Seminario Le politiche di sviluppo regionale_2013

Facoltà di Scienze Economiche e Giuridiche
Corso di Economia aziendale
Prof. MICHELE SABATINO
Seminario
Le politiche di sviluppo regionale
dell’Unione Europea:
Modelli a confronto
Concetto di sviluppo economico
I requisiti minimi di una società sviluppata sono:


Una dotazione individuale di beni e servizi
adeguata a soddisfare esigenze di consumo
primarie come l’alimentazione e la protezione dagli
agenti atmosferici;
Una dotazione individuale di beni e servizi che
consentano un tenore di vita salutare (ciò include
risorse da utilizzare per godere del tempo libero e
via dicendo).
Per sviluppo economico non si intende l’aumento
del livello del reddito pro capite e neanche che il
tasso di sviluppo sia pari al tasso di crescita del
reddito.
Concetto di sviluppo economico
Lo sviluppo economico quindi deve tenere in conto del:
-
L’indice di sviluppo economico quale il Reddito nazionale ma
anche il reddito pro-capite;
Le condizioni del lavoro (a parità di reddito condizioni di lavoro
differenti condizionano il benessere);
Il livello del consumo pro-capite (a parità di reddito l’utilizzo di
parte di questo per scopi non collettivi ma militari o altro
condiziona il benessere).
MA ANCHE:
 Garanzia
(reale) dei diritti politici e della libertà di
espressione;
 Un basso livello di criminalità;
 Un livello adeguato di protezione dei diritti dei soggetti più
deboli.
Concetto di sviluppo economico


–
–
–
–
Alcuni tentativi di contabilizzare le economie e
diseconomie esterne hanno portato alcuni
economisti a proporre un Indice del benessere
economico (MEW)
Altri, come la Word Bank, hanno provato a
misurare il livello di Human Development
utilizzando un
insieme di indicatori che
comprendono:
l’aspettativa di vita
la mortalità infantile
la disponibilità di acqua potabile
il tasso di alfabetizzazione degli adulti
Le Teorie dello Sviluppo

DAVID RICARDO:
Considera la terra come un ulteriore fattore di
produzione oltre al capitale e al lavoro. Mentre gli
ultimi due fattori crescono la terra è disponibile in
quantità limitate e man mano che la popolazione
cresce si mettono a coltura terre meno fertili.
Pertanto avremo rendimenti decrescenti della
produzione (agricola).
Le Teorie dello Sviluppo

DAVID RICARDO:
La messa a coltura di terre meno fertili determina una
continua espansione della rendita fondiaria a discapito dei
salari che non aumentano e dei profitti che diminuiscono.
Con la riduzione dei profitti si ha una riduzione degli
investimenti. Il sistema economico tende a raggiungere una
situazione di scarso sviluppo – Stato stazionario.
Il ruolo del progresso tecnico avrebbe solo la funzione di
rallentare questa tendenza in quanto rimarrebbe il
problema del fattore terra limitato.
Le Teorie dello Sviluppo

KARL MARX:
Enunciò la Legge della caduta tendenziale del
saggio di profitto. Si riteneva che l’aumento degli
investimenti fosse più veloce dell’aumento della
popolazione con un aumento del rapporto
macchina-uomini e cioè del rapporto capitalelavoro
L’aumento di produzione derivato da ogni nuovo
investimento sarà quindi sempre minore e di
conseguenza
il
saggio
di
profitto
dell’investimento.
Le Teorie dello Sviluppo

KARL MARX:
L’ipotesi è che i profitti vengano totalmente risparmiati ed
investiti mentre i salari, essendo quasi al livello di
sussistenza, quasi totalmente consumati. Tutto ciò produce
un eccesso di investimenti con un surplus di produzione e di
occupazione.
A seguito di questa fase di espansione che dura fino al
raggiungimento del pieno impiego l’eccesso di offerta di
lavoro rispetto la domanda provoca un aumento dei salari e
quindi una caduta dei profitti e degli investimenti con fasi
cicliche. Marx non credeva nell’esistenza di uno Stato
stazionario ma bensì all’esistenza di fasi cicliche
dell’economia. Solo il progresso tecnico avrebbe consentito
aumenti di produzione a parità di lavoratori.
Le Teorie dello Sviluppo

ALTRI ECONOMISTI CLASSICI (Robinson, Kaldor,
Schumpeter):
Anche per questi economisti il ritmo di sviluppo di
lungo periodo è determinato dall’aumento della
popolazione e dal progresso tecnico.
Schumpeter attribuisce, oltre che al progresso,
anche all’iniziativa e allo spirito imprenditoriale. In
presenza di nuove invenzioni o innovazioni ci sono
massicci
investimenti
che
aumentano
la
produzione e l’occupazione.
Le Teorie dello Sviluppo

