LETTERA PASTORALE
MONS. ROBERTO AMADEI
A SERVIZIO DEL VANGELO
Il Papa nella “Novo Millennio Ineunte” (NMI) traccia le linee pastorali suggerite
dall’esperienza giubilare, sottolineando alcune priorità e invitando le singole Chiese a
tradurle nella loro concreta situazione culturale ed ecclesiale, per custodire e coltivare
le grazie elargite dal Signore durante il Giubileo. I vescovi italiani hanno riletto il
documento papale avendo presente il cammino post-conciliare percorso dalla Chiesa
italiana, i traguardi raggiunti e gli impegni non rispettati, le luci e le ombre della
società italiana e delle comunità ecclesiali all’inizio di questo secolo. Le loro
proposte sono offerte in “Comunicare il vangelo in un mondo che cambia.
Orientamenti pastorali dell’episcopato italiano per il primo decennio del 2000”
(OP).
Vorrei richiamare i punti principali di questi documenti per verificare il cammino
tracciato dalla diocesi nei programmi pastorali, e per aiutare a collocare, all’interno
della vita della Chiesa italiana, la proposta di quest’anno e ciò che verrà indicato
negli anni successivi. Vivendo in comunione con le gioie e le fatiche delle altre
Chiese e accogliendo con fiducia la parola del Papa, comprenderemo meglio i nostri
problemi, con più serenità affronteremo le conversioni pastorali richieste. Più lucida
sarà la consapevolezza della missione delle nostre comunità e di ciascuno di noi, e
sentiremo maggiormente la forza e il coraggio che deriva dalla limpida, coraggiosa e
silenziosa testimonianza di tante sorelle e fratelli nella fede.
I - Seguendo la “bussola” del Vaticano II
1. Il Papa aveva scritto che la miglior preparazione al Giubileo doveva
consistere nel “rinnovato impegno di applicazione, per quanto possibile fedele,
dell’insegnamento del Vaticano II alla vita di ciascuno e di tutta la Chiesa”, e invitava
la Chiesa a interrogarsi sulla “ricezione del Concilio, questo grande dono dello
Spirito alla Chiesa sul finire del secondo millennio” (Tertio millennio adveniente,
20,36). A conclusione del Giubileo addita “il Concilio, come la grande grazia di cui
la Chiesa ha beneficato nel secolo XX: in esso ci è offerta la bussola per orientarci
nel cammino del secolo che si apre” (NMI, 57).
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2. Il compianto vescovo Oggioni, nel Convegno diocesano del 1991,
sollecitava la diocesi a concentrare tutte le energie nel “dare alla Diocesi di Bergamo
un volto conciliare”. Per continuare questo impegno si è deciso di rivedere
gradualmente le normali pratiche pastorali, per verificarne e potenziarne la capacità
di guidare nel cammino conciliare le comunità e i singoli credenti. Ovviamente
questa revisione, non sempre facile, deve essere accompagnata dalla rilettura attenta
delle quattro costituzioni conciliari che illustrano lo spirito e gli obiettivi principali
del Concilio. E’ l’invito dei vescovi: “Occorre prevedere, nel prossimo decennio,
una ripresa dei documenti del Concilio Vaticano II (soprattutto delle quattro grandi
costituzioni) perché siano profondamente meditati nelle nostre comunità e diventino
concretamente la bussola che ci orienta in questo nuovo millennio” (OP, 68).
Ritornando al cuore dell’evento conciliare saremo positivamente meravigliati per la
freschezza, lo slancio e la speranza suscitate dallo Spirito Santo in quel tornante
decisivo della vita della Chiesa contemporanea. Capiremo che la stanchezza, lo
scoraggiamento, e il disorientamento, sovente presenti nelle nostre comunità, sono
dovuti anche alla recezione parziale, e spesso solo esteriore, del Concilio; una
recezione che non ha cambiato il nostro modo di considerare la Chiesa, la sua
missione nella storia attuale, l’analisi serena ed appropriata del contesto in cui
viviamo e dei modi di considerare la vita umana, la dimensione sociale e quella
religiosa. Il Concilio è un dono sempre attuale, da rivisitare e riascoltare con
attenzione partendo dalla situazione delle nostre comunità, profondamente cambiate
rispetto all’epoca conciliare e post-conciliare.
Chiediamoci: i membri dei consigli pastorali parrocchiali e vicariali, e gli
impegnati nei diversi settori della vita della comunità, sono aiutati nella lettura
e nella comprensione del contenuto, dello spirito e del metodo conciliare,
motivando e rendendo comprensibili i mutamenti suggeriti dai programmi
pastorali annuali ?
II – Essere sguardo fisso sul volto del Signore
1. Le riforme autentiche della Chiesa sono sempre germogliate dal ritorno,
deciso e radicale, a Gesù Cristo che è la forma perenne ed insuperabile della vita
della Chiesa e di ogni credente. Così è stato anche nel Concilio: “Cristo, nostro
principio, Cristo nostra vita e nostra guida! Cristo, nostra speranza e nostro termine.
Oh! Abbia questo Concilio piena avvertenza di questo molteplice e unico, fisso e
stimolante, misterioso e chiarissimo, stringente e beatificante rapporto tra noi e Gesù
benedetto., fra questa santa e viva Chiesa, che noi siamo, e Cristo, da cui veniamo,
per cui viviamo, ed a cui andiamo. Nessun altra luce sia librata su questa adunanza,
che non sia Cristo, luce del mondo, nessuna altra aspirazione ci guidi, che non sia il
desiderio d’essere a Lui assolutamente fedeli” (Paolo VI, Discorso di apertura del 2°
periodo).
Giovanni Paolo II ha ripetuto questo messaggio in molti interventi del suo magistero,
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soprattutto nella preparazione e celebrazione del Giubileo. Ora lo presenta come il
cuore dell’eredità giubilare: “Se volessimo ricondurre al nucleo essenziale la grande
eredità che ci consegna l’esperienza giubilare, non esiterei ad individuarla nella
contemplazione del volto di Cristo; lui considerato nei suoi lineamenti storici e nel
suo mistero, accolto nella sua molteplice presenza nella Chiesa e nel mondo,
confessato come senso della storia e luce del mondo” (NMI, 15). Offre, poi, le linee
principali della meditazione cristologia.
2. Anche il documento dei vescovi dedica ampio spazio alla riflessione
sull’itinerario del Verbo della Vita: iniziando dal progetto eterno del Padre che in
Gesù Cristo ha pensato e benedetto ogni uomo, illustra il contenuto e lo stile della
missione di Gesù Cristo soffermandosi a scrutare la ricchezza di luce e di speranza
donate all’esistenza umana dal Risorto. Lo contempla nel suo venire quotidiano, e in
quello finale quando rivelerà la verità della nostra esistenza e della storia umana; è un
giudice dal cuore sempre aperto e in attesa, appassionata e paziente fino all’ultimo
istante dell’esistenza, dell’assenso della nostra libertà all’offerta dall’alleanza eterna
con Dio Uno e Trino.
Il punto di vista privilegiato dalla meditazione cristologia è quello della missione
della Chiesa: “Solo seguendo l’itinerario della missione dell’Inviato – dal seno del
Padre fino alla glorificazione alla destra di Dio, passando per l’abbassamento e
l’umiliazione del Messia, sarà possibile per la Chiesa assumere uno stile missionario
conforme a quello del Servo di cui essa stessa è serva” (OP, 10).
Ovviamente lo sguardo a Cristo deve coinvolgere la conversione della persona per
assumere il suo sentire, il suo modo di stare nella storia, di servire il Padre e i fratelli.
Contemplarlo significa accoglierlo come l’unico che apre l’esistenza all’umano
pienamente riuscito, cioè alla condivisione della vita stessa di Dio Uno e Trino.
Accoglierlo come la perla preziosa, perché è l’unico in grado di rendere positivo ogni
momento di qualsiasi esistenza. Accoglierlo come la sorgente perenne dello Spirito
Santo che ci rende Chiesa. Leggerlo, studiarlo, pregarlo frequentando la Bibbia
interpretata con la Chiesa e seguendolo nella vita concreta.
3. Diversi sono i motivi che spiegano l’insistenza dei due documenti sul
“ritornare e ripartire” continuamente da Gesù Cristo per verificare la qualità della vita
della comunità e di quella personale.
3.1 Nel Cristianesimo è la persona di Gesù che conta; tutto il resto prende luce
e significato da Lui, cuore dell’esperienza cristiana.
3.2 In una società secolarizzata l’esperienza cristiana può essere vissuta con
serietà, serenità e slancio, solo nella maturazione continua dell’adesione personale a
Gesù, il Risorto, sempre amorosamente presente nella nostra storia. Tale adesione è
accoglienza meravigliata del dono gratuito della misericordia divina; è impegno a
lasciarsi guidare in ogni momento della vita dal suo amore, la pienezza della nostra
esistenza. E’ un sì da rinnovare continuamente, soprattutto nei passaggi cruciali
dell’esistenza.
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3.3 L’incontro-dialogo con le altre tradizioni religiose potrà essere fecondo per
tutti soltanto se si conosce, non per sentito dire ma per esperienza personale, il cuore
del cristianesimo, appunto Gesù Cristo.
3.4 Un po’ in tutti, anche nei praticanti più fedeli, cresce la tendenza a
costruirsi un Gesù su misura, accettandone soltanto alcuni aspetti e censurandone
altri.
3.5 E’ facile illudersi che la riforma della comunità ecclesiale e dei singoli
credenti possa realizzarsi automaticamente mediante la trasformazione delle pratiche
pastorali. La riforma si realizza soltanto se questi mutamenti – necessari – sono
determinati da una vera volontà d’immergersi maggiormente nel mistero di Gesù
Cristo, e se generano l’autentica conversione del cuore della comunità e dei suoi
membri. Sono due aspetti ugualmente indispensabili e, perciò, da mantenere
strettamente uniti. Non sempre questo è avvenuto, soprattutto perché non si è
analizzata con attenzione l’evoluzione rapida del contesto sociale che rende
impossibile la comunicazione dell’esperienza di Gesù Cristo nelle modalità
tradizionali e più difficile la conversione del cuore.
3.6 Alla Chiesa e ai singoli credenti è richiesto di condividere con gli altri
uomini la loro esperienza di Gesù Cristo. E’ un dono del Signore offerto
gratuitamente perché si sappia dire a tutti che Gesù Risorto è il nome vero della
speranza che abita il cuore umano. La condivisione è possibile soltanto se si è
realmente afferrati da Colui che desidera essere riconosciuto e accolto pienamente e
consapevolmente da tutti come unico Salvatore: “La nostra testimonianza sarebbe
insopportabilmente povera, se noi per primi non fossimo contemplatori del suo
volto” (NMI, 16); “Va attentamente meditato il fatto che la Chiesa è chiamata ad
essere il luogo nel quale si riuniscono coloro che anzitutto vengono evangelizzati.
Sarebbe assurdo pretendere di evangelizzare, se per primi non si desiderasse
costantemente di essere evangelizzati” (OP, 47).
Perciò soltanto ricentrandoci su Colui che è il Vangelo, ripensandolo e rivivendolo –
come comunità e singoli credenti – all’interno delle domande, speranze e sfide
odierne, saremo in grado di permettergli di intercettare e illuminare la ricerca dei
nostri fratelli.
4. Desiderando progredire continuamente nella conoscenza e attuazione
dell’inesauribile mistero di Gesù Cristo e, alla sua luce, comprendere meglio il senso
e la ricchezza della storia, abbiamo iniziato la revisione delle pratiche pastorali
mettendoci alla scuola dell’anno liturgico. Infatti, soprattutto l’Eucarestia
domenicale, cardine dell’anno liturgico, è la sorgente dalla quale scaturisce ed è
perennemente rinnovata l’Alleanza da Dio offerta nel Cristo Risorto come traguardo
definitivo della storia umana e delle vicende personali. L’anno liturgico, perciò,
fonda e consolida la sequela di Gesù Cristo, della comunità e dei singoli credenti:
“Alla scuola permanente dell’Anno Liturgico, la comunità e i singoli credenti
imparano a stare nella storia con lo stile di Gesù Cristo, cioè realizzano la vocazione
battesimale e possono superare alcune tentazioni discretamente presenti nella nostra
pastorale: l’insistenza unilaterale sulla morale cristiana dando per pacifico il
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possesso della fede in Gesù Cristo, la pratica dimenticanza che il Risorto è il centro
che dona luce e significato al Credo e all’esistenza cristiana, la censura di alcune
componenti fondamentali del mistero di Cristo e della vocazione cristiana.
(Programma Pastorale 1994-1996, p. 13).
Per camminare verso questi obiettivi occorre che l’anno liturgico venga
programmato per tempo (non limitandosi a stilare un semplice calendario!), sia
realmente vissuto come il centro delle attenzioni e delle attività parrocchiali;
centro perché dice la fonte, lo scopo e lo stile delle diverse iniziative pastorali.
4.1 Per migliorare continuamente la celebrazione dell’anno liturgico si è
dedicato un programma (1997-1998) alle pratiche pastorali relative alla
conoscenza della Parola scritta di Dio e, in particolare, all’ascolto della
medesima Parola nella celebrazione eucaristica. Si auspicava una maggiore
familiarità con la Bibbia diffondendo la pratica della “lectio divina” e
costituendo gruppi biblici per favorire l’ascolto profondo, ecclesiale, ed orante
della Parola che il Signore rivolge alla sua comunità soprattutto nella memoria
settimanale della Pasqua. Un ascolto sostenuto dall’attenzione appassionata
alla storia concreta, alle speranze e delusioni, alle sofferenze e gioie della
famiglia umana. La Parola, infatti, vuole innamorarci ancora di più
dell’umanità voluta dall’amore gratuito di Dio e sempre abitata dallo Spirito
del Risorto; dona la luce necessaria per accorgersi delle opportunità offerte
oggi alla Salvezza di Gesù Cristo, e per diagnosticare realisticamente i mali che
oggi rendono più povera l’esperienza umana.
4.2 Il biennio dedicato alla liturgia (1998-2000), intendeva favorire la
crescita della partecipazione consapevole e impegnata al cammino dell’Anno
Liturgico. In particolare il programma pastorale “E’ il Signore”, con la
celebrazione del Congresso Eucaristico Diocesano, voleva essere un momento
di particolare riflessione sul significato del giorno del Signore e della
eucarestia domenicale, per rinnovarne adeguatamente la celebrazione e
rendere perenne la conversione giubilare. Rinnovamento indispensabile per
vivere l’Eucarestia come il momento centrale del continuo dialogo tra il
Risorto e la sua comunità; momento che rivivifica continuamente il nostro “sì”
alla sua Parola, e mantiene vigile la nostra attesa della condivisione piena della
sua vita. Momento nel quale la comunità e i singoli credenti ritornano a Gesù
Cristo per essere da Lui illuminati, purificati e inviati “nella storia concreta
annunciando e vivendo la carità, collaborando al suo progetto sulla famiglia,
sulla società, nell’accoglienza dei più deboli e del forestiero, favorendo la
riconciliazione che guarisce la crescente litigiosità e intolleranza, sempre
impegnati a costruire una società che sia realmente la casa comune che
permette a tutti di scoprire e vivere la dignità altissima dell’uomo” (E’ il
Signore, p. 56).
Anche su queste proposte poniamoci alcuni interrogativi:
- Le diverse iniziative della comunità sono realmente collegate e
unificate dal sentiero tracciato dall’anno liturgico ?
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- Si è preso in seria considerazione l’invito a costituire in ogni
parrocchia uno o più gruppi biblici per un approccio sistematico e vivo
della Bibbia ? Nei vicariati si sono attuate delle iniziative per rendere
familiare la Parola di Dio ?
- La celebrazione eucaristica domenicale è realmente l’azione più
preparata e più curata ?
III – Per divenire comunità testimoni dell’Amore e della Speranza
1. Gesù Cristo è l’inattesa pienezza donata dal Padre al desiderio umano di
vita, di felicità e di amore; è l’unica veramente incrollabile ragione di vivere, è la
Speranza che offre luce, gioia e respiro ad ogni uomo e a tutti i momenti
dell’esistenza. Più lo si conosce e si accoglie nella propria vita, e più si desidera
mostrarlo agli altri perché anch’essi scoprano la verità e il significato ultimo della
loro esistenza: si è chiamati a condividere, ora e per tutta l’eternità, la santità di Dio,
cioè il suo inesauribile amore: “La novità di vita in Gesù Cristo è la «buona novella»
per l’uomo di tutti i tempi: a essa tutti gli uomini sono chiamati e destinati. Tutti di
fatto la cercano, anche se a volte in modo confuso, e hanno il diritto di conoscere il
valore di tale dono e di accedervi. La Chiesa e, in essa, ogni cristiano non può
nascondere né conservare per sé questa novità e ricchezza, ricevuta dalla bontà
divina per essere comunicata a tutti gli uomini. Ecco perché la missione, oltre che
dal mandato formale del Signore, deriva dall’esigenza profonda della vita di Dio in
noi” (Redemptoris missino, 11). Quindi la Chiesa non è fine a se stessa ma è il Corpo
di Gesù Cristo, è la sua memoria vivente con il compito di annunciarlo e donarlo a
tutti gli uomini, offrendo a tutti l’aiuto necessario per incontrarsi con Colui che è il
salvatore unico dell’umanità.
La Chiesa da sé non è nulla, perché tutto riceve da Cristo; la Chiesa non esiste per se
stessa ma per il mondo. Esiste per proporre a tutti Gesù Cristo come l’unica vera
realizzazione dell’esistenza umana; offrire questa forma di vita nell’annuncio della
Parola, nei Sacramenti, nella testimonianza. Perciò la missionarietà, come dono e
compito di mostrare a tutti l’esistenza umana secondo Gesù Cristo, non è uno dei
tanti compiti della Chiesa, ma è la dimensione costitutiva della Chiesa stessa.
Il Papa ricorda questa missione di sempre alla Chiesa che nel Giubileo si è soffermata
a contemplare con particolare passione Gesù Cristo: “E non è forse compito della
Chiesa riflettere la luce di Cristo in ogni epoca della storia, farne risplendere il volto
anche davanti alle generazioni del nuovo millennio ?” (NMI, 16).
E auspica che in tutti i membri del popolo di Dio sia presente lo slancio della Chiesa
primitiva: “Dobbiamo rivivere in noi il sentimento infuocato di Paolo, il quale
esclamava: «guai a me se non predicassi il Vangelo» (1 Cor 9,16). Questa passione
non mancherà di suscitare nella Chiesa una nuova missionarietà, che non potrà
essere demandata ad una porzione di “specialisti”, ma dovrà coinvolgere la
responsabilità di tutti i membri del popolo di Dio” (Ib, 40).
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2. L’obiettivo principale del documento programmatico dei vescovi italiani è
l’indicazione delle scelte pastorali necessarie per “dare a tutta la vita quotidiana
della Chiesa una chiara connotazione missionaria” (OP, 44). Infatti “il compito
assolutamente primario della Chiesa, in un mondo che cambia e che cerca ragioni
per gioire e sperare, è sempre la comunicazione della fede, della vita in Cristo sotto
la guida dello Spirito, della perla preziosa del Vangelo” (Ib, 4). Una missione che
scaturisce spontaneamente dall’ascolto della Parola: dall’ascolto alla condivisione,
così il prologo della prima lettera di Giovanni (1,1-4) che descrive l’itinerario
autentico della fede cristiana; itinerario modellato su quello di Gesù, inviato dal
Padre, come è già stato ricordato .
Più motivi giustificano il richiamo insistente alla missionarietà del Papa e la scelta dei
vescovi italiani di dedicare questo decennio al tema della comunicazione della fede.
Ne ricordiamo due già accennati sopra.
2.1 In molti credenti praticanti si è affievolito, se non smarrito, il senso
della preziosità del dono della fede. Viene considerata come una delle tante
opinioni sul significato ultimo dell’esistenza umana, mentre invece è la
capacità, regalata dallo Spirito Santo, di riconoscere in Gesù Risorto il vero
volto di Dio e la verità piena dell’esistenza umana. Dono dato al “piccolo
gregge” perché lo condivida con tutti; dono indispensabile perché l’uomo possa
comprendere e vivere in pienezza la ricchezza dell’esistenza umana e perché
l’umanità sappia individuare la direzione giusta del suo cammino.
