Rino Gaion Darwin e la questione antropologica. Appunti preliminari 1. «Ciò che rende gli uomini umani» In un breve saggio intitolato Sulla ricerca dell'ideale, presentato a Torino il 15 febbraio 1988 in occasione del conferimento all'autore del Premio internazionale senatore Giovanni Agnelli, Isaiah Berlin (1990) ripercorre, con tono autobiografico, le tappe del pensiero che lo hanno portato alla ricerca del suo ideale morale e politico. Il punto di partenza di questa ricerca, sostenuto dalla lettura dei grandi romanzieri russi, era la convinzione del giovane Berlin che non solo esistessero soluzioni ai grandi mali dell'umanità (l'ingiustizia, l'oppressione, la falsità, la cecità morale, l'egoismo, la crudeltà, la miseria, la disperazione, ecc.), ma che fosse anche possibile scoprire queste soluzioni e, con una buona dose di altruismo, cercare di realizzarle. Il secondo passaggio, favorito dalla riflessione etica e politica della philosophia perennis occidentale, l'aveva portato a ritenere tre idee fondamentali: che tutte le domande autentiche dovevano avere, sul modello delle scienze, una e una sola risposta vera, tutte le altre essendo necessariamente sbagliate; che doveva esserci una via attendibile e sicura per pervenire alla scoperta di queste verità; e infine che le risposte vere, quando fossero state trovate, dovevano necessariamente essere compatibili tra loro e formare un tutto unico, giacché, era dato per scontato, che una verità non può essere in conflitto con un'altra. Il terzo gradino, provocato dalla lettura di Machiavelli (per il quale le virtù pagane di forza e di astuzia su cui si fonda uno stato sono opposte alle virtù cristiane dell'umiltà, dell'accettazione delle sofferenze, dalla rinuncia ai beni terreni), gli instillò un'idea choccante: che non tutti i valori supremi perseguiti dall'umanità oggi e in passato sono necessariamente compatibili fra loro ma che anzi talvolta entrano decisamente in contrasto. Da qui la scoperta, attraverso Vico ed Herder, che le singole società prendevano forma a seconda dei valori che coltivavano e che questi valori potevano differire fra loro in modo profondo, inconciliabile, non riconducibile a una sintesi definitiva. Ora, nota Berlin, molto spesso questa posizione è stata definita relativismo culturale e morale, ma in realtà questo non è relativismo. Il relativismo ritiene che le diverse culture siano chiuse nel loro bozzolo impenetrabile e che si possa escludere qualunque forma di comunicazione fra loro. Ma questo è falso da tutti i punti di vista. Gli uomini possono avere valori diversi fra loro che si possono approvare o condannare, ma non si può fingere di non comprenderli affatto o di considerarli semplicemente soggettivi. «Esiste un mondo di valori oggettivi [...] I fini, i principi morali sono molti. Molti, ma non innumerevoli, perché devono restare entro l'orizzonte umano». Ci sono valori che, se non sono universali, sono almeno tali da costituire un minimum senza il quale le società difficilmente potrebbero sopravvivere. È anche vero che alcuni di questi valori oggettivi sono fra loro in conflitto e noi siamo condannati a scegliere, e scegliere significa perdere qualcosa. È in questa necessità di decidere per alcuni valori piuttosto che per altri, nel correre il rischio morale, che consiste l'autonomia, la solitudine, ma anche la dignità dell'uomo. I conflitti tra valori possono essere ridotti al minimo attraverso la promozione e la conservazione di un delicato equilibrio fatto di rimodulazione, accordi e compromessi.1 Ma vi sono alcuni (pochi) valori (Berlin elenca fra questi la schiavitù, l'omicidio rituale, le camere a gas naziste, l'omicidio gratuito, la tortura di esseri umani a scopo di piacere o di profitto) che non sono né negoziabili né disponibili al compromesso, dato che è proprio attorno a questi valori che si è costruita una nozione minima di «natura umana» e giustificare compromessi in questi valori significherebbe uscire dall'umanità. Secondo Berlin ciò che rende inconsistente la posizione del relativismo culturale e morale è il fatto che «ciò che rende gli uomini umani è comune a tutti e funge da ponte tra loro» (Berlin, 1990: 12). «Ciò che rende gli uomini umani e funge da ponte tra loro» viene solitamente indicato come «la comune natura umana». L'idea che la nozione di «natura umana» è costruita attorno ad alcuni valori morali, o almeno l'idea che vi è un nesso inscindibile tra la nozione di «uomo» e quella di «morale», è tutt'altro che nuova. Ma le sue radici moderne affondano nell'empirismo inglese e due delle sue principali icone (ma si deve riconoscere che così schematizzando si fa torto a molti altri autori) sono costituite dallo «stato di natura» delineato dal Leviatano di Hobbes e dal Trattato sulla natura umana di Hume. Comune a tutta questa tradizione era, contro la retorica dei «metafisici» e l'arroganza dei razionalisti cartesiani, l'adozione del metodo sperimentale, induttivo, genetico o fenomenologico, nell'indagine morale. Da qui la scoperta che i sentimenti e le passioni, molto più della ragione, costituiscono il vero nocciolo duro dell'identità dell'io e si pongono quindi al centro, come motore, della vita morale. Per gli empiristi le tesi del razionalismo etico secondo le quali le idee di bene e male hanno misure eterne e immutabili, presenti in ogni tempo e in ogni luogo, valide non solo per l'uomo ma per la stessa divinità, vengono sconfessate dal fatto che i nostri giudizi morali di approvazione o disapprovazione, di lode o di biasimo, si basano prima di tutto sulle nostre impressioni di piacere e dolore. Noi consideriamo buono ciò che ci reca piacere e cattivo ciò che ci reca dolore. A partire da queste considerazioni Hobbes e Hume tracciano due percorsi diversi che portano a quella bipolarità (dualismi-monismi) antropologico-morale che ancora oggi è difficile da scalfire. 2. Il serpente e la colomba Nello scenario disegnato da Hobbes l'uomo naturalmente egoista, ambizioso e orgoglioso, è portato a curare i propri esclusivi interessi per cui lo «stato di natura» non sarebbe nient'altro che una «condizione di guerra di ogni uomo contro ogni altro uomo» alla quale mette freno la paura della morte e il desiderio di sicurezza che impone la regola generale «che ogni uomo debba cercare la pace fino a che ha la speranza di poterla ottenere; e se non può ottenerla deve cercare e usare tutti i mezzi di aiuto e i vantaggi della guerra». Lasciata a se stessa l'umanità finirebbe per autodistruggersi. Per uscire da questo stato di guerra permanente, per ottenere la pace, ogni uomo deve essere disposto, quando anche gli altri lo siano, a rinunciare al suo diritto su ogni cosa e a conservare solo tanta libertà quanta vorrebbe che gli altri ne avessero nei suoi confronti. Questo reciproco trasferimento di diritti avviene attraverso un «contratto» la cui osservanza viene garantita affidando a un potere che sta sopra i due contraenti e ha diritto e forza sufficienti a costringerli ad adempiere l'impegno. Questo potere è rappresentato dallo stato che, attraverso il monopolio della forza, è in grado di ispirare timore e costringere i singoli individui a rinunciare all'uso personale della violenza, garantendo l'ordine e la sopravvivenza della specie. Per Hobbes sono le leggi, e le gerarchie che le fanno rispettare, a salvare una specie umana i cui membri sono naturalmente portati alla violenza autodistruttiva. Il mitico scenario dello stato di natura delineato da Hobbes ha lasciato in eredità alla riflessione successiva una grande serie di problemi tutti riconducibili alla sua visione dualista del rapporto natura umana-morale. Secondo Hobbes da una parte stanno gli uomini con la loro natura di individui egoisti e dall'altra vi è un'agenzia morale esterna -- lo stato, la società, la cultura, la religione, un «contratto» di reciprocità ecc. -- che li costringe a stare assieme e ad adottare una morale pubblica. La morale, in altre parole, sarebbe sorta dalla necessità strumentale di andare contro la natura umana o almeno di mettere dei limiti alle sue malefatte dato che, come dirà Kant più tardi (e come Berlin ama citare «dal legno storto dell'umanità non si è mai cavata una cosa dritta»). A una visione sostanzialmente hobbesiana si sono ispirati tutti coloro che ritengono impossibile che la morale possa derivare direttamente dalla natura dell'uomo, o perché questa è amorale o perché ritengono che non esista una natura umana definitivamente data, ma che dipenda dalla storia o dalla cultura. Connesso a questa visione è il problema delle vie di uscita dal caos hobbesiano al quale hanno cercato di rispondere le dottrine del «contratto sociale», nelle loro diverse versioni (quello «ideale» di John Rawls, 1989, quello «reale» di David Gauthier, 1986, ecc.). Ma queste dottrine mostrano notevoli difficoltà a giustificare sul piano teorico, senza il ricorso a una forza estranea o a un sentimento naturale, la disponibilità degli individui a fare accordi o a mantenere i patti. Anche il principio di reciprocità (sotto la forma di riconoscimento reciproco, di dono, o di regola aurea) invocato da alcuni antropologi culturali ha difficoltà a diventare operativo se non è preceduto almeno da un naturale sentimento di fiducia che il dono sarà accettato e ricambiato. A una visione dualista sostanzialmente hobbesiana, si ispira anche la bioetica (e più in generale l'etica) 2 quando si pone a contrasto e limite della hybris tecnologico-scientifica. Hume dedica invece molti sforzi a dimostrare che le impressioni di piacere e dispiacere non sono dirette soltanto verso il nostro esclusivo interesse. L'egoismo universale o parziale, se pure fa parte della natura umana, come sostengono Hobbes e Locke, non è tanto importante per la moralità, e, nella vita pratica, quelle che prevalgono sono le disposizioni della benevolenza e della generosità e affezioni come l'amore, l'amicizia, la compassione e la gratitudine. Nessun uomo è del tutto indifferente alla felicità e alla miseria degli altri; la prima tende in genere a dare piacere la seconda dolore per via di un sentimento che è alla base della nostra stessa vita sociale: la simpatia reciproca. L'atteggiamento di simpatia o senso di umanità o di benevolenza generale, originario e comune a tutti gli uomini, fa sì che la nostra natura non sia quella del lupo e del serpente, ma sia molto di più quello della colomba. L'uomo per Hume non è naturalmente egoista, ma naturalmente conpassionevole rivolto a condividere il piacere e il dolore degli altri. Da notare che, secondo Hume, «non c'è bisogno di spingere le nostre ricerche fino a domandare perché noi abbiamo il senso di umanità e di simpatia per gli altri. Basta che si sperimenti che è un principio della natura umana. Dobbiamo pur fermarci a qualche punto nel nostro esame delle cause; e vi sono, in ogni scienza, dei principi generali al di là dei quali non possiamo sperare di trovarne altri più generali» (Ricerche sui princìpi della morale V, II). Il sentimento dal quale discende tutta la morale, la simpatia, non è tanto un valore da giustificare quanto un «dato di fatto» da constatare e da spiegare. Nell'impostazione humeana tutta la cultura (e quindi anche la morale) deriverebbe direttamente dalla natura dell'uomo, dai suoi istinti e desideri, e quindi all'interno di questa natura, senza il ricorso a nessuna agenzia esterna, si devono trovare le sue radici. Lungo questa linea si sono mossi in qualche misura tutti i programmi di naturalizzazione e biologizzazione dell'etica, tentati soprattutto da sociobiologi e psicologi evoluzionisti che hanno trovato nella rivoluzione antropologica darwiniana il loro insuperato punto di avvio. 3. Una natura amorale L'etica darwiniana si muove completamente all'interno del bipolarismo antropologico-morale costituito dagli scenari disegnati da Hobbes e da Hume. Ciò che differenzia la teoria di Darwin rispetto a quella di altri autori empiristi e positivisti suoi contemporanei e che gli dà un rilievo di rivoluzione scientifica e culturale deriva dal suo tentativo di fondare l'evoluzione della moralità sulla selezione naturale. Così facendo Darwin inserisce anche la morale nella sua grande scoperta che nella natura agisce «una legge generale che ha per scopo il progresso di tutti gli esseri organizzati, cioè la loro moltiplicazione, la loro variazione, la persistenza del più forte e l'eliminazione del più debole» (O. S. , 242).3 Depurata dal linguaggio ottocentesco questa legge suggerisce, sul piano biologico, quel principio di «ottimizzazione attraverso riproduzionevariazione-selezione», che ha fornito alle scienze naturali una cornice teorica generale, semplice e potentemente euristica, entro cui ricollocare tutta la storia della vita sulla terra. Pur avendo subito numerose modifiche, ampliamenti e precisazioni la teoria darwiniana dell'evoluzione rappresenta ancora oggi, nella sua essenza, una teoria ampiamente fondata e verificabile che, sul piano biologico e paleontologico, non ha trovato alcuna seria alternativa. La rivoluzione culturale darwiniana si basa sostanzialmente su due principi. Il primo è che la natura non è sempre stata così com'è adesso, ma ha una lunga storia. Tutte le specie attuali hanno avuto origine e si sono diversificate a partire da un unico vivente originario; la loro differenziazione è dovuta all'accumulo di variazioni nella trasmissione dei caratteri ereditari che è potuto avvenire nella lunghezza dei tempi geologici. Il secondo è il principio dell'unità della natura per cui tutti gli esseri viventi dal più semplice al più complesso hanno la stessa natura fisico-chimica e differiscono tra loro solo per grado (Darwin cita spesso il detto leibniziano natura non facit saltus). Anche l'uomo è il prodotto degli stessi processi fisico-chimici ed evolutivi di tutti gli altri enti naturali, dato che anche la specie umana si è originata da altre (in particolare, per Darwin, come è noto, dai primati) attraverso il meccanismo della variazione graduale-selezione naturale. La grandiosa visione di Darwin di una natura dai tempi geologici così dilatati che la presenza della specie umana sulla terra può essere paragonata a un rapido battito di ciglia, sembra dominata da un meccanismo naturale (riproduzione-variazione-selezione), di stampo squisitamente hobbesiano, che offre un panorama di assoluta indifferenza e amoralità. Scrive ad esempio Stephen Jay Gould (2003: 161 ss.): «la natura non ha necessità di operare secondo le norme della morale umana. Se nella natura amorale l'adattamento di un individuo richiede la morte di migliaia di altri, così sia. Il procedimento può essere confuso e distruttivo, ma la natura ha tempo in abbondanza e non è necessario che i suoi procedimenti brillino per efficienza». Da questa visione della natura si devono trarre, secondo Gould essenzialmente due insegnamenti: 1. dopo Darwin la natura non è più il luogo da cui trarre motivi di fede religiosa o di insegnamenti morali: se si vogliono cercare ragioni per la fede o per la morale queste non vanno cercate nelle leggi della natura, ma da qualche altra parte; 2. dopo Darwin le due domande fondamentali di ogni etica: «che cosa significa comportarsi moralmente?» e «perché comportarsi moralmente?» diventano praticamente irrilevanti: «Quali esseri umani abbiamo un interesse personale e legittimo per il nostro comportamento etico ma non possiamo sacralizzare questa proprietà facendole occupare più che un angolino della natura (quali che siano il suo impatto sul pianeta e la nostra preoccupazione particolaristica per la sua unicità)». Forse è vero che nella prospettiva delle profondità paleontologiche, come quella adottata da Gould, le nostre questioni morali possono apparire insignificanti. Del resto il pensiero religioso e filosofico non ha avuto bisogno di attendere né Darwin né la paleontologia per riflettere a fondo sulla precarietà e la fugacità della vita dell'uomo sulla terra. Il fatto è che l'uomo è, sì, nient'altro che una fragile canna, ma è una canna pensante e, almeno per quanto ne sappiamo ora, è l'unica specie che, essendo consapevole di questa precarietà, si pone domande sul suo significato. Inoltre è anche vero che, di fronte ai dilemmi morali posti agli uomini dalla vita quotidiana, è la prospettiva paleontologica a risultare del tutto irrilevante. In realtà, come già suggeriva Thomas Henry Huxley nella sua celebre lettura Evolution and Ethics (1894), proprio l'indifferenza della natura può essere una buona ragione perché l'uomo si assuma le sue responsabilità morali. Il lungo periodo, dodici anni, intercorso tra la pubblicazione dell'Origine delle specie (1859) e quella dell'Origine dell'uomo (1871) è stato giustificato da Darwin con il timore che le sue idee sull'origine dell'uomo avrebbero suscitato nuovi pregiudizi sulle sue teorie. Ma in realtà questi anni segnano anche il passaggio di Darwin da uno scenario di tipo hobbesiano, mediato soprattutto da Robert Malthus, ad un linguaggio più humeano4 visto soprattutto con gli occhi di Adam Smith: un rilevante lavoro di approfondimento e di precisazione di Darwin stesso su diversi punti essenziali della sua teoria dell'evoluzione, proprio nella direzione di rendere coerente la sua visione biologica con le peculiari caratteristiche delle facoltà cognitive e morali dell'uomo. L'immagine della natura presentata dall'Origine delle specie infatti assomiglia per molti versi al mitico stato di natura della hobbesiana guerra di tutti contro tutti. Ma il meccanismo della selezione naturale, così come è presentato nell'Origine delle specie, mostra due punti deboli: il primo è quello relativo al sorgere e consolidarsi della sterilità in diverse caste di insetti; il secondo, molto più rilevante, è quello relativo al sorgere e al consolidarsi dei comportamenti altruistici umani. Responsabili di questa debolezza sono la correlazione, ribadita più volte da Darwin, tra la metafora della selezione naturale e la metafora della lotta per l'esistenza e l'affermazione continuamente ripetuta, e connessa all'idea di trasmissione ereditaria e all'accumulo di variazioni di piccola entità, che la selezione naturale opera a esclusivo vantaggio del singolo individuo.5 Il primo a rendersi conto dell'evidente fallimento di una rappresentazione della natura fatta di soli competitori, incapace quindi di descrivere il sorgere della cooperazione, è stato lo stesso Darwin. In mancanza di altri fattori la selezione naturale favorisce il sorgere e il prevalere di soli individui egoisti: ciascun gene, ciascuna cellula, ciascun individuo, ciascun gruppo tende a promuovere il suo esclusivo successo riproduttivo a spese dei suoi competitori. Come si spiega allora la presenza tra gli animali e, in misura ancor maggiore, tra gli umani di una robusta e diffusa presenza di comportamenti altruistici? A questa domanda Darwin cerca di rispondere nell'Origine dell'uomo sottolineando l'importanza di quella particolare forma di selezione naturale che è la selezione sessuale e introducendo due elementi nuovi: gli istinti sociali, e quella «selezione naturale a vantaggio del gruppo» che ha costituito, per oltre un secolo, una spina sul fianco del darwinismo. In ogni caso nell'Origine dell'uomo cambia (o forse, meglio, si articola) lo scenario di competizione di tutti contro tutti e l'altruismo diventa l'elemento cruciale per le sorti di una morale darwiniana che ha la necessità di spiegare come alcuni individui dotati dalla selezione naturale di un forte istinto di sopravvivenza che li spinge a competere con gli altri per il successo riproduttivo, siano portati, in alcune circostanze, a essere talmente generosi da sacrificare la loro stessa vita per difendere o aiutare gli altri. La chiave di volta di queste puntualizzazioni è costituita dalla teoria darwiniana degli istinti. Benché rivisti e ampiamente modificati in funzione delle nuove acquisizioni scientifiche, i principi darwiniani sugli istinti hanno costituito le basi metodologiche da cui sono mosse le ricerche della etologia, della sociobiologia e della psicologia evoluzionista. 4. Vita di società Il cambio di prospettiva provocato dalla visione darwiniana della natura ha avuto profonde ripercussioni sul piano antropologico spostando l'uomo, dall'apice di una creazione concepita in forma di piramide gerarchica, all'ultimo della fila tra i viventi comparsi sulla terra, ai margini e non al centro della storia naturale, e costringendolo, con un esercizio di umiltà, a riconoscere di essere parte e non padrone del mondo, o, come in maniera più colorita suggerisce James Rachels (1987; 1996), di essere un animale creato da altri animali. Le implicazioni morali di questa dislocazione rivoluzionaria sono state esplorate essenzialmente in due direzioni. La prima è quella, volta ad allargare progressivamente le frontiere della morale ad altri soggetti (gli animali, appunto) che tradizionalmente ne sono stati esclusi, dell'uguaglianza interspecifica. Su questa strada si incontra, ad esempio, quella variante dell'utilitarismo classico che è l'ugualitarismo degli interessi di Peter Singer (1991; 1989; 2000), per il quale la natura degli esseri coinvolti in una deliberazione morale (uomo o donna, bianco o nero, intelligente o stupido, a due zampe o a quattro zampe) è del tutto indifferente e la discriminazione basata sull'appartenenza a una specie è soltanto un pregiudizio, specismo, paragonabile al razzismo o al sessismo, mentre quello che rende uguali gli uomini e gli altri animali è la sensibilità al dolore e alla sofferenza. Un'impostazione quella di Singer che lo ha portato a rivedere in chiave di ugualitarismo molti temi della bioetica a partire dall'allargamento ad alcuni animali (i primati, qualche cetaceo, il maiale, ecc.) della nozione di «persona» (negata però al feto umano e al cerebroleso), alle prese di posizione molto nette a favore dell'aborto, dell'eutanasia ecc. La questione dell'ugualitarismo interspecifico e quella connessa dei diritti degli animali, ha avuto il grande merito di orientare l'opinione pubblica contro alcuni trattamenti (chiusura nelle gabbie, sperimentazioni, vivisezioni, ecc.) cui sono sottoposti gli animali talvolta anche senza reale necessità («che rapporto c'è tra il fatto che l'uomo è razionale e il coniglio non lo è e la pratica di spalmare gli occhi dei conigli con prodotti chimici per testare gli effetti di alcuni cosmetici?» si chiede Rachels). Ma nei suoi termini generali la retorica dell'ugualitarismo che, come ha riconosciuto lo stesso Singer (1999), ha improvvidamente rinunciato alla nozione di «natura umana», non è riuscita a cancellare le obiettive disuguaglianze e i conflitti che sono presenti nella natura. La seconda direzione è quella che, proprio riconoscendo il debito maturato dall'uomo nei confronti della natura in genere e degli animali in particolare, gli assegna il compito di «responsabile» o di curatore. L'etica della responsabilità o meglio della cura, quella che il figlio più giovane deve ai suoi anziani genitori, non comporta che l'uomo misconosca la sua discendenza, ma piuttosto che se ne prenda cura, non tanto perché loro hanno dei diritti ma perché lui ha dei doveri. Nel quadro della natura disegnato da Darwin questi due aspetti sono entrambi rintracciabili. La natura dell'uomo si caratterizza infatti sotto due profili: per il primo l'uomo è un animale sociale; per il secondo l'uomo è l'unico ente morale presente in natura. La definizione dell'uomo come «animale sociale», non nuova ma ribadita da Darwin a più riprese, rientra, a prima vista, nel solco di una lunga tradizione che affonda le sue radici nella filosofia greca. Non a caso essa è stata accostata da diversi commentatori, alla ricerca di padri nobili, al politikÕn zùon di Aristotele.6 In realtà, come è già stato sottolineato da altri, la nozione aristotelica di politikÕn zùon intende fornire una definizione essenzialista dell'uomo, a marcarne la differenza rispetto agli altri animali, dato che il vivere nella polis fa parte della sua natura esclusiva. L'espressione darwiniana «animale sociale» indica invece che l'uomo appartiene a una precisa categoria di animali, quelli che uno zoologo odierno definirebbe «obbligatoriamente gregari» per i quali cioè la vita in gruppo non è un'opzione, ma una necessaria strategia di sopravvivenza (così, ad esempio, de Waal, 2006: 4 ss.). La sua quindi è una definizione inclusiva, sottolinea la continuità della natura dell'uomo con quella degli altri animali e in particolare con quelli che possiedono istinti sociali. Gli animali sociali condividono con gli altri animali alcuni istinti di base come quello di autoconservazione, l'attrazione sessuale, l'amore della madre per i suoi neonati, ecc. Ma oltre a questi ne hanno sviluppato altri che portano un animale sociale a provare piacere nella compagnia dei suoi simili, a sentire una certa quantità di simpatia nei loro confronti, ad aiutarli e difenderli in caso di bisogno. L'istintiva simpatia reciproca degli animali sociali sarebbe stata modellata dalla selezione naturale come estensione, oltre i confini familiari, dell'amore dei genitori verso i figli (altruismo parentale) che sarebbe alla base di tutti gli istinti sociali i quali a loro volta sarebbero rafforzati anche dall'esercizio continuato (abito) e dalla constatazione dei vantaggi reciproci (altruismo reciproco). Queste considerazioni hanno portato alcuni autori (cfr., ad esempio, Singer, 1981; de Waal, 2001) a suggerire che il fondamento istintuale comune agli uomini e ai primati e la matrice della moralità è la relazione di cura parentale. Nel caso dell'uomo questa relazione sarebbe stata accentuata da alcune eterocronie e in particolare dalla immaturità alla nascita e dal prolungamento abnorme dell'investimento parentale nell'infanzia e nell'adolescenza. Da questa relazione di cura così protratta, allargando via via il cerchio per prossimità, sarebbe sorto l'altruismo umano. In realtà, le cose non sembrano così semplici perché l'altruismo parentale e l'altruismo non parentale sembrano rispondere a meccanismi diversi e non facilmente collegabili. 5. Altruista, quello?! No, è soltanto un «egoista razionale» Nella seconda metà del Novecento l'altruismo è diventato il tema centrale della sociobiologia. I tentativi di dare risposta agli interrogativi lasciati in sospeso da Darwin sull'origine e la natura dei comportamenti altruistici sono stati numerosi e hanno contribuito ad apportare sostanziosi chiarimenti sui meccanismi evolutivi che potrebbero spiegare i comportamenti altruistici degli animali sociali e dei primati sia per sé, sia come cause remote dell'altruismo umano. Il punto di avvìo del problema è fornito dallo scenario hobbesiano-malthusiano-darwiniano di un mondo abitato da soli competitori. In un panorama di questo tipo la selezione darwiniana favorisce gli individui più competitivi e se anche, per mutazione, dovessero apparire caratteri cooperativi, la presenza di profittatori (free-riders) cioè di individui che godono dei benefici comuni senza pagarne il costo, ridurrebbe ben presto a zero il numero degli altruisti. Come si può spiegare in uno scenario del genere il sorgere e il consolidarsi dei comportamenti altruistici, verificabili tra gli animali, e, in misura molto maggiore, tra gli uomini? È evidente che, se la selezione naturale tende a favorire i tratti egoistici, per spiegare la presenza degli altruisti è necessario ricorrere ad altri meccanismi evolutivi. In realtà Darwin stesso aveva indicato nell'amore dei genitori per i figli e nella selezione dei gruppi i meccanismi in grado di spiegare gli atti altruistici, ma fino agli anni sessanta del Novecento queste indicazioni erano considerate piuttosto vaghe sia perché si riteneva che la selezione operasse esclusivamente a livello di organismi e non fra i gruppi, sia perché in mancanza di conoscenze precise la relazione tra geni e atti altruistici restava confusa, sia infine perché il termine «altruismo» continuava a mantenere un aspetto di «volontarietà» che rendeva difficile la sua formalizzazione. Nella prima metà degli anni sessanta del Novecento, in concomitanza con le nuove conoscenze relative ai processi di trasmissione delle informazioni geniche, i due tipi di meccanismi in grado di promuovere la cooperazione, la selezione parentale e la reciprocità, la prima relativa all'altruismo fra organismi geneticamente correlati e il secondo tra organismi privi di relazione di parentela, hanno cominciato ad assumere contorni più precisi. Uno schema molto semplice delle teorie sul sorgere e consolidarsi dei tratti altruistici in una popolazione di soli egoisti, proposto da Martin A. Nowak (2006), può aiutarci a sintetizzare e chiarire il nucleo del discorso sulle condizioni formali dell'altruismo. Fig. 1 Si supponga una popolazione virtuale di soli defezionisti (D) la cui fitness media è minima (la guerra di tutti contro tutti rende il gruppo più debole); in essa per mutazione nasce un cooperatore (C); la selezione naturale in una popolazione mista tende a favorire i defezionisti e quindi l'unico cooperatore sarebbe destinato a sparire senza trasmettere il suo tratto di reciprocità; per la stabilizzazione di un tratto altruista nella popolazione serve quindi un meccanismo di supporto che freni gli egoisti e favorisca gli altruisti. I due meccanismi potrebbero essere l'altruismo parentale e la selezione dei gruppi. Si potrebbe supporre ad esempio che il sistema di riconoscimento parentale, a causa di mutazioni genetiche o di cambiamenti demografici, sia casualmente modificato per estendere ai non parenti del gruppo l'altruismo parentale; in seguito, per adattamento, si potrebbe introdurre una ulteriore modifica che discrimina fra i non parenti che adottano comportamenti di reciprocità e quelli che defezionano (Axelrod and Hamilton 1981). Oppure si potrebbe supporre una selezione dei gruppi, dato che una popolazione con molti altruisti sarebbe facilmente vittoriosa sulle altre e quindi espanderebbe i tratti altruistici. Entrambe queste possibilità sono state adombrate da Darwin. A mano a mano che i tratti altruistici si diffondono la fitness media tende a crescere (da Nowak, 2006, modificato). 5.1. L'amore dei parenti e l'egoismo dei geni L'idea di una correlazione tra la parentela genetica e i comportamenti altruistici era già stata intuita e avanzata molti anni prima, ma la sua formalizzazione si deve a William D. Hamilton (1964). Il primo passo è stato una definizione operativa degli atti «altruistici». L'altruismo, dal punto di vista operativo, descrive i comportamenti di un individuo a beneficio di qualcun altro, in opposizione a «egoismo» che è l'insieme delle azioni rivolte al proprio esclusivo interesse. Gli atti altruistici sono caratterizzati da due elementi: 1. recano un beneficio (b) al destinatario; 2. comportano normalmente dei costi (c) per l'individuo che li pratica. In biologia i costi e i benefici sono valutati, darwinianamente, in termini di successo riproduttivo effettivo e potenziale (fitness), ovvero nell'atteso numero di discendenti.7 A partire da questa definizione Hamilton ipotizza che, perché avvenga un atto altruistico, il coefficiente di parentela genica tra donatore e ricevente deve essere superiore al rapporto tra costi e benefici, e formalizza questa relazione nella regola, divenuta poi molto popolare, r>c/b.8 Secondo questa regola, il grado di altruismo degli animali risulta essere tanto più grande quanto più è stretto il legame di parentela genica e i benefici erogati con atti altruistici sono tanto maggiori e i costi tanto più sopportabili (vicini allo zero) quanto più è alto il coefficiente di parentela genica.9 Secondo Hamilton il comportamento sociale di una specie evolve come se l'individuo in ogni situazione tenesse conto, oltre che del suo, anche del successo riproduttivo dei suoi parenti cooperando con il suo comportamento al successo di chi condivide i suoi stessi geni (inclusive fitness). In pratica è come se la selezione naturale invece di esercitarsi a livello dei singoli organismi operasse a livello del gruppo dei parenti (kin selection). I comportamenti altruistici, del tutto incomprensibili a livello del singolo individuo (perché una madre ama tanto suo figlio da rischiare la vita per lui?) sembrano acquistare una loro ragionevolezza se guardati dal punto di vista della sopravvivenza e diffusione di un pool genico comune a diversi individui. A partire da queste ipotesi negli anni sessanta-ottanta in molto neodarwinismo (cfr., Williams, 1966; Dawkins, 1976) che praticamente considerava il gene come la sola unità su cui si esercita la selezione naturale e l'individuo come il livello su cui avviene l'adattamento, gli esempi di altruismo vengono spiegati esclusivamente in termini di autointeresse. Secondo George C. Williams i geni sono la fondamentale unità di selezione perché hanno la durata (sono virtualmente eterni) che gli individui non hanno. Con Dawkins, successivamente, il gene diventa egoista e gli individui diventano veicoli robot controllati dai geni mentre l'altruismo non sarebbe nient'altro che un trucco dell'egoismo dei geni per assicurarsi la loro diffusione e sopravvivenza. La visione della selezione genica come unico livello di selezione è stata utile, a suo tempo, per mettere a fuoco alcuni punti di vista della genetica, ma si scontra con molti problemi teorici (ad esempio la differenza tra replicatori e interattori, tra genotipo e fenotipo) e osservazionali (ad esempio il fatto, verificato dalla genetica di popolazione, che il gene favorito dalla selezione tra i gruppi rimpiazza il gene favorito dalla selezione all'interno del gruppo elevando la fitness media della popolazione [v. fig. 1]; la teoria dell'altruismo parentale inoltre lascia aperto il problema decisivo: dato che né gli insetti sociali né l'uomo possono vedere direttamente il dna di un altro, cos'è che fa sì che i geni riconoscano il grado di parentela genica degli interattori?). La teoria della selezione parentale (e del «fenotipo esteso», Dawkins, 1982) sembra aver trovato sul piano empirico alcune conferme, sia tra gli insetti sociali sia tra i primati, ma in realtà la regola di Hamilton fornisce solo le condizioni «formali» perché l'altruismo parentale possa introdursi e consolidarsi in un mondo di defezionisti. Proprio per la sua semplicità e flessibilità formale la regola di Hamilton è diventata il modello per la formalizzazione di altre regole in grado di promuovere la cooperazione (Nowak, 2006). Nella realtà tuttavia le cose sono molto più complicate. I parenti, ad esempio in presenza di risorse locali scarse, possono essere anche competitori e giungere a una lotta fra parenti vicini riducendo o anche annullando l'effetto della parentela nel promuovere l'altruismo. L'immagine della natura umana prospettata dal primo neodarwinismo non è solo sconfortante ma anche paradossale10 e soprattutto miope dato che in ogni caso non riesce a spiegare con la condivisione genica i numerosissimi casi di altruismo non parentale. 