciavano le carenze nelle quali i campi si
trovavano. Nonostante parte dei locali venissero riscaldati, il freddo nei mesi invernali causò
molte malattie da raffreddamento, come reumatismi, artriti, influenze e polmoniti.
Nel 1940, il Ministero dell’Interno precisò che le spese ospedaliere per gli italiani internati,
erano a carico dell’Ente che vi era tenuto per Legge, mentre le spese per gli stranieri erano a
carico del Ministero dell’Interno. In una circolare del 28 settembre 1941, lo stesso Ministero
rettificò le precedenti disposizioni, prevedendo che per gli stranieri le spese venissero poste a
carico del Ministero soltanto nel caso in cui si riferissero a sudditi di paesi nemici, internati
nei campi di concentramento.
Un ulteriore disagio era costituito dall’impossibilità di potersi curare dalle malattie dentarie,
poiché, nella maggior parte dei casi, gli internati dovevano pagarsi sia il viaggio che la
parcella dello specialista.
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Corrispondenza postale
L’arrivo della corrispondenza era uno dei momenti più attesi per gli internati. Poter avere notizie dai
familiari e dagli amici, su ciò che accadeva al di fuori dal campo, costituiva uno dei pochi frangenti
che interrompevano la noia e l’isolamento.
La corrispondenza, sia in arrivo sia in partenza, veniva controllata dai direttori dei campi; nel
revisionare i pacchi, spesso, questi ultimi ne approfittavano per prendere parte di ciò che veniva
spedito agli internati.
A tal proposito Maria Eisenstein scriveva sul suo diario:
“Non si è ancora dato il caso che alla Marfisi [la direttrice del campo di internamento femminile di
Lanciano] non sia piaciuto qualcosa in ogni pacco. Dice subito: "Che bello, questo formaggio, chi sa
come è buono!" o "Guarda quante sigarette, queste sono la marca preferita da mio marito eccetera" e noi
paghiamo il tributo”.
Inizialmente la corrispondenza, in partenza dai campi abruzzesi, scritta in lingua straniera, veniva
inviata all’ufficio statistica della locale questura, dove fiduciari che conoscevano soprattutto l’inglese e
il tedesco provvedevano alla traduzione, in vista di un’eventuale censura.
L’enorme quantità di corrispondenza, dovuta all’aumento degli internati, e la crescente diversificazione
linguistica mise, però, in crisi l’intero sistema della censura postale; pertanto il Ministero dell’Interno
emanò delle norme che: prescrivevano l’uso delle sole lingue inglese e tedesca; stabilivano che le
lettere e le cartoline venissero scritte su un apposito modulo, che ne limitava la lunghezza, e che
fossero incluse in buste leggere senza fodera, per facilitarne le ispezioni.
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Lavoro e tempo libero
L’obbligo di lavorare, all’inizio, non era previsto per gli internati, anche se coloro che si trovavano in difficoltà
economica cucinavano e pulivano i locali per gli altri, i più “facoltosi”, in cambio di qualche lira.
Il 5 Luglio 1942 il Ministero dell’Interno inviò una circolare nella quale si disponeva di esaminare la
possibilità di far lavorare gli internati in relazione alle loro specialità. Queste direttive, per quanto riguarda i
campi abruzzesi, rimasero, però, inattuate; infatti le Prefetture di Chieti, Pescara e Teramo, risposero al
Ministero che “non vi è possibilità di istituire laboratori ed officine per l’avviamento collettivo al lavoro”.
L’intento di rendere produttivi i confinati venne raggiunto nell’estate del 1943 quando, in “occasione della
mietitura nell’agro romano”, il Ministero delle Corporazioni richiese l’impiego di circa 1500 uomini; le
prefetture abruzzesi stilarono, quindi, gli elenchi degli internati “idonei ai lavori agricoli” e così circa duecento
di essi, presenti nei campi abruzzesi, vennero inviati al “lavoro di falciatura e mietitura”.