Nel programma pastorale 1994-1996, tra le priorità da avere sempre presenti si
indicava la missionarietà: “Educare alla fede coincide con l’educazione alla
missionarietà: perciò è un segno preoccupante l’indebolirsi dello slancio
missionario e l’affievolirsi della consapevolezza che la comunità cristiana
esiste per rendere possibile a tutti la fede in Gesù Cristo. Renderla accessibile
a chi non si è mai accostato alla fede cristiana, a coloro che l’hanno
praticamente abbandonata già da lungo tempo, a chi vive ai margini della
comunità, a quelli che, magari in modo confuso, stanno ricercando ma non
hanno ancora maturato la decisione di partecipare ai momenti più qualificanti
della vita della comunità” (p. 17-18).
A distanza di sette anni la preoccupazione è maggiore. Il silenzioso scivolare
nell’indifferenza religiosa di molti, è sovente accettato con indifferenza da noi
che continuiamo a “praticare” il cristianesimo; difficilmente ci sentiamo
interpellati da questo fenomeno. Praticamente abbiamo dimenticato che Gesù
Cristo è la Bella Notizia non riservata ai cristiani ma da dire a tutti, perché
l’unico modo di vivere l’esistenza in modo veramente ragionevole e valido è di
viverla come l’ha vissuta Lui; è l’unico modo di vivere che apre alla vita
divina, alla vita eterna.
2.2 Gesù Cristo è annunciato come l’unico Salvatore quando, con la
parola e con la vita, lo si presenta come risposta credibile agli interrogativi più
essenziali dell’uomo contemporaneo; risposta in grado di attuare le speranze
umane più autentiche perché pienezza di vita e di gioia. Per viverlo,
proclamarlo e manifestarlo così occorre ricomprenderlo all’ interno del pensare
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e del vivere odierno; pensare e vivere che permea in profondità la nostra
esistenza, e non soltanto quella degli altri. Senza questi ripensamenti vi è il
rischio di una pratica del cristianesimo senza la fede, cioè senza un’adesione
alla persona di Gesù Cristo che veramente incida nel modo di pensare, di
relazionarci alle persone alla società alle cose,di affrontare le diverse vicende
della vita.
I rapidissimi mutamenti avvenuti – e ancora in atto - rendono urgente tale
ricomprensione del cuore del Vangelo se si vuole accoglierlo come la luce che
dona senso e unità al vivere personale ed ecclesiale, come la parola che
risponde alle esigenze più vere della condizione umana odierna e capace di
interpellare quanti, in una società post-cristiana, ritengono il cristianesimo un’
esperienza ormai superata.
3. Il primo ed insostituibile modo di evangelizzare è l’esistenza stessa
della comunità ecclesiale: “L’ evangelizzazione e la testimonianza della carità
esigono oggi, come primo passo da compiere, la crescita di una comunità
cristiana che manifesti in se stessa, con la vita e le opere il vangelo della
carità” (Evangelizzazione e testimonianza della carità, 26). Le relazioni tra i
membri della comunità devono lasciar trasparire la carità divina conosciuta
nella frequentazione della Parola e accolta nell’Eucarestia:”Fare della Chiesa
la casa e la scuola della comunione: ecco la grande sfida che ci sta davanti
nel millennio che inizia, se vogliamo essere fedeli al disegno di Dio e
rispondere anche alle attese profonde del mondo” (NMI, 43).
Il vero volto di Gesù Cristo, che è quello della famiglia umana sognata da Dio
e, sia pure in modo confuso, dal cuore umano, è manifestato in modo
trasparente e convincente da comunità accoglienti dove non si viene giudicati
ma amati; comunità caratterizzate dall’ascolto e dall’aiuto gratuito; dove si
favorisce la crescita della responsabilità collettiva nel servizio del Signore e dei
fratelli (Programma pastorale 1996-1997). Comunità dove s’impara a
considerare e vivere le diversità come complementarietà e non come motivo di
polemiche, di gelida indifferenza, di silenziosa e tenace ostilità. Comunità che
non esauriscono il loro impegno nell’organizzazione o nel rispondere alle
urgenze del momento, ma sono attente a curare la qualità evangelica dei
rapporti fraterni e sensibili alle vicende personali di ciascun membro della
comunità.
4. La carità deve essere vissuta pure nel servizio integrale alle singole
persone, alla società, alla famiglia umana: “Dalla comunione intra-ecclesiale,
la carità si apre per sua natura al servizio universale, proiettandoci
nell’impegno di un amore operoso e concreto verso ogni essere umano”(NMI,
49). Deve farsi “servizio alla cultura, alla politica, all’economia, alla famiglia
perché dappertutto vengano rispettati i principi fondamentali dai quali dipende
il destino dell’essere umano e il futuro della civiltà. L’impegno sociale è una
dimensione imprescindibile della testimonianza cristiana: si deve respingere la
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tentazione di una spiritualità intimistica e individualistica, che mal si
comporrebbe con le esigenze della carità, oltre che con la logica
dell’Incarnazione e, in definitiva, con la stessa tensione escatologica del
cristianesimo” (NMI,51).
5. I vescovi si muovono nella medesima direzione. Avendo però presente
il contesto socio-culturale e la realtà ecclesiale del nostro paese, avvertono la
necessità di sottolineare la carità vissuta nella missionarietà, cioè nell’impegno
a comunicare la fede ai vicini e ai lontani. Ritengono che tale dimensione
missionaria delle nostre comunità potrà svilupparsi soltanto con precise e
indilazionabili scelte pastorali. In particolare ,invitano a impostare una
pastorale che tenga conto della presenza di due gruppi di battezzati. Vi è la
“comunità eucaristica”, “cioè coloro che si riuniscono con assiduità nella
eucarestia domenicale, e in particolare quanti collaborano regolarmente alla
vita delle nostre parrocchie…Vi è la vasta realtà di coloro che, pur essendo
battezzati, hanno un rapporto con la comunità ecclesiale che si limita a
qualche incontro più o meno sporadico, in occasioni particolari della vita, o
rischiano di dimenticare il loro battesimo e vivono nell’indifferenza religiosa.”
(OP,45).
La scelta fondamentale proposta è così formulata: “La condizione storica nella
quale ci troviamo raccomanda, anzi esige, una vigorosa scelta formativa dei
cristiani. Si tratta di: garantire qualità formativa … a ogni momento e
incontro proposto alle nostre comunità: iniziazione cristiana, omelia,catechesi,
colloqui personali, lavoro nei gruppi etc” (OP, Appendice 3). Si tratta di
rivisitare e correggere i momenti particolarmente significativi della vita della
comunità eucaristica avendo presente le difficoltà e le opportunità odierne
nell’adesione convinta a Gesù Cristo presente anche nei membri della
“comunità eucaristica”. Tale adesione è condizione indispensabile per la
missionarietà. Tra i momenti significativi sono ricordati il giorno del Signore,
l’eucarestia domenicale, l’anno liturgico, l’assiduo contatto con la Bibbia, la
formazione degli operatori pastorali, il lavoro dei consigli parrocchiali.
Soltanto così potrà crescere “ una fede adulta pensata, capace di tenere
insieme i vari aspetti della vita facendo unità di tutto in Cristo” (OP,50).
Nell’attenzione si dovrebbero privilegiare i giovani e la famiglia e curare in
modo particolare la formazione dei laici “che non solo attendono
generosamente ai ministeri tradizionali, ma che sappiano anche assumerne di
nuovi, dando vita a forme inedite di educazione alla fede e di pastorale sempre
nella logica della comunione ecclesiale” (OP 54).
Già nel primo nostro programma pastorale, tra le priorità, si era ricordato la
formazione dei laici. Ora i vescovi richiamano con forza questo obbiettivo
perché da esso dipende, in gran parte, il futuro delle nostre comunità, la loro
capacità di annunciare Gesù Cristo come la pienezza e la salvezza di tutto ciò
che è genuinamente umano.
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Certamente non è facile raggiungere questo obbiettivo, come è stato
eloquentemente dimostrato dall’applicazione del programma dell’anno scorso
dedicato alla formazione della coscienza morale.
6. Non è facile perché si tratta di rivisitare tutte le pratiche pastorali,
ripensarle per renderle capaci di parlare di Gesù Cristo alle speranze e
delusioni odierne. Non è facile perché l’annuncio presuppone la conoscenza,
carica di stima e di affetto, dell’orizzonte mentale e spirituale, delle
preoccupazioni e degli interessi di coloro ai quali si vuole parlare. Dobbiamo
ammettere che questa conoscenza sovente manca. La parte più decisiva del
mondo interiore degli abitanti delle nostre comunità ci è sconosciuta perché si è
lasciata plasmare da messaggi estranei o in contrasto con l’esperienza cristiana.
Però è un impegno indispensabile e indilazionabile. Infatti l’assenza o la
fragilità di tale dimensione formativa, criticamente ripensata, è una delle cause
maggiori della debolezza o della mancanza di un’autentica esperienza cristiana
in molti adulti, quindi della incapacità delle nostre comunità a comunicare la
fede alle nuove generazioni particolarmente segnate dai mutamenti in atto. Ed è
la principale causa di una vita personale e sociale non permeata dalla luce e
forza di Gesù Cristo e di una liturgia vuota della storia quotidiana. Non ci si
deve scoraggiare di fronte alle numerose difficoltà e nemmeno lasciarsi
abbattere dalla delusione per il numero ridotto di chi accetta questo cammino.
E neppure si richiede straordinaria capacità inventiva o frenetica attività.
Decisiva è la cura della qualità di ciò che già facciamo; qualità costruita con
l’attento ascolto dell’oggi, presente in noi e negli altri, con il continuo ritorno
al cuore del Vangelo, il Crocifisso Risorto. Un ascolto dell’uomo
contemporaneo e del vangelo operato nella fraternità presbiterale e nella
comunione dell’intero popolo di Dio, dando la parola a tutti, anche a quelli che
sembrano lontani.
Questo ci permetterà di passare da una pastorale unicamente preoccupata di
dare risposte già perfettamente confezionate, a una pastorale impegnata a
capire le domande dell’interlocutore moderno e di risvegliare gli interrogativi
di fondo dell’esperienza umana. La pastorale ripetitiva o improvvisata lascerà
il posto ad un progetto pastorale costruito non secondo i gusti personali ma
avendo presente le odierne sfide alla fede cristiana e le necessità dell’uomo
contemporaneo. Proprio da queste necessità sono determinate le modalità
dell’evangelizzazione, e quindi la figura storica delle nostre comunità, cioè il
loro modo di stare nella storia per svolgervi il servizio di Cristo.
7. Se il discepolato è autentico, e la conversione permanente, la
cosiddetta “comunità eucaristica” non resterà chiusa in se stessa ma si sentirà
inviata dal Signore – non più conosciuto solo per sentito dire – a comunicare a
tutti la carità, la gioia e la speranza del Vangelo: “La nostra speranza si fonda
unicamente sul fatto che la via tracciata da Gesù di Nazaret è quella che
conduce anche noi alla vita piena ed eterna” (OP, 25). Chi si sente amato
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gratuitamente da Dio, e da Lui definitivamente offerto ad ogni uomo nel Cristo
Risorto, si sente spinto a dire questa realtà agli altri; a dire il Vangelo con la
passione e lo stile dell’evangelizzatore per eccellenza, Gesù Cristo. Perciò ogni
membro della comunità avvertirà come gratificazione il dono-compito di essere
inviati dallo Spirito Santo a rendere presente il volto di Colui che solo può dare
senso pieno e gioia ineffabile all’esistenza umana. A renderlo presente nella
realtà familiare nel mondo del lavoro, della scuola, del tempo libero, dello
sport, dell’economia e della politica etc., partecipando alla storia comune
“sostenuti dalla convinzione che il fermento del Vangelo non è un bene loro
esclusivo, ma un dono da condividere, perché contributo decisivo per creare
condizioni di piena umanità per tutti” (OP, 61).
I singoli credenti e le comunità sapranno utilizzare e vivere con attenzione
missionaria i non rari momenti d’incontro tra la vita delle comunità stesse e chi
sembra aver chiuso con Gesù Cristo. Inventeranno spazi di dialogo con tutti –
non praticanti, non battezzati, membri di altre religioni – sui temi fondamentali
dell’esperienza umana oppure su questioni d’attualità che interessano tutti.
Dialogheranno per capire la storia spirituale del fratello che non si riconosce
più nella comunità, per offrire un’immagine vera di Gesù Cristo, la sola capace
di parlare ad ogni cuore, per offrire, con grande rispetto e paziente fiducia,
l’aiuto per una ripresa del cammino di fede; un cammino personalizzato e
graduale, capace d’introdurre (o reintrodurre) progressivamente nell’essenziale
dell’esperienza cristiana. Dialogheranno per capire e farsi capire, per meglio
comprendere l’uomo e quindi il Vangelo, per individuare le modalità di
lavorare insieme per il bene di tutti, mostrando il volto accogliente e
servizievole del Signore: “Questo significa essere corresponsabili del servizio
di Cristo all’uomo: servizio che costituisce la ragione per cui la Chiesa esiste e
continua la sua missione nella storia” (OP, 62).
IV - Nel servizio gratuito della società
Le ultime osservazioni introducono nel Programma pastorale di quest’anno dedicato
all’esame di alcuni aspetti del rapporto comunità ecclesiali – società; aspetti
analizzati nelle scelte e nella prassi pastorale delle comunità. In continuità con quanto
detto prima, schematicamente si ricordano soltanto alcuni punti da tenere presente per
vivere e verificare tale rapporto in coerenza con la fede.
1. L’impegno per la promozione umana è parte integrante
dell’evangelizzazione: “Tra evangelizzazione e promozione umana – sviluppo,
liberazione – ci sono infatti dei legami profondi. Legami di ordine antropologico,
perché l’uomo da evangelizzare non è un essere astratto, ma è condizionato dalle
questioni sociali ed economiche. Legami di ordine teologico, perché non si può
dissociare il piano della creazione da quello della Redenzione che arriva fino alle
situazioni molto concrete dell’ingiustizia da combattere, e della giustizia da
11
restaurare. Legami di ordine eminentemente evangelico, quale è quello della carità:
come infatti proclamare il comandamento nuovo senza promuovere nella giustizia e
nella pace la vera, l’autentica crescita dell’uomo?” (Evangelii nuntiandi, 31).
Infatti credere nel Padre che ha tanto amato il mondo da inviarvi il Figlio per liberarlo
da tutto ciò che opprime l’uomo, comporta l’impegno a dedicarsi con competenza e
generosità a servizio di questa liberazione. Per esprimere pienamente il cuore di
Gesù, samaritano attento a curare le ferite dell’uomo, è necessario partecipare
responsabilmente e generosamente alla costruzione di una società più giusta e più
umana. Quindi è necessario ricordare sovente che il motivo ultimo e la misura
decisiva del nostro impegno a servizio della convivenza umana è Gesù Cristo
incontrato nell’Eucarestia come servo di tutti.
Soprattutto in questo settore dell’esperienza cristiana vale il principio che per
testimoniare Gesù Cristo occorre essere suoi discepoli, rimanere e crescere
continuamente nel suo amore che sollecita a farsi carico della liberazione integrale
degli altri. Perciò per partecipare da credenti all’edificazione della casa comune, cioè
della società, certamente si deve essere competenti e abili. E’ però indispensabile un
radicamento profondo in Gesù Cristo, incontrato, conosciuto, amato e seguito nella
Chiesa, suo Corpo; occorre una solida spiritualità evangelica cioè una vita
solidamente illuminata e guidata in tutti i suoi aspetti dal riferimento a Gesù Cristo.
D ‘altra parte l’autenticità e la profondità dell’esperienza di fede di una comunità, e
soprattutto dei suoi membri laici, si manifesta nella qualità della partecipazione
responsabile alla storia della società.
2. Abbiamo già ricordato che il primo e principale aiuto offerto dalla Chiesa
alla società è la qualità delle relazioni della sua vita interna. Infatti, esse dovrebbero
lasciar trasparire il modo di essere prossimo annunciato e testimoniato da Gesù
Cristo. Rapporti di riconoscenza perché il nostro cammino secondo il Vangelo è
aiutato e sostenuto da tutto il popolo di Dio; rapporto di responsabilità reciproca
perché tutti devono sentire e vivere, come proprie, le difficoltà e le gioie della
conversione al Vangelo di ogni fratello. (Mt 18,15-16). A ogni credente, e a ogni
gruppo, è offerta la possibilità di dare il loro contributo perché la vita interna delle
comunità sia sempre più ricca della gratuità offerta dal Risorto nell’Eucarestia.
Perché il perdono di Dio, celebrato nei sacramenti, aiuti tutti a percorrere la difficile
ma necessaria strada della riconciliazione.
Soltanto così la comunità testimonia eloquentemente il nuovo mondo inaugurato da
Gesù Cristo, svelando la natura e la verità completa del rapporto umano vissuto nelle
diverse esperienze; e diviene provocazione e stimolo alla società per tentare di
migliorare continuamente la qualità delle relazioni.
Formare simili comunità è un compito arduo, sia per l’individualismo presente nel
nostro cuore, sia per il progressivo frantumarsi del tessuto sociale che facilitava il
senso di profonda appartenenza alla storia del paese che si identificava con la
parrocchia. Sia perché in questi anni, almeno nelle masse dei praticanti, la comunità è
sempre più vista come distributrice di servizi religiosi (da scegliere secondo criteri
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soggettivi) e non come un corpo vivente che ci genera la fede, che permette di
incontrarci autenticamente con la Persona del Risorto. Corpo che ha bisogno
dell’apporto di tutti per essere, in Cristo, “segno e strumento dell’intima unione degli
uomini con Dio e dell’unione degli uomini tra loro” (Lumen gentium, 1). La visione
conciliare della Chiesa per crescere ha bisogno di un paziente e intelligente lavoro di
formazione nella catechesi (incominciando dall’iniziazione cristiana), nella
celebrazione dei sacramenti, nell’offrire a tutti la possibilità di essere accolti e
ascoltati; dell’attenzione e della stima per i cammini delle singole persone, del
dialogo continuo tra i gruppi per ricercare insieme la possibilità e i modi di vivere
oggi questa fraternità.
E’ un compito difficile ma assolutamente necessario perché è in questione la natura e
la missione della Chiesa. Perché anche il nostro territorio ha estremo bisogno di
ritrovare ragioni solide per stare insieme non solo per interesse, per contratto o perché
si è nati in un medesimo territorio, ma perché il prendersi cura del bene (non solo del
benessere) dell’altro e della società fa parte della natura dell’uomo. Quindi si vive la
convivenza sociale non solo per conseguire interessi personali, ma perché si
condividono mete e cause comuni; perché si è convinti che la propria realizzazione è
intrinsecamente legata alla cura della realizzazione degli altri e del bene comune.
3. Il singolo credente può offrire, in modi diversi, il suo contributo per rendere
il cammino della società più consono alla dignità umana e, quindi, più conforme al
disegno del Padre che in Gesù Cristo invita tutti a riconoscersi fratelli in umanità.
3.1 Ascoltando con amore e intelligenza la vita del proprio territorio,
individuando le linee fondamentali del modo di pensare l’uomo, la vita personale e
sociale, la famiglia, il lavoro e gli altri aspetti dell’esistenza; in modo che, aldilà dei
luoghi comuni e delle semplificazioni indebite, possa conoscere le luci e le ombre
della realtà sociale, le attese e i bisogni di tutti, le risorse reali per rispondere
soprattutto alle speranze di chi è più debole.
Questa conoscenza va confrontata con il Vangelo, e con la sua prima mediazione
rappresentata dalla Dottrina sociale della Chiesa, per cogliere quanto è incompatibile
con l’antropologia evangelica e quanto invece cammina nella medesima direzione. E
con pazienza si individuano gli itinerari possibili e concreti per calare nell’oggi il
fermento evangelico, per permettere alla Parola di illuminare e guidare i diversi
ambiti della vita privata e pubblica.
