4 - Limiti economici e istituzionali

LIMITI ECONOMICI E ISTITUZIONALI
le riforme a blocco dell'espressione collettiva
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Carla Filosa
12-6-2015
Siamo all’interno di un processo storico e pertanto di trasformazioni
continue della fase imperialistica attuale. E’ per questo che prima di ogni azione
politica, individuale o collettiva – che ricada con piena efficacia nell’oggettività
del movimento reale –, sarebbe necessario analizzare proprio questa fase ultima
per individuarne le contraddizioni, i punti deboli o l’inanità possibile degli
obiettivi dominanti. Infatti, nonostante le reiterate affermazioni governative di
fuoriuscita dalla recessione, molti dati – relativi al continuo innalzamento dei
numeri sulla disoccupazione, al mancato rinnovo dei contratti pubblici, alla
lenta stabilizzazione di alcuni (non tutti) precari, alla difficile attrazione di
capitali per investimenti produttivi, ecc. – stanno a conferma del contrario, e
quindi rientrano nella menzogna normalizzata di un sistema incapace, ossia
impossibilitato a mostrare il suo necessario percorso di predatore
pubblico/privato della
ricchezza sociale. Siccome nessun politico o
sindacalista sembra più in grado di ricordare e le cause di tali menzogne da
propaganda – con buona pace degli illusi o ingenui/ignari dei 5 stelle – e le
motivazioni reali delle difficoltà di fuoriuscita dalla crisi di sistema, proviamo
qui a riproporre all’attenzione alcuni limiti sostanziali che determinano le
fandonie della governabilità “democratica”, per ora, illimitata.
L’aumento più rapido della massa assoluta dei profitti, appropriati dalla
totalità dei capitali ormai transnazionali, determina, nella ripartizione
complessiva, la diminuzione assoluta del profitto di alcuni singoli capitali, che
pertanto sono costretti a licenziare, a farsi assorbire da capitali più grandi, a
ristrutturare, ecc. Questo “negare” i più deboli capitali determinati,
indissolubilmente connessi al loro “altro”, cioè al capitale sociale mondiale,
costituisce il limite fondamentale di questo sistema, quale ostacolo da superare
nei tempi di crisi in maniera evidente. La forza produttiva del lavoro sociale
aumenta, a favore della struttura interna che incrementa i capitali, anche in
termini di potere sulla società , determinando quindi la riduzione necessaria di
popolazione lavorativa, che si viene a trovare progressivamente sempre più in
eccesso. Dato che lo sviluppo delle forze produttive richiede un impiego di
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quantità di lavoro sempre minore, anche i prodotti realizzati conterranno una
minor quantità di lavoro effettuato, e pertanto i loro prezzi caleranno. Ciò
significa però che aumenterà la quota di lavoro salariato non pagata rispetto a
quella pagata, mediante il prolungamento della giornata lavorativa, per
consentire l’esazione di profitti comunque alti, secondo l’imposizione della
concorrenza ormai planetaria..
Il limite all’impiego di un egual numero di forze lavorative – con
l’investimento della stessa quantità di capitale – è dato proprio dall’aumento del
grado di sfruttamento del lavoro, reso necessario dallo sviluppo stesso ed
estensione del sistema. Questo limite non è dovuto però alla produzione di
ricchezza per la soddisfazione di bisogni sociali, ma alla base ristretta, storica e
pertanto transitoria, della sola produzione di nuovo capitale appropriabile dal
valore prodotto e non pagato di lavoro altrui. Il limite sostanziale è pertanto lo
stesso modo in cui i capitali dominanti gestiscono la produzione sociale, per il
proprio intrinseco scopo: l’autovalorizzazione, il che necessariamente implica
esproprio e impoverimento della massa crescente di una popolazione, sempre
più espulsa (e quindi sempre più riducibile) dall’occupazione lavorativa.
Questo sistema economico-sociale, ormai dominante nell’occidente del
pianeta, si avvale ultimamente di forme governative “democratiche”, le cui
forme in continua evoluzione, sono da adattare alle esigenze dei mutamenti
produttivi. Sotto le apparenze di questa formula istituzionale, politica e
ideologica si nasconde il comando sul lavoro altrui, contenuto nelle leggi come
nelle Costituzioni dei vari Stati. Il focus su questo specifico punto, qui
forzatamente solo accennato, rinvia alla individuazione del conflitto sociale
dovuto proprio a quanto detto sopra, all’antagonismo strutturale degli interessi
sociali, da rintracciare anche nelle forme giuridiche e istituzionali. Per quanto
concerne il paese in cui viviamo, le riforme istituzionali, e non, sono continui
colpi di maglio all’esistenza stessa della conflittualità sociale, eradicando le basi
stesse della sua espressione collettiva. La soppressione di questa, anche nella
Carta costituzionale, costituisce il prossimo appuntamento governativo
all’indomani delle elezioni regionali.
Sembra importante a questo proposito riportare un estratto dal
“Manuale di autodifesa militante della Costituzione” – scritto da Salvatore
d’Albergo (con contributo di A. Catone), in cui si evidenziano i limiti della
“Democrazia Costituzionale” -, dato che i piani giuridici e istituzionali
costituiscono il nesso imprescindibile alle necessità di riproduzione e sviluppo
delle basi economico-sociali. “La c.d. “democrazia costituzionale” oggi esprime
la posizione culturale dei giuristi “democratici” che, tornando indietro di quasi
un secolo, sganciano i diritti civili dai rapporti sociali, cioè “reali”, privandoli
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così della forza che la Costituzione, con una permanente dialettica “politica,
economica e sociale”, conferisce anche ai diritti individuali, classificandoli così,
anch’essi, come “fondamentali”. Ciò anche perché si avalla l’autoritarismo
proprio della forma di governo verticistica e pseudodemocratica propria dei
modelli politico-istituzionali bipolari, che si differenziano dal totalitarismo solo
perché oltre al “partito unico” di governo, ammette un altro, solo e unico, polo o
partito – di opposizione “costruttiva”, cioè subalterna -, ma del tutto emarginato
per l’intera legislatura dal potere di indirizzo politico e parlamentare e, quindi,
del tutto ininfluente. Rappresenta un pernicioso arretramento dell’ideologia
giuridica italiana.”
In sintesi, per doveroso limite di spazio, la democrazia economico-sociale
viene ridotta ai soli aspetti “istituzionali” sottolineando le “garanzie” di rigidità
costituzionale e svalorizzando invece eventuali interventi pubblici
nell’economia a favore dei gruppi sociali più deboli. Approfondire pertanto il
passaggio da una forma di Stato storica ad un’altra, il cui nucleo dei principi di
fondo è la centralità dei conflitti di classe nei vari ordinamenti
politico-istituzionali, significa non immiserirsi nelle sequenze delle forme di
governo, su cui presiede una “cupola sovranazionale”.
Come non esiste un “popolo sovrano europeo” e il Parlamento
europeo rappresenta un coacervo di rappresentanze nazionali costrette a
codecisioni di scarso potere, così i parlamenti nazionali sono ormai “succubi dei
rispettivi esecutivi”. La “Democrazia costituzionale” rappresenta quindi la
svalorizzazione realizzata di una democrazia sostanziale (economico-sociale), in
cui l’indipendenza tra le funzioni di governo e quelle di “garanzie” di libertà
sociale, inattuate, determina altresì una riduzione della stessa democrazia
politica. La prospettiva di un “capo”, dalle origini storiche non troppo remote,
aleggia non solo sul piano politico ma si estende oggi anche a quelli sociali,
come richiedono la centralizzazione e la conseguente strutturale corruzione
della fase.
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