JOHN MAYNARD KEYNES:
L’analisi keynnesiana si basa sulle teorie del moltiplicatore
del reddito e dell’acceleratore degli investimenti. Il primo è il
meccanismo per cui un aumento degli investimenti genera
espansione della domanda di beni e servizi. Il secondo è il
fenomeno secondo cui all’aumento della domanda globale si
genera un aumento degli investimenti.
I = b [ Y(t) – Y (t-1)]
b = Misura il rapporto tra l’aumento di reddito e l’aumento del capitale
investito (Accelleratore)
Al raggiungimento della piena occupazione si determina un
aumento dei salari e una riduzione dei profitti che contrae gli
investimenti con effetti di moltiplicazione in negativo con
l’alternarsi di fasi cicliche dell’economia.
Le Teorie dello Sviluppo

ROY HARROD:
Harrod traspone l’analisi keynnesiana ai problemi di lungo
periodo. L’economia abbandonata a se stessa non riesce a
raggiungere il pieno impiego. L’economia si espande lungo
un sentiero di equilibrio che sarebbe una successione di
equilibri keynnesiani di sottoccupazione.
Per Keynes non esiste un meccanismo endogeno del
sistema di portare il reddito effettivo a quello potenziale
così per Harrod non vi è un meccanismo che garantisca
che lo sviluppo di equilibrio del reddito nazionale.
Le Teorie dello Sviluppo

ROY HARROD:
Definisce il tasso di crescita dell’economia “Gw” - Tasso
giustificato di sviluppo - quale il tasso di accrescimento della
domanda globale che assicura l’eguaglianza fra risparmi e
investimenti. In tale situazione tutti i risparmi vengono investiti.
Il Tasso di accrescimento massimo consentito dall’aumento della
popolazione e dal progresso tecnico è il tasso di accrescimento
naturale Gn. Il Tasso naturale di crescita è quello che assicura la
piena occupazione. Il Tasso effettivo G non può mai superare il
tasso di accrescimento naturale Gn.
Se Gn tende ad essere maggiore di Gw ciò genera disoccupazione.
Dall’Analisi di Harrod e altri si deduce la necessità di un intervento
dello Stato che attraverso politiche fiscali e monetarie favorisca la
crescita.
Le Teorie dello Sviluppo

ROBERT SOLOW:
Ha elaborato un modello di sviluppo di ispirazione neoclassico in cui viene riaffermata la flessibilità dei salari e di
conseguenza l’impossibilità di situazioni di equilibrio di
sottoccupazione. La presenza di disoccupati sul mercato del
lavoro determinerà una discesa dei salari quindi il
riassorbimento della disoccupazione.
Gli economisti neoclassici sostengono che il tasso di
sviluppo nazionale di lungo periodo dipende essenzialmente
dai fattori dell’Offerta cioè la produzione di beni.
Le Teorie dello Sviluppo

ROBERT SOLOW:
La Funzione di produzione (Y) dipende dalla quantità di
fattori K, L, π. Lo sviluppo del Reddito nazionale dipende
dalla crescita dei capitali, della forza lavoro disponibile e dal
ritmo del progresso tecnico.
Negli anni sessanta analisi empiriche e obiezioni teoriche
(Schumpeter) hanno messo in difficoltà il modello. Una
delle obiezioni è che le invenzioni sono incorporate nei beni
capitali K e che ogni invenzione generava nuovi
investimenti. Schumpeter sosteneva inoltre l’importanza
anche del sistema creditizio nel sostenere l’imprenditore
innovativo.
Le Teorie dello Sviluppo

ROBERT SOLOW:
Un’altra obiezione riguarda l’offerta di lavoro.
L’offerta di lavoro è alimentata soltanto dalla
crescita naturale di popolazione che nei Paesi
industrializzati è adesso bassa. Alcuni Paesi
hanno tentato di fare fronte a questo tasso basso
attraverso
processi
di
immigrazione
con
l’aumento dell’offerta di lavoro. Nei Paesi dove
l’immigrazione è fortemente limitata (USA) con
un indice di crescita demografico basso lo
sviluppo può essere determinato solo con
l’accumulazione di capitale e il progresso tecnico.
Le Teorie dello Sviluppo

IL RUOLO DEL COMMERCIO INTERNAZIONALE:
Pur condividendo l’opinione che la crescita del reddito è
data dai fattori dell’Offerta diversi economisti mettono in
evidenza il ruolo positivo della domanda estera, cioè le
esportazioni e gli IDE, nel processo di sviluppo. La
liberalizzazione degli scambi consente di sfruttare i vantaggi
derivanti dalla specializzazione produttiva (riduzione dei
costi).
L’aumento delle esportazioni induce le imprese a aumentare
la capacità di produzione che nello stesso sistema
economico sarebbe inutilizzata con conseguente aumento
degli investimenti.
Le Teorie dello Sviluppo

IL RUOLO DELLO STATO:
Dalle numerose teorie resta sempre centrale il dibattito sul
ruolo dello Stato nello sviluppo economico. Le ragioni
dell’intervento pubblico vanno cercate nei fallimenti del
mercato.