5.2. La reciprocità e l'egoismo dei gruppi L'idea che negli animali, prima che negli uomini, potesse essere sviluppato un istinto di «reciprocità» e che questo istinto spiegasse l'altruismo non parentale è stata proposta da Robert L. Trivers (1971) al seguito di numerose osservazioni sul mutualismo degli animali. La reciprocità, l'andirivieni di qualcosa da X verso Y e viceversa, che sino allora era stata considerata da una lunga tradizione,11 come la regola caratteristica delle società umane, fondamento della giustizia e quindi della pace sociale, diviene un istinto ereditato dai nostri antenati animali e quindi una specie di legge di natura. Nel modello messo a punto da Trivers l'evoluzione genetica dell'altruismo reciproco avviene sulla base di un mutuo vantaggio e sul relativamente rapido riequilibrio del rapporto, attraverso il ricambio del beneficio.12 Un altruista reciproco accetta costi immediati a fronte di un beneficio futuro,13 ma perché questo avvenga è necessario che gli individui siano nelle condizioni di incontrarsi e interagire relativamente di frequente. L'altruismo reciproco si può evolvere più facilmente quindi in specie che hanno vite abbastanza lunghe, buona memoria, e una popolazione sufficientemente stabile nella quale due individui hanno probabilità di incontrarsi più volte e di ricordare il comportamento passato, tutte condizioni che spiegherebbero la grande diffusione di questa regola nella specie umana. Un comportamento altruista è vantaggioso per colui che lo pratica se è diretto verso individui che in caso di necessità sono disposti a ricambiare. Ma, data l'ipotesi iniziale di una popolazione formata da soli egoisti (v. fig. 1) e dato che il beneficio futuro è connesso al successivo comportamento del beneficiato su cui l'agente non ha il controllo, cos'è che fa sì che la regola della reciprocità venga rispettata? Attorno a questa domanda John Maynard Smith (1982) ha sviluppato, a partire dagli anni settanta del Novecento, la teoria evoluzionistica dei giochi che ha consentito di portare notevoli conoscenze sulle condizioni formali relative al sorgere e consolidarsi della cooperazione14 umana. Molte di queste sono state illustrate attraverso il celebre «Dilemma del prigioniero» a due persone la cui strategia vincente, quando sia giocato una sola volta (nel qual caso non può esservi reciprocità), rispetta il principio della selezione naturale, è cioè sempre a favore del defezionista (D) e a svantaggio del cooperatore (C), secondo una matrice del guadagno di tipo 2 × 2: C D C (b-c) -c D b 0 che nella situazione standard vede ovviamente (b-c) <b e -c<0. Se però la situazione descritta dal dilemma del prigioniero si ripete più volte con gli stessi attori allora la strategia che risulta vincente, come hanno dimostrato Axelrod e Hamilton (1981) e Axerold (1984, 1997) con due celebri tornei, è quella fornita dal semplice algoritmo del «colpo su colpo», (tit-for-tat, Tft), cioè quella di ripetere la stessa mossa fatta in precedenza dall'avversario: cooperare se coopera, defezionare se defeziona, che è caratterizzata dalla massima reciprocità diretta. La semplicità e la robustezza della strategia TFT ha per un po'di tempo messo in ombra i suoi due limiti principali: il problema della prima mossa e la possibilità dell'errore. Il presupposto di TFT è infatti la disponibilità a cooperare per cui essa è vincente se ha di fronte altre strategie cooperative. Molto più complicata è, ad esempio, l'insorgenza e la stabilizzazione di una strategia di cooperazione quando la prima mossa di un avversario si basa sulla strategia del «defeziona sempre» (always defect, ALLD). In questo caso l'applicazione rigida di TFT comporterebbe una risposta defezionista innescando così la impossibilità dell'insorgenza della cooperazione. Per risolvere questo problema sono state avanzate diverse proposte. Se ad esempio all'interno di una popolazione sufficientemente ampia un individuo può scegliere con chi giocare (ad esempio solo con cooperatori), oppure se è libero di scegliere caso per caso se giocare o non giocare, allora qualche livello di cooperazione può insorgere; un'altra proposta, forse non meno interessante, è rappresentata dal modello «barbe verdi» nel quale i cooperatori si riconoscono fra loro attraverso un'etichetta arbitraria (come un tratto del volto, l'odore, ecc.; questo riporterebbe a una specie di selezione di parentela, ma se li riconoscessero anche gli altri sarebbero destinati a essere sfruttati e a perdere). Infine un altro meccanismo in grado di promuovere il comportamento reciproco può essere costituito dalla punizione dei defezionisti (ma solo una volta che la reciprocità sia già stata accolta, istintivamente o no, come regola: la punizione non può avvenire per una regola che non c'è ancora). Ma vi è un altruismo specificamente (di specie) umano? Il che potrebbe voler dire: vi è una moralità specificamente umana? Le risposte a questa domanda non sono semplici. In un lungo saggio sull'altruismo umano, Ernst Fehr e Urs Fischbacher (2005) sostengono che le società umane rappresentano una vistosa anomalia nel complesso del mondo animale: esse sono attualmente basate su una articolata divisione del lavoro e su una cooperazione a larga scala di gruppi di individui geneticamente non correlati. Per contrasto gran parte delle specie animali mostrano una ridottissima divisione del lavoro e la cooperazione è limitata a piccoli gruppi. Anche nelle altre società di primati che con noi condividono gli antenati, la cooperazione è incomparabilmente meno sviluppata che negli umani. Perché gli uomini sono così spettacolarmente unici rispetto a tutti gli altri animali? La risposta è proprio che vi sono forme di «altruismo» unicamente umane. L'altruismo umano va ben oltre ciò che è stato osservato nel mondo animale dove l'altruismo e la cooperazione sono strettamente limitati al gruppo parentale. Ad esempio non sembrano esservi casi, nel mondo animale nei quali si possa riconoscere che la cooperazione è motivata dalla costruzione di una reputazione personale (che nel mondo umano è una delle motivazioni prevalenti). L'altruismo umano sembra avere dei limiti che derivano essenzialmente dai costi degli atti altruistici, dalla competizione tra gli individui e dai confini dei gruppi. La maggior parte dei comportamenti altruistici umani non rientrano nel modello della reciprocità diretta: tra gli uomini spesso le relazioni sono asimmetriche e fugaci. È il caso, ad esempio, dell'elemosina a un povero: i poveri non sono in grado, per definizione, di essere reciproci anche se spesso sono capaci di essere grati. Oppure è il caso delle donazioni offerte a sventurati sconosciuti colpiti da calamità naturali come terremoti o inondazioni in qualche angolo sperduto del mondo. Cos'è che sostiene questi comportamenti altruistici non direttamente reciproci? Secondo molti autori la moneta che alimenta la reciprocità indiretta è proprio la reputazione. Aiutare qualcuno promuove una buona reputazione che sarà ricompensata da altri. Sebbene forme semplici di reciprocità indiretta possano essere riscontrate anche presso gli animali (Warneken et al., 2007) soltanto gli uomini sembrano pienamente coinvolti nella piena complessità del gioco. La reciprocità indiretta comporta fondamentali livelli di conoscenza. Non soltanto dobbiamo ricordare le nostre interazioni, ma dobbiamo anche monitorare la rete sociale del gruppo che varia continuamente. Il linguaggio sintatticamente articolato sembra necessario per guadagnare le informazioni e diffondere il gossip associato con la reciprocità indiretta e per esprimere, attraverso la lode e il biasimo, i giudizi morali (Alexander, 1987) e le norme sociali. Se l'altruismo parentale sembra determinato dall'egoismo dei geni, quello reciproco sembra determinato dall'egoismo dei gruppi che, attraverso il sacrificio dei singoli, tendono a incrementare la loro fitness media (v. fig. 1). In tutti questi contesti i termini altruismo e cooperazione hanno assunto significati tecnico-operativi che escludono dal loro orizzonte qualunque valutazione morale. L'atto altruistico viene sempre considerato connesso all'autointeresse dei singoli, o dei gruppi. Vengono eliminate le caratteristiche che connotano l'altruismo come atto morale, la gratuità da un lato e la gratitudine dall'altro, ed escono così dall'orizzonte della moralità, fenomeni come il dono, la solidarietà, il volontariato, gli aiuti internazionali, la grazia, ecc. L'immagine della natura umana che ne viene fuori è però l'immagine piatta, unidimensionale dell'Homo oeconomicus, una definizione univocamente centrata su quella razionalità europea che, per motivi storici, è stata fatta coincidere, almeno dal Rinascimento in poi, con la massimizzazione del profitto riproduttivo ed economico. È sostanzialmente su questa immagine (anche se nelle versioni aggiornate dell'«egoista razionale» o del «massimizzatore vincolato» di Gauthier, 1986) che si fonda la strategia darwinista di formazione delle norme sociali e della morale. Estendere il principio di reciprocità agli animali ha fatto sì che questa immagine acquistasse la parvenza di una legge naturale, ma in realtà Smith e Darwin considerano naturale l'immagine dell'uomo prodotta dalla borghesia capitalista e che loro stessi hanno contribuito a costruire. Marcel Mauss nel suo Saggio sul dono (1965: 283-284) nota che se vi è nell'uomo un egoismo calcolatore esso non fa parte di una natura umana, ma è un portato della storia e della organizzazione sociale: «sono state le nostre società occidentali a fare, assai di recente, dell'uomo un "animale economico"... L'uomo è stato per lunghissimo tempo diverso e solo da poco è diventato una macchina, anzi una macchina calcolatrice».15 L'individuazione delle condizioni formali per il sorgere dell'altruismo parentale e dell'altruismo reciproco, effettuata dal laboratorio virtuale della teoria dei giochi e delle decisioni economiche, non dice molto in realtà a riguardo di come effettivamente sono andate le cose dal punto di vista dell'evoluzione, ma ha messo in luce due elementi di grande interesse. Il primo è che il punto di partenza fornito dallo scenario hobbesiano-malthusiano-darwiniano di un mondo abitato da soli competitori è uno scenario «mitico»: questo scenario infatti dovrebbe essere retto da una popolazione perfettamente mista (v. fig. 1), nella quale cioè ogni individuo è in un rapporto univoco con ogni altro. Ma in natura, o almeno tra gli animali superiori, non si conoscono popolazioni così composte, dato che tutti gli individui sono collocati all'interno di relazioni e gerarchie plurime, famiglia, gruppo parentale, vicinato, ecc. In altre parole, l'hobbesiana guerra di tutti contro tutti non è mai esistita, come, forse, non è mai esistita la pace di tutti con tutti. Il secondo punto, ancora più rilevantemente fecondo, è che gli studi sull'altruismo evidenziano che nella selezione naturale, accanto al principio darwiniano di «competizione», opera un altro principio, non rilevato da Darwin, un principio generale di «cooperazione». Infatti si possono osservare forme di cooperazione a tutti i livelli biologici: i geni cooperano nei genomi, i cromosomi cooperano nelle cellule eucariotiche, le cellule negli organismi multicellulari, gli individui cooperano nelle colonie di animali sociali e, tra gli animali superiori, gli uomini sono forse il maggior esempio di successo evolutivo dovuto alla cooperazione. Secondo Maynard Smith (Maynard Smith J., Szathmary E., 1995) è proprio la cooperazione sotto diverse forme che ha consentito le otto transizioni biologiche principali e permesso l'emergenza di caratteri a livelli di complessità superiore. 6. Il senso morale Ciò che maggiormente distingue l'uomo dagli altri animali, è, secondo Darwin, il suo senso morale. Che cosa Darwin intenda per «senso morale» non è però facile da chiarire. Nelle prime righe del quarto capitolo dell' Origine dell'uomo esso viene presentato come «coscienza» o «senso del dovere»: «esso è riassunto in quella breve ma imperiosa parola ought (dovere) così piena di alto significato»; e in uno dei non molti slanci retorici prosegue citando la Metafisica dei costumi di Kant «Dovere! ... pensiero straordinario». A prima vista il senso morale è un comando interiore che fa sì che un uomo, senza esitare, rischi la vita per i suoi compagni, oppure, dopo opportuna riflessione (spettatore interno), decida di sacrificare la sua vita per una grande causa. Questa concezione ha fatto accostare il senso morale di Darwin a un imperativo categorico che la selezione naturale avrebbe consolidato per limitare i desideri egoistici individuali e favorire la promozione della cooperazione sociale, dato che cooperare con coloro che condividono un pool genico o che possono reciprocare favorisce la fitness riproduttiva. Proprio a partire da queste considerazioni l'etica darwiniana è stata posta da Michael Ruse (1986) all'interno del cosiddetto «scetticismo morale» dato che il senso del dovere non sarebbe nient'altro che un trucco della selezione naturale per farci cooperare. Lo scetticismo morale, come illustrato ad esempio da John L. Mackie (1977), sostiene che le nostre affermazioni su specifiche proprietà del mondo, come i valori e le qualità etiche, sono necessariamente tutte false in quanto tali proprietà non sono proprietà reali ma solo psicologiche. La confusione tra proprietà reali e sentimenti psicologici avrebbe portato il senso comune e anche la riflessione di molti filosofi a ritenere che esistano valori morali reali. Ma si tratterebbe di un errore, dato che in realtà non esistono imperativi categorici, non c'è niente che noi «dobbiamo» fare e i nostri giudizi morali sono ontologicamente non validi. Secondo Mackie la moralità non è da scoprire, ma da inventare: siamo noi che dobbiamo decidere se e quali orientamenti morali adottare (per un primo approccio al pensiero di Mackie cfr. De Mori, 2005; per gli sviluppi successivi cfr. Joyce, Kirchin, 2007). Nei fatti però anche la teoria dell'errore morale si scontra con le stesse difficoltà logiche che minano alla base tutte le teorie metaetiche scettiche e relativiste: un pensiero sostanzialmente sterile, incapace di giudicare, pirronianamente afasico e indifferente, spesso venato di psicologismo, fondato sul paradosso per cui si è scettici su tutto eccetto il proprio scetticismo. In realtà l'etica darwiniana che sostiene che la moralità è parte della natura umana della quale, in qualche direzione, costituisce una ottimizzazione oggettiva; che questa moralità è autoritativa e normativa; che tutte le società umane possiedono, virtualmente, una moralità alla quale sembra quindi impossibile poter sfuggire; e che, infine, i nostri giudizi morali hanno rilevanti effetti pratici, difficilmente si può collocare all'interno di teorie metaetiche scettiche. Secondo Darwin il senso morale è il risultato evolutivo della combinazione di due elementi: gli istinti sociali e le peculiari facoltà cognitive dell'uomo. L'uomo