Tale testimonianza personale nella vita quotidiana, evidenzia la capacità della fede
cristiana di dialogare con le esigenze fondamentali dell’uomo, di purificare e
promuovere la cultura odierna, di dare senso alle esperienze qualificanti della vita
(quali la professione, il matrimonio, il generare figli, l’uso dei beni, le responsabilità
politiche, le relazioni sociali), di aprire orizzonti nuovi e più in consonanza con la
dignità umana. E dimostra che il contenuto del Vangelo è traducibile in valori di vita
possibili e desiderabili per tutti.
3.2 Impegnandosi, con generosità e competenza, nel volontariato dove si è
chiamati a condividere più in profondità le sofferenze e ricchezze degli ultimi, e a
tentare strade nuove e qualitativamente più efficaci di servire le persone. Il
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volontariato, se vissuto adeguatamente consolida nella persona e irradia nel costume,
la luce della gratuità e dell’attenzione a tutte le domande di chi si trova in difficoltà.
3.3 “Collaborando attivamente al superamento della diffusa tendenza
all’astensionismo e al rifiuto dell’attività politica, vivendo e mostrando in modo
credibile concreta stima per quest’attività che è una maniera esigente – ma non è la
sola – di vivere l’impegno cristiano al servizio degli altri” (Octagesima adveniens,
46). L’attività politica è esigente perché ricerca e si sforza costantemente di costruire
il bene comune cioè “l’insieme di quelle condizioni di vita sociale, con le quali gli
uomini, la famiglia e le associazioni possono ottenere il conseguimento più pieno e
più spedito della loro perfezione” (Gaudim et Spes, 74).
Si contribuisce al recupero della stima per l’attività politica esplicando con
consapevole e competente responsabilità gli atti più comuni dell’attività politica e
sociale: partecipando alle votazioni, seguendo i dibattiti sui problemi più significativi
della vita del paese, cercando di non assecondare chi grida di più, chi sollecita gli
interessi meno nobili, chi semplifica indebitamente la complessità dei problemi e
delle soluzioni. Mediante un’informazione attenta e critica si cerca di elaborare una
visione personale, ragionata e non emotiva, per essere in grado di dare il proprio
contributo, nei modi debiti, al cammino comune.
Dedicandosi con competenza e responsabilità alle diverse forme d’impegno politico,
partecipando agli organi di amministrazione della cosa pubblica, e sostenendo
attivamente tutte le iniziative che intendono favorire la partecipazione di ogni
cittadino alla costruzione del bene comune. In questi impegni occorre coltivare e
perfezionare la capacità di cogliere nelle diverse proposte politiche non solo gli
eventuali vantaggi particolari, ma la visione dell’uomo e della società, e la
concezione della politica soggiacenti alle proposte; insieme alla capacità di valutare
come queste visioni siano coerenti con il Vangelo, e se favoriscono o meno l’uomo.
A questo proposito ricordiamo un passaggio del discorso di Giovanni Paolo II al
Convegno di Palermo. “La Chiesa non deve e non intende coinvolgersi con alcune
scelte di schieramento politico o di partito, come del resto non esprime preferenze
per l’una o per l’altra soluzione istituzionale o costituzionale, che sia rispettosa
dell’autentica democrazia. Ma ciò nulla ha a che fare con una ‘diaspora’ culturale
dei cattolici, con un loro ritenere ogni idea o visione del mondo compatibile con la
fede, o anche con una loro facile adesione a forze politiche e sociali che si
oppongono, o non prestano sufficiente attenzione, ai principi della dottrina sociale
della Chiesa sulla persona e sul rispetto della vita umana, sulla famiglia, sulla
libertà scolastica, la solidarietà, la promozione della giustizia e della pace” (n. 10).
Quindi neutralità non significa rinunciare a valutare moralmente le scelte politiche e i
metodi per realizzarle, cioè abdicare al dovere di denunciare ciò che mette in pericolo
la libertà e dignità dell’uomo, soprattutto dei più indifesi, e la solidarietà dell’intera
famiglia umana.
Non basta neppure, soprattutto per quanto riguarda i singoli credenti, limitarsi
all’enunciazione in via di principio dei valori. E’ necessario testimoniarli con
coraggio e serenità, come è già stato ricordato, e ricercare pazientemente e
responsabilmente le possibilità e modalità concrete per iniziare l’attuazione almeno
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graduale di tali valori. Una realizzazione in grado di raccogliere e allargare il
consenso indispensabile in una società democratica, secolarizzata e pluralista.
Sforzandosi poi di dialogare, sempre con rispetto, anche con le posizioni che non si
condividono perché ritenute non pienamente rispettose della dignità della persona.
I credenti che s’impegnano direttamente nell’amministrazione della cosa pubblica
devono coltivare continuamente la vita spirituale cioè la disponibilità a lasciarci
guidare dallo Spirito del Risorto sulla strada del servizio imparato dal ritorno
continuo alla Croce di Gesù Cristo: servizio competente e abile, ricco di gratuità,
coerenza, pazienza e dell’incrollabile speranza di chi si affida alle promesse del
Padre. Un servizio che non si preoccupa esclusivamente del successo immediato, ma
principalmente di testimoniare concretamente la forza rinnovatrice del Vangelo, e di
aprire dei cammini a favore della liberazione integrale dell’uomo, anche se l’efficacia
la si vedrà soltanto nei tempi lunghi.
4. Perché questo apporto dei cittadini cristiani ci sia, occorre riprendere il
discorso relativo alla formazione dei laici, accennato sopra, avendo presente i
problemi complessi, nuovi e in continua evoluzione della società odierna, e la
difficoltà di analizzarli e affrontarli alla luce della fede. Ricordiamo semplicemente
alcuni passaggi della nota pastorale scritta nel 1998 dalla Commissione episcopale
per i problemi sociali e il lavoro: Le comunità cristiane educano al sociale e al
politico”.
4.1 Innanzitutto si richiama il legame tra questo impegno e l’evangelizzazione
e, quindi, tra questa e la formazione al sociale e al politico: “E’ dunque patrimonio
ecclesiale la coscienza di dover educare al sociale e al politico, e le comunità devono
sentirlo come loro compito, pena una evangelizzazione monca” perché “la
formazione dei credenti risulta carente di quella parte essenziale del messaggio
cristiano espresso con forza dall’insegnamento sociale della Chiesa” (n. 3).
4.2 Delineano sinteticamente il profilo del “cittadino cristiano”: “Per una
evangelizzazione integrale occorre educare alla dimensione socio-politica cristiani
che sappiano essere cittadini consapevoli e attivi, che sul territorio facciano la loro
parte e non subiscano passivamente gli avvenimenti; lavoratori coscienti e non solo
dipendenti; intellettuali che non vivono le loro competenze chiusi nelle élites
culturali, ma sappiano portare energie alla ricerca di un futuro più umanizzato:
politici non più maestri di tattiche e strategie estranee alla gente ma che riscoprano
idealità e competenze per la costruzione del bene comune che è nelle aspirazioni
profonde di tutti” (n.40). Occorre formare dei credenti che sappiano considerare e
vivere l’impegno nei vari ambiti del vivere quotidiano come luogo della risposta alla
chiamata dello Spirito Santo, cioè come il cammino concreto della loro
santificazione, come il modo proprio di vivere la carità di Gesù Cristo. Il documento
dei vescovi italiani parla dell’importanza della “presenza significativa dei fedeli laici
negli ambienti di vita. Il riconoscimento della laicità dello Stato e delle sue istituzioni
non ci sottrae dal dovere di collaborare al bene del paese: costituisce piuttosto il
terreno della piena cittadinanza dei cattolici italiani. Alla sua vita essi partecipano
sostenuti dalla convinzione che il fermento del vangelo non è un bene loro esclusivo,
15
ma un dono da condividere, perché contributo decisivo per creare condizioni di
piena umanità per tutti… (occorre) rilanciare una pastorale d’ambiente sempre più
indispensabile per scompaginare la comunità battesimale, per raggiungere quanti
sono in attesa dell’annuncio cristiano, per dare efficacia al contributo dei cattolici
alla vita della società” (OP, 64). Bisogna decisamente evitare l’impressione che ci
accontentiamo del cristiano che nel suo modo di vivere è di fatto appiattito sulla
mentalità comune; oppure di quello attivamente ripiegato soltanto sulle opere
intraecclesiali, o incapace di assumere in prima persona la responsabilità di una fede
che tenta di incidere sulla storia personale e collettiva.
4.3 Chi deve educare? La comunità intera in ogni momento della sua attività:
“L’attitudine educativa al sociale di una comunità non si misura tanto dai momenti
specifici o specializzati, ma nel vissuto quotidiano della pastorale ordinaria, da
quanto si sa educare al sociale della catechesi, in quella giovanile e in quella degli
adulti. La si percepisce dalla predicazione omiletica, se è avulsa dal contesto
territoriale e storico o se invece sa attualizzare la parola di Dio nelle problematiche
dell’oggi, educando i cristiani all’unità tra la fede professata e la scelta di vita” (n.
10). Ancora, la comunità educa accogliendo senza riserve o sospetti i laici che danno
la loro testimonianza nel mondo, per sostenerli, per verificare insieme la qualità della
fedeltà al Signore e ai fratelli, e perché l’intera vita della comunità sia arricchita dallo
loro esperienza. Questo discernimento comunitario è stato raccomandato dal Papa a
Palermo: “E’ più che mai necessario educarsi ai principi e ai metodi di un
discernimento non solo pastorale, ma anche comunitario, che consenta ai fratelli di
fede, pur collocati in diverse formazioni politiche, di dialogare, aiutandosi
reciprocamente a operare in lineare coerenza con i comuni valori professati” (n. 10).
La nota dei vescovi indica altri due obiettivi: mostrare come è possibile un dibattito
politico serio, e perciò fecondo, senza indulgere all’avvilente, inconcludente e
scandalosa litigiosità politica, purtroppo molto presente anche nei cattolici impegnati
in politica. Si deve poi “evitare che la pluralità di opzioni si risolva nella deriva di
una diaspora dispersiva oppure che le divisioni politiche si ripercuotano sull’unità
della comunità cristiana” (n.9).
Questo confronto e discernimento comunitario – urgente ma tutto da inventare –
renderebbe ancora più ricco e credibile il volto della fraternità cristiana mostrando
come è possibile gestire, secondo la carità del Signore Gesù, le tensioni più profonde
e la legittima pluralità di opzioni politiche.
5. Il servizio alla società della comunità ecclesiale e dei singoli credenti deve
distinguersi soprattutto per la testimonianza della gratuità. Ci guida un’unica
preoccupazione: aiutare le singole persone e la società a comprendere che la fonte e
l’orizzonte ultimo della storia umana è l’amore gratuito di Dio Uno e Trino offerto
alla condivisione della famiglia umana. Quindi, non ci muove il desiderio di
“conquistare” i diversi ambienti ma, ispirati e sostenuti dalla luce e speranza del
Vangelo, e condividendo l’impegno di tutte le persone di buona volontà, vogliamo
contribuire a renderli più umani.
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Per questo, per esempio, vogliamo impegnarci nel mondo della scuola. Siamo
convinti, come del resto tante altre persone, dell’importanza fondamentale della
scuola per la formazione dell’uomo, del cittadino, del lavoratore. Perciò vogliamo
dare il nostro contributo, insieme a tutti i cittadini, perché l’intero mondo della scuola
sia sostenuto nella sua delicata e non facile missione.
E se insistiamo per il riconoscimento completo delle scuole cattoliche (ma non solo !)
è perché siamo convinti “della necessità di passare da una scuola prevalentemente
statale e centralizzata ad una scuola della società civile, capace di riconoscere e
valorizzare, secondo il principio di sussidiarietà, l’apporto di tutti i soggetti e delle
istituzioni impegnate nella formazione delle giovani generazioni”, in primo luogo dei
genitori. Ovviamente anche in questo, come nelle altre opere gestite dalla comunità
ecclesiale, si devono rispettare la natura e la finalità delle opere stesse, osservare
fedelmente le leggi, unitamente all’attenzione e all’aiuto disinteressato al bene della
persona.
Ancora una volta desidero invitare tutti a non lasciarsi vincere dalle difficoltà e dalla
facile tentazione di rassegnarsi a ripetere il già fatto.
Non stiamo affrontando un’impresa scelta da noi; siamo stati chiamati dal Risorto a
collaborare con lo Spirito Santo sempre all’opera nei cuori umani per appassionarli
alla costruzione della casa comune, segno della casa paterna dove ci sarà
abbondantemente dato ciò che il cuore umano non può non desiderare: la pienezza di
vita, di felicità condivisa nella fraternità universale. E il Risorto ci chiama ogni
giorno ripetendoci “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt
28,30). Nello Spirito Santo lavorano con noi tante sorelle e fratelli nella fede, e
moltissime altre persone che, pur non condividendo la ricchezza e la gioia della fede
in Gesù Cristo, come criterio di azione hanno scelto il bisogno dell’altro.
Nell’anno pastorale appena terminato, la Chiesa ha proposto alla nostra imitazione tre
personalità della nostra storia religiosa: il beato Giovanni XXIII, la beata Caterina
Cittadini, la santa Teresa Eustochio Verzeri. Personalità diverse ma accomunate dalla
straordinaria disponibilità a lasciarsi plasmare dallo Spirito Santo come icone di Gesù
Cristo servo dei fratelli. Servizio reso nella semplicità quotidiana e nelle scelte
straordinarie proposte dalla Provvidenza; servizio assolutamente disinteressato,
sostenuto dalla fiducia e speranza nel Padre. Servizio che ha reso più evangelica la
Chiesa e più ricca di umanità la nostra storia.
La loro preghiera e il loro esempio sostengano il nostro impegno a continuare la
storia arricchita anche dalla loro risposta al Signore.
La Vergine Santissima, serva di Dio e dell’umanità, ricolmi i nostri cuori della sua
generosità e speranza, e ci renda servi sereni della gioia dei nostri fratelli.
Bergamo, 26 agosto 2001.
Solennità di S. Alessandro martire.
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DIOCESI DI BERGAMO
«Tu lo dici; io sono re!»
(Gv 18,33-38, 19,1-11)
ICONA
PROGRAMMA PASTORALE 2001-2002
Bergamo, Solennità di S. Alessandro Martire, 26 agosto 2001.
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“Ecce Homo”
Honoré Daumier, 1850. Essen, Museum Folkwang.
(cm. 160x127)
La storia dell’arte è ricchissima di “Ecce Homo”.
Quella che istintivamente è apparsa più “parlante” per noi (del nuovo millennio) è questa. E’ opera
di un francese, Honoré Daumier, che l’ha dipinta nel 1850, a ridosso del ’48 rivoluzionario. La
scelta si è però rivelata alquanto problematica: l’artista ha prodotto migliaia di litografie (graffianti
caricature di ogni autorità compresa quella ecclesiastica, e splendidi squarci della vita umile ed
eroica del popolo) e relativamente poche opere a colori su tela; non ci restano di lui che tre opere a
soggetto sacro, tutte e tre sono state il tentativo di soddisfare una committenza importante, quale era
quella di un ministro dello Stato, ma nessuna delle tre è stata accettata dalla commissione incaricata
di valutare; una delle tre è proprio questo “Ecce Homo”; infine c’è da sottolineare che il vero titolo
dato dall’autore è: «Noi vogliamo Barabba», con evidenti connotazioni socio-politiche. Eppure,
nonostante queste premesse, il quadro ci appare affascinante.
Si tratta di un Cristo che non è mai stato in Chiesa, in tutti i sensi. E’ un Cristo portato sulla piazza.
Dentro le chiese ormai è difficile che operi un grande artista. La crisi, annunciata allora, dura anche
oggi. Dentro infatti c’è il Cristo ripulito dall’inquinamento della vita: ha una splendida capigliatura,
occhi azzurri e intriganti, mani affusolate e benedicenti.
Ciò che gli sta attorno non è né cielo né terra, ma uno spazio fatto di luce-fondale che non crea né il
tempo dell’uomo né l’allusione all’eternità.
Il Cristo di Daumier invece è sopra una balconata sotto la quale scorre una lava sporca e viscida:
quest’ultima è l’umanità resa massa dal potere politico che sembra governarla a suo piacimento con
un gesto (quello di Pilato), che annulla o cerca di annullare l’unico “individuo” che non cade
nell’anonimato: Gesù, il Cristo.
L’esatto contrario del Cristo è l’uomo che sorregge il bambino: ha un volto, ma il suo braccio e la
sua mano destra, che indicano in Gesù l’uomo da eliminare, si rendono talmente molli da far intuire
che anche questo individuo-papà sta perdendo i suoi connotati (e già la testa diventa cranio sporco)
per amalgamarsi alla melma della massa. C’è però quel bambino. Sta proprio sotto Gesù. E’ il
bambino che obbedirà al potere ingiusto, all’insegnamento del papà che è succube della folla o è il
bambino che si lascerà “stupire” dalla figura del condannato? E chi è questo condannato? Per
Daumier è l’innocente, brutalizzato dal potere che non cerca se non se stesso.
Nel suo non lasciarsi piegare, il prigioniero diventa il simbolo di tutto un popolo che deve levarsi in
piedi e alzare la testa con dignità. Raramente nella pittura con pochissimi tratti (e qui sta la
specificità pittorica di Daumier: estrema forza sintetica, grande potenza evocativa, impetuosa carica
espressiva, livello epico alla Michelangelo; il tutto in poche linee e scorci che persino nel bianconero delle litografie contengono la suggestione del colore) è stata delineata una simile maestà.
Daumier ha una sua ideologia, è addirittura il primo a far uso dei disegni (in litografia) stampati sul
giornale quotidiano per tentare di “educare” il popolo, togliendolo dall’anonimato della massa. E’
feroce contro l’autorità; qui addirittura fa di Pilato un energico e violentissimo politico. Come
esegeta andrebbe bocciato. Anche come artista, se a prevalere fosse l’ideologia. L’arte, prima che tu
o l’artista faccia spazio alle idee o agli scopi da perseguire, ti concede un momento contemplativo.
Anche di fronte al cattivo, non t’arrabbi, anche di fronte al volto con gli occhi rivolti al cielo non ti
viene subito da pregare. Semplicemente entri in un atto contemplativo. Il linguaggio è fatto di linee,
forme e colori. Non c’è niente fuori posto. E in questo sta la sua gratuità: è bello che sia così. Inoltre
il gioco delle forze lì dentro è come un polmone carico di vita. Nasce lo stupore. La vita qui traspare
come miracolo, comunque bello. Poi subito ti viene avanti la tua vita che va ad impastarsi con il
quadro. E allora Daumier dirà che Gesù è il popolo innocente, che lui fu il più buono e (forse) il più
illuso di tutti.
E noi cristiani?
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Come non pensare al pastore “bello”? Come non vedere con compassione l’umanità-gregge che gli
scorre sotto invocando un pastore? Come non capire che c’è modo e modo di esercitare un potere
(Pilato ha un gesto, anche se splendido artisticamente, violento, mentre le guardie mantengono
dolcemente allentate le funi, evitando di aggiungere violenza a violenza)?
Ma soprattutto: perché Gesù qui, in questo quadro, appare “re”? Quali sono le forme pittoriche
messe in campo per renderlo tale? E che senso ha questa straordinaria leggerezza della sua figura?
Dove è, al di là del quadro, la vera regalità di Gesù?
E quel bambino…?
E quel vapore di melma che man mano sale diventa polvere d’oro…?
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Premessa. Dal programma pastorale sulla morale a quella sulla società
Il programma pastorale per l’anno 2001-2002 riguarda la revisione delle pratiche pastorali relative
al rapporto tra comunità ecclesiale e società civile. Con questo lavoro intendiamo dare
continuazione e applicazione alle prospettive del programma pastorale dell’anno 2000-2001 sulle
pratiche riguardanti la formazione della coscienza morale cristiana all’interno della riflessione più
generale sulla qualità cristiana della testimonianza.