In seguito, inoltre, agli inizi del 1944, con l’occupazione tedesca, gran parte degli internati vennero impiegati
a scavare trincee e costruire fortificazioni.
Per quanto riguarda il tempo libero, nei primi mesi di prigionia, gli internati, viste le scarse occasioni di
lavoro, ne avevano un ampio margine, che occupavano essenzialmente con lunghe passeggiate fuori dal
campo; in seguito tale libertà venne concessa in misura sempre inferiore, a causa della crescente rigidità
nell’applicazione dei regolamenti, legata anche agli eventi bellici.
A scandire lo scorrere del tempo, per gli internati, erano le festività e i culti religiosi, i quali erano consentiti in
tutti i campi; in occasione della pasqua ebraica, infatti, in alcuni luoghi di internamento venne distribuito
anche il pane azzimo.
Per gli internati erano previste anche le visite dei coniugi ed in questi casi essi potevano ottenere il permesso
di passare la notte in un albergo o in una locanda del paese.
Sovraffollamento e spostamenti
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In quasi tutti i campi abruzzesi si registrarono casi di sovraffollamento. Nei periodi in cui ciò si verificava,
le condizioni di vita peggioravano per gli internati, poiché, costretti a dormire ammucchiati e a condividere i
limitati spazi dei campi, aumentavano i rischi di malattie infettive, inoltre il cibo diminuiva ulteriormente.
Numerose furono le denunce degli Ispettori Generali, nelle quali si chiedeva di non inviare nuovi internati e
di trasferire gli eccedenti; ma quanto richiesto fu possibile solo in parte, perché l’aumento dei
provvedimenti di internamento nel corso della guerra rendevano difficoltoso il reperimento di sistemazioni
alternative. Così si decise di adottare dei provvedimenti di clemenza, quale quello coincidente con il
ventennale della Marcia su Roma; inoltre il Ministero dell’Interno concesse la possibilità, a coloro che
chiedevano di ricongiungersi con la famiglia e a coloro che erano gravemente malati, di trasferirsi nelle
località di internamento “libero”.
Nei campi di concentramento abruzzesi non si registrarono casi di violenze premeditate o gravi
maltrattamenti e furono trattati in modo più duro solo gli slavi e gli zingari. Le condizioni di vita variarono
da campo a campo e divennero più difficili nel corso della guerra, quando aumentarono i disagi e le
incertezze sul proprio futuro. Arturo Avicdor, un internato di Nereto, racconta:
“tutto il male che ci hanno fatto, non può essere cancellato. Per 4 anni sono stato privato della mia libertà, del mio modo di
vivere e questi anni per me sono stati 10 anni della mia morte. La libertà che io desideravo ardentemente mi è stata privata.
Non m’importava aver fame, soffrire, il peggio era che mi mancava la mia libertà. Per essa non c’è alcun prezzo. Posso
dimenticare sì, ma perdonare non mi è proprio possibile.”
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L'internamento in Abruzzo dopo l'8 settembre '43.
Già a partire dal 29 luglio vennero emanate delle circolari contenenti le indicazioni per la liberazione di
alcune categorie di internati: i primi a beneficiare di tali provvedimenti furono i cittadini italiani e gli
ebrei italiani, seguiti, con un ordine trasmesso il 2 agosto, dai detenuti comunisti e dagli internati politici;
rimanevano esclusi da tali provvedimenti ancora gli anarchici e le spie.
Per quanto riguarda gli ebrei, il 10 settembre, due giorni dopo la firma dell'armistizio italiano, il capo
della polizia Senise revocò l’ordine di internamento a loro rivolto, ma oramai l'Italia era divisa in due,
con il sud liberato dagli Alleati ed il nord ancora occupato dalla ritirata tedesca; ciò comportò che gli
ebrei che si trovavano nel meridione riguadagnarono la loro libertà, mentre coloro che si trovavano nel
settentrione subirono una recrudescenza delle persecuzione per mano dei tedeschi.