è l'unico ente morale sulla terra perché è l'unico vivente nel quale lo sviluppo delle capacità cognitive ha raggiunto un punto così alto da permettergli di comparare le azioni passate con quelle presenti e darne una valutazione nei termini di giusto o sbagliato e quindi a sentirsi obbligato a seguire una certa condotta.16 Soltanto oltre una certa soglia di sviluppo delle facoltà cognitive si ha l'emergenza del senso morale, una nuova facoltà o una facoltà del giudizio esclusivamente umana. In Darwin tuttavia il rapporto tra istinti sociali e ragione nella costruzione del senso morale lascia aperta la porta a diverse interpretazioni. In effetti le riflessioni postdarwiniane sulla moralità si sono sviluppate tradizionalmente lungo tre assi principali: 1. quello degli istinti sociali come fonte del senso morale; 2. quello delle precondizioni cognitive che consentono la valutazione morale; 3. quello della selezione dei gruppi. Tutte queste riflessioni hanno trovato il loro punto di partenza e la trattazione darwiniana più esplicita soprattutto nel quarto capitolo della prima parte dell'Origine dell'uomo, ma sono molto lontane dal confluire in una concezione antropologico-morale unitaria rispecchiando quelle che sono le difficoltà incontrate da Darwin stesso: l'impossibilità di una sintesi tra una visione monista e una dualista dell'uomo. 7. La grammatica e l'incesto Alla genesi dei giudizi morali (secondo la dicotomia giusto/sbagliato), ha dedicato un ampio studio Marc D. Hauser (2006). Secondo Hauser il senso morale dell'uomo va considerato alla stregua di una vera e propria facoltà al pari di quella linguistica e matematica. Si tratterebbe di «una capacità innata di tutte le menti umane che inconsciamente e automaticamente generano giudizi su ciò che è giusto o sbagliato» sviluppatasi con l'evoluzione e costituita da una serie di circuiti neurali. Questa facoltà opererebbe per gran parte come una «grammatica morale», alla stregua di come opera la grammatica universale di Chomsky. Come la grammatica generativa di Chomsky opera a livello inconscio dettando le regole che generano la sintassi e il vocabolario, senza alcun linguaggio particolare, così la «grammatica morale» detta le regole per la formazione dei giudizi morali senza una lista di norme specifiche che vengono fornite dalle singole culture. Tuttavia queste regole sono così stringenti che un certo numero di norme sono praticamente universali: la regola aurea, non uccidere, evita l'adulterio e l'incesto, non tradire, non rubare, aiuta chi soffre, ecc. .17 Ma in concreto le diverse culture possono assegnare pesi differenti ai singoli elementi della grammatica morale e quindi mostrare una pluralità di valori morali. Il fatto che la grammatica morale che valuta le cause e le conseguenze delle azioni nostre e di quelle degli altri sia inconscia, rende un'illusione il paradigma dominante secondo il quale noi costruiamo la morale con la ragione a partire da principi espliciti. Naturalmente anche la nostra convinzione di poter decidere con libertà, il libero arbitrio, è un'illusione (ma Hauser non spiega come mai, se il comportamento morale è istintivo, una tale convinzione è così universalmente diffusa) dato che è sufficiente seguire le regole innate modellate dalla selezione di gruppo. Per dimostrare la sua ipotesi Hauser ricorre a testimonianze ricavate da osservazioni scientifiche e da ingegnosi esperimenti mentali, ritenendo che le questioni del moralmente giusto/sbagliato siano state per troppo tempo in mano ai filosofi morali o ai moralisti e sia giunta l'ora che esse vadano in quelle dei biologi evoluzionisti. L'etica deve diventare una branca della psicologia umana. In questa direzione un certo sviluppo hanno avuto le ricerche relative all'evitazione dell'incesto. Gli studi sulla proibizione dell'incesto hanno visto confrontarsi, sin dalla fine dell'Ottocento, due posizioni: quella di Edward Westermarck secondo il quale la proibizione dell'incesto riflette una ripugnanza innata nell'uomo all'accoppiamento tra membri dello stesso gruppo domestico; e quella solitamente attribuita a Edward B. Tylor, e adottata poi da una schiera di antropologi culturali, che collega l'incesto all'esogamia sintetizzata nella formula «o sposarsi fuori della famiglia o venire uccisi fuori della famiglia». Secondo la prima ipotesi l'evitazione dell'incesto sarebbe stata favorita dalla selezione naturale per limitare la diffusione di geni deleteri dovuta alla fecondazione tra membri della stessa famiglia; per la seconda invece la proibizione dell'incesto sarebbe una regola sociale volta a favorire la cooperazione fra i gruppi: nel primo caso si potrebbe considerare l'evitazione dell'incesto come una forma molto sofisticata di altruismo parentale (che si potrebbe esprimere con la regola: la diffusione del proprio pool genico non può avvenire se questa pratica mette a rischio la fitness complessiva dei geni condivisi); nel secondo invece la proibizione dell'incesto costituirebbe la premessa dell'altruismo reciproco umano, o, come propone LéviStrauss, la cerniera tra natura e cultura. Il punto centrale di questo dibattito è costituito dal problema (lasciato aperto dall'altruismo parentale, v. sopra) del sistema di «riconoscimento della parentela». Per alcuni sociobiologi il problema di riconoscere i parenti è stato risolto da parte di alcuni animali attraverso una serie di «indicatori indiretti» come l'odore e la vicinanza territoriale. Ma, nel caso dell'uomo, vi sono ancora all'opera indicatori analoghi e se sì quale peso hanno, oppure il riconoscimento dei parenti avviene esclusivamente sulla base della terminologia di parentela e quindi sul piano culturale? Rispolverando la vecchia idea di Westermarck, Debra Lieberman et al. (2007), avanzano l'ipotesi che il cervello umano abbia elaborato evolutivamente un sistema che riconosce la parentela (kin detection system), un circuito neurale discreto non conscio -- un indice di parentela che ricalca quello di Hamilton -- che alimenterebbe sia il disgusto e la riprovazione morale per l'incesto sia l'altruismo verso i famigliari. Secondo gli autori il circuito neurale che riconosce il grado di parentela determinerebbe una specie di imprinting tra fratelli attraverso due indizi indiretti e indipendenti (ma non si escludono altre tracce): 1. l'associazione materna perinatale, ovvero il fatto che i figli maggiori possono osservare le cure materne dedicate ai figli minori che quindi inconsciamente vengono etichettati come fratelli; 2. la durata della coresidenza durante il periodo dell'investimento parentale (convenzionalmente da 0 a 18 anni) che fa sì che i figli minori riconoscano i maggiori come fratelli. Queste informazioni sarebbero quindi inviate a due diversi sistemi motivazionali: quello dell'avversione/attrazione sessuale e quello dell'altruismo verso i famigliari. Quando il sistema di riconoscimento della parentela ha etichettato (giusto o sbagliato che sia) una persona come fratello/sorella, allora, da un lato, il pensiero di fare sesso con quella persona solleverebbe disgusto, e dall'altro solleciterebbe invece l'altruismo. L'ipotesi di una qualche relazione tra l'altruismo parentale e la proibizione dell'incesto ha un certo fascino. In fondo la diffusione del pool genico attraverso i parenti trova un limite proprio nell'evitazione dell'incesto. Ovviamente non si può escludere che nell'architettura neurocognitiva umana esista un circuito neurale specializzato di questo genere, ma il problema consiste proprio nel valutare se quel circuito e la componente genica che lo sostiene è ancora la causa dell'evitazione dell'incesto e dei comportamenti altruistici verso i parenti o se non sia stato reso inutile nell'uomo (come ad esempio l'odore) dalla evoluzione di un sistema di segnalazione molto più efficace come quello linguistico che, oltre a classificare in maniera più precisa e articolata i parenti, è in grado di indurre il disgusto e di elaborare le regole per la sua socializzazione. In realtà il tentativo di ridurre i giudizi morali a una grammatica neurologica o a tratti psicologici fondati sulla biologia è una variante poco più sofisticata del vecchio determinismo genico. 8. «Sono» quindi non «devo» I tentativi di ridurre la genesi dei giudizi morali alle componenti neurologiche riaprono la porta a una vasta famiglia di problemi tutti riconducibili all'idea che la morale è un fatto naturale e che quindi viene meno la differenza tra «fatto» e «valore», tra «essere» e «dover essere». Il primo a rendersi conto di questo tipo di problemi sembra essere stato proprio Hume. Nella sezione I della parte I del III libro di A Treatise of Human Nature pubblicato a Londra nel 1739-40, Hume scriveva: Sono sorpreso nel constatare che invece dell'usuale copula delle proposizioni «è» o «non è» non ho incontrato alcuna proposizione che non sia connessa da «deve» o «non deve». Si tratta di un cambiamento impercettibile, ma tuttavia di estrema rilevanza. Dato che questo «deve» o «non deve» esprime una qualche relazione o affermazione nuova è necessario che essa venga osservata e spiegata. E nello stesso tempo che venga fornita una ragione poiché sembra del tutto inconcepibile che questa nuova relazione possa essere dedotta da altre che sono completamente differenti da essa. Le interpretazioni di questo paragrafo di Hume, conosciuto come «il divieto is-ought», hanno dato vita ad accesi dibattiti e sono, ancora oggi, piuttosto divergenti fra loro.18 Esso sembra comunque sostenere la scorrettezza logico-formale di tutte quelle teorie che pretendono di ricavare affermazioni relative ai doveri e ai valori (quelle connesse dal verbo «deve») da affermazioni relative ai fatti (quelle caratterizzate dalla copula «è»). Assegnare i fatti e i valori allo stesso livello del discorso non è possibile dato che «è» e «deve» esprimono due relazioni radicalmente diverse; e d'altra parte se si pone «è» e «deve» su due diversi livelli del discorso sembra impossibile derivare l'uno dall'altro e si introduce così una dicotomia insanabile. La legge di Hume non sembra vietare di trattare i valori morali come fatti naturali. Lo stesso Hume nella Ricerca sui principi della morale, benché si sforzi di operare una sintesi tra la ragione (che presiede ai valori) e il sentimento (che è un fatto naturale), propende in maniera netta, alla fine, per assegnare le distinzioni della morale al sentimento, più originario nella natura umana. Ma forse è consapevole che facendo diventare i valori morali dei fatti naturali si elimina il punto di vista valutante (un tema che sarà ripreso più tardi ad esempio da Adam Smith con la sua proposta di uno «spettatore interno»), cioè la loro connotazione di «moralità», che è connessa al «dovere». Il paragrafo is-ought di Hume è stato collegato da alcuni autori al problema, che ha percorso tutto il Novecento, della fallacia naturalistica. Quello della «fallacia naturalistica» è il dibattito teorico più rilevante con il quale lo studio della morale da parte dell'evoluzionismo si è trovato (e in parte ancora si trova) a dover fare i conti. Avviato dalle reazioni antipsicologiste di Gottlob Frege contro il primo Husserl e contro John Stuart Mill («è qui fatale il doppio senso della parola "legge". Nel primo essa annuncia ciò che è; nel secondo, ciò che deve essere», Frege, 1965: 485),19 il problema della fallacia naturalistica ha trovato sistemazione nella morale dei Principia Ethica (1903) di George Moore. Secondo Moore ogni tentativo di definire il «bene» in termini naturalistici è destinato a fallire dato che il bene in quanto tale è indefinibile: Il bene [...] è incapace di ogni definizione [...] «Bene» non ha definizione in quanto è semplice e non ha parti. Esso è uno degli innumerevoli oggetti del pensiero che di per sé sono incapaci di definizione, giacché essi sono i termini ultimi rispetto ai quali ciò che è capace di definizione deve essere definito» (I, 9-10). In quanto oggetto del pensiero semplice e senza parti la nozione di «bene» è autoreferenziale. Se vogliamo dare una definizione di «bene» noi dobbiamo anche dire se quella definizione è buona. Noi possiamo trovare molte cose «buone», come possiamo trovare molte cose colorate, profumate, saporite, ecc.; ora mentre il colore, l'odore e il sapore sono tra le proprietà di quelle cose, il «buono» non è tra le proprietà di quelle cose. «Per essere definibile "buono" dovrebbe essere complesso e così si dovrebbe dire di ogni definiens se è buono. Dopo tutto una definizione non dovrebbe essere semplicemente analitica, essa dovrebbe dare informazioni sul definiendum; quindi qualunque definizione venga data deve essere sempre possibile dire, con significato, del complesso così definito, se esso stesso è buono» (Hill, 1976, 99, cit. in Teehan, diCarlo, 2004). Nel quarto capitolo dei Principia Moore afferma che ogni definizione di bene, sia di tipo naturalistico sia di tipo metafisico commette una fallacia naturalistica: i naturalisti perché credono che l'etica possa essere spiegata in termini di proprietà naturali, i metafisici perché credono il «bene» un oggetto soprasensibile effettivamente esistente. Per Moore, il bene è un oggetto del pensiero, oggettivo anche se non esistente (oggettivismo etico), un valore soprasensibile, che può essere conosciuto soltanto attraverso l'intuizione e non attraverso le scienze empiriche. Quindi le scienze empiriche (come già sosteneva Socrate nel Fedone 96a-97b), non solo non sembrano in grado di aiutarci a definire ciò che è bene e ciò che è male, ma addirittura possono costituire un serio ostacolo alla sua conoscenza. Non è il caso qui di addentrarci nei dibattiti ancora in corso tra chi ritiene che la fallacia naturalistica sia un falso problema (e gli oppone una fallacia antinaturalistica) e chi invece lo considera ancora l'insorpassabile Rubicone che proibisce alle scienze naturali di avventurarsi nel campo della morale. E forse il punto fondamentale evidenziato dalla fallacia naturalistica non è neanche quello che normalmente più si paventa relativo all'autonomia dell'etica. Il problema principale è che seguire l'equilibrio della natura, anche concesso che la nostra informazione sia affidabile (e nel caso dei circuiti neurali la cosa è ampiamente ipotetica), equivale letteralmente a non decidere nulla. Il processo di psicologizzazione dell'etica consiste, nei suoi termini generali, in una serie di riduzioni eliminative che tolgono all'etica la normatività e cancellano l'idea che l'uomo possa decidere razionalmente e liberamente. Da riflessione sul modo in cui la vita dovrebbe essere vissuta, su ciò che uomini e donne dovrebbero essere e fare, l'etica diventa così una semplice descrizione di sentimenti e comportamenti che non hanno bisogno di essere fondati o giustificati, ma soltanto spiegati. Questa prospettiva, il cui limite principale è costituito dalla difficoltà di dare un solido fondamento alla distinzione tra comportamenti abituali e azioni morali, si dimostra anche incapace di dare indicazioni riguardo a ciò che sarebbe giusto o sbagliato fare quando, ad esempio, siamo messi di fronte a problemi morali nuovi come quelli suscitati dalla bioetica, dall'etica ambientale o dalla globalizzazione. Se l'etica viene ridotta a etologia o a psicologia è perché alcuni evoluzionisti percepiscono la morale più come un problema imbarazzante che come una risorsa squisitamente umana. 