Interventi nelle politiche distributive, fiscali, monetarie per
stimolare crescita e occupazione;
Interventi strutturali sul fronte dell’offerta di lavoro
(aumento della popolazione, immigrazione, controllo delle
nascite, ect..) del progresso tecnico (istruzione e ricerca
scientifica, formazione del capitale umano, ect..) del
sistema territoriale e della dotazione infrastrutturale
(trasporti,
ambiente,
comunicazione,
reti
di
approvvigionamento, energia, ect..).
Le caratteristiche dei PVS

-
-
-
Nonostante qualche differenza i PVS hanno caratteristiche
comuni:
Economie fortemente agricole, povera, con una percentuale
superiore al 50% impegnata in agricoltura;
Bassissima produttività del lavoro con forte di disoccupazione
c.d. “nascosta” o sottoccupazione (lavoro svolto da ¾ individui
potrebbe essere svolto da un solo lavoratore);
Bassi Redditi pro-capite con quasi inesistente possibilità di
risparmio e quindi di investimenti (rischio circolo vizioso
povertà);
Alti tassi di natalità e di mortalità con possibilità di incorrere
nella Trappola Malthusiana;
Diseguaglianze nella distribuzione del reddito con percentuali
elevate di persone che vivono sotto la soglia della povertà;
Scarsità di dotazioni infrastrutturali e strutturali (impianti,
macchinari, tecnologie);
Sistema bancario e finanziario arretrato;
Sistemi culturali e sociali arretrati con carenza nella capacità
imprenditoriale e nelle competenze dei lavoratori.
Le Teorie dello Sviluppo

Le Teorie neoclassiche della Convergenza
(W.W.Rostow) credevano che i PVS erano
destinati ad una progressiva e spontanea
condizione di sviluppo di lungo periodo attraverso
alcune fasi: a) creazione delle condizioni del
decollo
(attraverso
riforme,
rivoluzioni,
cambiamenti culturali; b) decollo (2/3 decenni di
grande crescita grazie alle convenienze); c) lungo
periodo di crescita consolidata.
L’esperienza ha mostrato che non è così!
Le Teorie dello Sviluppo

W. ARTHUR LEWIS:
Il processo di industrializzazione dei PVS. Considera che un
PVS è agricolo e la popolazione è disposta a trasferirsi dalla
campagna alla città visto la differenza tra salari. Inizia un
processo di industrializzazione grazie ai bassi salari,
migrazioni campagna-città, alti profitti, nuovi investimenti.
In agricoltura visto la sovrabbondanza di popolazione non si
assiste ad una riduzione della produzione agricola ma anzi
migliorano le condizioni di reddito.
Solo quando questa riserva di forza lavoro si esaurisce la
domanda di lavoro delle imprese diventerà maggiore
dell’offerta e i salari inizieranno a crescere con una riduzione
dei profitti. A quel punto lo sviluppo sarà condizionato solo
dall’aumento della popolazione e dal progresso tecnico (vedi
Marx)
Le Teorie dello Sviluppo

-
-
Critiche al modello di LEWIS:
Il processo di sviluppo può interrompersi perché la riserva
di lavoro dalla campagna può esaurirsi troppo presto. I
salari migliori dei lavoratori impegnati nell’industria
aumentano i consumi di beni di prima necessità e la
richiesta di prodotti agricoli rallenta i flussi migratori;
L’impossibilità di far fronte alla nuova richiesta di prodotti
alimentare genera flussi di importazioni con gravi danni alla
Bilancia dei Pagamenti con indebitamento, inflazione
strutturale, ect.. (Paesi dell’America Latina).
Per evitare tutto ciò sono necessari programmi
meccanizzazione e ammodernamento dell’agricoltura.
di
Il modello non tiene conto delle fluttuazione sul fronte della
Domanda globale che risulta sempre sufficiente ad
assorbire tutta l’offerta di beni prodotti.
Le politiche per lo sviluppo



La nozione di Politiche per lo sviluppo riguarda tutte le
politiche pubbliche tanto da coprire, nella sua accezione
dilatata, anche le politiche sociali.
Tuttavia per restringere il campo di analisi spesso si è stati
costretti ad assumere la condizione che le PS mirano come
risultato primario alla crescita del PIL pro-capite dell’area in
via di sviluppo. In questo caso si è parlato di Politiche per lo
Sviluppo Economico (PSE).
Altre volte si è preferito parlare di Politiche per lo Sviluppo
Economico e Sociale (PSES) concentrando l’attenzione su
obiettivi più vasti di “crescita sociale”.
Le politiche per lo sviluppo


Infine da un pò di tempo si è parlato di Politiche di
riequilibrio territoriale ai fini di una perequazione tra
territori (regional policy) volte a riequilibrare le disparità tra
regioni all’interno di un contesto nazionale o sovranazionale
(Unione Europea).
“…se negli anni ottanta le disparità regionali erano
determinate dalla divisione Nord-Sud, negli anni recenti” …
queste disparità sono spesso più pronunciate tra località e
regioni stesse. Sono aumentate le disuguaglianza locali tra
aree industriali vecchie e nuove, città terziarizzate e
comunità manifatturiere, zone urbane e aree rurali.
Principali approcci allo Sviluppo e
al Sottosviluppo

Esistono due visioni alternative
sottosviluppo e dello sviluppo:
del
A) Approcci tradizionali, dualistici, a
economia “chiusa” incentrati sul divario
Nord/Sud – centro/periferia;
B) Approcci contemporanei, non dualistici,
incentrati
sull’idea
dello
sviluppo
endogeno, ad economia aperta.
Il Modello della crescita equilibrata (H-D)



