Anno Paolino In occasione del bimillenario della nascita di San Paolo Camminare in una vita nuova La morale paolina Il pensiero di Paolo Cristo risorto ha vinto il tempo ed è al di là del prima e del poi; e il cristiano è stato «fatto rivivere in Cristo … con Lui risuscitato e intronizzato nei cieli» (Ef 2,5). Tuttavia, finché si trova in questo mondo, il cristiano vive simultaneamente in una duplice condizione: quella temporanea, propria della realtà mondana, «visibile e provvisoria», e per la quale «l’uomo esteriore» è sottoposto all’usura del tempo, come tutte le cose; e quella propria della grazia, «invisibile ed eterna», per la quale «l’uomo interiore si rinnova di giorno in giorno» (cfr. 2Cor 4,16-18). Il pensiero di Paolo Ne deriva che, finché il corpo del credente battezzato non abbia «rivestito l’immortalità» (1Cor 15,54), il peccato può ancora trovare nel corpo «mortale» (sede della concupiscenza) il mezzo per continuare a nuocere. Si rende allora nuovamente decisivo l’irrompere dell’azione della grazia: «Me sventurato, chi mi strapperà da questo corpo mortale? Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore» (Rm 7,24s). Il pensiero di Paolo Se è vero che già rifulge nei nostri cuori quella gloria di Dio che rifulge sul volto di Cristo, è pure vero che «noi portiamo questo tesoro nei vasi di creta, perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio e non da noi» (2Cor 4,6s). E tuttavia è proprio «quando sono debole, che sono forte» (2Cor 12,10). Pthos di Cnosso (Creta) Il pensiero di Paolo Per resistere al male ed essere capaci di bene, non resta che liberare la vecchia libertà nell’obbedienza allo Spirito: «Camminate secondo lo Spirito» (Gal 5,16). Ogni cristiano è chiamato nientemeno che alla conformazione a Cristo, «giungendo allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo» (Ef 4,13; cfr. Col 1,28) e senza escludere il desiderio di un premio finale meritato. Il pensiero di Paolo La tensione morale che caratterizza la condizione del cristiano è sovente da lui rappresentata come un «camminare in una vita nuova» (Rm 6,4; cfr. Gal 5,16), una navigazione (cfr. 2Tm 4,6), un combattimento spirituale con armi adeguate ad una «buona battaglia» (2Tm 4,7; cfr. 1Tm 1,18; Ef 6,11-19; 1Ts 5,8), una gara sportiva: corsa (cfr. Fil 3,12-14; Gal 5,7; 1Cor 9,24s) o incontro di pugilato (cfr. 1Cor 9,26s). Il pensiero di Paolo Alla condotta morale Paolo dedica gli ultimi capitoli di alcune delle sue lettere (cosiddette sezioni "parenetiche", cioè esortative), mentre le parti iniziali si concentrano sui concetti dogmatici. Anche in questi testi la trattazione non è propriamente sistematica ma si tratta di indicazioni di vario genere, spesso contestualizzate in problemi che riguardavano i credenti e le comunità alle quali scriveva. Chiamati a libertà La Lettera ai Galati Gal 5,1-25 Chiamati a libertà I Galati erano tribù di Celti che abitavano tra il Danubio e l’Adriatico. Una parte di esse, al comando di Brenno, nel 279 a.C. invase la Macedonia e si spinse verso la Grecia. Due tribù di essi riuscirono a passare l’Ellesponto, giunsero in Asia minore e si stanziarono nella regione centrale dell’attuale Turchia. I Galati conservarono a lungo la loro lingua celtica e le loro usanze nazionali. Anche al tempo di san Girolamo nella regione si parlava il celtico (Prol. II in ep. ad Gal 3). Chiamati a libertà Gli Atti degli apostoli riferiscono che Paolo è passato attraverso la regione galata due volte: in 16,6 e 18,23. In Gal 4,13 Paolo scrive di aver annunciato il vangelo ai Galati in seguito a una malattia che lo ha fermato da loro per qualche tempo. Questa lettera fu scritta probabilmente verso la fine dell’anno 57 in Macedonia. In tutta la lettera l’apostolo polemizza contro "alcuni" avversari concreti. È presumibile che la scelta dell’indefinito "alcuni" per indicare gli avversari serva a dimostrare da una parte il loro numero esiguo e dall’altra la disistima che Paolo nutre per loro: gente che non merita neppure di essere chiamata per nome. Galata Morente, statua romana del III secolo d.C. copia dell’originale greco Musei Capitolini Chiamati a libertà Tuttavia lo scritto non è indirizzato agli avversari, ma alle comunità della Galazia e gli enunciati che riguardano gli avversari sono espressi in forma indiretta e si trovano proprio nelle argomentazioni dell’apostolo. Chi fossero questi avversari non lo sappiamo con precisione perché le indicazioni di Paolo non sono sufficienti a fornire un’idea esatta su di loro. Ma certamente si può dedurre con chiarezza una cosa: in tutta la controversia si è