9. Capacità morale e giudizi morali Il fatto è che per Darwin l'etica non è intuizionistica. Il giudizio morale non è un'emozione o un sentimento per cui l'individuo intuisce ciò che è giusto o sbagliato; esso è piuttosto, come in Kant, il frutto della facoltà della ragione. Secondo Giovanni Boniolo (2006) è possibile riconoscere, in Darwin, due teorie dell'origine della morale: la prima è una teoria della genesi della «capacità morale», cioè delle condizioni biologico-evolutive che mettono l'uomo in grado di esprimere valutazioni morali sui comportamenti e di adeguarsi a queste valutazioni; la seconda è una teoria della genesi dei diversi giudizi morali. Ora, secondo Boniolo, le due teorie darwiniane sull'origine della morale, pur essendo entrambe presenti in Darwin, devono essere tenute separate, proprio perché, mentre i prerequisiti della «capacità morale» (gli istinti sociali e le strutture cerebromentali specie-specifiche dell'uomo) dipendono completamente dall'evoluzione biologica, i diversi giudizi morali nascono nell'ambito dei rapporti sociali e culturali e non dipendono direttamente dal meccanismo fondamentale darwiniano. Da qui l'osservazione che «i tentativi di analizzare la genesi o lo status delle teorie morali comparando il comportamento non-umano con quello umano vanno guardati con sospetto».20 Inoltre la «capacità morale», non essendo intrinsecamente morale, poiché riceve questa qualifica solo a posteriori dato che moralità e immoralità sono proprietà che dipendono dal giudizio, non si presta a spiegazioni dell'etica di tipo fondazionalista o essenzialista. La distinzione di Boniolo, che reintroduce la dicotomia tra innato e acquisito, secondo la quale la sola capacità morale costituita dal binomio «istinti sociali-facoltà cognitive» si trasmette ereditariamente, mentre le norme positive sarebbero fornite dagli interessi delle singole culture, ricolloca la morale darwiniana su una linea antropologica duale. Questa posizione sembra in grado di dare una risposta a due osservazioni: 1. che la capacità morale è diffusa presso tutti i gruppi umani; 2. che le norme morali variano da un gruppo all'altro. Molta più difficoltà mostra però nel rendere conto dei cosiddetti «universali morali», ovvero del fatto che vi sono alcune intuizioni morali, tradotte in norme, che sono pressoché comuni a tutti i gruppi umani. Venendo a mancare qualunque rapporto tra supporto biologico e norme, la nozione darwiniana di «senso morale» rischia di essere svuotata di ogni contenuto e resa una specie di lavagna vuota, nella quale i singoli gruppi umani scrivono volta a volta le loro regole del gioco. Ma vi sono molti dubbi nel considerare le strutture cerebro-mentali dell'uomo come neutre e vuote, dato che non mancano osservazioni che portano a pensare che l'intelligenza umana è orientata in senso sociale (o, se si vuole, machiavellico). Il problema consiste proprio nell'elaborare una visione unitaria che integri nell'uomo gli aspetti biologici e quelli socio-culturali. Non a caso l'autore mostra serie difficoltà là dove tenta di sfuggire, aggrappandosi a distinzioni che creano più problemi di quanti ne risolvano, alla deriva relativista. In realtà secondo Darwin nel senso morale risulterebbero selezionati e consolidati alcuni giudizi morali derivanti dalla natura di animale sociale dell'uomo. I contenuti sui quali vertono i primitivi giudizi «morali» promossi dagli istinti sociali si condenserebbero nella regola aurea nella sua versione più semplice: «ama i tuoi amici e combatti i tuoi nemici». Questi giudizi sarebbero stati formulati inizialmente dagli altri componenti del gruppo attraverso i meccanismi dell'approvazione e del biasimo. Ma a mano a mano che l'uso, l'istruzione e la riflessione diventano più mature l'uomo non accetta più la lode e il biasimo dei suoi simili come unica guida, ma sono le sue convinzioni abituali, controllate dalla ragione a dargli la legge più salda. È soltanto con l'aiuto della ragione, dell'istruzione e dell'amore o del timore di Dio che l'uomo ha potuto, ad esempio, superare la legge del taglione e formulare una norma più elevata come quella che dice «amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano» (Lc, 6, 27). In una nota dedicata all'odio Darwin osserva: Né è probabile che la coscienza primitiva avrebbe rimproverato un uomo per aver offeso un suo nemico: piuttosto lo avrebbe condannato se non si fosse vendicato. Restituire bene per male, amare il proprio nemico, è un'altezza morale cui si può dubitare che gli istinti sociali da soli ci avrebbero mai portati. È stato necessario che questi istinti, insieme alla simpatia, fossero coltivati ed estesi con l'aiuto della ragione, dell'istruzione e l'amore o il timore di Dio, prima che si concepisse e seguisse una legge così aurea (O. U. 101). In altre parole la morale dell'uomo per Darwin è diventata tanto elevata: a) perché attraverso la ragione è andata oltre i giudizi di valore suggeriti dagli istinti sociali; b) non si è lasciata condizionare dall'opinione pubblica. Soltanto quando la sua ragione diviene talmente forte da controllare gli istinti e da dare una corretta valutazione del giudizio dei suoi compagni, l'uomo si sentirà spinto a certe linee di condotta che prescindono da piaceri o da pene transitorie. Soltanto allora la sua coscienza diviene giudice e guida suprema della sua condotta ed egli può affermare con Kant: «Io non violerò nella mia persona la dignità umana» (99). Dignità che consiste nella capacità di autonomia nelle decisioni morali, diventata, senza suo merito, il carattere specifico (di specie) della natura umana. 10. La natura del branco e oltre Scriveva, ormai un po'di tempo fa, Richard D. Alexander, uno dei più lucidi e rigorosi studiosi evoluzionisti: I biologi e gli antropologi di formazione biologica [...] ritengono come dato che tutte le forme viventi sono venute all'esistenza attraverso un'evoluzione organica guidata in primo luogo dalla selezione naturale [...] La selezione naturale implica vantaggi riproduttivi. Ma vi sono interi settori dell'attività umana che sembrano non avere niente a che fare con la riproduzione e che nessuno è stato disponibile ad affrontare in tali termini. Come si può spiegare l'arte, la musica, l'opera, la letteratura, lo humor, la politica, la scienza o la religione, usando argomenti dall'evoluzione biologica? Viceversa, perché dovremmo prendere sul serio l'evoluzione, tentando di comprendere noi stessi, se tali importanti attività sembrano impenetrabili alle sue indagini? (Alexander, 1990). Da notare che tra le condotte umane elencate da Alexander manca la morale. Forse non a caso, dato che l'autore tre anni prima di questo scritto aveva dato alle stampe un lungo saggio sulla biologia dei sistemi morali (Alexander, 1987) e quindi dava per scontato che il darwinismo non solo era la cornice più idonea, ma l'unica, entro la quale si potevano comprendere i comportamenti morali. Le descrizioni delle cause remote di alcuni comportamenti prosociali, o di un generico senso morale, come quello proposto dal darwinismo, sono in quanto tali degne di attenzione. Esse ci consentono di arrivare a una migliore comprensione del nostro passato, di quella che è stata la nostra storia naturale di uomini; da questo punto di vista il darwinismo è un impareggiabile fonte di conoscenza di noi stessi. Altra questione è se queste descrizioni siano rilevanti ai fini delle riflessioni etiche ovvero se permettono la distinzione tra comportamenti abituali e azioni morali, e se oltre a dare una descrizione biologica di ciò che noi facciamo o pensiamo che dovremmo fare, possono anche dare indicazioni riguardo a ciò che sarebbe giusto o sbagliato fare quando, ad esempio, siamo messi di fronte a problemi morali nuovi. All'inizio della sua trattazione della morale nel quarto capitolo dell'Origine dell'uomo Darwin cita Kant; nelle osservazioni conclusive dello stesso capitolo discute «il principio della massima felicità» di John Stuart Mill. Kant e Mill rappresentano gli alfieri dei due principali filoni delle filosofie morali contemporanee: a Kant fanno capo, in qualche misura tutte le etiche di carattere «deontologico», che si basano cioè sull'idea di «dovere»; a Mill tutte le etiche di carattere teleologico cioè orientate a perseguire dei fini. In Kant Darwin sembra, in realtà, cercare una semplice conferma della sua equiparazione del senso morale con il senso del dovere; invece nel principio utilitarista della massima felicità di Mill, Darwin trova un ostacolo alla sua teoria dell'origine della morale dagli istinti sociali. Dopo aver osservato che il principio proposto dall'utilitarismo è un criterio di valutazione e non un motivo di condotta (nessuno agisce avendo a mente la massima felicità per tutti), Darwin sostiene che gli istinti sociali non si sono sviluppati per la felicità generale della specie, ma per il bene comune, cioè per il bene delle singole comunità, dove per bene si deve intendere sostanzialmente la loro fitness riproduttiva. In realtà quella di Darwin non né un'etica deontologica (e meno che mai un'etica del dovere per il dovere) né un'etica dei fini. Entrambe queste etiche hanno l'obiettivo di dirci come «dovremmo» essere e che cosa «dovremmo» fare. Darwin invece ha lo scopo di illustrarci chi «siamo» e come ci comportiamo. Il sottinteso è che, una volta appreso chi siamo e che cosa facciamo, è anche possibile decidere che cosa «dobbiamo» fare. Ma il darwinismo fallisce proprio nel passaggio dall'«è» al «deve». La sua etica, strettamente connessa alla sua visione biologica, è un'etica che è sorta e si è sviluppata attraverso la selezione naturale solo perché è risultata «funzionale» alla competizione riproduttiva di piccole comunità. Secondo Darwin la natura umana che la selezione naturale ci ha consegnato è la natura del branco, della banda, della tribù; attorno a questa natura ha costruito un'etica coerente: quella della fedeltà ai compagni, dell'obbedienza al leader e della paura e della lotta al diverso. Ma la morale del branco, adatta ai piccoli gruppi sociali dei nostri antenati, sembra diventata un maladattamento, forse pericoloso, per le mega società del presente. Secondo Alexander (1990) estrapolata ai giorni nostri, la tendenza alla selezione dei gruppi porta a conclusioni piuttosto inquietanti quali la inevitabilità della competizione fra nazioni, la corsa internazionali agli armamenti, e il rischio di mutua estinzione e di scomparsa di civiltà. «Le idee discusse qui sembrano predire -- e forse richiedere -- proprio una tale tendenza». Questo processo, iniziato dalla cooperazione fra individui dello stesso gruppo, con la comparsa delle cure parentali, e dalla competizione fra gruppi diversi, evidenziato dal consolidarsi delle tendenze monogamiche nella linea umana, e accentuato dall'evoluzione del cervello e dell'intelligenza, sarebbe diventato ormai inarrestabile. Anche se non vi sarà un'aggressione su larga scala o un irreversibile danneggiamento dell'ambiente a causa della competizione sulle risorse (ma questi esiti sembrano sempre più probabili), il destino dell'uomo sembra quello di assistere a una continua corsa agli armamenti e alla scomparsa di interi gruppi umani. Questo perché gli uomini fanno i loro interessi cooperando all'interno dei gruppi, ma non all'interno di quell'unico gruppo che è l'umanità. L'onesta conoscenza di noi stessi esige, secondo Alexander, che si prenda atto di questa situazione creata dalla legge della selezione dei gruppi. D'altra parte, nota Alexander nel finale, «nessuna parte della teoria biologica ha mai legittimamente comportato che gli uomini non possano usare delle loro caratteristiche evolutive per darsi e raggiungere nuovi obiettivi che possono essere diversi -- o anche contrari -- alla loro storia di selezione naturale». Con lo sviluppo della ragione, aiutata dall'istruzione e dalla fede, l'evoluzione sembra aver consegnato all'uomo la capacità morale, uno strumento in grado di disegnare, se, come dice Berlin, accettiamo il rischio di usarlo, una nuova immagine della natura umana. Note 1. Per un primo approccio al tema dei conflitto dei valori e alla complessità delle decisioni etiche si può vedere Panizza, 2003. 2. Cfr., ad esempio, Changeux J. P., Ricoeur P., 2000. 3. La traduzione, eseguita direttamente dall'inglese, differisce leggermente da quella qui indicata. 4. Nonostante l'adozione di termini come amore, simpatia ecc., Darwin non è mai riuscito a integrare la visione hobbesiana con quella humeana ed è rimasto profondamente hobbesiano: la competizione viene solo spostata dal livello degli individui a quello dei gruppi. 5. Non è possibile, per motivi di spazio, addentrarsi nei dettagli tecnici del dibattito, ormai secolare, sull'unità e i livelli di selezione, anche se questo avrebbe potuto chiarire il senso di alcune affermazioni; rimandiamo alle oltre 1600 pagine di Gould (2003) che, a detta dello stesso autore, non sono altro che un lungo ragionamento, dichiaratamente partigiano, sui livelli di selezione per supportare la tesi a favore di una «selezione gerarchica» che comprenda geni, linee cellulari, organismi, demi, specie e cladi. 6. In particolare Larry Arnhart (1998) nel tentativo di accreditare un darwinismo di destra o conservatore, arruola, con un'operazione a dir poco spericolata, sia Aristotele sia san Tommaso nella schiera dei pre-darwiniani (o, se si preferisce, fa di Darwin un aristotelico o un realista) dato che le nozioni di uomo «animale politico» e di «legge naturale» fonderebbero l'etica direttamente sulla biologia. 7. Nel caso dell'uomo il rapporto tra costi e benefici viene misurato sia con il successo riproduttivo sia con il successo sul piano socioculturale. 8. Dove r è il coefficiente di parentela genica tra donatore e ricevente ed esprime la probabilità che due individui condividano un dato gene in forza della loro discendenza da un antenato comune recente; c sono i costi sostenuti dal donatore per l'atto altruistico; b è l'insieme dei benefici ricevuti dal ricevente. 9. Ad esempio, secondo questa regola, la disponibilità a sacrificare la propria vita da parte di un organismo diminuisce a mano a mano che il legame di parentela si allenta: in un diploide sarà del 50% per un fratello, del 25% per un fratellastro, del 12,5% per un cugino primo e così via. 10. Basta considerare la stucchevole retorica (ricorrente in tutto il libro) con cui, ad esempio, Dawkins (1976), dopo aver sostenuto che l'uomo è solo una macchina per la riproduzione dei geni, annuncia: «Noi abbiamo il potere di sfidare i geni egoisti della nostra nascita... Possiamo anche discutere i modi di coltivare e nutrire deliberatamente un puro disinteressato altruismo - cosa che non esiste in natura, cosa che non è mai esistita prima lungo l'intero arco della storia del mondo. Noi siamo costruiti come macchine dei geni... ma abbiamo anche il potere di rivoltarci contro i nostri creatori. Noi, soli sulla Terra, possiamo ribellarci contro la tirannia dei replicatori egoisti». 11. In un passo molto citato dell'Etica nicomachea (1132b 21 e segg.), Aristotele facendo un gioco di parole tra le Grazie (divinità) e la grazia (charis) scrive: «Per questo è costruito, bene in vista, un tempio delle Grazie, perché vi sia reciprocità. Questo infatti è proprio della grazia: che bisogna ricambiare favori a chi ha dato il suo favore e a nostra volta iniziare noi a dar favori». 12. Più che di reciprocità si dovrebbe palare di mutuo autointeresse. 13. Costi e benefici sono calcolati, darwinianamente, in rapporto al loro contributo alla fitness inclusiva. 14. Il termine «altruismo» usato dai biologi è praticamente equivalente a quello di «cooperazione» usato dagli scienziati sociali (Sober e Wilson, 1998). I termini defezionista e cooperatore corrispondono quindi, trascurando le sfumature, a quelli, rispettivamente, di egoista ed altruista. Ricordiamo che c e b sono rispettivamente i costi e i benefici. Negli studi sui comportamenti degli animali la nozione di «altruismo» viene usata, come termine descrittivo, per indicare una serie di situazioni e di comportamenti (che vanno dalla sterilità delle api operaie, alla condivisione del cibo, al grooming, all'empatia, alla cooperazione nella ricerca del cibo e nella guerra, ecc.). L'altruismo umano invece condensa una serie di relazioni (dalla cooperazione, alla solidarietà, alla reciprocità e in generale ai comportamenti prosociali). 15. Per una breve analisi della lotta di Mauss contro l'immagine dell'Homo oeconomicus e più in generale sul significato del dono si può vedere Gaion, 2004. 16. Non è il caso di discutere qui quanto sia forte o debole questo obbligo. 17. Se si escludono i comandi verso Dio, queste norme ripetono, forse non troppo stranamente, i dieci comandamenti. 18. Se Hume intendesse tracciare proprio una precisa dicotomia tra fatti e valori o se avesse usato questa dicotomia solo come stratagemma per far passare una visione empirista della morale, è un problema che si può lasciar risolvere gli storici della filosofia. A noi qui interessa soltanto come problema teorico e come anticipazione logica del problema epistemologico della fallacia naturalistica. 19. Frege fa questa affermazione a proposito delle «leggi» della logica, ma il suo platonismo lo collega in qualche misura al platonismo morale di Moore. 20. Da questo punto di vista, dire, come fa Frans de Waal (2001), ad esempio, che i nostri cugini scimpanzè sono «naturalmente buoni» suona del tutto improprio. L'EVOLUZIONE SECONDO I FILOSOFI Realizzato da Gianluca Rossi L'affermazione di Bertrand Russell ci propone un primo problema, cioè la natura dell'evoluzione dell'uomo. Bisogna infatti parlare di un'evoluzione in senso: - Determinista - evoluzionista - darwiniano - Finalista Bisogna anche valutare un altro problema che forse sottende tutti gli altri: l'evoluzione dell'uomo procede verso la razionalità o l'irrazionalità? O semplicemente non ha alcun verso? 