Il c.d. Modello Harrod-Domar è di tipo dualistico e sostiene
che i fattori produttivi sono disponibile in maniera
diseguale. I PVS essendo carenti di qualche fattore
(Capitale) attraverso un adeguato incremento del saggio di
risparmio e quindi di una “iniezione di capitali”, anche
attraverso IDE, raggiungono un appropriata massa critica
da creare un “decollo” dello sviluppo e la rottura del circolo
vizioso della povertà.
Compito della PSE è quello di garantire una crescita
equilibrata, tale da combinare i fattori in modo da
ottimizzare il rendimento, stimolando l’afflusso interregionale di fattori produttivi.
I principali attori di queste PSE sono le Autorità nazionali in
grado di contrattare prestiti internazionali, incentivare il
risparmio interno, favorire l’ottimale combinazione dei
fattori. Spesso si tratta di politiche dirigiste.
Il Modello dello scambio diseguale



Sebbene i Paesi Avanzati – attarverso Aiuti e Prestiti –
possono aiutare i PVS non è affatto vero che la crescita
possa favorire quest’ultimi. Considerato il deterioramento
della ragione di scambio tra i prezzi dei prodotti agricoli e
minerari (in possesso dei PVS) e i prezzi dei manufatti (in
possesso dei Paesi Avanzati) si assisterà ad un secolare
declino dei PVS.
I prodotti agricoli operano in condizioni di concorrenza a
differenza dei prodotti industriali che operano in condizioni di
oligopolio. Il commercio internazionale finisce inoltre per
rafforzare questa condizione di debolezza e di dipendenza.
Le Politiche di Sviluppo hanno una impostazione
protezionistica
al
fine
di
rafforzare
processi
di
industrializzazione locale forzata e rapida anche attraverso
misure creditizie, fiscali, restrizioni, controlli. Anche qui il
ruolo principale appartiene alle Autorità nazionali competenti
all’adozione di misure protettive e/o di incentivazione.
Considerazioni sui modelli
tradizionali



A partire dalla considerazioni di Solow sui rendimenti
decrescenti dei capitali e quindi di saturazione dei fattori alla
mancata valutazione del progresso tecnico e ancora alla
mancata considerazione del ruolo del commercio internazionale
il modello della crescita equilibrata è stato fortemente criticato.
Quanto alle politiche dello scambio diseguale molti hanno
sostenuto che spesso queste politiche protezionistiche hanno
chiuso i mercati con la perdita di competitività, creato prezzi
artificiosi, costruito posizioni di rendita e di connivenza tra
economia e scelte governative.
Spesso le PSE erronee hanno costituto un ostacolo aggiuntivo
allo sviluppo ai già esistenti svantaggi strutturali delle economie
arretrate. L’esperienza poi delle economie del Sud-Est Asiatico
(Taiwan,
Singapore,
Hong
Kong,
Corea)
con
forti
liberalizzazioni, fondate sulle esportazioni e l’astensione dei
governi da interventi protezionistici hanno messo in crisi tali
approcci tradizionali.
La crescita non equilibrata



ALBERT O. HIRSCHMAN:
“Lo sviluppo dipende non tanto dal trovare
combinazioni ottimali per risorse e fattori della
produzione dati, quanto nel suscitare e mobilitare
per obiettivi di sviluppo risorse e capacità
nascoste, disperse o malamente impiegate”
Le decisioni di investimento vanno giudicate non
solo in base al contributo immediato alla
produzione ma anche all’impulso che potrebbero
dare a nuovi e ulteriori investimenti. Sono gli
“squilibri intersettoriali” che forzano imprese e
Stato ad agire. Si dovranno reperire risorse
aggiuntive, addizionali. La crescita prosegue a
strappi.
La crescita non equilibrata



Il compito della PS è quello di rafforzare certe
sequenze decisionali e ripercussioni intersettoriali
non eliminando gli squilibri ma anzi sostenendo le
tensioni e i disequilibri.
La crescita non riguarda solo i settori ma anche
gli
ambiti
territoriali
attraverso
“Poli
di
eccellenza”, nuclei di sviluppo, che irradiano lo
sviluppo dal centro alla periferia.
La “progettazione dello sviluppo” è quindi un
processo sequenziale che affronta i problemi via
via che si presentano favorendo l’emersione dei
bisogni ponendo l’accendo a fattori non solo
economici ma anche politici, culturali, giuridici e
organizzativi. La paralisi dello sviluppo può
derivare dalle credenze inadeguate degli attori.
Lo sviluppo endogeno

1)
2)
Due approcci:
Uno o più fattori di stimolo o di
impedimento allo sviluppo sono visti
come interni al sistema territoriale
individuato dal modello teorico che
dovrebbe dar vita allo sviluppo;
Lo sviluppo è dovuto in misura totale o
prevalente a risorse e processi interni
alla comunità territoriale oggetto di
analisi. Sviluppo autoctono.
Lo sviluppo endogeno