trattato dell’essenza del vangelo; la predicazione degli avversari deve essere stata una replica all’annuncio dell’apostolo, con attacchi non solo al vangelo predicato da Paolo, ma anche alla sua persona. Chiamati a libertà La lettera di Paolo ai Galati è uno scritto ufficiale dell’apostolo, nel quale egli prosegue da lontano il suo lavoro apostolico. Questa lettera sostituisce un viaggio di Paolo in Galazia: "Io vorrei essere presente in mezzo a voi" (4,20). Ciò significa che la lettera sta al posto di Paolo: non è una lettera di circostanza, ma la stessa voce dell’apostolo. Chiamati a libertà Possiamo dividere la Lettera in 3 parti: – Il prescritto (1,1-5); – La lettera vera e propria (1,6 – 6,10); – Il poscritto (6,11-18). A noi interessa la parte finale della Lettera che, come per tante altre, è di stampo parenetico (5,1-25). Chiamati a libertà 1Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù. 2Ecco, io Paolo vi dico: se vi fate circoncidere, Cristo non vi gioverà a nulla. 3E dichiaro ancora una volta a chiunque si fa circoncidere che egli è obbligato ad osservare tutta quanta la legge. 4Non avete più nulla a che fare con Cristo voi che cercate la giustificazione nella legge; siete decaduti dalla grazia. 5Noi infatti per virtù dello Spirito, attendiamo dalla fede la giustificazione che speriamo. Chiamati a libertà Paolo mette i Galati di fronte all’aut-aut: o rimangono nella libertà del cristiano donata loro da Cristo, o si sottomettono alla circoncisione e con essa alla legge mosaica, con la conseguenza escatologica che allora Cristo per loro "non gioverà a nulla". Paolo vede il Cristo come un grande liberatore, poiché Cristo ha portato la libertà in senso assoluto agli uomini; impiega tutta la sua autorità personale: “Io, Paolo, vi dichiaro con la mia personale e apostolica autorità”: "Se vi fate circoncidere, Cristo non vi gioverà a nulla". Chiamati a libertà Non è il fatto di essere circoncisi che separa da Cristo, ma l’accettare la circoncisione come elemento necessario per essere cristiani. Se i Galati cercheranno la salvezza attraverso le opere della legge si metteranno fuori dal piano di salvezza di Cristo e quindi "Cristo non gioverà loro a nulla". Chiamati a libertà 13Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Purché questa libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri. 14Tutta la legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso. 15Ma se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri! Chiamati a libertà Il discorso di Paolo potrebbe essere frainteso e strumentalizzato per un libertinaggio totale. Ecco perché aggiunge subito: monon (= solamente). Questa è una parola di ammonimento che collega il seguito del discorso alla prima parte del versetto. "Voi siete stati chiamati alla libertà, fratelli; solamente che questa libertà non diventi pretesto per la carne!" L’impulso ad abusare della libertà cristiana "a favore della carne" potrebbe provenire agli uomini in quanto, appellandosi alla loro libertà in Cristo, compiono le "opere della carne" presumendo ora di trovarsi "al di là del bene e del male". La vera libertà cristiana consiste nel servire il prossimo mediante l’amore. Chiamati a libertà "Piuttosto servite gli uni agli altri mediante l’amore". Questa frase fa un effetto sorprendente perché sembra che questo imperativo contenga un paradosso, anzi un contrasto con l’essenza della libertà, cioè il douleuein (= servire). Fin qui l’apostolo ha usato questo verbo in senso negativo (4,8.9.25) per esprimere una condizione di schiavitù. Ora, d’improvviso, egli esige dai cristiani un nuovo "servire": il servizio reciproco reso per amore. "La libertà alla quale i Galati sono chiamati, è in conformità al suo senso e al suo retto impiego - la libertà per l’amore; essa è, si può anche dire, la libertà dell’amore" (Schlier). Chiamati a libertà Il complemento accentuato "mediante l’amore" si richiama al "mediante l’amore" di 5,6 ("La fede che agisce mediante l’amore"). Solo nell’adempimento fattivo del precetto dell’amore la fede diventa efficace come principio di giustificazione. Accanto al complemento di modo "mediante l’amore" anche il dativo allhloij (= gli uni agli altri) qualifica il "servire" in maniera molto significativa. L’"essere schiavo" si basa normalmente su una condizione unilaterale: l’uno è il padrone, l’altro è il suo schiavo. Chiamati a libertà L’“essere schiavi l’uno per l’altro, reciprocamente”, da un punto di vista sociologico - profano, è proprio un non senso ed è possibile solo grazie all’esempio che ne ha dato Cristo per cui esiste un servizio