1. Secondo i filosofi deterministi non c'è alcun significato teleologico nell'evoluzione dell'uomo. Ci sono le regole della natura che hanno condotto inevitabilmente alla condizione attuale. Bisogna dire che il determinismo ha avuto numerosi proseliti nella storia e talvolta ha avuto manifestazioni molto diverse. Possiamo considerare gli Illuministi del XVIII secolo francese degli importanti rappresentanti di questa corrente di pensiero. La fede del secolo dei Lumi in una ragione onnipotente ha condotto il razionalismo ai limiti più estremi, ad un meccanicismo che ha aperto la strada all'abisso romantico. Si può pensare a Leopardi che, sotto l'influenza dei Lumi , nella sua fede in questo meccanicismo, ha condotto il suo "pastore errante dell'Asia" sul bordo di un precipizio. Naturalmente secondo questi Filosofi la direzione dell'evoluzione dell'uomo è verso la razionalità. Si può pensare anche ai filosofi positivisti che hanno cercato di ridurre persino i meccanismi dello spirito a delle reazioni fisiche che, dunque, l'uomo è capace di comprendere attraverso la scienza e con la sua ragione. Il determinismo positivista ha avuto anche una via evoluzionista con Spencer e Darwin. La "lotta per la vita" (struggle for life) diventa la molla dell'evoluzione. In questo caso le regole matematiche della natura costituiscono la scena nella quale si gioca questa lotta. L'intelligenza e la ragione sono stati i mezzi della vittoria dell'uomo sugli altri animali, e sicuramente esse non sono un regalo divino. 2. Tuttavia questa corrente di pensiero non risolve l'ansietà dell'uomo, non giustifica la sua presenza sulla Terra, alla fine non giustifica neppure la ragione che è la luce che ci illumina questa cammino fatto di regole predeterminate. Allora abbiamo un'altra interpretazione dell'evoluzione umana, un'interpretazione che ammette uno scopo all'esistenza vista singolarmente e nella sua unità con le altre esistenze sulla scena della storia. E' la visione proposta da tutte le religioni, è la visione che ritrova la giustificazione del sistema -uomo in qualche cosa di esteriore che porta con sé la sicurezza del significato della vita. Essa ha anche un grande significato morale poiché essa impegna gli uomini nell'oltre, distogliendoli dal presente. Ma una concezione finalista può anche diventare determinista nel senso che essa crede in un destino predeterminato al quale l'uomo non può sfuggire. E' ciò che i Calvinisti sostengono. Dunque l'uomo che sembrava aver liberato se stesso dal demone dell'orgoglio che risiede in lui, si ritrova schiavo del " re-Dio", che secondo Feuerbach è una creazione dell'uomo stesso, che ha già preso tutte le decisioni per lui e che è esterno a lui. In questa concezione la ragione è considerata il segno divino della superiorità dell'uomo. Se vogliamo analizzare il problema dal punto di vista di Nietzsche dobbiamo dire che ci sono delle tracce di metafisica in tutte e due le concezioni. Tutto ciò che è immobile e assoluto ha qualche cosa di metafisico e dunque la ragione assoluta degli Illuministi e la "scienza romantica" dei Positivisti, per riprendere un'espressione di Abbagnano, rappresentano delle nuove metafisiche che spesso non risolvono i problemi esistenziali ma li complicano. A questo punto possiamo riprendere il termine di paragone che Russell ci propone, cioè l'ameba, per cercare di rispondere alle ultime domande proposte. L'ameba rappresenta una forma molto semplice di vita, la superiorità dell'uomo dovrebbe risiedere nella sua complessità ma si deve stabilire se tale complessità è frutto della nostra ragione o di qualche cosa di diverso. Per fare questa analisi ci si può servire delle teorie di Vico. Se guardiamo l'evoluzione del pensiero occidentale "moderno" possiamo riconoscere almeno sei tappe: a) il Medio Evo, b) il Rinascimento, c) l'Illuminismo, d) il Romanticismo, e) il Decadentismo e f) la filosofia dei nostri giorni. a) Il Medio Evo può corrispondere all'infanzia della nostra civiltà. Un'infanzia divisa da due tendenze, una razionalista e l'altra mistica. Bisogna dire che tutte e due sono figlie della concezione teocratica medievale, e dunque tutto è visto, anche il razionalismo, alla luce della fede. Infatti il maggiore rappresentante del razionalismo medievale è San Tommaso mentre il suo "alter ego" mistico può essere considerato San Bonaventura da Bagnoregio con il suo "Itinerarium mentis in Deum". A questo livello la civiltà ha bisogno di sicurezza, e dunque essa elabora delle prove del suo fondamento metafisico, delle prove certe perché, secondo i medievali, fondate sulla ragione. La più importante e la più famosa probabilmente è la prova ontologica di S. Anselmo. In un'analisi diacronica e vichiana della storia del pensiero, la prova di S. Anselmo può essere considerata una bella favola che il bambino inventa per sfuggire alla realtà perché non è ancora pronto a sapere. b) Durante la sua adolescenza egli cerca di liberarsi dalle favole che ha costruito e dunque rigetta tutto ciò che è oppressivo. Ecco l'antropocentrismo che ritroviamo nel Rinascimento, ecco la riscoperta e la nuova lettura dei classici, che i medievali conoscevano molto bene , Dante docet. c) Rifiutando la posizione teocentrica, l'uomo scopre la sua ragione come nuovo approdo che diventa anch'esso metafisico perché assoluto, comprendente tutto. E' la giovinezza del bianco e del nero, che non conosce il grigio, è l'età delle certezze e dell'orgoglio spesso cieco, è l'Età dei lumi e della ragione onnipotente. d) Tuttavia questa ragione non dà la certezza più importante, cioè la certezza che ci sia uno scopo per la vita umana. Dunque essa apre all'ansietà romantica , che cerca di liberarsi di questa angoscia attraverso un nuovo slancio mistico come per Jacobi o per Kiekegaard. e) La maturazione conduce alla coscienza della libertà e libertà significa eliminazione di ogni metafisica. E' ciò che Nietzsche cerca di fare, è ciò che ritroviamo nelle intenzioni di molti filosofi decadenti e dei nostri giorni. Quando Kurt Godel dimostra l'incoerenza logica della matematica e più in generale che un sistema non può autolegittimare se stesso, egli fa una rivoluzione simile a quella di Kant, perché mostra che le scienze non potranno mai trovare il loro fondamento in se stesse. D'altra parte Popper ci dice, con il suo criterio di falsificabilità, che non si può riconoscere un razionalismo assoluto, tutto è relativo, la scienza è relativa, il solo razionalismo che possiamo accettare è quello della finzione del presente. Dunque se la nostra età rappresenta la vecchiaia, bisogna concludere che l'evoluzione dell'uomo è verso il relativismo e una sostanziale irrazionalità, fatto dimostrato non soltanto dalla filosofia ma dalla cultura europea in generale: infatti con il cromatismo del "Tristano e Isotta" di Wagner si è parlato dell'apertura di una nuova epoca; è sufficiente anche pensare alla "poetica del fanciullino" di Pascoli nella quale egli introduce di nuovo la rima come termine della primitiva razionalità del bambino che ricerca l'ordine, anche se si tratta di un ordine semplice. Ma se l'irrazionalità, che sola può comprendere la totalità dell'uomo perché essa comprende anche un razionalismo momentaneo (nell'accezione di Popper), rappresenta la complessità, fatto appoggiato anche da Bergson per il quale "ci sono cose che solo l'intelligenza è capace di cercare, ma che da sola non troverà mai; soltanto l'istinto potrebbe scoprirle ma non le cercherà mai" e dunque si ha bisogno dell'intuizione, e se la complessità è il segno della nostra evoluzione e della nostra superiorità, quale tipo d'inferiorità ha l'ameba, un'inferiorità razionale? Forse semplicemente essa non ha la coscienza del suo essere e la razionalità corrisponde, in ogni modo, ad un livello piuttosto elevato di complessità che l'ameba e la maggior parte degli animali non possono raggiungere, ma questo è un fatto che noi oggi non possiamo sapere in maniera certa perché noi e l'ameba (come simbolo del mondo animale) facciamo parte di due sistemi che non possono comunicare tra loro. DARWIN E L’EVO-DEVO Immagino cosa direbbe oggi Charles Darwin scoprendo che la sua teoria tuttora divide e che, al contrario, ancora sopravvive, ed ha sempre più sostenitori, la tesi del creazionismo o del “disegno intelligente”. In barba alla teoria darwiniana e a tutte le prove della sua validità, i sostenitori del disegno intelligente affermano che la vita sia così complessa da non poter essere spiegata dall’azione casuale della selezione naturale e che quindi essa possa essere stata diretta solo da un creatore. Al di là del proprio credo religioso (e precisando che Darwin era un credente convinto), è comunque difficile negare l’esistenza dell’evoluzione e della selezione naturale. E dire che le prove le abbiamo sotto gli occhi, o meglio sotto i piedi, dato che i fossili che spesso calpestiamo inconsapevolmente, sono una delle evidenze più chiare di come abbia “lavorato” l’evoluzione. Si è arrivati addirittura a pretendere che nelle scuole gli insegnanti affermino che la teoria di Darwin sia solo una teoria, ed una teoria non è un fatto. Tuttavia nell’ambito scientifico un’idea può costituire una teoria e rappresentare un fatto allo stesso tempo. Stehen J. Gould ha chiarito questo concetto diversi anni fa: “L’evoluzione è una teoria. Ma è anche un fatto. E fatti e teorie sono cose ben diverse. I fatti sono i dati del mondo. Le teorie sono strutture concettuali, di idee, che spiegano e interpretano i fatti. Ed i fatti non si dissolvono quando gli scienziati dibattono teorie che rivaleggiano nello spiegarli. La teoria della gravitazione di Einstein ha sostituito quella di Newton, ma non per questo le mele si sono sospese per l’aria, sono sempre attaccate ai rami dell’albero. Fatto non significa certezza assoluta. Le prove finali della logica e della matematica discendono deduttivamente da prestabilite condizioni e acquistano certezza solo poiché non si riferiscono al mondo dei dati empirici. Gli evoluzionisti non hanno mai preteso di aver raggiunto verità con validità perpetua; al contrario i creazionisti regolarmente fanno ciò e poi falsamente attaccano gli evoluzionisti di impiegare questo stile di argomentazione che essi stessi favoriscono. Nell’ambito scientifico fatti può solo significare conferme ad un grado di certezza che sarebbe perverso rifiutare di concedere loro un provvisorio consenso….Gli evoluzionisti hanno sempre ammesso di sapere quanto siamo lontani da una completa conoscenza dei meccanismi (la teoria) attraverso i quali l’evoluzione (il fatto) occorre. Darwin ha sempre sottolineato la differenza tra questi due aspetti: da un lato stabilire il fatto evolutivo e dall’ altro il proporre una teoria, la selezione naturale, per spiegare il meccanismo dell’evoluzione.” L’evoluzione si basa sulla selezione naturale che procede tramite un meccanismo semplicissimo ma allo stesso tempo elegante… va per tentativi; se il cambiamento applicato comporta un vantaggio, allora l’individuo che ne è portatore sopravvive (cioè viene selezionato positivamente) e lo trasmette alla sua discendenza; in caso contrario soccombe e il cambiamento non viene ereditato. Per Darwin i caratteri si ereditano indipendentemente dall’ambiente, che non causa la loro comparsa, ma si limita a selezionarli. L’acronimo EVO-DEVO sta per biologia evolutiva dello sviluppo (evolutionary developmental biology). Questa nuova disciplina unisce due approcci sperimentali, la biologia evolutiva e quella dello sviluppo. Per l’EVO-DEVO, gli studi più rilevanti sono stati quelli compiuti sui polimorfismi dell’identità segmentale in Drosophila melanogaster, la variazione intraspecifica del numero di segmenti in alcuni artropodi, i patterns di pigmentazione delle ali e degli occhi delle farfalle e lo sviluppo degli occhi. Tramite i fossili possiamo avere informazioni su come sia cambiata e si sia evoluta la vita sulla terra nel corso del tempo, ma è solo attraverso lo studio di come i geni funzionano durante lo sviluppo di un organismo che si può capire in che maniera si originino cambiamenti nel disegno animale. Laddove il fenotipo rappresenta le caratteristiche fisiche organizzative e comportamentali di un organismo durante il suo ciclo vitale, il genotipo rende conto dei fattori ereditari che regolano la produzione di molecole che, interagendo con gli stimoli ambientali, generano e mantengono il fenotipo. Tutti quei processi che legano il genotipo al fenotipo sono noti come sviluppo. E’ chiaro che una teoria evolutiva esaustiva debba considerare, oltre alle forze esterne che agiscono nel plasmare il fenotipo (le forze ambientali), anche quelle interne che producano sue variazioni (forze genomiche). Gli studi di genomica hanno permesso di comprendere che i genomi sono ridondanti, modulari e soggetti a rimaneggiamento (turnover genomico) nella loro composizione e organizzazione. Questa sorta di plasticità del genoma è dovuta a fenomeni come la trasposizione, la conversione genica e il crossing over ineguale. Occorre quindi capire come si origina e si riproduca uno specifico fenotipo a partire da uno specifico assortimento di geni ereditati. Poiché si è visto che nel corso dell’evoluzione i cambiamenti morfologici e le divergenze biologiche sono accompagnate da un alto grado di conservazione dei moduli genetici che li determinano, si evince che le risposte alle richieste evolutive sono da ricercare nei meccanismi atti a regolare l’espressione genica e la composizione del genoma. I geni sono straordinariamente stabili anche se si considerano specie diverse per milioni di anni. Un esempio su tutti è quello del gruppo dei geni Hox. I geni di questa classe fungono da interruttori generali che attivano gruppi di altri geni responsabili dello sviluppo di regioni distinte del corpo di un animale. Tutte le specie hanno ereditato i geni Hox da un antenato comune; essi hanno una disposizione temporalmente e spazialmente correlata, nel senso che i geni disposti anteriormente lungo un cromosoma sono anche quelli che verranno attivati prima. Questo tipo di disposizione vale partendo dalla Drosophila fino ad arrivare all’ uomo; la differenza sta nel fatto che nella linea mammaliana questi geni appaiono duplicati. La genomica comparata ci ha permesso di capire che esiste una grande conservazione di intere famiglie geniche piuttosto che geni diversi tra i diversi organismi come inizialmente si pensava che fosse. La diversità tra gli organismi è quindi regolata non tanto da geni diversi, quanto dalla loro diversa espressione. La serie basica di geni è praticamente la stessa per la gran parte del mondi animale, quello che cambia è la sua regolazione. Si comprende da qui l’importanza di conoscere la composizione ed il significato funzionale di quella parte del DNA che appare essere non funzionale, il DNA selfish (definito anche DNA spazzatura), costituito per la gran parte da DNA ripetitivo, e di studiare i fattori che ad esso si legano nel modulare questa capacità di regolazione. La gran parte delle sequenze di DNA di un genoma sono ridondanti. Ridondanza in genetica ha due significati: esistere in più copie o essere inutile nello specificare una funzione. I due significati non sono sinonimi ed una sequenza di DNA che sia presente in copie multiple può costituire una famiglia multigenica funzionale. Mentre il Darwinismo spiega abbastanza chiaramente come evolve ciò che già esiste, trova invece difficoltà nello spiegare come si originino e si affermino le novità genomiche che determinano in seguito quelle fenotipiche. Sono proprio queste novità che poi determinano i cambiamenti nello sviluppo e nell’acquisizione delle varie forme animali. E’ proprio in questa nuova prospettiva che si inserisce l’EVO-DEVO. L’elemento capace di collegare il livello molecolare (il genoma) a quello extra-nucleo (l’ambiente, il livello sovracellulare) è proprio il DNA ripetitivo. Theodor Dobzhansky dice che “Niente in biologia ha un senso se non nella prospettiva evolutiva”; P. B. Medawar, premio Nobel per la medicina nel 1960 aggiunge che “per un biologo l’alternativa a non pensare in termini evolutivi è non pensare del tutto”. Alla luce dei progressi attualmente fatti, Dover (2000) ha sintetizzato i due assunti in “niente in evoluzione ha senso se non nella prospettiva della biologia dello sviluppo e dello studio del genoma”. Direi che “nonno” Darwin abbia fatto un bel lavoro: aspettando i festeggiamenti per il bicentenario della sua nascita, siamo sulla buona strada per capire da dove arriviamo. Maria Cristina Onorati Un caso di estetica della natura Le Kunstformen der Natur di Ernst Haeckel a cura di Elena Canadelli Vedere e