Il percorso delle nostre comunità in questi anni si è sforzato di rileggere quanto esse stanno
proponendo come cammino pastorale nella vita di ogni giorno, per cercare di trovare una coerenza
interna e fedele al Vangelo e un’efficacia per gli uomini di oggi. L’itinerario, a volte faticoso, si
lascia guidare dalle linee indicate dal Concilio Vaticano II, nei tre grandi capitoli della vita
cristiana: la Parola, il Rito, la Testimonianza della Carità. Possiamo così sintetizzare questo sforzo
in questo slogan: Dare alla Chiesa di Bergamo un volto conciliare secondo le linee delle quattro
grandi Costituzioni conciliari (Dei Verbum, Lumen Gentium, Sacrosanctum Concilium, Gaudium et
Spes). Il metodo scelto è quello di rivedere in modo analitico e comunitariamente condiviso le
pratiche pastorali concretamente attuate.
Lo sfondo che guida i programmi pastorali di questi anni è quello che si preoccupa di mettere in
evidenza l’immagine di Chiesa che stiamo realizzando, come soggetto e come oggetto della pratica
pastorale, in cui si esercita il mandato missionario di evangelizzare tutti i popoli della terra.
A poco a poco ci siamo resi conto di almeno due grandi novità nella vita delle nostre comunità. La
prima è che viviamo in un’epoca di grande e veloce cambiamento, che comporta la presenza
simultanea di modelli di vita molto diversi tra loro. In questo clima si rende assolutamente
necessario uno stile pastorale di programmazione, che non dia per scontato e ovvio nulla, ma si
applichi nell’analisi della situazione, nella sua interpretazione e nella programmazione condivisa tra
tutti gli attori della vita ecclesiale. Una sempre ripetuta verifica eviterà di faticare invano e di
prendere abbagli.
La seconda novità è che in questi anni si è venuto consolidando il riferimento a una nuova forma di
teologia, che sostituisce quella neoscolastica, alla quale molti di noi erano abituati. Si tratta di una
teologia che dialoga più da vicino con la cultura moderna, essa pure oggi in declino e in grande
cambiamento. La nuova teologia privilegia l’approccio all’umano, alla libertà e alla storia, più che
l’approccio al cosmo e alle idee fisse e metafisiche. Questo lavoro teorico è tutt’altro che concluso,
ma mostra di essere abbastanza interessante e coerente. Per lo meno sembra un po’ più convincente
degli strumenti del passato. Comunque è un modello non ancora diffuso e non del tutto collaudato.
Di qui la fatica dell’aggiornamento.
Alla luce di queste osservazioni la scelta del tema proposto per il nuovo programma pastorale, si
giustifica per molti motivi, di cui, però, il più significativo è quello relativo al ruolo essenziale e
fondamentale che la cultura e la società svolgono nella formazione della coscienza umana.
Possiamo, infatti, riassumere che
a) la società non è solo sfondo più o meno indifferente dell’edificazione della Chiesa, ma
ambito antropologico di senso, modo sensato di esprimere e di vivere l’umanità, che il
credente deve interpretare per porre l’atto di fede (lo si è visto nel corso del
programma pastorale del 2000-2001 nel rapporto tra etica cristiana ed ethos,
individuato come elemento tipico per comprendere l’attuale crisi della morale).
b) La testimonianza ecclesiale della fede ha una configurazione storica e sociale
essenziale: sono i mutamenti storico-civili a provocare nel nostro tempo una crisi e un
ripensamento della testimonianza della Chiesa. E gli stili pastorali concreti sono legati
alle diverse maniere di valutare la società e la civiltà.
c) C’è un rapporto stretto tra il discernimento pastorale e il discernimento storico-civile,
ossia tra il modo di guidare la Chiesa e le forme di governo della convivenza pubblica.
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Già lo scorso anno il lavoro di verifica pastorale si è confrontato con un’obiettiva grande difficoltà,
quella del cambiamento di prospettiva che la riflessione teologica ha dato alla morale. Il
superamento dell’impostazione intellettualista e moralista della morale, ci siamo detti, comporta
l’accoglienza della storicità della verità e perciò della formazione del giudizio etico a partire dalle
caratteristiche di senso che l’agire umano dischiude nel tempo. Non c’è, insomma, nell’agire umano
verità fissa e astratta a prescindere dalle condizioni mutevoli dell’operare, perché il senso
dell’azione risulta fortemente legato alle caratteristiche mutevoli della storia in cui essa si pone. Per
questo motivo occorre operare il discernimento cristiano riferendosi non solo ai principi etici
generali e teorici, ma anche sforzandosi di individuare il senso concreto che la fede provoca nella
situazione storica in cui si agisce.
Finora le indicazioni si erano fermate al caso esemplare, ma un po’ teorico, della catechesi, intesa
come pratica diffusa e condivisa di formazione della coscienza morale cristiana. I risultati del
confronto svolto lo scorso anno tra i catechisti delle parrocchie non hanno fornito grandi indicazioni
sul tema del programma pastorale, benché sia stata un’esperienza interessante per il confronto e la
crescita dei catechisti stessi.
Ecco allora l’opportunità che il programma pastorale suggerisce di impegnare le comunità cristiane
in un’analisi concreta di un aspetto dell’agire cristiano nell’oggi. L’aspetto prescelto è quello del
rapporto tra la comunità cristiana e la società civile. La domanda che ci si pone è duplice. Da un
lato ci si chiede: «Che cosa fa la comunità cristiana per l’edificazione dell’umana convivenza? Che
rapporto c’è tra la qualità della vita comunitaria cristiana e la fede? Come la parrocchia si sforza di
praticare il vangelo costruendo la pace? Che itinerari formativi si propongono per dare coscienza
critica cristiana ai fedeli impegnati nella testimonianza e nell’annuncio nel campo della convivenza
tra persone e gruppi? C’è un nesso tra il cammino personale di fede e le forme istituzionali in cui i
cristiani vivono?…».
Dall’altro lato ci si interroga per comprendere in che modo ciascuno di noi e la comunità cristiana
tutta traducono nella vita concreta la fedeltà al Vangelo costruendo istituzioni e costumi sociali
corretti e coerenti.
Prima parte
1. Partiamo dalle attività delle nostre comunità
Il programma pastorale ci invita a rileggere le pratiche pastorali che le comunità cristiane svolgono
nel campo della vita pubblica. Il criterio generale di lettura non deve essere soprattutto quello
giuridico e istituzionale, ma quello etico e antropologico, ossia quello che individua nella
costruzione della comunità degli uomini le condizioni per l’educazione dell’uomo come tale.
Non stupisca questa attenzione, che per lo più sfugge alla consapevolezza personale e pastorale.
Normalmente non ci si rende conto del peso fondamentale che la società e la cultura esercitano sulla
formazione della coscienza personale. Alcuni esempi possono facilitarne la comprensione. Ognuno
di noi mangia, beve, cammina, progetta la sua giornata, opera scelte andando a cercare nei meandri
del proprio desiderio ciò che è più opportuno fare, ma dà per scontato che la reperibilità delle
risorse e che le condizioni di rappresentazione del proprio desiderio siano ovvie. Invece sono per lo
più di tipo sociale e perciò sono frutto di un’organizzazione e di una logica tutt’altro che ovvie e
spontanee. Proprio la crisi dell’insegnamento delle buone maniere, tipica della nostra cultura, mette
in evidenza che oggi si ritiene che la libertà possa dispiegarsi senza fare riferimento alle regole
sociali, semplicemente perché tali regole non sono più ideologiche e perché le disponibilità di beni
sono molto aumentate. Invero, però, ciò che mangiamo è frutto della produzione e della
distribuzione alimentare, l’approccio alla malattia è legato allo sviluppo della scienza medica e della
struttura sanitaria, il tipo di abbigliamento segue le mode… Alla fine, buona parte dell’immagine di
sé che noi costruiamo nelle scelte della vita, trova la sua possibilità e le sue linee di orientamento
proprio a partire dall’organizzazione sociale in cui ci troviamo.
22
Il nostro intento pastorale è quello di verificare come nasce e come si sviluppa l’organizzazione
sociale e culturale, poiché essa non accade spontaneamente o casualmente, ma dipende per lo più
dalle scelte umane. Queste coinvolgono la testimonianza della carità, della quale la politica e
l’impegno sociale divengono luoghi essenziali.
1.1 I compiti istituzionali
L’attività pastorale delle nostre comunità e il loro significato umano, sia a livello fondamentale, sia
a livello civile, costituiscono un elemento dell’impegno sociale e civile, non solo per edificare la
comunità cristiana, ma anche per collaborare con tutti alla costruzione della comunità umana. Le
nostre parrocchie, infatti, mettono in atto ogni giorno proposte socialmente e civilmente rilevanti e
incrociano quotidianamente esigenze provenienti dalla società e dalle sue istituzioni. Occorre
domandarsi che significato culturale, sociale, civile ed ecclesiale questi comportamenti assumono e
come mostrano coerenza evangelica. Questa domanda ha connotazioni di carattere storico, perché
ogni epoca propone forme di convivenza umana adatte a rispondere ai bisogni di quel periodo.
Alla luce di queste osservazioni, il programma pastorale chiede a ogni comunità cristiana di
rileggere quanto fa nel campo della morale sociale e di rivedere i criteri di attenzione alla
testimonianza della carità nella ricerca del bene comune e nell’evangelizzazione del sociale. Per
aiutare nella ricerca di queste azioni pastorali proponiamo un elenco provvisorio di ambiti e di
attenzioni pubblici sui quali di fatto la parrocchia è impegnata quotidianamente.
- La tradizione cattolica costituisce un patrimonio importante nella coscienza civile italiana e
bergamasca: oggi si fatica a capire se è ancora accettata…
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Ogni parrocchia è un’istituzione, si rapporta a realtà sociali e gestisce istituzioni significative
dal punto di vista sociale: scuole, oratori, sale della comunità, case di riposo, centri di
ascolto, centri sportivi…
Ognuna di queste realtà esige una corretta considerazione del rapporto con il territorio e con
le istituzioni sociali e politiche con cui viene a contatto. Sarebbe interessante sapere che
concezione di bene comune soggiace alle proposte gestionali di queste strutture. Spesso tali
realtà sono oggetto di convenzione con gli enti pubblici e privati, per il bene della collettività
e non solo per l’uso della comunità cristiana. E’ chiaro che non è solo il criterio economico
quello che deve sovrintendere a tali rapporti.
Ma c’è anche tutto il settore della trasparenza e della legalità nella gestione di queste
strutture. Tutti i problemi della sicurezza, del fisco, delle previdenze, del rispetto dello statuto
dei lavoratori, della competenza gestionale… sono croce e delizia dei parroci, ma non
possono essere isolati da un’attenta progettualità pastorale che interpreta correttamente il
rapporto con la società civile.
Ma è anche importante l’animo e lo stile con cui la comunità cristiana, oltre che i singoli
cristiani, a partire dalla propria ispirazione e dalla propria fede, interpreta il bene comune e lo
testimonia nelle istituzioni sue e in quelle pubbliche o private.
C’è poi tutto il campo della formazione delle persone per il governo della cosa pubblica,
secondo uno stile di democrazia, di pluralità e di laicità… Ma anche la ricerca di forme
corrette di partecipazione alla gestione della casa comune, nel rispetto delle diversità e nella
ricerca della giustizia e della pace…
Inoltre occorre ricordare che la comunità cristiana è parte di una società, ma è essa stessa
strutturata socialmente, ha le sue forme di partecipazione, di governo, di testimonianza, più o
meno fedeli al vangelo…
Tutti rileviamo la fatica che le parrocchie sopportano nella gestione delle nostre strutture
attraverso un volontariato generoso, ma spesso inadeguato ai compiti sempre più onerosi che
gli vengono richiesti. Per servizi di questo tipo sorgono sempre nuove forme di cooperazione
e d’azione associata che oggi divengono ambito professionale e imprenditivo in senso
proprio… Che cosa può fare la comunità ecclesiale di fronte a ciò?
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In un settore la Chiesa è particolarmente sensibile, ma forse anche particolarmente in
difficoltà, quello educativo e, più in particolare, quello scolastico. Su questo settore sarebbe
opportuno concentrare la nostra attenzione nel corso del prossimo anno pastorale.
1.2 Il ruolo della società nella formazione della coscienza
Da quanto detto finora risulta chiaro che in tutte queste attività la Chiesa svolge sì un’azione
istituzionale con forte rilievo sociale, ma che essa, mentre si costruisce come Chiesa nella fedeltà al
Vangelo, configura un’immagine di vita umana necessaria per la formazione della coscienza di
ciascuno.
La società degli uomini si fonda su alcuni legami fondamentali, su quelle evidenze etiche
simboliche che danno le ragioni di vivere e di restare uniti agli altri nel patto umano: il legame che
ci precede, la grazia e il dono, la responsabilità, la fede... evidenze che si danno nelle esperienze e
negli eventi decisivi della vita umana.
Le nostre società si trovano smarrite e impoverite proprio nel propiziare queste esperienze
fondamentali. La nostra cultura, dominata dalle "razionalità" regionali e complesse, infatti,
emargina, privatizza e censura proprio le questioni morali ed antropologiche di fondo... E' una
situazione che sfida la Chiesa; per un verso la minaccia e la infragilisce nella sua proposta di fede,
per un altro verso le offre grosse opportunità. La Chiesa ha nella sua fede un enorme patrimonio
antropologico ed etico che può spendere a favore di questa civiltà (e può costituire una piattaforma
importante per l'evangelizzazione).
Tra l'altro, la nostra Chiesa, per il profondo radicamento territoriale e culturale che la tradizione le
consegna, per la diffusa domanda religiosa che le viene rivolta in concomitanza delle grandi
esperienze umane (nascere, crescere, sposarsi, soffrire e morire), svolge praticamente un grande
lavoro proprio attorno a queste questioni e a questi aspetti dell'esistenza, che stanno al fondamento
della vita sociale...
Le nostre parrocchie, per l'importante ruolo di "comunità" capaci di aggregare che hanno e per
l'impatto sull'esistenza personale e sociale attraverso i sacramenti, sono una realtà sociale
rilevantissima... e questo avviene attraverso le pratiche pastorali più ordinarie della parrocchia.
2. Un caso particolare: l’educazione.
Ancora una volta, il programma pastorale indica, tra tutte le possibili situazioni in cui il rapporto tra
comunità ecclesiale e società civile si esplica, un aspetto particolare su cui porre l’attenzione della
revisione pastorale. Sembra significativo e proficuo soffermarci sull’ambito della pastorale
scolastica, non tanto con la preoccupazione di rifondarla o di capirla, quanto di verificare come
funzionano i criteri di programmazione pastorale con cui viene praticata e per valutare se stiamo
efficacemente svolgendo il compito di annunciare e di testimoniare il Vangelo. La presenza della
Chiesa nel campo educativo è molto importante, perché esso è direttamente collegato con il compito
di evangelizzare ed è legato al cammino di conversione. L’educazione svolge un indubbio e delicato
ruolo nella formazione della cultura e dell’ethos della comunità umana. A sua volta, però,
l’educazione resta profondamente condizionata dall’organizzazione sociale e dalla cultura di una
società. Possiamo dire che il compito pedagogico si àncora sul meglio di una cultura e insieme la
plasma profondamente.
Nel settore educativo scolastico la comunità ecclesiale è impegnata nelle scuole di comunità, negli
istituti cattolici e nelle scuole di Stato; deve dare il suo contributo significativo nell’attuazione
dell’autonomia scolastica, contribuendo a creare una proposta educativa con tutte le agenzie
educative presenti sul territorio e coinvolgendo tutti gli attori dell’educazione…
La recente riforma della scuola e perciò dell’impianto educativo e formativo delle giovani
generazioni costituisce un banco di prova incredibilmente significativo per valutare la capacità della
comunità ecclesiale di contribuire alla costruzione del bene comune, ma insieme di dialogare con la
società in vista dell’evangelizzazione. L’ambito educativo costringe a superare la separazione tra
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privato e pubblico in cui è spesso costretta la comunità ecclesiale e, in genere, la religione e l’etica,
ma pone anche i presupposti per un serio confronto sulla laicità.
La scuola, sia statale, sia non statale, poi, si caratterizza come agenzia educativa strutturata in modo
istituzionale e curricolare. Per questo motivo il rapporto che la comunità cristiana ha con il mondo
scolastico presenta inevitabilmente elementi di forte confronto istituzionale, che esige un’attenta
disamina e una metodologia appropriata di confronto. In ciò la Chiesa svolge il compito di essere
presente come lievito nelle istituzioni pubbliche statali e non. La verifica delle pratiche pastorali
nella scuola, in vista di una revisione del dialogo tra Chiesa e società, può allora variare su molti
registri, che fanno riferimento alle istituzioni educative cattoliche, alla presenza cristiana nella
scuola pubblica, alla valorizzazione dei percorsi educativi tra istituzioni educative diverse (cfr.
autonomia scolastica), al coinvolgimento dei genitori, degli insegnanti e degli educatori in genere,
al ruolo degli insegnanti e dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole…
Più in particolare la presenza massiccia delle scuole materne cattoliche e la situazione di
cambiamento in cui esse versano, il loro radicamento nella stima delle famiglie e delle comunità
parrocchiali, la necessità di una diversa impostazione educativa e organizzativa a causa del venire
meno di personale religioso, l’opportunità che esse forniscono di un avvicinamento profondo dei
genitori alla cultura e alla formazione cattoliche, il necessario rapporto con le istituzioni
pubbliche… costituiscono gli ambiti che rendono la scuola materna un perfetto campo di verifica
delle pratiche pastorali relative al rapporto tra Chiesa e società.
Un discorso simile, benché adatto alla diversità di situazioni, può essere svolto per le scuole
elementari, le medie e poi le superiori e l’università.
Particolare attenzione in questo lavoro meritano alcune sottolineature, quali il coinvolgimento dei
genitori e la loro valorizzazione, il riferimento alle associazioni cattoliche di categoria, l’attenzione
alla dimensione umanistica e religiosa nel cammino educativo, la cura per le situazioni di povertà,
di abbandono e di violenza…
Seconda parte
1. Alla ricerca dei criteri di lettura: lo sfondo.
La vita delle comunità cristiane solleva molti problemi e propone situazioni di vita molto
complesse, in cui non è sempre facile trovare il senso del vivere insieme e dell’agire. Per non
affogare nei problemi o nelle polemiche che i temi sopra accennati possono evocare, occorre
cercare alcuni punti di riferimento critici che aiutano a chiarirsi le idee nella comprensione e nella
programmazione.
1.1 L’icona biblica
Il primo momento critico è quello dell’ascolto della Parola di Dio. Questo ascolto non può essere
ingenuo, ma critico e attento al lungo cammino di fedeltà evangelica espresso nella bimillenaria vita
della tradizione cristiana. Il programma pastorale propone qui di seguito solo il brano del Vangelo
di Giovanni, rinviando a un sussidio pubblicato a parte, la proposta di interpretazione e di Lectio
divina del testo stesso.
Dal vangelo secondo Giovanni
18 33Pilato allora rientrò nel pretorio, fece chiamare Gesù e gli disse: «Tu sei il re dei Giudei?».
34
Gesù rispose: «Dici questo da te oppure altri te l'hanno detto sul mio conto? ». 35Pilato rispose:
«Sono io forse Giudeo? La tua gente e i sommi sacerdoti ti hanno consegnato a me; che cosa hai
fatto? ». 36Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo
mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio
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regno non è di quaggiù». 37Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re? ». Rispose Gesù: «Tu lo dici;
io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza
alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce». 38Gli dice Pilato: «Che cos'è la verità? ».
E detto questo uscì di nuovo verso i Giudei e disse loro: «Io non trovo in lui nessuna colpa!».
19 1Allora Pilato fece prendere Gesù e lo fece flagellare. 2E i soldati, intrecciata una corona di
spine, gliela posero sul capo e gli misero addosso un mantello di porpora; quindi gli venivano
davanti e gli dicevano: 3«Salve, re dei Giudei! ». E gli davano schiaffi. 4Pilato intanto uscì di nuovo
e disse loro: «Ecco, io ve lo conduco fuori, perché sappiate che non trovo in lui nessuna colpa».
5
Allora Gesù uscì, portando la corona di spine e il mantello di porpora. E Pilato disse loro: «Ecco
l'uomo!". 6Al vederlo i sommi sacerdoti e le guardie gridarono: «Crocifiggilo, crocifiggilo! ». Disse
loro Pilato: «Prendetelo voi e crocifiggetelo; io non trovo in lui nessuna colpa». 7Gli risposero i
Giudei: «Noi abbiamo una legge e secondo questa legge deve morire, perché si è fatto Figlio di
Dio».