da schiavi "reciproco", basato appunto sull’atteggiamento dell’amore reso possibile dall’intervento di Dio in Cristo: l’esistere totalmente per l’altro e per tutti! In ciò l’agaph (= amore gratuito) si manifesta in modo sostanziale e la libertà cristiana si realizza. Chiamati a libertà Soltanto nell’esercizio dell’agaph la libertà cristiana diventa del tutto libera, perché si sgancia dall’io e si sbarazza da tutti i legami che la tengono prigioniera. L’uomo che ama è l’uomo libero. L’amore è il reale distacco dell’uomo da se stesso. Ora egli vede nel prossimo il fratello e usa della libertà messagli a disposizione dal vangelo per amare come Dio ama. Chiamati a libertà 16Vi dico dunque: camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri della carne; 17la carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste. 18Ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete più sotto la legge. Chiamati a libertà "Camminate secondo lo Spirito" significa: la vostra vita deve essere "spirituale", deve corrispondere alla natura dello Spirito. Lo Spirito rappresenta il modo "secondo cui" si deve vivere, nel senso che è la norma determinante della vita, la base e la maniera di comportarsi. È il "fare attenzione e il dare ascolto allo Spirito qualunque cosa faccia lo Spirito che vi vuole condurre" (Schlier). La "carne" non si identifica con la natura corporea dell’uomo, ma è l’essenza di ciò che è terreno, ostile a Dio e peccaminoso; con questo termine Paolo indica "tutta la miseria di quell’uomo che non è afferrato dallo Spirito" (Kuss). Chiamati a libertà 19Del resto le opere della carne sono ben note: fornicazione, impurità, libertinaggio, 20idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, 21invidie, ubriachezze, orge e cose del genere; circa queste cose vi preavviso, come già ho detto, che chi le compie non erediterà il regno di Dio. Chiamati a libertà L’apostolo non elenca tutti i vizi, ma con la locuzione convenzionale e conclusiva "e cose simili" si riferisce a tutte le opere peccaminose della "carne". La minaccia dei mali alla fine del catalogo dei vizi rientrava nella predicazione missionaria di Paolo e corrisponde ad una consuetudine tradizionale (cfr. 1Cor 6,9; 5,6; Col 3,6). Chiamati a libertà 22Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; 23contro queste cose non c’è legge. 24Ora quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la loro carne con le sue passioni e i suoi desideri. 25Se pertanto viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito. Chiamati a libertà L’espressione "frutto dello Spirito" al singolare, vuol soprattutto far notare l’unità della vita nei confronti "della frantumata varietà della vita carnale" (Oepke). Lo Spirito integra il battezzato in unità spirituale anche dal punto di vista etico. "Un concetto, che con particolare chiarezza rende la compenetrazione - caratteristica dell’operato morale dei credenti - di attività divina e attività umana le quali in definitiva non possono più separare nettamente l’una dall’altra, è il concetto di ‘frutto’" (Kuss). Secondo Gal 5,22-23 frutto dello Spirito sono le seguenti virtù: Chiamati a libertà • agaph: essa sta all’inizio dell’enumerazione come fonte e quintessenza di tutti i doni e di tutte le virtù. Questa preminenza dipende dall’affermazione di 5,14, secondo cui nel precetto dell’amore del prossimo trova il suo compendio e adempimento "tutta la legge". Perciò è da supporre che l’apostolo con agaph intenda anzitutto l’amore per gli altri e specialmente per i compagni di fede. Se questo amore è "frutto dello Spirito" esso è dono e grazia provenienti dall’alto, come le successive virtù del catalogo. Proprio per questo esso è l’eco molteplice di quell’amore che, secondo Rm 5,5, è stato riversato nei nostri cuori dallo Spirito Santo. Chiamati a libertà • cara: "È difficile trovare una parola che sia altrettanto al centro dell’Antico Testamento come la parola gioia... La gioia di riconoscenza per la bontà di Dio è il senso della vita umana. Quando giunge il tempo della salvezza, Dio moltiplica l’esultanza e raddoppia la gioia" (Koehler). Nel Nuovo Testamento si dice che la nascita del Messia introduce già il grande tempo della gioia (Lc 2,10), e così in Paolo la gioia è l’"esplosione della speranza e l’eco vitale della situazione escatologica del cristiano" (Schlier). In Gal 5,22 cara si trova tra i due concetti soteriologici agaph e eirenh; quindi Paolo non intende parlare della gioia anzitutto in senso psichico, ma come espressione dell’acquisita pienezza dello Spirito (Rm 14,27): essa è gioia ricevuta, che