Nel primo
approccio (Lucas, Romer) un fattore
fondamentale della crescita è il capitale umano in termini di
conoscenze e abilità professionali ottenute attraverso R&S e
formazione. Attraverso un processo cumulativo di
apprendimento si ottengono rendimenti crescenti e quindi
un
circolo
virtuoso
di
innovazione/
apprendimento/profitti/investimenti/innovazione. Ciò sarà
altresì possibile anche attraverso esternalità positive
(relazioni commerciali, ect..)
Il motore della crescita è endogeno (capitale umano) senza
dimenticare la possibilità di incentivi esterni (investimenti)
e relazioni esterne.
Le PS potranno puntare su Parchi scientifici, centri di ricerca
e diffusione delle conoscenze, imprese di frontiera.
Lo sviluppo endogeno


Il secondo approccio enfatizza la necessità di
“combinare tra di loro i molteplici ingredienti
dello sviluppo secondo modalità differenziate …
così da raggiungere appropriate configurazioni
nell’offerta locale di fattori di sviluppo”
Tali
ingredienti
comprendono
l’innovazione
tecnologica
ed
organizzativa,
il
sistema
informativo, i mercati e i canali di accesso e
controllo, le forme di regolazione locale nonché
reti e sistemi di filiera, diversificazioni e
specializzazioni produttive. A questo si deve
aggiungere una marcata internazionalizzazione
sia ai mercati che ai circuiti informativi.
Lo sviluppo endogeno


In tale approccio si richiede un forte
decentramento delle PS soprattutto ai
livelli regionali e locali. Si abbandona
l’enfasi degli aiuti finanziari o delle grandi
infrastrutture (governo-grande industria)
a favore di incentivi al capitale umano, alla
ricerca, ai servizi reali alle imprese, a
forme di cooperazione tra imprese, alla
gestione del territorio, al patrimonio.
In tale approccio si rileva il
determinante
dell’imprese
dell’imprenditore.
ruolo
e
L’approccio liberista



La consapevolezza dell’approccio tradizionale rispetto a
questi approcci ha spesso orientato altri economisti a
contenere gli interventi pubblici e a considerare i danni
causati dalle stesse PS.
Ai “fallimento dei mercati” si contrappone il “fallimento del
pubblico” con ipotesi di politiche di esclusiva stabilizzazione
e aggiustamento strutturale (riduzione della pressione
fiscale, della spesa pubblica, controllo dell’inflazione)
privatizzazioni, liberalizzazioni dei mercati e dei servizi,
deregulation.
Per alcuni liberisti le stesse PS non dovrebbero esistere
perché avrebbero solo effetti distorsivi.
L’approccio promozionale

-
L’esperienza dei Paesi dell’Estremo oriente come il caso del
Giappone (oggi anche della Cina) hanno proposto un modello di
sviluppo c.d. promozionale:
Stabilità politica e persistenza di un unico partito al potere;
Priorità assoluta alla produzione e non ai consumi e alla
distribuzione;
Comportamento tecnocratico e meritocratico delle P.A.;
Chiara divisione pubblico/privato e autorità pianificatrice che
stabilisce le strategie generali;
Istituzionalizzazione
dei
processi
di
concertazione
pubblico/privati;
Sostegno alle eccellenze imprenditoriali rispetto alle priorità
nazionali;
Investimenti in istruzione e politiche redistributive;
Politiche economiche pervasive e autoritarie.
Il mercato non opera come principio regolatore dell’economia
ma
piuttosto
è
stato
uno
strumento
per
favorire
l’accumulazione di capitale.
L’approccio promozionale
Questo approccio ha tuttavia creato forti distorsioni che si
sono rilevate tali durante la crisi asiatica.
Un tratto caratteristico dello “Stato promotore asiatico” è lo
stretto
rapporto
tra
grandi
imprese,
banche
e
amministrazione pubblica che pur perseguendo obiettivi di
lungo periodo a discapito della profittabilità di breve periodo
hanno mostrato alti livelli di corruzione, non trasparenza del
sistema creditizio e finanziario, opacità e inefficienze,
investimenti erronei.
Infine il modello asiatico si era contraddistinto per alcune
rigidità de mercato dei lavoro e del capitali che hanno
contribuito alla crisi (indebitamento estero, debito pubblico,
fallimento delle imprese).
Tuttavia un approccio simile è stato sviluppato anche in
economie occidentali con evidenti successi e con uno
sviluppo accellerato. Tuttavia in un arco di tempo troppo
lungo lo Stato promotore rischio di produrre effetti distorsivi.
I Modelli regionali e locali di
sviluppo
1.
2.
3.
4.
Modello neo-classico
Modello dello “sviluppo circolare e
cumulativo”
Modello del “filtro”
Modello
della
“valorizzazione
periferica”
Modello neo-classico (Vera Lutz)
1.
L’esistenza di due livelli
di salari
2. La scarsa mobilità dei
fattori
produttivi
(capitale e lavoro)
Quello
più
alto
scaturisce da livelli di
contrattazione
in
condizioni di monopolio
bilaterale (sindacati imprese)
Difficoltà dei capitali
di spostarsi in aree a
basso reddito dove il
mercato
locale
è
rarefatto
La soluzione: riduzione
dei salari reali e/o
emigrazione
Modello dello sviluppo
circolare e cumulativo