rappresentare la natura: l'evoluzione in immagine "La cosa più elevata sarebbe: comprendere che tutto ciò che è fattuale è già teoria. L'azzurro del cielo ci rivela la legge fondamentale della cromatica. Non si cerchi nulla dietro i fenomeni: essi stessi sono già la teoria" J.W.Goethe, Massima 488 "Quali radici si afferrano, quali rami crescono su queste rovine di pietra? Figlio dell'uomo tu non lo puoi dire, né immaginare perché conosci soltanto un cumulo di frante immagini, là dove batte il sole" T.S.Eliot, La terra desolata, 1. La sepoltura dei morti "Mentre l'aspetto introdurrebbe i valori decisivi delle cose..." G. Bataille, Il linguaggio dei fiori Le tavole naturalistiche delle Kunstformen der Natur di Ernst Haeckel rappresentano i due significati di una estetica della natura, così come si sviluppò in ambito tedesco verso la seconda metà dell'800: estetica come scienza del bello, intenta a comprendere la natura in rapporto all'arte, come manifestazione artistica originaria, ed estetica come teoria della percezione sensibile, legata all'uso di immagini adatte a trasmettere visivamente la conoscenza della realtà naturale. Percepire i fenomeni esteticamente, attraverso delle sintesi figurate, significa quindi anche conoscerli, presentando una natura ornamentale e oggettivamente bella, articolata in una "strana estetica biologica" dove i protagonisti sono i microscopici scheletri silicei dei radiolari e delle diatomee, gli ombrelli delle meduse, i tentacoli delle attinie e le conchiglie dei molluschi. Per questo le forme viventi, stilizzate e disposte da Haeckel simmetricamente, costituiscono degli strumenti per esercitare un'anatomia comparata, come i talamofori della tavola 2: Talamofori della tavola 2 disposti sul foglio per far risaltare le diverse geometrie dei loro scheletri come diverse risposte alle pressioni dell'evoluzione. "Mentre l'occhio incantato contempla la bellezza di queste minuscole forme, l'intelletto ordinatore si rallegra della conformità alla legge della loro struttura anatomica e delle tappe del loro sviluppo filogenetico" E. Haeckel Estetico e morfologico infatti è il modo haeckeliano di percepire la variazione e la costanza della natura, il fluire e l'evolversi delle forme attraverso ciò che appare ai sensi, soprattutto attraverso la visione, poiché vedere la natura è già conoscerla (O. Breidbach, 1998). Il disegno, usato dal biologo tedesco in quasi tutte le sue opere zoologiche, illustra il processo formativo, l'azione delle forze di quella natura naturans di cui parla Goethe, per comprenderla nella sua totalità, ripetendo e ricreando una seconda volta la composizione fra le parti organiche, i loro rapporti reciproci e i loro nessi con l'ambiente. Il risultato è una collezione di immagini sintetiche su cui soffermarsi, sedimenti e memorie del flusso della vita, istanti fissati per essere compresi da un occhio meditativo. Queste illustrazioni raffigurano quindi la legge che regola i fenomeni - l'evoluzione - il fatto cioè che gli organismi si formano e si trasformano nel tempo secondo rapporti genetici di discendenza a partire da un tipo originario comune. Lo scienziato tedesco vorrebbe presentare, anche attraverso alberi genealogici, come la natura varia i suoi modelli, per "osservare la regola in ciò che è differente" (1) e per ritrovare l'unità dei viventi nella molteplicità e pluralità delle loro manifestazioni, ricostruendone visivamente il cammino percorso. L'evoluzionismo, come spiegazione meccanica dei fenomeni, si esplicita per Haeckel nel credere "che tutti i differenti organismi (cioè tutte le specie di animali o di piante che hanno vissuto sulla terra o che ci vivono ancora) discendono da una sola o da poche forme stipiti semplicissime, e che essi siansi sviluppati naturalmente da queste per via di graduate e lente modificazioni" (2) . Le relazioni di discendenza fra i viventi, secondo l'adattamento all'ambiente e l'ereditarietà, sono così evidenziate dalla disposizione degli esemplari sul foglio, senza rendere visibile l'ambiente in cui questi hanno vissuto e si sono adattati, bensì simboleggiando i due principi dell'evoluzione nei loro effetti compiuti, nelle diverse forme organiche che hanno prodotto a partire da un tipo comune. La dialettica evolutiva di ereditarietà e adattamento, "in verità le due funzioni fisiologiche formatrici degli organismi" (3) , a discapito della selezione naturale, emergerebbe quindi dal ritmo che lo scienziato ricrea nelle sue tavole, associando e raggruppando più animali simili eppur diversi tra loro. A chi osserva la natura, la ricca di forme, si offrono giardini variopinti, i giardini dell'evoluzione, con i loro enigmi che rimandano ad alcuni versi della poesia Metamorfosi delle piante (1798) di Goethe: "Tutte le forme sono affini, e niuna somiglia all'altra; così allude il coro ad una legge occulta, a un sacro enigma" Le ascidie della tavola 85 mostrano i variopinti giardini dell'evoluzione. Attinie sul fondale marino della tavola 49, raggruppate su un asse visivo verticale, mostrano non la bellezza come funzione, ma la bellezza della funzione: per Haeckel i loro "movimenti simili a fiori non sono meno attraenti delle loro eleganti forme e dei magnifici colori di cui esse sono ornate". Per conoscere l'attività della natura, il suo flusso vitale insieme ai suoi prodotti, bisogna isolare e paragonare le forme tra loro, e presentarle insieme allo sguardo perché la visione permette di ricomporre il frammentario, comprendendo l'unità intuitiva di ciò che si è diversificato e disperso nello spazio e nel tempo. Per questo "è necessario applicarsi per anni ad esercitare lo sguardo", dice Goethe. Se si segue l'organizzazione spaziale che Haeckel ha dato alle sue litografie ci si accorge che sono strumenti per esercitare una morfologia comparata, un modo per raggruppare sulla stessa superficie alcune delle possibili manifestazioni che la forma "corna" può assumere nelle antilopi, le "squame" negli ostracioni, i "tentacoli" nelle attinie, la "pennatura" nelle alghe rosse, o il "piumaggio" nei colibrì. Così il pesce della tavola 42, astratto dal suo ecosistema, diventa le sue squame, disegnate e disposte sul foglio per richiamare una somiglianza di famiglia, non solo morfologica ma anche genetica, tra i vari esemplari, variazioni e sfumature di un unico motivo geometrico. Ostracioni della tavola 42 raffigurati con particolare attenzione alle varietà delle tavole ossee esagonali della corazza, definite da Haeckel eleganti sculture. "La pensata comparazione delle serie affini di fenomeni, la combinazione è qui il più importante strumento di ricerca" E. Haeckel, Storia della creazione naturale Alcuni particolari caratteristici sostituiscono quindi l'intero organismo, come le corna delle antilopi nella tavola 100, tracce utili per ricostruire visivamente la genealogia delle specie raffigurate, partendo dalla figura centrale per allargarsi simmetricamente ai margini, secondo rapporti di adattamento ed ereditarietà. Analogie formative tra i differenti colibrì della tavola 99 emergono invece grazie all'uso dei colori e a un asse visivo verticale, perché l'occhio compara conciliando analisi e sintesi, attraverso lo studio della singola forma in rapporto alle altre a lei simili, per visualizzare un tipo, un piano costruttivo, un'unità che si trasforma infinitamente, rimanendo costante. Antilopi della tavola 100 disposte in una dinamica evolutiva, secondo le variazioni del motivo caratteristico delle corna e dei manti. Colibrì della tavola 99, raggruppati sui rami, inducono l'occhio a esercitare una morfologia comparata. Le litografie diventano il simbolo di un'estetica della natura intesa sia come conoscenza del ritmo naturale attraverso l'aspetto estetico, sensoriale dell'osservazione e della visione, sia come raffigurazione della forma naturale come forma artistica. Queste tavole tentano sia di rappresentare in modo oggettivo la natura e le sue leggi, sia di stimolare l'attività dell'osservatore che percepisce una grande quantità di forme diverse e molteplici da interpretare e ricondurre a costanti morfologiche feconde. Haeckel, come scienziato sostenitore dell'evoluzionismo, racchiude in un'immagine l'operare della natura nel tempo, presentando insieme una famiglia, un gruppo di viventi, per poterli esaminare "con un solo sguardo", "con un colpo d'occhio", come dicono Buffon e Savérien (4). E così le alghe rosse della tavola 65 inducono a seguire i cambiamenti del ramo al centro nelle figure a fianco, attraverso un'accentuazione della pennatura, in maniera più leggera e fitta nell'esemplare a sinistra e in maniera più elegante e compressa nell'esemplare a destra. Alghe rosse della tavola 65 presentano un modello di dimostrazione visuale della variazione delle forme attraverso l'intensificazione o la diminuizione della pennatura. "Può farmi molto piacere avere un'idea senza che io lo sappia e perfino vederla con gli occhi" J.W.Goethe a Schiller, Un fortunato avvenimento Senza parole vediamo illustrato il continuo mutare delle forme e il loro permanere, in una serie di quadri artificiali, prospetti, sinossi e vedute generali del sistema del mondo, del suo ordine e dei nessi tra le cose. Queste immagini infatti sono figure oggettive in grado, nelle intenzioni del loro autore, di riflettere la reale dinamica evolutiva, dimostrazioni evidenti di come agisce la natura, perché mostrare e disegnare l'evoluzione diventa anche documentarne l'attività. Il filo rosso che collega queste figure è proprio quello di rendere visibili le modificazioni che le strutture caratteristiche di determinati animali o vegetali manifestano in relazione a diversi ambienti, insieme però alla continuità della forma stipite a loro comune: a chi guarda queste immagini quindi è lasciata la possibilità di esercitare un'anatomia comparata, per trovare le analogie e le differenze tra manifestazioni diverse di uno stesso tipo. Anche le tartarughe della tavola 89, forniscono un esempio del modo di procedere di Haeckel, che raggruppa su uno sfondo fittizio più esemplari studiati in differenti luoghi nel corso dei suoi numerosi viaggi, evidenziando soprattutto le geometrie e i vari colori delle corazze, il collo più o meno lungo. Tartarughe della tavola 89 esprimono in modo sintetico il flusso vitale sotteso ai prodotti cristallizzati della metamorfosi naturale. "Il vivente ha il dono di adattarsi alle più molteplici condizioni degli influssi esterni e tuttavia di non abbandonare una certa decisa autonomia, una volta che l'abbia conquistata" J.W.Goethe Massima 119 Lo scienziato non rappresenta dunque ogni singolo animale nel suo ambiente in modo naturalistico, ma esprime astratte relazioni di discendenza raffigurando in modo comparato le linee essenziali di alcune famiglie di organismi. Alle domande "C'è una continuità, un'unità dietro alla varietà dei fenomeni? È possibile raffigurare la legge immanente all'esperienza e osservare come una forma muta in un'altra, trasformandosi incessantemente?" Haeckel risponde di sì, presentando una natura artificiale ed estetizzata, icona dell'attività naturale che lo scienziato di fine '800 crede di conoscere e di dominare. Ogni tavola sta a sé e diventa una dimostrazione figurata della sua teoria dell'evoluzione, perché l'uomo, come dice Eliot, conosce attraverso broken images, frante immagini: l'evoluzione si vede, le verità della natura possono essere raffigurate e conosciute, vedere diventa un atto di conoscenza che sintetizza la variazione delle forme sulla base delle costanti leggi evolutive. Gli organismi come antilopi, attinie e pesci, ridotti a motivi caratteristici e disposti insieme, trasmettono quindi all'osservatore il senso della trasformazione nella natura, come se il vedere e il pensare fossero due momenti inseparabili della conoscenza che passa dalla vista, dall'intuizione e dalla percezione dei fenomeni. Nel caso di Haeckel vedere e pensare si tramutano in disegno, nella ricreazione di quel processo formativo inarrestabile e continuo che è l'evoluzione insieme ai suoi prodotti. L'aspetto, come dice Bataille, diventa segno dei movimenti decisivi della natura, le forme visibili si sostituiscono alle astrazioni della scienza e della filosofia, in modo che immagine e parola collaborino insieme per illustrare una possibilità di comprendere la metamorfosi incessante della natura, interrogandosi sul suo funzionamento. Pagina scritta e pagina disegnata si affiancano quindi nella ricerca per "render visibile ai sensi il fenomeno primo" (4) : quest'ultimo potrebbe essere la pianta originaria (Urpflanze) immaginata da Goethe, quale modello operante in modo produttivo nel divenire naturale, oppure la successione delle specie studiata da Haeckel. L'evoluzione diventa un'idea che si manifesta e si articola nei singoli individui producibili, una formula declinata nei casi individuali, in grado di generare infiniti organismi più o meno adatti alla sopravvivenza. La dialettica universale di ereditarietà e adattamento si mostra e si concretizza nei particolari, quale legge immanente ai fenomeni: ispirandosi a Goethe, si potrebbe dire che i fenomeni stessi sono già teoria, le forme animali osservate con attenzione forniscono esse stesse la loro spiegazione attraverso una conoscenza estetica, percepibile dai sensi, come quella esibita dalle tavole haeckeliane. Lo zoologo tedesco, infatti, crede ingenuamente di poter realizzare la "delicata empiria" di cui parla Goethe, attraverso immagini, scorci della natura, sguardi gettati sul processo generativo delle forme, sulla loro nascita, trasformazione e dissoluzione. Per Haeckel nel singolo organismo agisce sempre l'elemento tipico, il modello originario, primitivo anche dal punto di vista della discendenza, per cui nel particolare si cela l'universale, e nell'universale il particolare, come in una formula matematica sono contenuti e implicati tutti i casi possibili, mentre il caso specifico non è altro che una delle infinite applicazioni della formula. Vedere la natura con gli "occhi dello spirito" significa quindi cogliere l'idea nella sua forma sensibile, il singolo essere vivente non come mera realtà sensoriale, ma come espressione di un piano di struttura generale, governato dall'evoluzione, e allo stesso tempo come sua deviazione. Questa concezione si riflette ancora una volta nelle immagini, per esempio nella tavola 87, dove lo scienziato dispone al centro quattro esemplari interi di una stessa famiglia di pesci, circondati da numerose squame fra loro differenziate, illustrazioni di quanto può variare lo stesso rivestimento in diverse condizioni ambientali. I disegni quindi permettono a Haeckel di raccogliere fenomeni lontani tra loro nel tempo e nello spazio per indurre l'osservatore a vedere in modo sintetico come agisce la natura, ricostruendone l'evoluzione attraverso le molteplici articolazioni. Pesci della tavola 87, le squame comparate fra loro diventano icone dell'evoluzione. "Che cos'è l'universale? Il caso singolo. Che cos'è il particolare? Milioni di casi" W.J.Goethe, Massima 281 Le tavole delle Kunstformen der Natur, raffiguranti i molteplici prodotti dell'attività formatrice della natura confrontati tra loro, rappresentano il delicato equilibrio esistente tra la trasformazione incessante delle forme e la loro cristallizzazione e solidificazione in organismi che tendono invece a permanere e a resistere alla dissoluzione. La tensione tra il flusso che sempre scorre e le sue sedimentazioni particolari è evidenziata dai contorni delle singole figure, immobili e semplificate, con la pretesa però di ricreare il movimento, il cambiamento di una specie nel tempo. Queste litografie infatti rimandano sia al processo inarrestabile della natura, che per il biologo tedesco non è altro che evoluzione, sia al singolo prodotto, cristallo emerso dall'informe attività naturale. I pipistrelli della tavola 67, geometrizzati e ridotti alla curiosa ornamentazione dei loro musi, forniscono un caso di questo rapporto tra forma come fluido e trapasso (Bildung) e forma come concetto fisso e permanente (Gestalt) perché, rigidi e bloccati nella loro manifestazione individuale, si dispongono nello spazio della tavola per evidenziare la loro dinamica evolutiva, per ricordare che ogni cosa è frutto dell'equilibrio tra vis centrifuga e vis centripeta, tra tensione alla metamorfosi e tensione alla permanenza: Haeckel direbbe, tra adattamento all'ambiente ed ereditarietà dei caratteri. Pipistrelli della tavola 67 rappresentano il delicato equilibrio tra la vis centripeta e la vis centrifuga della natura. "La forma più strana conserva segretamente l'archetipo" J.W.Goethe L'incessante scorrere della vita, la