dev’essere trasmessa (2Cor 8,2) e deve contrassegnare tutta l’esistenza anche quando nella vita ci si trova nella tribolazione (1Ts 1,6; 2Cor 7,4); Chiamati a libertà • eirenh: "Shalòm è l’essenza stessa della salvezza e della prosperità" (Gross). A inaugurare questo stato di cose sarà il "principe della pace" (Is 9,5), cioè il Messia. La venuta del Messia in Gesù Cristo significa una manifestazione della pace escatologica per gli uomini che sono oggetto della compiacenza di Dio (Lc 2,14). In Ef 2,14-17 è descritta l’immensa opera pacificatrice di Cristo, che crea l’unità. Il dono salvifico della pace chiama la comunità a un vasto lavoro di pace e a nutrire sentimenti di pace nel senso più ampio; essa stessa dev’essere un luogo in cui regna la pace. Chiamati a libertà • makroqumia: significa longanimità, pazienza. Il Dio della Bibbia è un Dio misericordioso e pietoso, longanime e ricco di grazia (Es 34,6). Poiché Dio è longanime e misericordioso, tale dev’essere anche l’uomo (parabola del servo spietato in Mt 18,23-35). Così anche Paolo esige dalle comunità cristiane la longanimità reciproca. Stando a 1Cor 13,4 la longanimità è un predicato dell’agaph. Poiché i cristiani sono eletti di Dio, santi ed amati, essi devono rivestirsi di un cuore di misericordia, bontà, umiltà, mitezza, longanimità (Col 3,12). Quindi la longanimità nelle comunità cristiane si dimostra come frutto dello Spirito, eco della sperimentata longanimità di Dio verso il peccatore. Chiamati a libertà • crhstoth: significa bontà duratura. Il Dio dell’Antico Testamento si rivela come un Dio di bontà. Gesù manifesta la bontà di Dio soprattutto col suo comportamento verso i pubblicani e peccatori. Per questo la bontà fa parte delle virtù dei cristiani e in essa si esprime l’agaph (Cor 13,4; Ef 4,32; Col 3,12). • agatwsunh: la parola "esprime, le medesime delicate sfumature di crhstoth, però è maggiormente orientata all’essere buoni e alla rettitudine" (Stachowiak). • pistij: è la virtù della fedeltà, o - più verosimilmente - il "fidarsi" proprio dell’amore, come si legge in 1Cor 13,7: "La carità tutto crede". È il rapporto reciproco che rende la fiducia affidamento. Chiamati a libertà • prauthj: significa spirito di umiltà; più che la mitezza indica la stato di abbandono che si radica in Dio. "L’autocontrollo di chi si affida a Dio è il correlato della pacatezza mite (Is 26,6), non la distanza superiore del (sedicente) saggio" (Hauck). Nel vangelo di Matteo la mitezza è una caratteristica particolare dello stesso Gesù (11,29; 21,5). In 2Cor 10,1 Paolo esorta la comunità "per la dolcezza e mitezza di Cristo". In Gal 6,1 i credenti, come uomini "spirituali" devono riprendere il fratello peccatore "nello spirito di mitezza"; così eviteranno la tracotanza, l’impazienza e l’ira. Chiamati a libertà • egkrateia: è l’astinenza da dissolutezze sessuali e d’altro genere; essa è dono di Dio (Sap 8,21). Paolo pratica la "continenza" come un lottatore, castigando il suo corpo e riducendolo in schiavitù (1Cor 9,24-27). In 1Cor 7,9 questo termine si riferisce alla continenza sessuale. In questo v. l’egkrateia va vista come il contrario dei vizi enumerati nei vv. 20-21: fornicazione, impurità, dissolutezza, sbevazzate, gozzoviglie e cose simili. Chiamati a purezza La 1^ Lettera ai Tessalonicesi 1Ts 4,1-12 Chiamati a purezza La lettera, senza alcun dubbio, è diretta ai credenti di Tessalonica, che nel I secolo d.C. era la capitale della provincia romana di Macedonia, importante sia perché grande sia perché ricca di affari commerciali; si trovava inoltre in una posizione strategica: sulla via Egnazia, che dall’Adriatico arrivava fino alle porte dell’Asia. Alla vivacità della vita cittadina corrispondeva una grande corruzione di costumi: fu in questa città che Paolo giunse in compagnia di Sila e Timoteo, dopo i fatti di Filippi. Come sua consuetudine cercò la sinagoga e vi predicò per tre sabati con buoni risultati: alcuni Giudei «furono convinti e aderirono a Paolo e a Sila, come anche un buon numero di Greci credenti in Dio e non poche donne della nobiltà» (At 17,4). Scavi dell'Agorà romana Chiamati a purezza La comunità ebraica reagì con violenza incitando la plebaglia ad assaltare la casa di Giasone, che ospitava Paolo e Sila; Giasone venne condotto davanti ai politarchi, magistrati della città, davanti ai quali dovette pagare una cauzione. Temendo il peggio però i fratelli, di notte, fecero andar via Paolo e Sila. Arrivati a Berea Paolo e Sila predicarono con successo fino all’arrivo dei Giudei che, avendo sollevato un tumulto, li costrinsero ad andarsene: mentre