8
All'udire queste parole, Pilato ebbe ancor più paura 9ed entrato di nuovo nel pretorio disse a
Gesù: «Di dove sei? ». Ma Gesù non gli diede risposta. 10Gli disse allora Pilato: «Non mi parli?
Non sai che ho il potere di metterti in libertà e il potere di metterti in croce? ». 11Rispose Gesù: «Tu
non avresti nessun potere su di me, se non ti fosse stato dato dall'alto. Per questo chi mi ha
consegnato nelle tue mani ha una colpa più grande».
1.2 Seguendo il Concilio…
Il compito pastorale di dare attuazione al programma del Concilio Vaticano II ci induce a
privilegiare il riferimento a tale evento di grazia come linea preferenziale d’interpretazione del
Vangelo. Nei testi del Concilio vengono con forza messe a tema molte delle realtà che il
programma pastorale pone in primo piano, soprattutto perché il Concilio vuole dialogare con il
mondo contemporaneo. Il rapporto tra Chiesa e società coinvolge aspetti estremamente problematici
e dibattuti. Il primo grande tema teologico che si incontra è quello che costringe a un confronto
serrato sulla storicità della salvezza e sul suo rapporto con l’escatologia. Esso coinvolge temi
difficili e delicati che si riferiscono all’autonomia delle realtà terrestri, al valore delle realizzazioni
umane in ordine alla salvezza, al rapporto tra Chiesa e Regno.
Nel dibattito teologico degli anni Cinquanta questi problemi relativi alle “realtà terrestri” vennero
dibattuti in due correnti teologiche, la corrente “escatologista” e la corrente “incarnazionista”, che
attraversano da sempre il sentire cristiano. La prima linea accentua la distinzione della Chiesa, e
perciò della salvezza portata da Cristo, dal mondo: la salvezza non è e non può essere realizzazione
umana, perché l’uomo non riuscirà mai a vincere il peccato e quindi la salvezza sarà dono ultimo di
Dio in Cristo. Il valore delle azioni e delle realizzazioni umane è tendenzialmente quello di indicare
l’al di là e quindi rafforzare l’invocazione di fede e di speranza. Per la seconda linea, invece, Chiesa
e mondo sono profondamente legati e rinviano al disegno teologico della creazione e
dell’incarnazione, in cui si manifesta il dominio di Cristo sul mondo e sulle realtà terrestri. La
salvezza, pur rimanendo grazia di Dio, chiede una testimonianza nella storia e quindi nella qualità
caritativa delle realtà umane.
Oltre a queste brevi note, per il nostro lavoro pastorale occorrerebbe anche affrontare la delicata
relazione tra etica ed ethos sociale, ossia tra morale e costume diffuso, tra il “è bene fare così” e il
“si è sempre fatto così”, sia a livello individuale, sia a livello sociale.
Su questi temi il Concilio Vaticano II si esprime collegando la nostra questione con la riflessione
fondamentale sull’uomo, visto come sfondo di riferimento per la determinazione del ruolo della
Chiesa nel mondo contemporaneo. Gaudium et Spes colloca questi problemi all’interno della
questione antropologica, ossia ponendosi la domanda: «Chi è l’uomo?». Parlando della comunità
degli uomini esso la interpreta come una dimensione costitutiva dell’uomo e della sua dignità. Basta
anche solo richiamare i titoli dei numeri relativi al capitolo secondo della prima parte della
Costituzione per rendersene conto: L’indole comunitaria dell’umana vocazione nel piano di Dio
(24), Interdipendenza della persona e dell’umana società (25), Per promuovere il bene comune
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(26), Rispetto della persona umana (27), Il rispetto e l’amore per gli avversari (28), La
fondamentale uguaglianza di tutti gli uomini e la giustizia sociale (29), Occorre superare l’etica
individualistica (30), Responsabilità e partecipazione (31), Il Verbo incarnato e la solidarietà
umana (31).
Nella seconda parte il Concilio affronta alcuni problemi più urgenti soffermandosi proprio sulla
famiglia, sulla cultura, sulla società e l’economia, sulla politica e sulla pace.
Come si vede, il Concilio ritiene che la società si colloca all’interno delle strutture di fondo che
costituiscono l’uomo in quanto tale, quelle che ne strutturano la coscienza e la libertà. La teologia
contemporanea, riprendendo le istanze del sapere moderno, propone la sintesi di queste dimensioni
umane nella figura dell’uomo come essere credente. L’uomo è uomo in quanto è credente, libertà
aperta al futuro che si svela come Mistero santo a partire dalla storia in cui l’uomo esercita la sua
libertà. L’uomo è così colto nella sua complessità storica e non solo nella sua interiorità psicologica.
Secondo la tradizione cattolica è necessario accettare la sfida della mediazione tra l’annuncio del
Regno e l’esercizio della libertà umana nella storia nella sua integralità e perciò a livello privato e
pubblico. Ciò comporta l’accettazione della parzialità delle realizzazioni testimoniali cristiane, ma
anche l’affermazione della loro necessità, e l’affermazione del loro costante riferimento
all’annuncio profetico della Parola e alla pienezza simbolica della celebrazione liturgica. In altre
parole, la testimonianza cristiana non può avvenire che in azioni e opere concrete, che non hanno
mai la caratteristica di essere perfette sotto tutti i punti di vista: sono al più le migliori possibili, ma
sono necessarie. Il loro grado d’autenticità, ma anche di parzialità o di colpa risulta proprio dal loro
confronto con la Parola di Dio e con la celebrazione liturgica. In esse l’incontro con il Risorto
suscita il discernimento, nel momento stesso in cui si ravviva la memoria sulla testimonianza
apostolica e si rinnova la speranza del ritorno glorioso attraverso la mediazione del simbolo
liturgico. La consapevolezza poi della colpa umana introduce nella testimonianza cristiana
ecclesiale anche la dimensione della penitenzialità e della costante conversione, segnata dalla croce.
Per approfondire questi spunti critici, sembra utile proporre una rilettura molto rapida e schematica
del cammino storico della Chiesa, in cui si comprende molto bene che la vita della Chiesa e la sua
testimonianza si sono sviluppate in stretta sintonia, benché talvolta conflittuale, con l’evoluzione
della coscienza sociale e culturale nel tempo.
1.3 Evoluzione storica dei rapporti tra Cristianesimo e società
L’insegnamento di Gesù sui rapporti con il “mondo” ha svolto per i cristiani la funzione di
riferimento indiscusso e di stimolo costante a rivedere e riconsiderare le molteplici realizzazioni
storiche. La molteplicità di modelli adottati lungo venti secoli di storia ci mostra l’impossibilità di
accedere alla definizione di un modello universalmente valido. Il dovere della fedeltà evangelica si
svolge all’interno di esperienze storiche, determinatesi per cause spesso estrinseche alla volontà dei
cristiani, e che diventano perciò oggetto di attento discernimento per far emergere i significati
positivi iscritti in esse e per rifiutare le componenti negative. Ne deriva un processo mai del tutto
compiuto e da riprendere sempre da capo per la fedeltà ad un messaggio che si mostra sempre
nuovo e superiore alle molteplici esperienze storiche.
I cristiani hanno sempre avuto la profonda consapevolezza di testimoniare la salvezza dell’uomo
nella sua globalità; la salvezza di Cristo riguarda sia la vita individuale che collettiva. Pur con varie
sfumature, la Chiesa fin dai primi tempi ha evitato di assumere l’atteggiamento di “ setta”, cioè di
un gruppo totalmente estraneo alla società, in quanto componente dell’ordinamento di questo
mondo, giudicato come intrinsecamente negativo. I cristiani hanno invece condannato il “mondo”
inteso come sistema retto dall’ingiustizia e dalla menzogna, non come la realtà umana amata da Dio
e quindi positiva. Il riconoscimento della legittimità del potere politico risale all’epoca apostolica
(Rm 13,1 ss; Tt 3,1; 1 Pt 2,13-17) e viene ribadito anche durante le persecuzioni. Gli apologisti
cristiani ribadiscono la lealtà della Chiesa nei confronti dell’Impero Romano, di cui riconoscono la
funzione provvidenziale di garante dell’ordine, nonostante la politica persecutoria. Lo stesso fanno i
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martiri nel momento della condanna a morte. Il celebre scritto A Diogneto (inizio III sec.) mostra
come l’origine celeste del messaggio cristiano non va a detrimento della vita sociale, ma
contribuisce al suo miglioramento rafforzando i legami di solidarietà tra i suoi membri.
L’interessamento alla politica si accompagna a quello per la cultura, che i cristiani imparano ad
apprezzare e ad utilizzare per la stessa riflessione teologica. Accanto a questa apertura non mancano
i rilievi critici talvolta aspri contro la civiltà pagana, di cui si criticano l’eclettismo religioso, i
costumi immorali, gli spettacoli teatrali e del circo. Nonostante queste riserve, alla fine del III
secolo la Chiesa mostra un alto grado di integrazione nell’organismo sociale, di cui molti fedeli
condividono responsabilità di primaria importanza.
Pertanto la conversione del primo imperatore Costantino (312 d.C.) non costituisce una novità
inaspettata, al contrario rappresenta il culmine di un secolare processo di integrazione. La novità è
costituita dall’avvio di un massiccio processo di integrazione tra la comunità cristiana e la struttura
dell’impero, che nell’arco di un secolo porta alla loro perfetta identificazione: l’imperium non è
altra cosa rispetto alla Chiesa. Il cristianesimo diviene così la religione ufficiale dello Stato (380
d.C), le leggi civili si uniformano a quelle cristiane, tempo e spazio assumono connotazione
cristiana (la divisione settimanale con la domenica, il ciclo liturgico imperniato sulla Pasqua, le
feste dei martiri), così come i principali momenti della vita sono vissuti alla luce della visione
cristiana, fino a sconvolgere completamente gli usi dell’antichità romana (l’istituzione dei cimiteri).
Lo spazio del civile non cristiano si restringe a favore di una sacralizzazione cristiana crescente che
coinvolge le stesse strutture politiche, compresa la figura dell’imperatore, la cui funzione è
considerata come un vero e proprio ministero ecclesiale. Ciò porta inevitabilmente a tensioni con la
gerarchia ecclesiastica soprattutto in Occidente. Qui il quadro si complica ulteriormente perché a
partire dai primi secoli del Medio Evo, anche il papa e i vescovi assumono progressivamente
compiti in campo civile e politico fino a diventare parte integrante del loro ufficio ecclesiale.
In questo regime di cristianità il rapporto tra Chiesa e politica assume nuove forme. A nessuno
viene il sospetto di mettere in dubbio la legittimità di una tale trasformazione, anzi si vede nella
creazione di un impero cristiano la realizzazione di un disegno divino annunciato nella S. Scrittura.
La preoccupazione maggiore consiste nel mantenimento dell’armoniosa collaborazione tra potere
politico e religioso, cioè tra Imperium e Sacerdotium attraverso la precisa definizione delle loro
mansioni. In realtà l’antagonismo non manca. Esso non riguarda solamente i vertici, ma in certi
momenti scuote l’intera compagine cristiana, quando i modelli di integrazione tra società e Chiesa
appaiono sempre più inadeguati alla sensibilità spirituale di vasti settori della cristianità occidentale.
L’insoddisfazione crea le premesse per l’affermarsi di imponenti movimenti di Riforma, che
testimoniano delle possibilità di rinnovamento esistenti all’interno di un regime di Cristianità.
L’Occidente cristiano conosce sostanzialmente tre modelli: la Riforma Gregoriana (XI sec.); la
Riforma dei movimenti pauperistici (XIII sec.) e le due Riforme Protestante e Cattolica (XVI sec.).
Con la prima si attua un poderoso sforzo per liberare la Chiesa dalle strutture feudali che avevano
pesantemente intaccato e in parte alterato il ministero pastorale dei vescovi e dei preti. Ciò ha
condotto ad un drammatico confronto tra Imperium e Sacerdotium. I movimenti pauperistici hanno
operato per un volto ecclesiale più coerente con la povertà evangelica. Ciò ha significato una
rinnovata attenzione al povero e il rilancio dell’attività caritativa, che ha interessato molti fedeli
sollecitati dall’esempio e dalla predicazione degli ordini mendicanti.
Le due riforme del Cinquecento, la protestante e la cattolica, hanno obbedito alla comune esigenza
di un innalzamento del livello spirituale dell’intero popolo cristiano attraverso una metodica azione
pastorale, resa possibile dalla disponibilità di autentici pastori d’anime. Grazie alla riforma
tridentina il regime di cristianità, iniziato da Costantino, tocca i vertici più alti in termini di
formazione cristiana. Essa presenta le seguenti caratteristiche: si tratta di una società ufficialmente
cristiana in cui l’unità politica si fonda su quella religiosa. Lo Stato considera suo dovere difendere
la religione cattolica che è religione di Stato e di fungere da braccio secolare nella repressione
dell’eresia. Le leggi civili sono in armonia con quelle canoniche, come ad esempio nel matrimonio.
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La chiesa gode di immunità e privilegi, come l’esenzione dalle tasse. In compenso alla Chiesa è
demandato l’obbligo di tutta l’attività assistenziale e scolastica.
Dalla metà del Settecento e dopo la Rivoluzione francese si presenta un quadro radicalmente mutato
per l’affermarsi di nuove correnti culturali e di nuovi modelli produttivi, che rivoluzionano
profondamente il costume e la mentalità. Richiamiamo sommariamente alcune di queste novità:
1. affermazioni di correnti culturali che prescindono o sono in antitesi con la visione cristiana.
2. Maturazione di una maggiore consapevolezza dei diritti dell’individuo. In campo politico al
principio dell’assolutismo si sostituisce quello della sovranità popolare.
3. Progressiva secolarizzazione della società e della politica che si esprime nel principio della
separazione dello Stato dalla Chiesa e nella fine dello Stato confessionale.
4. Predominio della classe borghese e nascita della questione sociale con i connessi problemi di
democrazia sociale e politica.
5. Crescente intervento dello Stato nei settori dell’istruzione e dell’assistenza fino alla
rivendicazione di un vero e proprio monopolio.
Di fronte a mutamenti così radicali la Chiesa, a partire dalla Rivoluzione francese e fino al Vaticano
II, ha inseguito con tenacia il progetto di ricostruzione della cristianità. Esso non viene proposto
senza nessun adattamento; piuttosto si notano con il passare del tempo dei cambiamenti sempre più
profondi che giungono alla fine quasi a svuotare il progetto iniziale. Infatti a partire da Leone XIII
sino a Pio XII, la ricostruzione della cristianità assume forme aggiornate, soprattutto per quanto
riguarda gli strumenti da adottare e si esprime in progetti storici variamente concepiti ed espressi.
Rimangono però alcune costanti:
1. Il cristianesimo presentato come rimedio della catastrofe verso cui sta precipitando il mondo
moderno. Nel pensiero cattolico domina una visione negativa della storia moderna, considerata
come una marcia inarrestabile verso la distruzione del retto ordine sociale. La dottrina della Chiesa
viene presentata come l’unico ed efficace rimedio in quanto depositaria non solo degli autentici
valori umani, ma anche di un modello concreto di società capace di dare ordine e solidità alla
convivenza sociale.
2. La Chiesa è convinta del proprio compito messianico culturale, che la conduce alla
contrapposizione con il mondo moderno piuttosto che ad un rispettoso dialogo.
3. I diritti dell’uomo e le libertà moderne sono accettati con riserva, come male minore e quindi
inevitabili nel contesto di una società diventata pluralista. Anche se in forma più attenuata, continua
la richiesta di privilegi propri dello stato ufficialmente cattolico, soprattutto nel campo della morale
familiare e dell’istruzione.
Una fase nuova si apre con il pontificato di Giovanni XXIII, che abbandona l’atteggiamento di
polemica con il mondo moderno per assumere quello di un dialogo rispettoso ed attento a cogliere
le opportunità che i tempi moderni offrono per la promozione dell’uomo, cioè i segni dei tempi. La
lezione viene colta dal Concilio e ribadita attraverso la costituzione pastorale Gaudium et Spes.
2. Alla ricerca dei criteri di lettura: l’oggi del Cristianesimo e le sfide pastorali.
Dopo la rilettura della storia, occorre rendersi conto di alcune situazioni caratteristiche della nostra
epoca, per capire le logiche che presiedono i nostri comportamenti e i nostri criteri di giudizio.
Non è una novità affermare che il cristianesimo oggi fatica a dire il vangelo nelle forme dell’attuale
realtà sociale. Il motivo è senz'altro il continuo mutamento della società che indebolisce la valenza
morale delle vicende civili per la coscienza umana e cristiana. Eppure siamo convinti che queste
fatiche non cancellano le possibilità e le opportunità pure inscritte nella società odierna; anzi ci
troviamo di fronte a sfide che aprono direzioni e compiti per le nostre comunità cristiane.
Proviamo a richiamare alcuni fenomeni della società contemporanea che inducono le nostre pratiche
cristiane a ‘rivedersi’ sia nell’ambito del rapporto con il civile sia in quello più prettamente
ecclesiale.
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2.1 Il modello socio-politico
Il primo dato che va preso in considerazione nella nostra ricerca è quello per cui oggi tutti facciamo
spontaneamente riferimento ad alcune forme di individuazione della verità sociale e della giustizia
che derivano dalla tradizione democratica contemporanea. A noi basta richiamare un solo dato
essenziale. Oggi la gestione della politica e perciò il riferimento principale del diritto riposano
sull’attuazione del principio del consenso popolare maggioritario. Di fatto la democrazia si esprime
con la maggioranza dei voti, in forma diretta o delegata. A parte le questioni legate alla Costituzione
dei vari Stati, nessuno pretende oggi di imporre la sua verità contro il volere della maggioranza.
Diventano perciò importanti le forme di elaborazione del consenso, ma anche della sua espressione.
Sullo sfondo di questo principio si colloca anche quello sempre più diffuso, ma ben poco
criticamente conosciuto, della laicità dello Stato. Questo significa, molto semplicemente, che le
relazioni di fondo sulle quali si costruiscono la convivenza e la giustizia pubblica prescindono dal
credo religioso di ciascuno, perché si riferiscono al consenso espresso dalla maggioranza, benché
regolato dai principi della Costituzione, che però fanno sempre più riferimento a valori che si
presentano come razionali e perciò applicabili moralmente a tutti gli uomini, al di là delle differenze
religiose o culturali.
La conseguenza più importante è che l’opinione pubblica e le regole sociali non fanno riferimento
all’autorità divina e perciò alle regole religiose confessionali, che pure rivendicano spazi di
esistenza libera, sia a livello privato, sia a livello pubblico. Ciò però comporta l’assunzione di un
compito democratico e civile anche da parte delle religioni.
2.2 I processi socio-economici
Sul piano del rapporto con la società le nostre comunità sono coinvolte in alcuni processi di
notevole portata. Un primo fenomeno è quello della cosiddetta globalizzazione: si tratta di un
processo socioeconomico per il quale aumenta a ciascuno la possibilità di porre decisioni, mentre le
azioni delle singole persone e dei gruppi sono sempre più interdipendenti e assumono un’estensione
sempre più allargata. Si potrebbe anche dire che vi è un movimento sempre più accelerato ed esteso
di persone, capitali, conoscenze, esperienze e relazioni. Questo fenomeno poi trova la sua
realizzazione nell’attività economica e tecnica, i cui esempi vediamo nello spazio ambientale delle
nostre parrocchie.
Un secondo fenomeno è, per contrasto con la globalizzazione, il riferimento
crescente al valore del territorio. La tendenza a sradicare le persone dalle
proprie radici porta come contraccolpo la ricerca, anche esclusiva, del proprio
territorio, percepito come luogo di una forte identità e sicurezza. Lo spazio
territoriale si presenta come gestibile e controllabile proprio mentre cresce la
mobilità e la globalizzazione. Le nostre comunità sono territoriali (parrocchie):
forse però la pastorale vissuta non si rende ancora sufficientemente conto della
necessità di entrare in una rete di rapporti che sul territorio costituiscono lo
spazio della comunicazione, del confronto e delle decisioni.