forza centrifuga che Francesco Moiso definisce in modo suggestivo "cavalcata delle maschere o dei fantasmi", condurrebbe quindi al caos, all'informe come continua trasformazione senza riposo - maleficio della metamorfosi. Ma le cose esistono e le specie lottano per permanere e sopravvivere, si solidificano e una volta venute all'essere vogliono continuare a esistere grazie alla forza centripeta, al loro istinto di specificazione. Il singolo pipistrello fisso sulla tavola, rapportato agli altri esemplari, potrebbe quindi visualizzare quell'unità di idea e fenomeno di cui parla Goethe e che Haeckel interpreta come riduzione di tutta la molteplicità naturale a pochi archetipi primitivi infinitamente variati, alla base della filogenesi. Forme artistiche della natura "La natura ha un istinto artistico - perciò sono chiacchere quando si pretende distinguere tra natura e arte" Novalis, Frammenti di estetica "Nei punti dell'esistenza dove meno l'avremmo sospettato zampilla un geyser di nuovi mondi iconici" W. Benjamin, Novità sui fiori Le Kunstformen der Natur non furono solo un'opera zoologica, in grado di rappresentare l'evoluzione e i suoi prodotti, ma anche un volume che presentava ai contemporanei le forme di una natura intrinsecamente artistica e ornamentale già a partire dalle strutture delle singole cellule, dei più semplici animali microscopici marini e degli organismi filogeneticamente inferiori come le meduse. La natura per Haeckel possiede infatti un innato senso artistico in grado di generare forme oggettivamente belle, al di là del giudizio di gusto del soggetto che le percepisce: in questo modo fin dai più infimi gradini della scala evolutiva si ritrovano opere d'arte, architetture organiche, caratterizzate da strutture simmetriche, alla base dell'estetica animale dello scienziato e della sua morfologia, perché "la natura è bella. Bella non solo in Raffaello e Michelangelo - bella fin agli oscuri abissi degli oceani, bella e sempre più bella quanto più profondamente il microscopio porta alla luce l'interna costruzione dei viventi" (1) . Proprio gli organismi meno evoluti catturano infatti, alla fine dell'800, l'attenzione di artisti e scienziati che vi vedono le forme originarie dell'arte, da comprendere nelle fasi della loro formazione, crescita e metamorfosi. Queste tavole non solo forniscono a un osservatore un'immagine dell'evoluzione ma mostrano anche il continuo confondersi di arte e natura, attraverso le impercettibili sfumature della catena degli esseri, i cui strati inferiori appaiono simili all'inorganico e all'artificiale. Per Haeckel quindi le forme naturali non costituiscono più solo una ricca fonte d'ispirazione a cui poter attingere e da poter imitare, ma sono esse stesse produzioni artistiche, seppur senza intenzionalità, simboli dell'arcaica pulsione ritmica-ornamentale immanente a tutta la materia: per questo le spirali delle conchiglie, le simmetrie funzionali dei radiolari, delle spugne e dei coralli e gli ombrelli gelatinosi della meduse stimolano molteplici analogie di forma e funzione tra le architetture e gli oggetti costruiti dall'uomo e gli organismi stilizzati in queste immagini. La natura, infatti, percepita come forma originaria dell'arte, esprime se stessa in meravigliosi giardini che permettono di risvegliare associazioni impreviste e insospettate, suscitando nell'occhio un rinnovato senso per le forme, al di là della mimesis tra arte e natura. Molti degli esemplari raffigurati dallo zoologo tedesco ricordano prodotti delle arti applicate o anche architetture delle epoche e degli stili più diversi, come i radiolari della tavola 11, creazioni in filigrana che riportano alla mente le croci degli ordini cavallereschi, o come i radiolari della tavola 71, fini sculture di vetro organico; o ancora i peridinei della tavola 14 che richiamano l'araldica medioevale, gli elmi e le armature di un'epoca lontana, nascosta da molto tempo nel microscopico, come segreta forma originaria dell'arte. I sifonofori azzurri diventano decorazioni in vetro mentre la simmetria centrale delle diatomee assomiglia ai rosoni che ornano le cattedrali gotiche, trasfigurando il mondo naturale in una struttura ornamentale, opera di un abile architetto, perché ogni pezzo di materia per Haeckel è animato e istintivamente artistico. Ciò che emerge da queste immagini dunque è una collezione di forme artistiche della natura, organismi sospesi tra l'essere naturale e l'essere artificiale, visto che le loro strutture, allo stesso tempo funzionali e belle, sono comuni sia alla natura che all'arte, in un incantesimo delle forme. L'uomo diventa un bambino di fronte all'organizzazione silicea dei radiolari che da tempo immemorabile abitano i fondali marini e costruiscono i loro scheletri con costanza e simmetria, conducendo una vita fluttuante e indeterminata: questa è la "strana estetica" di Haeckel. Radiolari della tavola 11 e 71 illustrano l'innato istinto artistico della materia, manifesto soprattutto negli organismi filogeneticamente inferiori. Le creazioni della natura infatti sono per Haeckel opere d'arte. Le diatomee della tavola 4 ricordano un rosone, mentre i peridinei della tavola 14 suggeriscono elmi organici. Al di là della semplice imitazione, la natura diventa arte. Design e architetture organiche: Haeckel e l'Art Nouveau "Nell'esercizio dell'arte possiamo gareggiare con la natura solo quando abbiamo appreso almeno in parte come essa procede nel dar forma alle sue opere" J.W. Goethe, Introduzione ai "Propilei" Lo zoologo credeva di poter offrire all'estetica e all'arte del suo tempo nuovi stimoli, ispirati alle costruzioni di una natura che fino ad allora era rimasta celata negli abissi degli oceani o nelle maglie microscopiche della realtà. Il posto centrale che la biologia stava acquistando alla fine dell'800, in qualità di visione del mondo, insieme ai suoi strumenti, come il microscopio, lasciava aperta la possibilità a reciproche influenze tra le scoperte in campo scientifico e il loro utilizzo nelle arti applicate o nell'architettura, soprattutto in riferimento a quel movimento chiamato Art Nouveau, o in Germania, Jugendstil. La scoperta del mondo microscopico marino infatti non entusiasma solo gli zoologi, impegnati in quegli anni in numerose esplorazioni dei fondali oceanici, ma anche alcuni artisti vedono in questo regno una nuova fonte d'ispirazione e una possibilità di esprimere, per esempio attraverso l'oscillare senza tempo della medusa, l'aspetto dinamico e originario della vita. La conoscenza della natura e delle sue leggi, infatti, si presentava in quegli anni come un possibile veicolo di rinnovamento estetico. Artisti come Hermann Obrist, Constant Roux e René Binet s'ispirano così, in maniera più o meno ricostruibile, alle Kunstformen der Natur di Haeckel, considerata da molti la "Bibbia dell'Art Nouveau", per illustrare la natura come slancio vitale, evoluzione, crescita e sviluppo ritmico. Verso la fine dell'800 si sviluppa così "un romanticismo biologico" (Schmutzler, 1966) che mette al centro della sua indagine lo studio di quel multiforme e sfuggente regno di organismi compresi tra i vegetali e gli animali, studiato dalla zoologia marina e colto come traccia arcaica e memoria del pre-umano e del semi-animale. Nel loro aspetto primitivo e attivo gli strati inferiori della natura diventano per artisti e scienziati icone dell'elemento originario e indistinto della vita in grado di esprimere l'evoluzione biomorfica dei viventi, al di là della mera imitazione delle loro strutture per oggetti e decorazioni della produzione artistica e industriale. Gli abitanti degli abissi marini, invisibili come i radiolari, o visibili come le meduse, infatti, simboleggiavano ad architetti, pittori e decoratori della fine del secolo un mondo primordiale, governato da leggi ritmiche e da forze di crescita originarie e primigenie capaci di risvegliare la loro fantasia e il loro senso per l'ornamento organico, aiutandoli anche a creare una bio-logica, un nuovo stile. Anche l'arte quindi, come la scienza, prova a comprendere la legge naturale e lo fa per immagini, cogliendo plasticamente in una forma visibile, la natura naturans, l'aspetto metamorfico e produttivo della natura, il fluire sotto la pagina e la tela che ne completa in modo estetico la conoscenza teorica e deduttiva. Goethianamente, l'arte diventa una possibilità di conoscere come produce la natura, fondandosi a sua volta sullo studio approfondito degli organismi naturali. Con una fantasia zoologica l'uomo può cogliere ancora il pulsare di una vita primordiale, nascosta nei mari, svelando quell'inconscio ottico che ci interroga attraverso gli ingrandimenti al microscopio: queste immagini dischiudono infatti, come dice Benjamin, mondi iconici nuovi in grado di fornire inediti atlanti su cui esercitare le nostre capacità analogiche. Obrist fu uno degli artisti jugendstil più influenzato dalle contemporanee ricerche naturalistiche, come traspare dai motivi vegetali scelti per decorare l'arazzo del 1895, simili ai tentacoli della medusa raffigurata nella tavola 18 delle Kunstformen. Fluttuanti nel mare e intenti ad assorbire il nutrimento dall'ambiente circostante, questi tentacoli ricordano il brulicare della vita, il ramificarsi delle forme plastiche della natura, poiché l'artista monacense, come Haeckel, è affascinato dal mondo sommerso, trasformando la medusa in un simbolo del movimento oscillatorio, dell'espansione e della contrazione del cosmo. Medusa della tavola 18 e albero in fiore, arazzo (particolare) di Hermann Obrist, 1895. "Abbiamo dunque consigliato all'artista di farsi un concetto dei fenomeni più generali della natura" J.W.Goethe, Introduzione ai "Propilei" Ciò che interessa è la dinamica della natura, le spirali della vita, per cui l'artista rende visibili le leggi che regolano la formazione degli organismi, come nel disegno di Obrist qui riportato, che ricorda le strutture porose delle spugne e le architetture silicee dei radiolari. Disegno di Hermann Obrist, "Fantasia, composizione con radici", 1898. In riferimento alla citazione di Goethe, l'arte di Obrist sarebbe un tendere allo stile, come sforzo di conoscere le proprietà delle cose e la loro dinamica. "Lo stile poggia sui fondamenti più profondi della conoscenza, sull'essenza delle cose per quanto ci è dato riconoscerla in figure visibili e tangibili" J.W.Goethe, Semplice imitazione della natura, maniera, stile Se da una parte Haeckel fornisce agli artisti dell'Art Nouveau una grande quantità di forme sconosciute a cui potersi ispirare, dall'altra il suo stile figurativo è profondamente influenzato dalle modalità espressive di questo movimento. Lo zoologo infatti stilizza le forme viventi e riduce gli organismi a decorazioni organiche all'interno di un'opera naturalistica che aspira invece a essere scientifica e obiettiva. La natura rappresentata in queste immagini sembra produrre come un artista della fine dell'800, presentando gli animali marini come ornamenti già pronti all'uso: le due meduse raffigurate nelle tavole 38 e 28 delle Kunstformen, per esempio, furono utilizzate dallo scienziato per ornare i soffitti della sua residenza a Jena, chiamata naturalmente Villa Medusa. Medusa della tavola 28. La sua esistenza è sospesa tra l'ornamento e la natura, testimoniando l'influenza che l'Art Nouveau esercitò sullo stile figurativo di Haeckel. La natura diventa arte e l'arte natura, senza poterle distinguere fra loro in modo certo: i preparati biologici sono trasfigurati in opere artistiche perché nell'universo figurativo di Haeckel la natura crea alla maniera dell'Art Nouveau, esprimendosi attraverso l'uso dei colori, l'arabesco e l'ornamento, come mostrano queste meduse, con la loro struttura fragile, liquida, indeterminata e fluttuante, simbolo della vita primordiale e delle sue linee ondulate. Meduse delle tavole 8 e 46. La medusa diventa la favola dell'oceano, elemento di stile e simbolo di vita, come dice Obrist: "Che cosa riesce a svegliare il nostro senso della vita più della vista delle linee graziose delle lunghe propaggini sensorie delle meduse, dondolatisi nell'acqua?". In un momento in cui la produzione artigianale e industriale era in aumento e alla ricerca di nuovi motivi, le Kunstformen der Natur furono quindi per gli artisti un vero e proprio serbatoio di modelli inediti da imitare, visto che l'indeterminazione di quegli organismi intermedi li rendeva adatti a essere manipolati e riutilizzati in molteplici forme: da accessori come bicchieri, lampade e lampadari a intere costruzioni come la monumentale porta d'entrata in ferro della Paris Weltausstellung del 1900, progettata dall'architetto René Binet, ispiratosi per l'occasione alla forma del radiolare Clathocranium reginae della tavola 31. La porta d'entrata dell'Esposizione Internazionale di Parigi del 1900, opera di René Binet, e i radiolari della tavola 31 delle "Kunstformen der Natur" che la ispirarono. Nel 1902 sempre Binet pubblicò gli Esquisses Decoratives, opera corredata da numerose tavole illustrate, ispirate direttamente alle Kunstformen der Natur, trasformando le forme naturali disegnate dallo zoologo in forme architettoniche e ornamentali. E così dagli organismi scoperti dall'evoluzionista Binet ottenne decorazioni per capitelli, sedie, sbarre, mosaici, torri, lanterne, tappeti e orologi, riscuotendo l'approvazione dello stesso Haeckel. Le rose raffigurate nella tavola Rosace, per esempio, furono ricavate dalle spugne calcaree e dai talamofori, mentre i coralli della tavola 9 furono probabilmente i modelli per la tavola Lustre electrique, raffigurante vari tipi di lampade: Tavola "Lustre electrique" dagli "Esquisses Decoratives" di René Binet e coralli della tavola 9 delle "Kunstformen der Natur". Ancora nel 1910, quando visitò il nuovo Museo oceanografico di Monaco, Haeckel si compiacque di trovarvi i soffitti pitturati con dei motivi tratti dal suo libro, insieme a un lampadario in vetro, opera di Constant Roux, ispirato alla Discomedusa osservata durante il suo viaggio in Insulindia e raffigurata nella tavola 88, a dimostrazione della vasta influenza che lo zoologo esercitò su alcuni artisti tra la fine dell'800 e i primi anni del '900. Se si guarda la litografia si può comunque notare come già il biologo aveva presentato sotto forma di lampadario le sembianze di questo animale marino, i cui tentacoli assomigliano a tintinnanti gocce di cristallo appese al soffitto. Lampadario di Constant Roux ispirato alla Discomedusa della tavola 88. Anche il salone d'onore del museo era illuminato da una lampada di cristallo a forma del radiolare Haeckeliana Porcellana, sempre opera di Constant Roux. Lampada di Constant Roux, conservata presso il Museo Oceanografico di Monaco, ispirata al radiolare Haeckeliana Porcellana della tavola 1. Attraverso le Kunstformen der Natur si sviluppa dunque un pensiero visuale che permette di gettare lo sguardo nella natura, percepita come fenomeno intrinsecamente estetico, nel senso di artistico e sensibile: chi guarda queste tavole contempla la natura e conosce la sua legge grazie a simboli dell'evoluzione, cogliendone anche l'aspetto artistico, a partire dagli stadi più primitivi e indefiniti della vita. Grazie a queste immagini l'osservatore è così introdotto a un concetto di forma visibile, sospeso tra arte, natura e scienza. Note Vedere e rappresentare la natura: l'evoluzione in immagine 1 J.W. Goethe, Precisazioni e raccolte, in J.W.Goethe, La metamorfosi delle piante, a cura di S. Zecchi, Guanda, Parma 1983, p. 116 (torna al testo). 2 E. Haeckel, Storia della creazione naturale, traduzione italiana del Dott. Daniele Rosa sull'ottava edizione tedesca col consenso dell'autore, con prefazione di Michele Lessona, Utet, Torino 1892, p. 15 (torna al testo). 3 E. Haeckel, Antropogenia, o storia dell'evoluzione umana, prima traduzione italiana a cura del Dott. Daniele Rosa, fatta sulla quarta edizione tedesca, Utet, Torino 1895, p. 19 (torna al testo). 4 G. Buffon, Le chien avec ses variétés, 1775, p. 225, e A. Savérien, Histoire des progrès de l'esprit humain dans les sciences et dans les arts qui en dépendent. Histoire naturelle, Paris, chez Humblot, 1778, p. 204 (torna al testo). 5 J.W.Goethe, Vicende dell'opuscolo, in La metamorfosi delle piante, cit., p. 90 (torna al testo). Forme artistiche della natura 1 W. Bölsche, Zwei Naturgeschichten für das Volk, in "Deutsche Welt", n. 12, 1900, p. 183. Bölsche, scrittore all'epoca famoso, fu un instancabile divulgatore delle teorie naturalistiche di Haeckel, soprattutto per quanto riguarda la sua estetica della natura, incentrata sulle strutture simmetriche dei microrganismi marini (torna al testo).