Sila e Timoteo restavano a prendersi cura della comunità appena nata, Paolo venne scortato da alcuni fratelli fino ad Atene. La chiesa di Santa Sofia a Tessalonica Chiamati a purezza Da questa Prima lettera ai Tessalonicesi (3,1-2) apprendiamo che Timoteo si recò ad Atene a visitare Paolo ed a riferirgli notizie sulle chiese fondate di recente. Da Atene Paolo lo rimandò a Tessalonica, non potendovisi recare di persona. Al suo ritorno Timoteo gli portò notizie incoraggianti assieme ad un certo numero di quesiti da risolvere: fu questo che lo spinse a scrivere questa prima lettera ai Tessalonicesi. L'Arco di Galerio Chiamati a purezza In seguito Paolo si trasferì a Corinto, dove lo raggiunsero Timoteo e Sila; da lì si suppone sia stata inviata la sua seconda epistola, scritta a chiarimento di alcuni equivoci insorti sulla seconda venuta di Cristo. Il soggiorno a Corinto permette di datare il tutto: infatti qui Paolo venne arrestato e condotto davanti a Gallione il proconsole dell'Acaia, cugino di Seneca (At 18,12). Il ritrovamento di un’iscrizione romana a Delfi riguardante un decreto dell’imperatore Claudio diretto a Gallione, e che riporta la data relativa, permette di situare il soggiorno di 18 mesi di Paolo nella città (secondo quanto affermato in At 18,12-18) tra la metà del 50 d.C. e il 52. La Prima lettera ai Tessalonicesi, quindi, se scritta da Atene, è del 50 d.C.; se scritta a Corinto sarebbe del 51 d.C. Chiamati a purezza 1Per il resto, fratelli, vi preghiamo e supplichiamo nel Signore Gesù: avete appreso da noi come comportarvi in modo da piacere a Dio, e così già vi comportate; cercate di agire sempre così per distinguervi ancora di più. 2Voi conoscete infatti quali norme vi abbiamo dato da parte del Signore Gesù. 3Perché questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione: che vi asteniate dalla impudicizia, 4che ciascuno sappia mantenere il proprio corpo con santità e rispetto, 5non come oggetto di passioni e libidine, come i pagani che non conoscono Dio; 6che nessuno offenda e inganni in questa materia il proprio fratello, perché il Signore è vindice di tutte queste cose, come già vi abbiamo detto e attestato. Chiamati a purezza 7Dio non ci ha chiamati all'impurità, ma alla santificazione. 8Perciò chi disprezza queste norme non disprezza un uomo, ma Dio stesso, che vi dona il suo Santo Spirito. 9Riguardo all'amore fraterno, non avete bisogno che ve ne scriva; voi stessi infatti avete imparato da Dio ad amarvi gli uni gli altri, 10e questo voi fate verso tutti i fratelli dell'intera Macedonia. Ma vi esortiamo, fratelli, a farlo ancora di più 11e a farvi un punto di onore: vivere in pace, attendere alle cose vostre e lavorare con le vostre mani, come vi abbiamo ordinato, 12al fine di condurre una vita decorosa di fronte agli estranei e di non aver bisogno di nessuno. Chiamati a purezza GIOVANNI PAOLO II UDIENZA GENERALE Mercoledì 28 gennaio 1981 Santità e rispetto del corpo nella dottrina di san Paolo Chiamati a purezza 2. La purezza, di cui parla Paolo nella I Lettera ai Tessalonicesi (cfr. 1Ts 4,3-5.78), si manifesta nel fatto che l’uomo "sappia mantenere il proprio corpo con santità e rispetto, non come oggetto di passioni libidinose". In questa formulazione ogni parola ha un significato particolare e merita pertanto un commento adeguato. Chiamati a purezza In primo luogo, la purezza è una "capacità", ossia, nel tradizionale linguaggio dell’antropologia e dell’etica: un’attitudine. Ed in questo senso, è virtù. Se questa abilità, cioè virtù, porta ad astenersi "dalla impudicizia", ciò avviene perché l’uomo che la possiede sa "mantenere il proprio corpo con santità e rispetto e non come oggetto di passioni libidinose". Si tratta qui di una capacità pratica, che rende l’uomo atto ad agire in un determinato modo e nello stesso tempo a non agire nel modo contrario. Chiamati a purezza La purezza, per essere una tale capacità o attitudine, deve ovviamente essere radicata nella volontà, nel fondamento stesso del volere e dell’agire cosciente dell’uomo. Tommaso d’Aquino, nella sua dottrina sulle virtù, vede in modo ancor più diretto l’oggetto della purezza nella facoltà del desiderio sensibile, che egli chiama "appetitus concupiscibilis". Chiamati a purezza Appunto questa facoltà deve essere particolarmente "dominata", ordinata e resa capace di agire in modo conforme alla virtù, affinché la "purezza" possa essere attribuita all’uomo. Secondo tale concezione, la purezza consiste anzitutto nel contenere gli impulsi del desiderio sensibile, che ha come oggetto ciò che nell’uomo è corporale e