Il dualismo tra aree deboli e aree forti è un fatto dinamico
I cambiamenti di un fattore inducono gli altri a cambiare in
modo tale che questi cambiamenti secondari rinforzino il
primo
La tendenza alla progressiva concentrazione territoriale
delle attività produttive e agli aumenti di produttività:
a) riduce i prezzi e aumenti
l’export;
b) amplia i profitti e la
capacità di autofinanziamento;
c) aumenta i salari
e attrae forza lavoro qualificata
L’espansione cumulativa avvia un processo circolare di
segno opposto in altre regioni (emigrazione, restringimento
del mercato, fuga dei risparmi, caduta delle produzioni)
Il modello di sviluppo cumulativo
e circolare:
“In qualsiasi Spazio geografico
esiste una tendenza alla Crescita
delle Disuguaglianze”
Modello del “Filtro”




Lo sviluppo cumulativo rappresenta solo una
prima fase del processo di sviluppo regionale
L’area di attrazione giunge sempre ad uno stato
di saturazione (aumento di costi dei suoli, dei
fabbricati, dei trasporti e dei fattori ambientali,
aumento
del
costo
della
vita
e
delle
remunerazioni).
Il sistema produttivo è indotto al decentramento.
Il territorio sarà diviso in tre aree:
centrale, periferica, marginale
Modello del “Filtro”



LE REGIONI CENTRALI
introducono nuovi prodotti e nuove attività,
alti tassi di ricerca e innovazione,
progresso tecnico
LE REGIONI PERIFERICHE
si specializzano in produzioni tradizionali,
nuove zone di espansione e di attrazione di
investimenti
LE REGIONI MARGINALI
caratterizzate da emarginazione, ristagno e
declino industriale
Modello della valorizzazione
periferica




la deindustrializzazione e la crisi della grande
industria;
il processo di de-urbanizzazione delle aree
metropolitane;
il processo di de-verticalizzazione e flessibilità;
lo sviluppo delle nuove tecnologie e delle
telecomunicazioni;
FACILITANO
IL PROCESSO DI VALORIZZAZIONE
DELLE PERIFERIE
IL PROCESSO DI VALORIZZAZIONE DELLE PERIFERIE
IN ITALIA
1951-1961
- la tendenza alla concentrazione Nord-Ovest d’Italia
- nascita della Cassa per il Mezzogiorno al Sud
- investimenti in infrastrutture (reti di comunicazione)
1961-1971
- processo di diffusione Centro e Nord-Est d’Italia
- le partecipazioni statali e l’industrializzazione pesante al
Sud
1971-1981
- crisi economica e petrolifera
- blocco del motore centrale (caduta del tasso di sviluppo)
- ristrutturazioni industriali e decentramento
Tre scuole di pensiero

POLITICHE INDUSTRIALI SETTORIALI
- per incentivare le industrie innovative e/o considerate
prioritarie
- aiutare settori in crisi strutturale e/o congiunturale

POLITICHE INDUSTRIALI ORIZZONTALI
- agendo sui principali fattori produttivi (lavoro, capitale)
- indipendentemente da settori, dimensioni, status giuridico

POLITICHE PRAGMATICHE
- agendo su settori prioritari, sui fattori produttivi, su singole
imprese
Le tendenze del
DECENTRAMENTO
-
Le cause
Le forme
La localizzazione
Le fasi
I limiti
Il decentramento territoriale




Le cause
si riducono le diseconomie legate alle distanze
(sistemi di trasporto e comunicazione);
introduzione dell’elettronica e la concentrazione
de ciclo integrato di produzione (polivalenza e
standardizzazione dei macchinari);
mutamenti della domanda e maggiore instabilità
dei
mercati
(apprezzamento
per
la
differenziazione dei beni di consumo)
Il decentramento territoriale

Le forme dello sviluppo decentrato
1. “AMMINISTRATO”
Imprese pre-esistenti decidono di localizzare alcune
produzioni o fasi della produzione in aree diverse
(investimenti esterni all’area di insediamento);
2. “SPONTANEO”
Creazione di nuove imprese locali attraverso rapporti di
sub-fornitura (le condizioni ambientali possono facilitare
questo processo).
Il decentramento territoriale

La localizzazione avviene
attraverso:
1. La presenza di economie esterne (centri
urbani e servizi pubblici efficienti,
collegamenti)
2. Livello medio di reddito e di istruzione
3. Agricoltura basata su imprese familiari
4. Rapporto città - campagna
Il decentramento territoriale

Le fasi:
1. Area di specializzazione

Tutte le imprese appartengono allo stesso settore - PROCESSO
IMITATIVO
2. Sistema produttivo locale

Differenziazioni per prodotto e/o tipo di lavorazione, autonomia
nel raggiungere il mercato, acquisizione di competenze tecniche
3. Area sistema

Accentuata divisione del lavoro, infra-settoriale e intra-settoriale,
aumento della dimensione e complessità, verticalizzazioni
Il decentramento territoriale