30
Un terzo elemento è dato, proprio per il richiamo al territorio, dall’accentuarsi delle domande e
della costituzione di soggetti civili e istituzionali (politici e non) che sono chiamati a decidere e a
regolare i rapporti e gli ambiti di vita delle persone. E’ il fenomeno della autonomia degli enti
locali, del sorgere di soggetti collettivi (associazioni, gruppi, enti locali, fondazioni…) con i quali
sempre di più la comunità cristiana è chiamata ad entrare in rapporto. La nostra pastorale non è
pensabile senza sentirsi coinvolta in questi spazi e decisioni, tenendo conto che essa è solo uno (sia
pur di notevole rilievo sociale) dei soggetti collettivi che interagiscono con le istituzioni. Se si
ritiene finita con la fine della cristianità la prospettiva di una Chiesa che rivendichi un rapporto
privilegiato con le istituzioni, occorre dunque definire e individuare i criteri per un giusto rapporto
tra comunità cristiana e istituzioni civili.
Infine, le nostre comunità sono in genere sensibili ai temi quali il servizio alle persone in disagio,
l’attenzione ai bisogni dei poveri, la soddisfazione delle necessità dei cittadini (casa, salute, lavoro,
istruzione, servizi socioassistenziali, immigrazione…). Anche in rapporto a queste necessità è sorto
lo Stato Sociale che pur con i suoi meriti ha presentato e presenta il rischio di svuotare di
responsabilità le persone e i soggetti intermedi, favorendo un atteggiamento di aspettative crescenti
e di insoddisfazione nei cittadini nonché una pratica troppo burocratica nel servizio pubblico.
L’esigenza che sembra emergere è quella dunque di una maggiore responsabilità del sociale a fronte
delle istituzioni pubbliche e statuali, senza per altro cadere nella ingenuità che basti la libertà dei
privati o dei corpi intermedi per garantire una giustizia nel distribuire beni e servizi. E’ facile
comprendere come qui sia in gioco il problema della natura della istituzione politica e della
funzione della Chiesa, soprattutto in rapporto a un servizio come la scuola e la formazione delle
giovani generazioni e come questo sia importante per una comunità cristiana che non voglia avere
gli occhi chiusi su quello che accade intorno e dentro di essa. La comunità cristiana è quel soggetto
cui devono essere delegate o lasciate le responsabilità nel campo sociale (vedi area del disagio e
delle povertà) oppure è un soggetto che dialoga con l’istituzione pubblica nel quadro di una
direzione cercata insieme alle istituzioni civili e politiche? Anche qui si impongono criteri di
discernimento.
In primo luogo occorre riscoprire l’attitudine della fede a interpretare l’umano e a far emergere
quella dimensione di bene e di senso che nel sociale odierno tende a essere occultata. Proprio la
fede nel Dio fatto uomo e la lunga esperienza nell’accompagnare e interpretare i mutamenti
fondamentali del vivere, abilitano la Chiesa a far cogliere la dimensione etica dei rapporti sociali e
dunque la messa in gioco della coscienza personale.
In secondo luogo proprio il cambiamento sociale fa emergere maggiormente la qualità libera della
fede, cioè la sua non coincidenza con le ‘abitudini’ e con le condizioni sociali connotate
cristianamente. Si presentano allora due domande fondamentali: come essere cristiani nella società
odierna? Come contribuire a edificare rapporti sociali buoni?
La libertà della fede esige dunque la formazione di una coscienza cristiana responsabile delle sorti
della città e impegnata a cercare con tutti il bene comune.
D’altra parte i fenomeni sopra richiamati hanno un’incidenza anche sul piano dei rapporti
all’interno della comunità cristiana. Un cambiamento epocale nella vita sociale richiede una
maggiore attenzione alla qualità della testimonianza etica della carità fra cristiani e ai rischi del
potere che pure nelle comunità cristiane si annidano. Due segnali di questa attenzione sono
individuabili in relazione alla responsabilità dei cristiani laici nelle realtà civili e ai rapporti tra
parrocchia e movimenti, associazioni, gruppi e istituzioni educative del territorio (es. scuole
cattoliche).
31
2.3 I processi socio-culturali
2.3.1 L’attenzione al consumismo e all’individualismo
Dalle note precedenti si ricava con relativa facilità che una dimensione essenziale della vita sociale,
ossia la politica, rischia di andare in profonda crisi per molti motivi. Di uno di essi vale la pena
interessarci qui. L’orientamento della politica oggi segue le indicazioni culturali sopra esposte e
oscilla tra il pragmatismo economicista della globalizzazione e il federalismo di tipo etnocentrico e
facilmente emotivo. Si è già parlato sopra di questi due fenomeni, qui occorre solo ricordare che
essi si collocano nel contesto della crisi della morale e, conseguentemente, della politica. Essa si
presenta come l’atteggiamento umano che ricerca e difende pubblicamente i valori dell’uomo e non
invece gli interessi dei più forti.
La polarizzazione sopra indicata, apparentemente schizofrenica, proviene da molto lontano e chiede
analisi complesse. Certamente, però, essa sembra rendersi possibile proprio perché, nel clima di
pluralismo soggettivista e individualista e di tecnicismo consumista, vengono meno gli orizzonti
etici e simbolici condivisi come capaci di dare identità alle persone e alle società. Ossia vengono
meno i grandi valori umani, in quanto percepiti come concretamente raggiungibili in comportamenti
da tutti condivisi e socialmente vissuti. Lo sforzo di trovare regole politiche comuni che impegnano
convincentemente tutti a partire da posizioni valoriali, lascia spazio all’idea che sia sufficiente una
opportuna contrattazione di posizioni parziali che sempre più spesso si riferiscono alle capacità
emotive e organizzative degli individui. Questa sensazione di contrattualismo infinito dipende
prevalentemente dal fatto che teoricamente gli uomini e i gruppi possono scegliere tra innumerevoli
possibilità messe a loro disposizione dall’organizzazione scientifica, tecnologica, produttiva e
distributiva.
Di fatto, però, le possibilità sono quelle e solo quelle che l’apparato distributivo propone, e che
rispondono a logiche e disegni precisi e voluti, funzionali all’apparato economico e finanziario,
benché non noti al grande pubblico. La conseguenza è che le persone credono di essere libere nelle
loro scelte, mentre non fanno altro che confermare o smentire linee di marketing. Gli orizzonti della
realizzazione della felicità e del senso della vita finiscono di essere sempre più artificiali e
monetizzabili.
L’identificazione sociale e politica diviene sempre meno progettuale e sempre più intuitiva su
istanze velleitarie e rassicuranti. Davanti a una globalizzazione che presenta il mondo come casa
comune, mentre è solo mercato comune, le persone scelgono il gruppo etnico particolare che
ripropone l’identità emotiva e rassicurante che sembra dare casa.
2.3.2 La crisi della Christianitas
Il confronto culturale con la modernità ha messo in crisi le figure in cui si è organizzata e
riconosciuta la testimonianza cristiana del passato. Essa aveva grandi istituzioni pubbliche che
plasmavano di sé la stessa società civile e la guidavano verso valori e modelli condivisi e congruenti
con la percezione della fede. L’immagine culturale complessiva in cui l’ethos pubblico plasmava le
coscienze ed esse alimentavano le figure dell’ethos veniva appunto chiamata Christianitas, perché
si riferiva alla fede cristiana e alle sue istituzioni.
Con l’avvento del sapere scientifico e della laicizzazione della società, le figure cristiane di senso
apparivano sempre più estranee ai comportamenti sempre più diffusi. L’appartenenza spontanea
all’ambiente culturale e quindi ai suoi criteri di verità finì per non riconoscersi più con le
indicazioni autorevoli del Magistero della Chiesa. In un primo momento questo scontro assunse le
forme del conflitto forte e ideologico (cfr. ateismo), perché i criteri di verità della cultura laica si
concretavano in figure ideologiche forti e spesso antireligiose.
Ai nostri giorni la caduta delle ideologie comporta che il confronto con la modernità vada
completamente riscritto. Più precisamente, il riferimento spontaneo al consumismo individualista e
32
pluralista determina un’ulteriore crisi della Christianitas, perché la fede nelle sue forme storiche
non viene attaccata sui suoi contenuti dottrinali, ma sui suoi atteggiamenti interiori, sulla sua
capacità di creare figure di valore forti e sapienti, sulla sua capacità di dare senso alla libertà in
ricerca di identità e di senso. Insomma la crisi della Christianitas assume le tinte della crisi della
speranza.
3. Alla ricerca dei criteri di lettura: i luoghi e le categorie della lettura pratica.
I criteri sopra individuati chiedono ancora uno sforzo per poter essere applicati. Da un lato
dobbiamo provare a individuare alcune categorie critiche che restino bene in mente come idee guida
con cui rileggere le situazioni di vita, dall’altro lato bisogna che rischiamo un’analisi storica degli
ultimi decenni, per rintracciare alcune linee di giudizio che permettono di dare concretezza e
contemporaneità alla proposta pastorale che il programma pastorale suggerisce. Siamo consapevoli
che questi suggerimenti sono contestabili, ma è importante che si sappia che chi vuole intraprendere
il cammino di revisione del suo vissuto, deve provare a dare ragione del vissuto che conduce.
3.1 Le categorie pratiche
Per quanto riguarda le categorie accennate, possiamo suggerirne tre. La comunionalità, la
competenza e la cattolicità. Queste categorie ci possono servire per giudicare se le azioni e le
pratiche pastorali che adottiamo rispondono alle esigenze che la testimonianza evangelica oggi
invoca, proprio a partire dalle caratteristiche socio-culturali sopra indicate.
La comunionalità discende dalla carità e caratterizza il modo con cui il cristiano vive la sua fede
con gli altri cristiani e con tutti gli uomini. L’atteggiamento pratico e lo stile di rapporto
interpersonale e sociale della testimonianza cristiana è la comunione, che si esprime nella volontà di
amore, di servizio e di perdono con tutti in nome di Cristo. Essa è chiara espressione della gratuità
divina che precede e fonda ogni rapporto umano e quindi del superamento di ogni utilitarismo come
criterio di valore per giudicare i rapporti umani.
La competenza vuole riferirsi all’atteggiamento critico di giudizio di fronte alle situazioni in cui si
deve decidere e agire, per cui la moralità dell’azione non dipende dalla sola intenzione, ma anche
dalle condizioni oggettive dell’azione che si va a porre. Essa richiede studio e ascolto, dialogo e
analisi critica, esercizio e ascesi, umiltà e fortezza.
La cattolicità è la caratteristica che permette di accogliere e vivere positivamente e criticamente le
diversità, riconducendole a ciò che unisce, ossia all’amore di Dio in Cristo e all’azione dello Spirito.
Essa è segno della definitività escatologica della testimonianza della carità vissuta dalla Chiesa.
Essa ricorda che la ricerca della verità si esprime nello stupore della scoperta della costante e
imprevedibilmente ricca azione dello Spirito nella storia che rinvia al sapiente e amoroso disegno di
Dio, manifestato in Cristo per tutti gli uomini di tutti i tempi e in tutte le situazioni. Essa rinvia
costantemente alla fondamentalità dell’atto di fede.
3.2 I luoghi pratici
Posti sullo sfondo questi riferimenti, possiamo individuare in due i luoghi più significativi
dell’attenzione del programma pastorale.
3.2.1 L’ambito ecclesiale
Il primo ambito riguarda la dimensione di comunione all’interno della Chiesa e si riferisce alla
qualità etica e testimoniale cristiana della comunità ecclesiale, non tanto riportata alle strutture e
alla mentalità di corresponsabilità e di condivisione, oggetto del programma pastorale del 1996-97,
quanto attenta alla considerazione delle strutture di esercizio della convivenza e della comunione
ecclesiale come luoghi in cui si realizza una forte e storica identità cristiana fondata sull’amore. La
complessità dei titoli con cui la tradizione cristiana descrive la Chiesa, intesa come realtà mistica in
cui si rivela il mistero di Dio, dice la difficoltà di trovare categorie semplici che ne esprimano la
33
ricchezza degli aspetti. Senza volerci impegnare in tale sforzo teologico, possiamo, però, con
semplicità ricordare che la Chiesa è e resta un gruppo di persone e perciò ha riferimenti e modalità
di esercizio riconducibili a considerazioni di tipo sociologico e giuridico, oltre che etico-sociale.
Questi modi esigono di essere verificati nella loro qualità di testimonianza della carità dal confronto
costante con la Parola di Dio letta nella Tradizione e con la celebrazione della presenza viva del
Signore nella Liturgia.
La figura prevalente e prioritaria che la comunità ecclesiale si è data nella storia per la cura della
testimonianza cristiana è quella della parrocchia. Essa è basata sul criterio della territorialità che
rinvia alla figura dell’abitazione. Si attua così una forma di prossimità che assume nel corso della
storia caratteristiche diverse, nelle quali prende figura l’identità di ciascuno e del gruppo come tale.
La figura della parrocchia è oggi sottoposta a profondi cambiamenti, legati anche a quel confronto
della fede con la modernità che viene chiamato anche crisi della Christianitas.
Alcuni aspetti di questa crisi, ormai sempre più nota agli operatori pastorali, sono la
marginalizzazione della Chiesa, l’appartenenza con riserva a essa da parte dei cristiani, il sempre
più diffuso distacco delle opinioni generali dal pensiero ufficiale della Chiesa, la non ovvia
appartenenza della gente ai gruppi cristiani… Chiesa e società non si richiamano più l’una l’altra,
nemmeno in senso polemico, e i paradigmi simbolici di appartenenza culturale appaiono oggi
sempre più disgregati e frammentati. All’interno stesso della parrocchia vengono a formarsi sempre
più numerosi gruppi e movimenti che non solo non si identificano più con le strutture parrocchiali,
ma che addirittura faticano anche a rapportarsi a esse. La stessa identità cristiana non è più sentita
come omogenea e legata a comportamenti pubblici condivisi. La parrocchia stessa inoltre non
sembra sempre in grado di coprire tutte le dimensioni della vita cristiana dell’uomo contemporaneo.
Come garantire l’unità e la comunione tra esperienze cristiane di vita così diverse e tra loro
autonome? Come garantire la comune appartenenza ecclesiale, considerando il clima di
individualismo e l’esistenza di gruppi e di realtà che ribadiscono la loro forte identità, legata a una
particolare esperienza dello Spirito e riferita ad ambienti culturali, sociali ed etnici sempre più vari?
Per questo tema possiamo opportunamente e doverosamente riferirci alla 1 Cor. Il rimando alla
carità come condizione nella quale ogni carisma dice la sua autenticità è fondamentale e trova
conferma proprio nella cattolicità e nell’universalità della salvezza, viste da Paolo come segno certo
della definitività della salvezza in Cristo. All’interno di questa verità, per altro da comprendere
bene, sembra proprio che la comunità cristiana oggi abbia una ricchezza importante e sempre più
rara da valorizzare e da testimoniare, quella della comunione a partire dalla condivisione della
gratuità, del servizio e della prossimità.
Le forme in cui questa comunionalità si gioca e si esprime a livello sociale sono tutte da ricercare e
da collaudare, proprio anche in considerazione del fatto che la società odierna, avendo esasperato le
funzioni sociali istituzionali e i riferimenti strutturali e commerciali, non riesce più a integrare
socialmente i rapporti di gratuità, se non in figure standard, per altro in costante revisione (come la
famiglia e le associazioni di volontariato). Sembra, però, che il modo in cui la comunità cristiana
possa interfacciare significativamente la società civile attorno all’atteggiamento cristiano di
comunione e servizio sia proprio quello del fare riferimento alle tappe costitutive della vita su cui si
costruisce la vita sacramentale: il nascere, il morire, il nutrirsi, lo sposarsi, il pentirsi, il diventare
adulti, la malattia, il ministero…
3.2.2 L’ambito civile
Il secondo aspetto riguarda il rapporto della comunità ecclesiale con la società civile. Sono due gli
ordini di riflessione su questo tema. Il primo è di tipo pastorale e vede il rapporto tra Chiesa e
società come luogo di testimonianza della carità e di annuncio evangelico, il secondo, invece, è di
tipo teorico e si interroga sul ruolo della società nella formazione della coscienza individuale e
quindi nella configurazione dell’atto di fede. A nessuno sfugge quanto sia difficile e controverso
questo rapporto, soprattutto in questi tempi di cambio di civiltà, accompagnata da forte crisi della
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politica e da oblio della morale, cui fa riscontro la marginalizzazione della Chiesa rispetto alla
società e il tramonto di una Chiesa di maggioranza nella società.
3.2.2,1 L’approccio pastorale
Oggi più che mai pare centrale riaffermare che uno degli elementi fondamentali dell’identità
cristiana è proprio quello della cura per il tutto e dell’apertura universale in piena libertà. Abbiamo
sopra ricordato che lo specifico del cristiano è che Cristo è la salvezza di tutti e quindi la cattolicità
deve essere l’anima dell’identità cristiana. Poiché la politica ha come compito etico quello di
cercare e attuare il bene comune, si comprende bene allora l’importanza della dimensione politica
della testimonianza della carità e perciò l’urgenza di attivare pratiche pastorali adatte all’attuale
situazione socio-politica.
Partendo da questi stimoli, la riflessione pastorale su questo tema non può evitare il confronto con
la concreta situazione storica e culturale del momento che viviamo e con la società bergamasca in
cui siamo. Anche su questo aspetto bisogna procedere per sintesi che rischiano l’impoverimento
della ricchezza delle situazioni, ma ognuno ha la possibilità di completare e correggere i
suggerimenti proposti.
La sfida che si apre all’orizzonte è complessa e riguarda la riforma dello Stato sociale, terreno su
cui la Chiesa è tradizionalmente sensibile, ma anche l’affermazione forte e critica della laicità dello
Stato e della convivenza politica, spinta dal fenomeno delle migrazioni che impongono un radicale
processo interculturale che pare destinato a segnare profondamente la civiltà del futuro.
A questo si aggiunga il forte desiderio di società civile, contro l’azione dello Stato, rivendicata
all’ultima settimana sociale dei cattolici a Napoli. Questo desiderio non sembra essersi tradotto in
vie percorribili e proposte efficaci, ma indica un’esigenza che chiede di trovare chiarimento e
risposta. A questo desiderio corrisponde anche la nascita e il notevole sviluppo di soggetti sociali
intermedi, la cui identità va costruita e garantita, ma che determinano l’esigenza di una
contrattazione sociale e culturale a cui le strutture tradizionali dello Stato non sanno dare risposta.
La Chiesa, come comunità di minoranza si configura sempre più frequentemente e in modi volta a
volta diversi come uno di questi nuovi soggetti sociali, in cui si vengono a determinare esigenze
identitarie che chiedono di essere rispettate e garantite attraverso una concertazione, fino a ieri
praticamente inesistente.
C’è poi tutta la tradizione di strutture assistenziali, educative, culturali e sportive che la nostra
Diocesi possiede e che chiedono di essere riproposte in modo efficace nell’attuale movimento di
valorizzazione degli enti locali, ma che esigono un forte rinnovamento e un cambio gestionale
profondo, che si ripercuote sul modo finora ordinario di gestione attraverso il volontariato generoso,
ma sempre più raro, delle nostre comunità.
3.2.2,2 L’approccio morale
C’è poi un altro aspetto di questa realtà, che merita attenzione e riflessione. La società si presenta
come dimensione ineludibile dell’uomo, ma ambivalente. Le immagini di Babilonia e della
Gerusalemme celeste indicano nel libro dell’Apocalisse che la vita dell’uomo e perciò anche la sua
realizzazione trovano necessaria espressione sociale e politica, perché l’uomo non può essere beato
da solo, ma soltanto in una comunità in cui Dio sia tutto in tutti. L’impegno per la comunità non è
quindi un elemento facoltativo nella vita cristiana, ma necessario. Detto in termini diversi,
consacrazione e missione, che determinano ogni vocazione cristiana e che possono interpretare la
stessa figura salvifica di Gesù Cristo, Verbo di Dio incarnato, si richiamano intrinsecamente tra loro
e trovano fondazione nella realtà trinitaria e realizzazione storica proprio nella figura della Chiesa.