sessuale. La purezza è una variante della virtù della temperanza. Chiamati a purezza 3. Il testo della I Lettera ai Tessalonicesi (cfr. 1Ts 4,3-5) dimostra che la virtù della purezza, nella concezione di Paolo, consiste anche nel dominio e nel superamento di "passioni libidinose"; ciò vuol dire che alla sua natura appartiene necessariamente la capacità di contenere gli impulsi del desiderio sensibile, cioè la virtù della temperanza. Chiamati a purezza Contemporaneamente, però, lo stesso testo paolino rivolge la nostra attenzione verso un’altra funzione della virtù della purezza, verso un’altra sua dimensione – si potrebbe dire – più positiva che negativa. Ecco, il compito della purezza, che l’Autore della lettera sembra porre soprattutto in risalto, è non solo (e non tanto) l’astensione dalla "impudicizia" e da ciò che vi conduce, quindi l’astensione da "passioni libidinose", ma, in pari tempo, il mantenimento del proprio corpo e, indirettamente anche di quello altrui in "santità e rispetto". Chiamati a purezza Queste due funzioni, l’"astensione" e il "mantenimento", sono strettamente connesse e reciprocamente dipendenti. Poiché, infatti, non si può "mantenere il corpo con santità e rispetto", se manca quell’astensione "dalla impudicizia" e da ciò a cui essa conduce, di conseguenza si può ammettere che il mantenimento del corpo (proprio e, indirettamente, altrui) "con santità e rispetto" conferisce adeguato significato e valore a quell’astensione. Chiamati a purezza Questa richiede di per sé il superamento di qualche cosa che è nell’uomo e che nasce spontaneamente in lui come inclinazione, come attrattiva e anche come valore che agisce soprattutto nell’ambito dei sensi, ma molto spesso non senza ripercussioni sulle altre dimensioni della soggettività umana, e particolarmente sulla dimensione affettivo-emotiva. Chiamati a purezza 4. Considerando tutto ciò, sembra che l’immagine paolina della virtù della purezza – immagine che emerge dal confronto molto eloquente della funzione dell’"astensione" (cioè della temperanza) con quella del "mantenimento del corpo con santità e rispetto" – sia profondamente giusta, completa e adeguata. Chiamati a purezza Dobbiamo forse questa completezza non ad altro se non al fatto che Paolo considera la purezza non soltanto come capacità (cioè attitudine) delle facoltà soggettive dell’uomo, ma, nello stesso tempo, come una concreta manifestazione della vita "secondo lo Spirito", in cui la capacità umana viene interiormente fecondata ed arricchita da ciò che Paolo, nella Lettera ai Galati (Gal 5,22), chiama "frutto dello Spirito". Chiamati a purezza Il rispetto, che nasce nell’uomo verso tutto ciò che è corporeo e sessuale, sia in lui sia in ogni altro uomo, maschio e femmina, si dimostra la forza più essenziale per mantenere il corpo "con santità". Per comprendere la dottrina paolina sulla purezza, bisogna entrare a fondo nel significato del termine "rispetto", ovviamente qui inteso quale forza di ordine spirituale. Chiamati a purezza È appunto questa forza interiore che conferisce piena dimensione alla purezza come virtù, cioè come capacità di agire in tutto quel campo in cui l’uomo scopre, nel proprio intimo, i molteplici impulsi di "passioni libidinose", e talvolta, per vari motivi, si arrende ad essi. Chiamati a purezza 5. Per intendere meglio il pensiero dell’Autore della prima Lettera ai Tessalonicesi sarà bene avere presente ancora un altro testo, che troviamo nella prima Lettera ai Corinzi. Paolo vi espone la sua grande dottrina ecclesiologica, secondo cui la Chiesa è Corpo di Cristo; egli coglie l’occasione per formulare la seguente argomentazione circa il corpo umano: "... Dio ha disposto le membra in modo distinto nel corpo, come egli ha voluto" (1Cor 12,18); e più oltre: Chiamati a purezza "Anzi, quelle membra del corpo che sembrano più deboli sono più necessarie; e quelle parti del corpo che riteniamo meno onorevoli le circondiamo di maggior rispetto, e quelle indecorose sono trattate con maggior decenza, mentre quelle decenti non ne hanno bisogno. Ma Dio ha composto il corpo, conferendo maggior onore a ciò che ne mancava, perché non vi fosse disunione nel corpo, ma anzi le varie membra avessero cura le une delle altre" (1Cor 12,22-25). Chiamati a purezza 6. Sebbene l’argomento proprio del testo in questione sia la teologia della Chiesa quale Corpo di Cristo, tuttavia in margine a questo passo si può dire che Paolo, mediante la sua grande analogia ecclesiologica (che ricorre in altre lettere), contribuisce, al tempo stesso, ad approfondire la teologia del corpo. Mentre nella