Sorte differente, in base alla dislocazione geografica, toccò anche ai campi di concentramento: quelli del
sud furono chiusi, mentre quelli presenti nei territori in mano ai nazisti continuarono a funzionare; anzi,
vista l'esigenza da parte tedesca, vennero allestiti nuovi campi, tra cui quello di Orero (Genova),
destinato alle donne, quello di Cortemaggiore (Piacenza), designato per gli internati misti e quello di
Celle Ligure (Savona), riservato a croati ed italiani.
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La persecuzione degli ebrei e le “anticamere dello sterminio”.
Le disposizioni del 10 settembre, insieme alle altre emanate dal governo Badoglio, vennero revocate dal governo della
Repubblica Sociale Italiana, il 4 novembre 1943. Nello stesso mese venne redatto il Manifesto programmatico della
R.S.I., documento noto come la “Carta di Verona”, che al punto 7 stabiliva: “Gli appartenenti alla razza ebraica sono
stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica”. Pertanto il Ministro dell’Interno, Buffarini-Guidi,
dispose con “l’ordine di polizia n° 5”, che :
1. “Tutti gli ebrei, anche se discriminati, a qualunque nazionalità appartengano, e comunque residenti nel territorio nazionale debbono essere
inviati in appositi campi di concentramento. […].”
2. “Tutti coloro che, nati da matrimonio misto, […] debbono essere sottoposti a speciale vigilanza dagli organi di polizia.”
3. “Siano pertanto concentrati gli ebrei in campo di concentramento provinciale, in attesa di essere riuniti in campi di concentramento speciali
appositamente attrezzati.”
Con questi provvedimenti, la R.S.I. di fatto legittimò lo sterminio degli ebrei presenti in Italia. Questi ultimi, una volta
arrestati ed in attesa di essere trasferiti nei campi di “raccolta”, venivano rinchiusi in quelli provinciali. Di quelli italiani
erano quattro, in particolare, i campi che venivano considerati vere e proprie “anticamere dello sterminio”:
1. il campo di Cuneo;
2. il campo di Modena;
3. il campo di Bolzano-Gries;
4. il campo di Trieste.
Dopo che la “caccia all’ebreo” era iniziata, il Capo della Polizia Tamburini, il 10 dicembre 1943 comunicò che dovevano
essere esentati dall’internamento:
a) gli ebrei ultrasettantenni;
b) gli ebrei gravemente malati;
c) i figli nati da matrimoni misti;
d) gli ebrei coniugati con non ebrei.
Queste disposizioni vennero quasi del tutto ignorate, a causa delle pressione esercitate sulle autorità fasciste dai tedeschi.
Va, inoltre, precisato che, se furono molti gli italiani che nascosero ed aiutarono gli ebrei, ce ne furono anche altri che con
le loro segnalazioni ne facilitarono la cattura, incentivati da un premio pagato loro dai nazisti e da una propaganda
antisemita sempre più martellante.
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L’occupazione tedesca, gli internati e i campi di
concentramento abruzzesi
Il 12 settembre, il maresciallo Kesserling dichiarava il territorio italiano “territorio di guerra” e pertanto sottoposto
alle leggi di guerra tedesche, che autorizzavano, quindi, i nazisti a disarmare le truppe italiane ed a prendere il
controllo di intere zone. Molti militari e civili italiani si arruolarono nell’esercito repubblicano, al fianco dei
tedeschi, altri aderirono alle bande partigiane, mentre la gran parte della popolazione, rimase “neutrale”.
L’Abruzzo, per circa 8 mesi e fino al giugno 1944, quando venne liberata, divenne un’importante zona di
operazioni militari, poiché la linea Gustav, che segnava l’avanzamento degli Alleati verso nord, si collocava
proprio su parte del suo territorio. Gli internati presenti nei campi abruzzesi accolsero con tanto entusiasmo la
notizia della liberazione ed i fermenti bellici, che in molti casi si dovettero ristabilire l’ordine e la calma con
provvedimenti speciali. Le speranze di riacquisire la propria libertà, però, andarono completamente disilluse e,
anzi, le condizioni dell’internamento peggiorarono a causa dei metodi e delle decisioni attuate dalle autorità
germaniche, che presero in consegna i campi.