Ciò si comprende anche sotto un altro profilo, comunque fondamentale e prioritario nel compito
della mediazione pastorale. L’immagine di Chiesa che i cristiani riescono a realizzare, infatti,
costituisce la figura critica che permette di verificare ultimamente la qualità della fede dei cristiani,
perché in essa si realizza quell’amore del prossimo e quel farsi prossimo sul quale si verrà giudicati
35
nell’ultimo giorno. Se la fede, infatti, non è solo dire «Signore, Signore!», ma fare la volontà del
Padre e quindi impegnarsi nella storia con atteggiamento etico di testimonianza della carità, allora
le figure in cui si realizza la comunione ecclesiale individuano la presenza del Regno. Si diviene
famiglia di Dio solo facendo la volontà del Padre (Mc 3, 35), il Regno viene riconosciuto perché i
poveri ricevono l’annuncio, i malati guariscono e gli indemoniati sono liberati. Questa presenza
rinvia necessariamente all’annuncio del Regno e all’appello alla conversione, perché la storia non è
ancora conclusa e la libertà dell’uomo con la sua storia di peccato continua, tuttavia essa è
efficacemente presente come seme che muore, come lievito che fa fermentare, come luce nella
stanza buia.
La Chiesa si presenta allora come popolo messianico, peregrinante e penitente, luce delle genti e
segno di speranza per gli uomini. In questo senso occorre rileggere la figura della comunità cristiana
all’interno dell’immagine culturale odierna di uomo, che affronta la fatica di esistere. La qualità
cristiana della vita non si limita alle pratiche cultuali e religiose, ma si esprime nella qualità
credente e sperante della vita concreta della comunità e degli individui. Le figure sociali e politiche
della convivenza umana ed ecclesiale mostrano questa qualità credente e sperante nel loro essere
espressione d’amore e di giustizia che non trovano fondamento nell’uomo, ma in Dio, nel momento
stesso in cui esse richiedono l’impegno dell’uomo. Esse, quindi, sono fondamentali perché l’uomo
pervenga alla coscienza di sé e possa autenticamente vivere: per questo tali figure sono luogo
essenziale per l’annuncio evangelico e per la testimonianza cristiana.
3.3 L’impegno cristiano per l’edificazione della casa comune
Un ultimo cenno di approfondimento sottolinea i pensieri accennati appena sopra. E’ compito forte
di evangelizzazione e di testimonianza far sì che la comunità cristiana e ogni cristiano si impegnino
a costruire la comunità degli uomini come luogo di pace e di speranza, secondo le regole della
laicità che le condizioni storiche e il discernimento etico dettano. Il cristiano ispira la sua
mediazione storica ed etica al Vangelo: grazie a esso egli costituisce per la comunità umana la città
posta sul monte e il lievito che fa fermentare tutta la pasta. Il livello civile di pace e di giustizia che
si raggiunge è patrimonio per tutta l’umanità e costituisce un segno forte dell’amore di Dio per gli
uomini, se non altro perché non può esserci sviluppo di civiltà e di pace lontani dal Signore o contro
di Lui.
In particolare, lo sforzo di rendere la comunità cristiana laicamente attenta e partecipe ai processi
educativi che trovano nella scuola di Stato un particolare ma prezioso modello di applicazione e di
elaborazione, si connota come compito testimoniale necessario e prezioso. Lo stile di ricerca della
verità nel dialogo e nel confronto costituiscono il modo normale per il cristiano di confrontarsi sui
modelli formativi e pedagogici e lo stimolano a proporre un modello di umanità sempre attenta ai
segni dei tempi e al rispetto delle persone.
4. Conclusione
Restano ora soltanto da individuare alcuni percorsi operativi che diano risposta alla domanda: «Che
fare?». La risposta è: «Lavoriamo sulle pratiche pastorali che stiamo già svolgendo».
Chi è il soggetto che deve lavorare? Possiamo indicare, in senso generale, i consigli pastorali
parrocchiali, i gruppi e le associazioni sensibili e competenti nel campo socio-politico, le assemblee
parrocchiali e le strutture di corresponsabilità pastorale a livello parrocchiale e vicariale. Noi
prendiamo come riferimento tipico il consiglio pastorale parrocchiale.
Nel suo calendario di condivisione e di programmazione esso dovrebbe prevedere almeno un
incontro per presentare il tema e per approfondirlo. Poi sarebbe opportuno che venissero individuate
iniziative che permettano di allargare ad altre realtà parrocchiali e ad altri momenti la riflessione e
la verifica. Infine bisognerebbe raccogliere i risultati del lavoro svolto delineando le condizioni
della comunità parrocchiale in questo campo e individuando gli elementi di programmazione
pastorale che si ritengono urgenti e opportuni.
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Le domande su cui interrogarsi potrebbero essere le seguenti:
1. Quali sono i rapporti tra la parrocchia e le istituzioni civili locali? A quale modello e a quali
criteri si ispirano? C’è uno sforzo di razionalizzare i rapporti e di verificarne la coerenza con il
Vangelo? C’è un’attenzione nei cristiani di sollecitudine per il bene comune?
2. Quali sono e come lavorano le strutture cattoliche presenti nel territorio parrocchiale che
rivestono rilevanza civile, alla luce dei criteri indicati nel programma pastorale e delle piste di
approfondimento suggerite nel fascicolo di approfondimento allegato al programma pastorale
(scuole cattoliche, case di riposo, oratori, strutture sportive, educative, culturali…)?
3. Quale presa di coscienza e di responsabilità c’è nella comunità cristiana in ordine alla
formazione delle persone al socio-politico e alla corresponsabilità ecclesiale? Quali attività e
quali itinerari si sono attivati? Con quali risultati e con quali principi?
4. A titolo di “caso serio”, come viene vissuta in parrocchia la pastorale scolastica?
Buon lavoro!
37
Sommario
Premessa. Dal programma pastorale sulla morale a quella sulla società
21
Prima parte
1. Partiamo dalle attività delle nostre comunità
1.1 I compiti istituzionali
1.2 Il ruolo della società nella formazione della coscienza
2. Un caso particolare: l’educazione.
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Seconda parte
1. Alla ricerca dei criteri di lettura: lo sfondo.
1.1 L’icona biblica
1.2 Seguendo il Concilio…
1.3 Evoluzione storica dei rapporti tra Cristianesimo e società
2. Alla ricerca dei criteri di lettura: l’oggi del Cristianesimo e le sfide pastorali.
2.1 Il modello socio-politico
2.2 I processi socio-economici
2.3 I processi socio-culturali
2.3.1 L’attenzione al consumismo e all’individualismo
2.3.2 La crisi della Christianitas
3. Alla ricerca dei criteri di lettura: i luoghi e le categorie della lettura pratica.
3.1 Le categorie pratiche
3.2 I luoghi pratici
3.2.1 L’ambito ecclesiale
3.2.2 L’ambito civile
3.3 L’impegno cristiano per l’edificazione della casa comune
4. Conclusione
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Sommario
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38
DIOCESI DI BERGAMO
«Tu lo dici; io sono re!»
(Gv 18,33-38. 19,1-11)
PROGRAMMA PASTORALE 2001-2002
Fascicolo di approfondimento e strumenti di lavoro
Bergamo, Solennità di S. Alessandro Martire, 26 agosto 2001.
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1. L’icona biblica
«Tu lo dici; io sono re!» (Gv 18,33-38. 19,1-11)
Dal vangelo secondo Giovanni
18,33 Pilato allora rientrò nel pretorio, fece chiamare Gesù e gli disse: «Tu sei il re dei Giudei?». 34
Gesù rispose: «Dici questo da te oppure altri te l'hanno detto sul mio conto?». 35 Pilato rispose:
«Sono io forse Giudeo? La tua gente e i sommi sacerdoti ti hanno consegnato a me; che cosa hai
fatto?». 36 Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo
mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio
regno non è di quaggiù». 37 Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici;
io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza
alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce». 38 Gli dice Pilato: «Che cos'è la
verità?»…
19,1 Allora Pilato fece prendere Gesù e lo fece flagellare. 2 E i soldati, intrecciata una corona di
spine, gliela posero sul capo e gli misero addosso un mantello di porpora; quindi gli venivano
davanti e gli dicevano: 3 «Salve, re dei Giudei!». E gli davano schiaffi. 4 Pilato intanto uscì di nuovo
e disse loro: «Ecco, io ve lo conduco fuori, perché sappiate che non trovo in lui nessuna colpa». 5
Allora Gesù uscì, portando la corona di spine e il mantello di porpora. E Pilato disse loro: «Ecco
l'uomo!». 6 Al vederlo i sommi sacerdoti e le guardie gridarono: «Crocifiggilo, crocifiggilo!». Disse
loro Pilato: «Prendetelo voi e crocifiggetelo; io non trovo in lui nessuna colpa». 7 Gli risposero i
Giudei: «Noi abbiamo una legge e secondo questa legge deve morire, perché si è fatto Figlio di
Dio».
8
All'udire queste parole, Pilato ebbe ancor più paura. 9 Entrato di nuovo nel pretorio disse a Gesù:
«Di dove sei?». Ma Gesù non gli diede risposta. 10 Gli disse allora Pilato: «Non mi parli? Non sai
che ho il potere di metterti in libertà e il potere di metterti in croce?». 11 Rispose Gesù: «Tu non
avresti nessun potere su di me, se non ti fosse stato dato dall'alto. Per questo chi mi ha consegnato
nelle tue mani ha una colpa più grande».
1.1 Il metodo
Secondo il metodo della “LECTIO DIVINA” il primo momento è riservato alla lectio, intesa come
lettura e studio del testo (= cosa dice il testo in se stesso?); il secondo momento è quello della
meditatio, ossia dell’applicazione del brano biblico a se stessi (= cosa dice il testo a me/noi?);
successivamente quanto letto e meditato deve diventare preghiera: è questo il momento dell’oratio
(= cosa diciamo a Dio partendo dal brano ascoltato e meditato?); il tutto sfocia nella contemplatio,
in cui la Parola, letta, meditata e pregata, porta alla contemplazione del mistero amoroso di Dio
(=adorazione nel silenzio del Signore e ammirazione grata per le sue opere).
L’ultimo momento, l’actio, non è qui proposto, perché coincide in definitiva con lo stesso
“programma pastorale”.
1.1.1 Lectio
Pilato e Gesù: due logiche a confronto.
Nella narrazione giovannea della Passione il processo di Gesù davanti a Pilato1 può essere
considerato, accanto all’altro celebre episodio del tributo a Cesare (Mt 2,15-22 e par.), come un
1
Pilato è stato presentato dagli scrittori giudei (più Filone di Giuseppe Flavio) come personaggio crudele, arrogante e
provocatore. Giudizio negativo anche quello di Tacito, anche perché lo storico romano era avverso alla bassa nobiltà
romana (l’ordine equestre) da cui Pilato proveniva. Meno negativo il giudizio degli storici attuali che attribuiscono i
vari ed effettivi gravi episodi imputati a Pilato più che ad efferatezza a una mancanza di vero senso politico. In ciò si
40
testo assolutamente paradigmatico per una riflessione sulla delicata relazione tra la fede cristiana ed
il potere o, in genere, la responsabilità politica.
Nel testo giovanneo del processo davanti a Pilato si nota un’organizzazione letteraria in sette quadri
che, dal punto di vista spaziale, alternano la collocazione dei fatti narrati rispettivamente all’esterno
del pretorio e all’interno di esso: Gv 18,28-32 (fuori); 33-38a (dentro); 38b-40 (fuori); 19,1-3
(dentro); 4-8 (fuori); 9-11 (dentro); 12-16a (fuori).
Nel primo colloquio con il procuratore romano (Gv 18,33-38) vediamo che l’attenzione
dell’evangelista va a due aspetti tra loro collegati: da una parte si proclama la regalità di Gesù,
dall’altra se ne chiarisce il significato, liberandolo dalle contaminazioni di una mentalità ‘mondana’.
Il dialogo con Pilato si svolge all’interno del pretorio, cioè in un luogo inaccessibile, nel quale però,
il narratore evangelico, paradossalmente, consente al lettore di poter entrare e sentire così quanto si
dicono Gesù e Pilato. L’abile costruzione artistica giovannea fa in modo che il lettore, venendo a
conoscenza delle parole rivolte da Gesù al procuratore romano, sia egli stesso interpellato ed
esortato a prendere posizione su temi tanto importanti2. Nell’udienza in cui Pilato dovrebbe
accertare la verità improbabile dell’accusa contro il Nazareno, Gesù sta perseguendo uno scopo che
non è la propria liberazione, ma piuttosto il portare quest’uomo a diventare un soggetto veramente
libero, in grado di decidersi autenticamente, responsabilmente, davanti alla Verità. In tal modo
anche il lettore del vangelo, illuminato e guidato dalla parola di Dio, è indotto a scegliere sotto
quale signoria intenda porre la propria esistenza: se quella dei rapporti di competizione, di conflitto,
di dominio di uno sull’altro, di mosse e contromosse (che è l’unica “signoria” riconosciuta da
Pilato), o quella di Cristo che è la Verità di Dio. Come Pilato anche il lettore è costretto a
confrontarsi personalmente con Gesù, a prendere posizione di fronte alla novità del Dio che egli
testimonia e al nuovo modello di relazioni umane esigite da Lui e rese visibili nell’esistenza del
Logos fatto carne.
La dinamica narrativa “dentro-fuori” non è dunque un mero espediente letterario, ma è funzionale
al messaggio che l’evangelista vuole comunicare al proprio lettore: per il credente il prendere
posizione di fronte alla verità di Gesù non è affatto senza rilievo per il “fuori”, ma decide anche del
suo modo di stare di fronte al mondo e della modalità con cui vivrà le sue responsabilità nella
società!
Sei tu il re?
Ci soffermeremo per la lectio sui due momenti del dialogo tra Gesù e Pilato (Gv 18,33-38a; 19,911) e più brevemente sulla scena dell’Ecce Homo (19,4-8).
«Pilato rientrò nel pretorio, fece chiamare Gesù e gli disse: «Tu sei il re dei Giudei?» (Gv 18,33).
L'unica domanda che può interessare Pilato, riportata da tutti e quattro i vangeli (Mt 27,11; Mc
15,2; Lc 23,3) è quella che deve appurare se Gesù intenda creare un movimento politico dissidente.
Per Pilato il termine Re ha un valore esclusivamente politico, che può diventare all'occorrenza
pericoloso. Per il procuratore romano non esiste affatto un valore o spessore religioso del titolo; per
i Giudei il titolo ha valore contemporaneamente politico e religioso; per Gesù il titolo riveste un
terzo e nuovo significato.
A Pilato importa esclusivamente la singola e precisa questione dell’innocenza o colpevolezza
dell’imputato rispetto al capo d’imputazione di cui è incriminato. Ma proprio questa sua visuale
ristretta gli impedisce di comprendere la dimensione più profonda, decisiva, cui lo vuole portare
invece Gesù; a costui non preme dimostrare la propria innocenza, ma aiutare Pilato a prendere le
avvicinano al personaggio Pilato ritratto dai vangeli canonici quale persona che di fronte a Gesù cercava di non dovere
decidere tra verità e falsità, ma che, in definitiva, veniva a favorire con questa sua indecisione proprio l’ingiustizia della
falsa accusa contro il Nazareno.
2
È evidente come Giovanni non intenda proporre una redazione cronachistica dei fatti della Passione ma miri a portare
il proprio lettore a prendere posizione davanti alla regalità di Cristo, come chiarirà nella “prima conclusione” del suo
vangelo (“Questi [segni] sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo,
abbiate la vita nel suo nome” Gv 20,31).
41
distanze dal singolo problema e ad aprirsi ad una visione più larga sul tema del potere e della
giustizia. Questa coinvolge inevitabilmente il piano della fede, al quale Gesù tenta di condurre il
suo giudice.
Perciò, a differenza dei sinottici che presentano un Gesù rinchiuso nel silenzio, qui egli prende
l’iniziativa e rilancia a propria volta il dialogo con una domanda: «Dici questo da te oppure altri te
l'hanno detto sul mio conto?» (v. 34). Pilato deve decidere se vuole porsi davanti a Gesù solo per
curiosità o per luoghi comuni, o invece intende situarsi di fronte a lui secondo verità. Gesù vuole
precisamente che Pilato s’interroghi sulla propria domanda, sul motivo profondo che la fa nascere,
perché possa ritrovare libertà e serenità di giudizio.
È chiaro l’invito implicito al lettore perché, accostandosi al messaggio evangelico, sia disposto a
mettersi seriamente in discussione e guardare con libertà e sincerità la grande questione della verità,
che coincide con quella del senso della vita stessa.
Purtroppo Pilato non si lascia trascinare su questo piano della domanda circa se stesso, ma vuole
rimanere soltanto un funzionario imperiale, un uomo di potere e pertanto ripropone la richiesta sulle
responsabilità effettive di Gesù: «Sono io forse Giudeo? La tua gente e i sommi sacerdoti ti hanno
consegnato a me; che cosa hai fatto?» (v. 35). Si svela così anche la sua cattiva fede e
l’orientamento distorto delle sue scelte. Infatti, Pilato è sempre disposto a concedere a tutti3 quanto
richiestogli e la sua indecisione rivela non tanto una debolezza ma un pragmatismo flessibile
completamente rivolto, però, alla ricerca del proprio tornaconto piuttosto che al perseguimento della
giustizia e della verità. In questo egli appare davvero il personaggio più ambiguo del quarto
evangelo.
Gesù invece non risponde all’interrogazione di Pilato, ma continua a riferirsi al tema precedente,
ossia a quello della propria regalità. Scartando quella regalità e concezione del potere che si esprime
attraverso l'esercizio della costrizione violenta, sarà evidente che non intende affatto occupare il
trono di Cesare. Egli nega perciò qualsiasi affinità tra la propria regalità e quella dei re che Pilato
conosce: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei
servitori avrebbero combattuto» (v. 36).
L'espressione “il mio regno non appartiene a questo mondo” esige un chiarimento. Essa è in
parallelo con l'espressione “io non appartengo a questo mondo” (8,23), dove subito dopo afferma,
però, di essere il Messia che opera sempre secondo il volere del Padre (cfr. Gv 8,29), ossia di un
Dio che “ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non
muoia, ma abbia la vita eterna” e che “ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma
perché il mondo si salvi per mezzo di lui” (Gv 3,16-17). L’evangelista Giovanni non introduce un
dualismo tra la sfera della fede e quella della mondanità/materialità. Quando qui si parla di questo
mondo (sic!) si intende non la realtà umana in quanto amata da Dio, ma piuttosto un ‘sistema’ o
‘ordinamento’ (kosmos) retto dall’ingiustizia e dalla menzogna, uno stile di vita chiuso in se stesso
e proteso alla ricerca di una gloria illusoria (cfr. Gv 5,44). Questo “mondo” è quello che opprime
l'uomo e rifiuta l'adesione a Gesù. Costui dichiara che un tale tipo di ordinamento si appoggia sulla
forza e sull'uso della violenza (Gv 18,36); rinunciando all’esibizione della forza Gesù non prova di
non essere Re, ma attesta invece di non essere un re come gli altri. La sua regalità non ha origine in
nessuna legittimità di questo mondo, ha ben altro fondamento giuridico che quello della relazione
potere-sottomissione (padrone-servo). Il suo regno è “dall'alto”, ossia è della sfera del Padre e dello
Spirito: è una regalità che produce non morte, ma vita, perché è amore che si comunica all'uomo
fino alla morte.
Con ciò Pilato è invitato a passare dall’esercizio di una giustizia che è un mero gioco di potere, al
coraggio di porsi la domanda seria, la domanda sulla verità del potere nella vita degli uomini.
Così con i Giudei in Gv 19,31-36 e con Giuseppe d’Arimatea in Gv 19,38, con l’unica eccezione per la scritta del
cartello da porre sulla croce (Gv 1919-20).