I limiti:
Il decentramento “amministrato” è avvenuto al
Sud ma in condizioni ambientali non favorevoli
non ha creato sviluppo duraturo;
Area del Nord-Ovest vivono situazioni di declino
e deinsustrializzazione;
La mappa delle comunicazioni ha disegnato uno
sviluppo a macchia di leopardo.
Il Mezzogiorno d’Italia nel
dopoguerra


La struttura economica del Mezzogiorno “aveva i
caratteri di un’area sottosviluppata, con bassa
produttività del lavoro, forte disoccupazione,
basso reddito pro-capite, condizioni di vita molto
disagevoli ed un drammatico squilibri tra risorse e
popolazione. Neppure la tradizionale valvola di
sfogo dell’emigrazione verso l’estero poteva
essere presa in considerazione”.
Il decollo del Mezzogiorno d’Italia appariva un
passaggio inevitabile per la neonata democrazia.
Anche Washington attraverso l’United Nationas
Relief and Rehabilitation Admistration UNRRA
avvio un programma di ricostruzione post-bellica.
Il Mezzogiorno d’Italia nel
dopoguerra
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Agli uomini dell’IRI il compito di gestire tali attività. Uomini
non di ispirazione keynnesiana, più sensibili a politiche di
controllo dell’inflazione, della spesa pubblica, di difesa della
lira e dell’equilibrio della bilancia dei pagamenti.
Tale approccio prevedeva un ruolo dell’IRI predominante nei
sistemi approvvigionamento. I punti chiave erano:
A) l’industrializzazione del Sud;
B) un intervento dello Stato per cambiare le convenienze dei
privati alla localizzazione degli investimenti nel Sud;
C) lo sviluppo del Sud come sviluppo dell’economia
nazionale.
Lo Stato doveva favorire i “fattori di agglomerazione” idonei
a far giungere il risparmio privato verso l’investimento nella
produzione. L’intervento diretto era escluso.
Il Mezzogiorno d’Italia nel
dopoguerra
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Alla fine del 1946 nasce l’Associazione per lo sviluppo del
Mezzogiorno (SVIMEZ) con l’impegno dallo studio alla
gestione di Piani e programmi di sviluppo. Lo Svimez
produsse il Piano di investimenti per il Sud presentato alla
BIRS nel 1949
Si avvia il Piano Marshall a seguito della creazione
dell’Economic Cooperation Admistration ECA
Einaudi – Ministro dell’Economia – avvia una politica
monetaria restrittiva di controllo dell’inflazione e di
salvataggio della lira e per contenere l’effetto depressivo
della politica monetaria una politica di aiuti e agevolazioni
creditizie.
La Cassa per il Mezzogiorno
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L’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno
avvenne con Legge n. 646 del 1950. La Cassa
nasce sul modello della Tennessee Valley
Authority (TVA), in pieno New Deal, che aveva
gestito interventi in materia di risorse idriche,
energetiche, agricole e industriali.
Il Sud rimaneva, al termine del Piano Marshall,
un’area ancora fortemente debole e arretrata con
una spesa lorda pro-capite del 62% e un reddito
pro-capite del 57% rispetto al Nord. Imprese
piccole, sottocapitalizzate e con scarsa capacità
manageriale.
La Cassa per il Mezzogiorno
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Compiti della Cassa per il Mezzogiorno erano la
predisposizione di un Programma straordinario
del valore di 100 miliardi di lire per il decennio
1950-1960 per la realizzazione di opere nel
settore delle risorse idriche, energetiche, riforma
fondiaria, viabilità, valorizzazione dei prodotti
agricoli e opere di interesse turistico.
L’obiettivo era quello – in coerenza con la politica
astensionista del governo De Gasperi - di
realizzare interventi che creassero le precondizioni per lo sviluppo, senza interventi direti
o sostegni all’industria.
La 2^ fase della Cassa per il
Mezzogiorno
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I risultati modesti dei primi anni della Cassa e la
firma del Trattato di Roma (1957) nonché
l’adozione dello “schema Vanoni” che indicava
come priorità l’industrializzazione del Sud
modificò gli indirizzi della Cassa per il
Mezzogiorno.
L’impetuoso sviluppo dell’economia;
La necessità di maggiori investimenti per nuovi
impianti in grado di affrontare le sfide del mercato
comune;
Il potenziamento dell’industria pesante (chimico,
siderurgico, energetico);
La necessità di sfruttare il vantaggio competitivo
del basso costo del lavoro nel Sud
La 2^ fase della Cassa per il
Mezzogiorno
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Si introduce il concetto dello sviluppo industriale
per poli – inspirata all’idea dello sviluppo
“sbilanciato” così da generare economie di scala
in aree più avanzate – con l’idea delle aree di
sviluppo industriale e il sostegno a consorzi tra
enti locali. Vengono istituiti incentivi (contributi,
mutui, sgravi fiscali) per le industrie pubbliche e
private. Si introduce l’obbligo di localizzare al Sud
(60%) una parte delle imprese a partecipazione
statale.
Vengono raddoppiati i fondi a 2.069 miliardi di