Il contributo degli internati alla
Resistenza
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Approfittando dello sfacelo generale, dopo l’8 settembre, alcuni internati,
in maggioranza jugoslavi, riuscirono a fuggire dai campi di
concentramento con l’intenzione di raggiungere i confini orientali della
propria patria, ma, sprovvisti di documenti e di soldi, molti di loro
decisero di darsi alla macchia e di combattere i tedeschi.
Episodio particolarmente significativo della lotta partigiana nella nostra
regione fu quello della battaglia di Bosco Martese: qui, il 25 settembre
1943, circa 40 internati, provenienti quasi tutti dal campo di Corropoli, al
comando del maggiore Mattievic e del tenente Ciukovic, insieme ad altri
partigiani italiani riuscirono a mettere in fuga un intero battaglione
motorizzato tedesco.
Patrioti della Brigata Maiella
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Dalla deportazione alla liberazione
Nell’ottobre del 1943 i nazisti decisero di estendere anche all’Italia la cosiddetta
“soluzione finale“ degli ebrei: il nostro Paese, in base alla disposizione prevista dai
tedeschi, avrebbe dovuto divenire “Judenrein” (ripulita dagli ebrei ). Le SS addette alla
cattura degli ebrei, secondo il capo divisione Wagner, risultavano essere insufficienti,
quindi, era indispensabile che “le forze fasciste sotto la loro responsabilità“
collaborassero ad arrestarli. E così fu: la polizia italiana contribuì alla realizzazione dei
deliranti progetti nazisti, imprigionando gli ebrei nei campi di raccolta provinciale;
proprio questo passaggio intermedio facilitò il compito dei tedeschi, quando, dal 1
febbraio 1944, iniziarono a deportare gli internati verso i lager. A rendere più efficace le
intenzioni tedesche furono anche le autorità locali abruzzesi e gli addetti alla sorveglianza
dei campi, i quali, in più occasioni, consegnarono alle autorità germaniche gli ebrei, pur
sapendo quale sarebbe stata la loro sorte.
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Direzione e vigilanza
La direzione dei campi di concentramento abruzzesi venne affidata ai Commissari di
Polizia o ai podestà dei paesi in cui erano dislocati. Il ruolo principale svolto da questi
ultimi era quello di amministrare il campo, far rispettare le disposizioni previste per gli
internati, segnalare alle prefetture eventuali lavori per la manutenzione dei campi,
redigere un regolamento interno del campo, aggiornare l’elenco delle presenze,
controllare i pacchi che arrivavano agli internati, denunciare eventuali infrazioni da parte
dei prigionieri e punire i più indisciplinati.
Riguardo le sanzioni che i direttori potevano infliggere agli internati, la testimonianza di
Maria Eisenstein, internata nel campo femminile di Lanciano, ce ne chiarisce la diversa
natura: le punizioni gravi contemplavano la reclusione in carcere, nelle isole e nei campi
di rigore; quelle ritenute leggere, ma non meno umilianti e seccanti delle prime,
riguardavano la proibizione di uscire di casa o di recarsi nei centri abitati; categoria a
parte era costituita dalle punizioni private, quelle non ufficiali, definite anche le più
odiose, riguardanti perlopiù la mancata consegna della posta, che poteva protrarsi anche
per settimane.
Per la sorveglianza nei campi era prevista l’istituzione di un posto fisso dei carabinieri, a
meno che nelle vicinanze non vi fosse già una caserma o mancasse lo spazio necessario.
Nello svolgere il loro compito i carabinieri venivano affiancati da due agenti della
Polizia. Gli addetti alla sorveglianza dovevano fare la guardia notte e giorno agli edifici
adibiti a campi, controllare che il regolamento fosse rispettato e fare l’appello al mattino,
a mezzogiorno e la sera.
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