prima Lettera ai Tessalonicesi egli scrive circa il mantenimento del corpo "con santità e rispetto", nel passo ora citato dalla prima Lettera ai Corinzi vuole mostrare questo corpo umano come appunto degno di rispetto; si potrebbe anche dire che vuole insegnare ai destinatari della sua lettera la giusta concezione del corpo umano. Chiamati a purezza Perciò questa descrizione paolina del corpo umano nella prima Lettera ai Corinzi sembra essere strettamente connessa alle raccomandazioni della prima Lettera ai Tessalonicesi: "Che ciascuno sappia mantenere il proprio corpo con santità e rispetto" (1Ts 4,4). Questo è un filo importante, forse quello essenziale, della dottrina paolina sulla purezza. Chiamati a carità La 1^ Lettera ai Corinti 1Cor 13,1-13 Tempio di Apollo Il bêma Chiamati a carità Paolo scrisse questa lettera dopo aver evangelizzato Corinto per un periodo di oltre 18 mesi, dalla fine del 50 alla metà del 52. Secondo la sua consuetudine di operare nei grandi centri, voleva impiantare la fede cristiana in questo porto famoso e molto popolato, da dove si sarebbe irradiata in tutta l'Acaia. Di fatto riuscì a stabilirvi una forte comunità, soprattutto negli strati modesti della popolazione (1Cor 1,26-28). Però questa grande città era un centro di cultura greca, dove si affrontavano correnti di pensiero e di religione molto differenti tra loro, con un rilassamento dei costumi che la rendeva tristemente celebre. Pietra della Sinagoga di Corinto L’Acrocorinto in fondo Chiamati a carità contatto della giovane fede cristiana Il con questa capitale del paganesimo doveva porre ai neofiti numerosi e delicati problemi. Paolo nella sue lettere ai cristiani di Corinto cerca di risolverli. Sembra che una prima lettera "precanonica" (1Cor 5,9-13), di data incerta, non sia stata conservata. Più tardi, nel corso del suo soggiorno di tre anni (54-57) a Efeso, durante il terzo viaggio, alcune domande portate da una delegazione di Corinto (1Cor 16,17), a cui si aggiunsero le informazioni ricevute da Apollo (1Cor 16,12) e dalla gente di Cloe (1Cor 1,11), spinsero Paolo a scrivere una nuova lettera (quella conosciuta come prima lettera ai Corinzi) verso la Pasqua del 57 (1Cor 5,7). 1 Corinzi 13 Codex Vaticanus Chiamati a carità La carità, la più grande, è la virtù con la quale lo Spirito rinnova la facoltà di amare, rinvigorendola e assimilandola sempre più alla dinamica dello stesso amore che Cristo ha per il Padre e per il prossimo. Non è riducibile alle opere di elemosina o ai buoni sentimenti del filantropo, tanto meno l’amore cristiano è assimilabile all’erotismo. Proviene, tramite lo Spirito di Cristo, dalla «grazia, misericordia e pace» (1Tm 1,2) di Dio Padre: “L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rm 5,5). Il segno più chiaro e strumento più efficace di tale carità è la Croce: «Non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi» (Rm 8,32). Chiamati a carità Anche per Paolo, dunque, vale già l’espressione agostiniana: “Se vedi la carità, vedi la Trinità” (De Trinitate, VIII, 8,12), citata da papa Benedetto XVI nella Deus caritas est (n. 19): lo Spirito ci rende personalmente partecipi dei rapporti che intercorrono tra il Padre e il Figlio. E chi è “fervente nello Spirito” non renderà “a nessuno male per male” (Rm 12,11.17). Lo Spirito di Dio-Amore dimora in noi fin dal battesimo (cfr. 1Cor 2,16; cfr. Rm 5,5; Gal 5,21) e ricevendo l’Eucaristia diventiamo sempre più un solo pane, un solo corpo (cfr. 1Cor 10,17; 12,27); si riceverebbe la propria condanna, se si partecipasse alla Cena del Signore con in cuore la divisione tra fratelli e con l’indifferenza per i loro bisogni (cfr. 1Cor 11,17-34). Chiamati a carità Il primo frutto dello Spirito è l’amore (cfr. Gal 5,22) ed è generatore di comunione all’interno della comunità cristiana (cfr. 2Cor 13,13). L’unico Spirito dona a ciascuno i carismi e ministeri diversi, ma sempre per la utilità comune delle membra di uno stesso corpo, quello di Cristo (cfr. 1Cor 12,1-31). Proprio trattando dei doni distribuiti liberamente dallo Spirito, Paolo scioglie il celeberrimo inno alla carità (1Cor 13,1-13), la «via migliore di tutte» (1Cor 12,31), delle tre la «virtù più grande» (1Cor 13,13), il «vincolo della perfezione» (Col 3,14). Chiamati a carità 1Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. 2E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sono nulla. Chiamati a carità 3E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova. 4La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, 5non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, 6non gode dell'ingiustizia, ma si compiace della verità. 7Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. Chiamati a carità 8La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno; il dono delle lingue cesserà e la scienza svanirà. 9La nostra conoscenza è imperfetta e imperfetta la nostra profezia. 10Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto 11Quand'ero scomparirà. bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma, divenuto uomo, ciò che era da bambino l'ho abbandonato. Chiamati a carità 12Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch'io sono conosciuto. 13Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità! Chiamati a carità Con la forza dolce della sua prosa ritmata, l’apostolo mette in luce in primo luogo il primato detenuto dalla carità sulle virtù umane e religiose (vv 1-3): cultura e doti mistiche; gli stessi tre doni come la profezia, la scienza (gnwsij), la fede che trasporta anche le montagne; perfino lo spogliarsi dei propri beni e l’eroismo di chi sacrifica la vita del corpo; tutto ciò, senza la carità, è decisamente vuoto del nulla, rimbombo di un gong, zero assoluto, vano spettacolo. Chiamati a carità In secondo luogo (vv 4-7), l’inno descrive, elenca le opere che della carità sono frutto e segno, il corteo delle buone qualità che accompagnano l’amore autentico: apertura di cuore, bontà, umiltà, disinteresse, rispetto, perdono, pazienza; capacità di valorizzare l’altro e di infondere fiducia, di sopportazione dell’altro. Da ultimo (vv 8-12), Paolo assicura che «la carità non avrà mai fine» (v. 8), mentre le altre virtù svaniranno con la raggiunta conoscenza perfetta, «faccia a faccia», di Dio. Chiamati a carità Parlando della carità, (come in tutta la Scrittura, eccetto due volte nel Vecchio Testamento), Paolo usa il termine agaph e non quello di erwj. Soprattutto a partire dalla cultura illuminista, si suole contrapporre il primo al secondo: agaph indicherebbe l’amore gratuito e offerto dall’alto, con il quale Dio ama l’uomo, la dedizione all’altro totalmente disinteressata e sofferta; erwj indicherebbe il desiderio/passione bramosi e possessivi, tesi alla propria esclusiva soddisfazione. Anche i medievali avevano distinto (e rischiato di contrapporre) l’amore di benevolenza e di dilezione dall’amore di concupiscenza. Paolo stesso confessa di avvertire drammaticamente il contrasto interiore tra la libertà non ancora liberata e la libertà liberata dalla grazia (cfr. Rm 7,24s). Chiamati a carità Invece, nell’enciclica Deus caritas est (nn. 3-12), Benedetto XVI fa scoprire nell’amore, biblicamente ben inteso, differenza e unità tra erwj e agaph, la giusta unità nell’unica realtà dell’amore: erwj e agaph, l’amore ascendente e quello discendente, non sono mai completamente scindibili: nel vero amore umano, come in quello divino. Nella natura creata dell’uomo, spirito e materia si compenetrano sempre e profondamente (cfr. Gn 2,23s). Chiamati a carità L’erwj umano, all’inizio prevalentemente possessivo, se accoglie l’agaph di Dio, è aiutato a purificarsi, passando anche da rinunce; e non perché da queste sia avvelenato e soffocato, ma per elevarsi, divenendo sempre più cura dell’altro, vita vissuta per l’altro. Fino all’estasi mistica nell’incontro con Dio, nel quale soltanto il cuore umano può trovare pace piena e definitiva: “Chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito” (1Cor 6,17). Ed anche l’amore con cui Dio ci ama (sempre agaph) non è mai del tutto esente da erwj. Chiamati a carità Il Dio biblico ha vera compassione del suo popolo e di ogni uomo (cfr. Os 11,8s; Ct, ecc.). Soprattutto sulla croce del Figlio, l’Amore incarnato di Dio. La carità del cristiano è dunque la forma e costituisce il valore di ogni virtù, la buona sostanza dell’essere comunionale, senza della quale ogni bene cessa di essere tale (cfr. 1Cor 13,1-3). E tutti i membri della Chiesa - il corpo di Cristo «ben compaginato e connesso», «secondo l’energia propria di ogni membro» «vivendo secondo la verità nella carità» «riceve forza per crescere in modo da edificare se stesso nella carità» (cfr. Ef 4,15s). Chiamati a carità Da qui le sue insistenti esortazioni intonate a questa essenziale virtù: «Ricercate la carità» (1Cor 14,1), «vivete in pace tra voi … non spegnete lo Spirito» (1Ts 5,12-19), «amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno» (Rm 12,10), «salutate i fratelli con il bacio santo» (2Ts 3,27); «Se qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi degli altri, perdonatevi scambievolmente. Come il Signore ci ha perdonato, così fate anche voi» (Col 3,13).