lire e la competenza della Cassa è estesa alla
formazione professionale nonché ad altre opere
culturali e turistiche. Si rafforza infine il
coordinamento tra i Ministeri per tutti gli
interventi nel Sud.
La 2^ fase della Cassa per il
Mezzogiorno
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L’effetto immediato fu un consistente aumento
dei processi di industrializzazione e con la
necessità di stabilizzare l’intervento della Cassa a
favore delle partecipazioni statali (vedi l’ENI dal
1953).
Con l’arrivo dei socialisti al Governo e l’impegno
di Ugo La Malfa (1962) sulla Relazione Generale
della situazione economica del Paese si propone
un intervento pubblico consistente attraverso un
Programma di sviluppo economico (1965-69) con
l’obiettivo
della
piena
occupazione,
dell’eliminazione
del
divario
Nord/Sud,
l’eguaglianza dei redditi pro-capite, un tasso d
sviluppo del 5%.
La fine della Cassa per il
Mezzogiorno
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La Cassa avrebbe dovuto concludere le attività
nel 1980. Ma tuttavia si trascinò per alcuni anni.
Tutti concordavano sulla necessità di porre fine
all’esperienza della Cassa.
Già la Legge n. 651 del 1983
ricognizione
dei
contenuti
straordinario e lo circoscriveva
(interventi organici, incentivi,
formazione).
effettuava una
dell’intervento
a tre ambiti
assistenza e
La fine della Cassa per il
Mezzogiorno
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il CENSIS (1981) presentava una nuova
immagine del Mezzogiorno con una
ispirazione
fondata
sullo
sviluppo
autoctono. Nuove iniziative imprenditoriali
locali, nuove iniziative socio-politiche
ricondotte alle esperienza di autogoverno
regionale, maggior dinamismo economico.
“Non esiste un unico Mezzogiorno, ma
diversi Mezzogiorni all’interno dei quali lo
sviluppo economico procede con ritmi e
tassi di incremento diversificati”
La fine della Cassa per il
Mezzogiorno
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Venne istituita la Legge n. 64/1986 – la nuova
“Disciplina organica dell’intervento straordinario”
che introduce ulteriori novità:
la
previsione
di
una
nuova
forma
di
programmazione triennale e annuale;
il coordinamento degli incentivi;
la ri-definizione dell’oggetto dell’intervento;
il mantenimento degli incentivi esistenti e la loro
estensione;
la previsione di incentivi per “servizi reali”;
l’istituzione dell’AGENZIA per la promozione dello
sviluppo del Mezzogiorno che subentra alla Cassa
con compiti di valutazione economica e
finanziaria degli investimenti.
La fine della Cassa per il
Mezzogiorno
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La nuova programmazione finisce per
essere sempre dettata dall’alto e come
sommatoria di progetti disorganici. Inoltre
la mancanza di competenze tecniche e
progettuali non rende possibile alle regioni
di presentate proposte progettuali con
risorse inutilizzate.
Nel 1991 un Referendum, promosso da
Severo
Giannini,
decreta
la
fine
dell’esperienza.
Un valutazione
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Il caso italiano di PS esemplifica la deriva
distributiva.
Si
può
affermare
che
l’esperienza delle PS del Mezzogiorno è un
evidente insuccesso come prodotto di una
sempre
maggiore
subordinazione
dell’economia e della società al ceto
politico regionale e nazionale con effetti
distributivi che ne hanno distorto la
vocazione allo sviluppo.
I risultati di sviluppo prescindono dalla
quantità di risorse impiegate
Le Legge n. 488/92
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L’intervento straordinario fu definitivamente
abbandonato con la Legge n. 488 del 19
dicembre 1992 trasferendo alle amministrazioni
statali competenti risorse finanziarie e personale.
La Legge segnò il passaggio dall’intervento
straordinario al “Sistema ordinario nelle aree
depresse
del
territorio
nazionale”
coinvolgendo anche alcune aree del Centro-Nord
e armonizzando l’intervento con i Regimi di Aiuti
comunitari e le nuove politiche comunitarie.
Veniva
eliminato
il
Dipartimento
per
il
Mezzogiorno, l’Agenzia, il programma triennale di
sviluppo e i piani annuali
La programmazione comunitaria
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Dal 1989 la PS per il Mezzogiorno d’Italia viene fortemente
legata, per ragioni politiche, economiche e finanziarie alla
programmazione comunitaria e alle politiche di coesione
economica e sociale dell’UE.
Malgrado ciò l’Italia si dimostrò tra i Paesi più incapaci di
assorbire e gestire le risorse comunitarie. La sfida
comunitaria veniva affrontata senza il dovuto impegno. In
particolare:
la programmazione era di scarsa qualità e priva di c.d.
“parco progetti”;
sprovvista di professionalità necessarie e adeguati metodi di
lavoro;
forte
ricorso
ai
c.d.
“progetti-sponda”
–
opere
infrastruttturali già autonomamente messe in programma;
assenza di assistenza tecnica e sistemi di valutazione,
controllo e monitoraggio;
con sistemi regionali incapaci di coordinamento e gestione.