3
42
Ascoltare la voce
Pilato è sollecitato a ritrovare la domanda di fondo della vita, quella che rende un’esistenza ‘vera’ o
‘falsa’; deve perciò cambiare ‘luogo’, ossia compiere un esodo da un sistema di menzogna verso il
luogo dove può trovare una Parola di Verità. «Il mio regno non è di questo mondo»: la Parola di
Verità viene da altrove, non ‘da questo mondo’, pur essendo decisiva per la vita del mondo. E per
un momento, dopo la pretesa neutralità del v. 35 («Sono io forse Giudeo? La tua gente e i sommi
sacerdoti ti hanno consegnato a me; che cosa hai fatto?») sembra accettare di porsi su questo piano
di autenticità davanti a Gesù, come sembrerebbe rivelare la sua ulteriore richiesta: «Allora Pilato gli
disse: “Dunque tu sei re?”. Rispose Gesù: “Tu lo dici; io sono re”» (v.37).
La discussione si indirizza qui al tema dell’autentica missione del Re. L'incomprensione di Pilato di
fronte ad una regalità che rifiuti l'esercizio della forza diventa così palese e totale. Questo permette,
però, a Gesù, di completare la rivelazione sulla sua regalità. Se Gesù, dicendo “io sono re”, non
aggiunge "dei Giudei" è perché intende affermare che la sua regalità si estende ad ogni uomo
(11,52). E l'indeterminazione nella quale Gesù lascia il suo titolo regale (dice "io sono re" e non "Io
sono il re"!) mostra infatti che questa regalità non è esclusiva, ma può essere partecipata; nella Cena
egli aveva chiesto al Padre di consacrare i suoi discepoli nella verità, il che equivaleva a ‘ungere
come re’ i discepoli che restavano nel mondo (Gv 17,17ss.). Ed egli stesso li fa partecipi della sua
regalità attraverso il dono della sua vita!
Il prosieguo della frase proferita da Gesù è di importanza decisiva per il tema della regalità: «Per
questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità.
Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce» (v. 37). La sua funzione di re non consiste nel
dominare o nel governare, ma nel rendere testimonianza alla verità. Il tema "verità" in Giovanni è
uno dei motivi teologici centrali. Esso ha il suo ambito semantico non tanto nel linguaggio
filosofico greco, ma nel linguaggio anticotestamentario. La “verità” non è l'adeguazione del
giudizio della mente alla realtà, ma è rivelazione, svelamento. Se la verità di Dio nell'Antico
Testamento era la fedeltà alle sue promesse e la solidità della sua alleanza, in Giovanni acquista un
senso ulteriore: è la rivelazione dell’amore di Dio per il mondo, rivelazione che si attua mediante il
Figlio (Gv 1,18). È Gesù stesso, con le sue parole e soprattutto con la sua vita e morte, la Verità su
Dio e la manifestazione della fedeltà di Dio all'uomo, poiché è "pieno di grazia e di verità". Gesù è
dunque "la via, la verità e la vita" (14,6), poiché è il Rivelatore del disegno del Padre, disegno di
amore sul mondo.
La sua regalità è dare testimonianza alla verità. Il termine "testimoniare" merita una precisazione.
Secondo l’evangelista Giovanni lo scopo della venuta del Logos nel mondo è "testimoniare" ossia
rivelare il Padre. Come si può vedere anche da questo testo, il “dare testimonianza” è usato per lo
più in un contesto d’opposizione; testimoniare suppone, infatti, la disponibilità anche a perdere la
vita per fedeltà alla Verità, così come Gesù dà la vita per rendere testimonianza al Padre.
Gesù esercita la propria regalità accettando di morire e chiamando liberamente con l’offerta di una
Parola di vita alla quale ci si può aprire o chiudere: qui sta la sua regalità. Tutti coloro che hanno il
cuore aperto per accogliere la verità, diventano suoi discepoli.
La frase "ascolta la mia voce" mette in relazione questo testo con il brano del Pastore Bello delle
pecore che ascoltano la sua voce e lo seguono (cfr. Gv 10,4). Bisogna quindi leggere la regalità di
Cristo posta qui al centro della narrazione sullo sfondo dell'allegoria del pastore “bello” che dona se
stesso per le proprie pecore, liberandole da lupi e briganti. Se i profeti parlavano di un discendente
di Davide che avrebbe esercitato la regalità pascendo le pecore di Israele (Ez 34,23), Gesù adempie
questa regalità pascendo non solo le pecore di Israele (Gv 11,52), ma anche le altre pecore, tutti i
figli di Dio dispersi; inoltre la manifestazione di questa regalità lo metterà in opposizione ai ladri e
banditi, cioè a modi distorti di esercizio dell’autorità.
La battuta finale di Pilato rivolta a Gesù (“cosa è la verità?” v. 38) non è certamente una domanda
sincera, ma la sarcastica espressione di uno scetticismo radicale, davanti ad una parola che non
dischiude per lui alcun interesse. Constatando che Gesù non pretende un potere temporale, non lo
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considera più pericoloso. Per tutto il resto non può che essere cieco e sordo, poiché egli appartiene a
"questo mondo". L'offerta implicita nelle parole di Gesù lo lascia indifferente perché il procuratore
non è interessato a lasciarsi chiamare dal ‘bel pastore’, e ad accogliere il dono della sua vita. Egli
non ha accettato di guardare le cose in quella visione più ampia, di fede, che gli ha proposto Gesù,
ma resta affogato nella sua preocupazione di conservare intatto il potere, prigioniero dei propri
calcoli meschini.
L’Ecce Homo
La seconda parte del colloquio tra Gesù e Pilato (Gv 19,9-11) è preceduta dalla flagellazione ed
incoronazione di spine (19,1-3) e dal celebre passo dell’Ecce Homo (19,4-8), in cui accanto alla
descrizione regale di Gesù che è presentato come permanentemente rivestito di porpora regale,
viene riportata la celebre dichiarazione di Pilato: ecco l’uomo (Gv 19,5)! La parola di Pilato può
essere dunque letta a due livelli: per il governatore l'uomo è quell'accusato malconcio e disprezzabile,
ma per il lettore, guidato alla comprensione dall’evangelista, Colui che è incoronato di spine e
rivestito di porpora per dileggio è invece il Giusto innocente, l'uomo vero riconosciuto agli occhi di
Dio, anche se schiaffeggiato e perseguitato (Sal 22; Is 53), è il Re-Messia, il più bello tra tutti i figli
dell'uomo (Sal 45), è il Figlio dell'Uomo di cui parla Daniele, questo individuo sofferente, simbolo di
una comunità perseguitata, al quale Dio affida il potere e la gloria e il regno (Dan 7,13-14.27). Proprio
perché rivelazione dell'uomo e di Dio i capi dei Giudei lo rifiutano; ma così facendo rigettano la stessa
Legge alla quale pretendono di ispirarsi e misconoscono la regalità voluta da Dio, come succederà più
chiaramente ancora nella scena del Litostroto. Nell’Ecce Homo, mentre Pilato irride Gesù e mostra
l’incapacità umana a comprendere la regalità che Gesù è venuto ad instaurare, noi contempliamo
invece l’icona della verità divina sull’uomo e scorgiamo in lui il compimento del sogno di Dio che
creò l’uomo a propria «immagine e somiglianza». Questo prigioniero, che Pilato guarda con un
misto di commiserazione e disprezzo, è il re scelto da Dio per salvare il suo popolo e l’intera
umanità e questa regalità misconosciuta e dileggiata manifesta quale sia la vera vocazione regale di
ogni persona umana; (si noti il richiamo a 1Sam 9,17 dove compare la medesima espressione sulla
bocca di Dio per dire a Samuele chi è il re prescelto per liberare Israele).
La responsabilità del potere
Pilato funge da doppio negativo, da figura antitetica a quella di Giovanni Battista, il testimone per
eccellenza, venuto per additare Gesù a Israele come il Messia e per rendere testimonianza alla Luce,
la quale è la Vita di ogni persona umana. La verità, da Pilato proclamata controvoglia, non è in
grado di illuminare la sua esistenza, poiché egli non si è affatto deciso per essa, ma è proteso
soltanto a difendere se stesso ed i propri obiettivi.
Nel secondo dialogo tra Pilato e Gesù il procuratore romano ancora una volta si palesa come
apparente garantista, incapace di mettere in questione il suo potere. In questo senso appare in
speculare antitesi con un uomo di potere quale Nicodemo che è invece il genuino difensore dei
diritti di Gesù, quando per costui invoca, nel sinedrio, una procedura legale corretta (Gv 7,50-52).
Così, allorché Gesù non risponde alla sua domanda sulla propria origine (v. 9), il procuratore
reagisce al silenzio del misterioso imputato con l’intimidazione, tipica di un potere ingiusto, ma in
definitiva debole, come lascia trasparire la sua “paura” incontrollabile (v. 8): «Non mi parli? Non
sai che ho il potere di metterti in libertà e il potere di metterti in croce?» (v. 10).
Al difetto d’argomenti contro Gesù contrappone l’appello ad un potere superiore, appello falso ed
ingiusto perché esso sarebbe motivato soltanto dalla difesa dei diritti di un innocente e non dei
soprusi di un potente: «Non sai che ho il potere…».
La replica di Gesù sollecita Pilato a non arrestarsi, nel suo rimando ad un potere superiore,
all’autorità imperiale della quale è il supremo rappresentante in Palestina, ma a risalire più in alto,
alla sola Autorità che non ha nessuno sopra di sé ed alla quale ognuno deve risponde in coscienza
per ogni atto di potere: «Tu non avresti nessun potere su di me, se non ti fosse stato dato dall'alto.
Per questo chi mi ha consegnato nelle tue mani ha una colpa più grande» (v.11).
44
Il potere di morte o di vita che Pilato rivendica di fronte all’imputato non lo esime dal dovere di
interrogarsi sulla vera natura del potere e poi, di conseguenza, sulla sua responsabilità di fronte alla
situazione concreta in cui deve emettere la sentenza. Vari commentatori seguono qui
l’interpretazione agostiniana che individua un discorso di portata generale sulla natura e
responsabilità del potere. A dispetto di tutte le apparenze, le autorità di questo mondo ricevono il
proprio potere da Dio che è il Signore della storia. Ma questo non comporta alcuna affermazione di
un potere assoluto, di diritto divino e perciò non giudicabile dagli uomini, bensì implica proprio il
contrario: l’affermazione del principio critico di ogni potere, che è chiamato, sempre ed anzitutto, a
rispondere a Dio della verità e giustizia del proprio esercizio. Tale principio critico giustifica come
Gesù, nella sua replica, abbia rovesciato i ruoli tra giudice ed accusato. La problematica giovannea
della responsabilità del potere (exousìa) e della sua origine, che appariva già nella letteratura biblica
sapienziale (cfr. Sap 6,1-3), pur non proponendo una teoria dello stato, si allinea sostanzialmente
alle tesi paoline sul potere (Rm 13,1ss.; cfr. anche Tt 3,1; 1Pt 2,13-17) quale funzione necessaria al
corpo sociale; in questo senso il potere politico è posto a “servizio di Dio” nel perseguire il bene
della società, finalità che rappresenta, però, anche il criterio ultimo rispetto al quale l’autorità
politica non può sottrarsi nel giudizio etico sulle scelte attuate.
Pilato si illude invece di essere autorizzato a definire arbitrariamente, autonomamente, cosa sia il
bene. Nel segreto del pretorio Gesù gli rivolge allora l’estremo invito: bisogna che egli esca dalle
sue illusioni su un potere che pretende di essere da se stesso il fondamento del diritto. La condanna
dell’innocente Gesù manifesterà anche la fragilità del potere che Pilato ha appena finito di vantare,
come gli ricordano - con un tratto di evidente intimidazione - i suoi interlocutori: «Se liberi costui,
non sei amico di Cesare! Chiunque infatti si fa re si mette contro Cesare» (v. 13). Eppure entrambi,
i Giudei e Pilato, stanno dichiarando ingannevoli due sistemi di potere che incarnano: Pilato si
sottrae all’autorità civile che lo accredita per mettersi a disposizione degli accusatori di Gesù,
costoro rinunciano all’autorità della loro Legge per rimettersi all’autorità di Cesare. È uno scambio
in cui non si comprende più chi legiferi e chi sia governato, è una confusione di leggi, di poteri, di
attori, confusione che Gesù, nella tentazione ‘del monte’, aveva mascherato come satanica e quale
atteggiamento idolatrico dell’uomo che si autoesalta.
Per un istante, il procuratore sembrerebbe aver compreso la lezione (v.12: «da quel momento Pilato
cercava di liberarlo»), ma poi prevale in lui il dramma del rifiuto della verità che attraversa l’intero
evangelo e si consuma il misfatto della condanna dell’innocente Gesù.
1.1.2 Meditatio
Nel pretorio
La lettura del processo di Gesù davanti a Pilato, con la sua insistita alternanza di “dentro-fuori”, ci
suggerisce anzitutto come l’interrogarci sulla verità di Dio e sul suo piano di salvezza e di
conseguenza sul nostro stare di fronte al mistero di Cristo flagellato, condannato, abbandonato e
crocifisso, coinvolge strettamente anche il modo di vivere la nostra responsabilità nel sociale e nel
politico.
Così un programma pastorale non potrà assolutamente interessarsi soltanto alla soluzione di singole
e determinate problematiche, ma dovrà in primo luogo cercare un orizzonte più ampio di
comprensione, un quadro di fede in cui valutare le varie problematiche e affrontare in modo
coerente con l’evangelo le diverse questioni della giustizia sociale, dell’educazione, del lavoro,
ecc… La questione urgente da porsi non sarà allora immediatamente il “cosa fare per agire da
cristiani nel mondo?”, ma piuttosto il “come essere cristiani?”.
Ascoltare questo dialogo tra Gesù e Pilato ci obbliga allora a riflettere sulla nostra visione della vita.
Siamo provocati a riflettere su noi stessi ed a chiederci se non ritroviamo in noi atteggiamenti che
richiamano quelli di Pilato o degli altri avversari di Gesù; detto altrimenti, ci chiediamo davanti al
45
Signore se siamo succubi della tentazione “del monte”, vittime di un desiderio imperioso di
prevalere sugli altri, della voglia di apparire, della smania di protagonismo e di successo.
La concezione pratica che Pilato ha del potere contrasta con quella di Gesù; ciò ci ricorda come
l'ingiustizia umana si mascheri spesso dietro al potere e si serva sovente della ricchezza. La volontà
di Dio, ossia il suo progetto amoroso su questo mondo (che s’identifica con la “verità”
dell’evangelo) si scontra drammaticamente, tragicamente con le nostre ingiustizie, egoismi e, in
definitiva, con la nostra realtà di peccato. Dio interviene allora come liberatore (cfr. l'Esodo), come
colui che perdona il nostro peccato, lotta contro il male, dona la legge e la sua parola per condurci a
comprendere ed eseguire i suoi progetti, tanto spesso in drammatica contrapposizione con i nostri
pensieri e la nostra prassi.
Proprio il dialogo giovanneo tra Gesù e Pilato suscita in noi l’inquietante domanda se abbiamo
davvero deciso di “essere per la verità” e perciò disposti ad ascoltare integralmente la voce di Gesù,
oppure - come il procuratore romano- preferiamo tergiversare, restare nell’ambiguità. È un
nasconderci dietro il relativismo di moda, giustificandolo con il pensiero debole e la fine delle
ideologie, è avvalerci del conformismo dell’anticonformismo per non prendere posizioni scomode,
per non impegnarci nella difesa di valori, per defilarci di fronte all’insegnamento della Chiesa su
temi di frontiera, quali l’etica della vita e le grandi questioni della giustizia sociale.
La discussione sulla regalità di Gesù con i motivi della libertà e del potere ad essa collegati (il re è
colui che è, per eccellenza, libero!), ci mostra che l’«autorità» di cui egli è il modello per il
discepolo consiste nel donare la propria vita per l’altro, nell’offrirsi fino alla morte; essa
contemporaneamente ci interpella, però, anche sulla nostra idea di libertà! Libertà è per noi
l’arbitrio di poter disporre di noi (e degli altri), come pensa Pilato? O non è piuttosto un entrare
nello stile di Gesù, un essere ‘re’ come lui. Siamo liberi, splendidi, gloriosi come re, solo quando ci
doniamo con generosità e sincerità per ciò che ha vero valore; siamo rivestiti di regalità, soltanto se
amiamo senza riserve e ci spendiamo per la causa della dignità, della libertà e della felicità degli
uomini e delle donne di questo mondo.
Uscendo dal pretorio
Con l’uscita di Pilato dal pretorio anche noi lettori usciamo per seguire Gesù nel compiersi del suo
“viaggio”. Il dialogo cui abbiamo appena assistito ci ha offerto la possibilità di confrontarci con le
nostre domande e di conoscere meglio il punto di vista della parola di Dio a proposito del potere e
dell’autorità. Ne usciamo perciò rafforzati nella convinzione che al Dio rivelato in Gesù preme
questo nostro mondo, stanno a cuore la sua libertà, dignità e felicità. Siamo spronati a credere che il
suo potere non è vacillante, anche quando l’ingiustizia sembra trionfare e saremmo portati a dar
ragione alla sconsolata osservazione del salmista: «Mentre gli empi si aggirano intorno, emergono i
peggiori tra gli uomini» (Sal 12,9).
Usciamo dal pretorio con un’accresciuta consapevolezza: il potere umano non può essere né
demonizzato né divinizzato, ma in esso si manifesta il problema etico, l’orientamento di fondo della
nostra libertà. La nostra vocazione cristiana è un rispondere alla voce del Re, flagellato irriso e
crocifisso, è un rispondere della qualità morale delle scelte grandi e piccole, nella vita di ogni
giorno, nel lavoro, nella politica, nel volontariato, nella gestione delle realtà sociali, mondane, senza
sottrarci all’impegno, alla fatica, alla prova del tempo che è fedeltà e perseveranza, posponendo la
ricerca della nostra pace e tranquillità personali, come tentava invece di fare Pilato.
1.1.3 Oratio
Padre, ti lodiamo per aver posto Gesù come nostro Signore e Re dell’universo e
perché ci hai fatti partecipi del suo sacerdozio regale.
46
Padre, Ti lodiamo perché ci hai liberato dal potere delle tenebre e hai illuminato il
nostro spirito con la luce della tua Parola vivente, il Figlio tuo diletto, Gesù,
introducendoci nella verità del tuo eterno e paterno amore sulla nostra inquieta
umanità.
Signore Gesù, ti lodiamo perché sei stato flagellato, coronato di spine e irriso dalla
folla, inchiodato al trono della croce per tutti noi; in te possiamo trovare la forza di
servire e regnare facendo dono della nostra vita ai fratelli.
Signore Gesù, ti lodiamo perché tornerai un giorno nella potenza e nella gloria, per
essere giudice e salvatore di chi confida in te e non si scandalizza di te. Allora
consegnerai il Regno al Padre e anche la morte, ultimo nemico, sarà annientata.
Spirito Santo, ti lodiamo perché alimenti in noi la fede e ci fai riconoscere in Gesù,
condannato e crocifisso sotto Ponzio Pilato, il Re della storia.
Spirito Santo, ti lodiamo perché ci guidi alla verità tutta intera e ci fai partecipare al
mistero della Pasqua di Gesù Cristo, che inaugura il regno di verità e di vita, regno di
santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace.
Beata e Santissima Trinità, ti supplichiamo di poter con la tua grazia ascoltare
docilmente l’evangelo della vita e discernere ciò che è buono e giusto e collaborare
all’edificazione di un mondo più umano, in ogni ambito della vita, privato e pubblico,
personale e comunitario.
Aiutaci ad essere una comunità vigilante, per non cadere nella tentazione di ritenerci
padroni di noi stessi e degli altri e di sentirci forti dell’avere, del potere e
dell’apparire, Vogliamo, col tuo aiuto, rimanere sempre e semplicemente servi del
47
tuo disegno, colmi di gratitudine per ogni compito in cui ci chiami a servirti, certi che
solo nella “tua volontà è la nostra pace”.
1.1.4 Contemplatio
Semi di contemplazione sulla regalità di Gesù e sulla nostra partecipazione ad essa:
«Il Signore siede re per sempre.
Il Signore darà forza al suo popolo
benedirà il suo popolo con la pace». (Sal 29,10-11)
«Il Signore regna, si ammanta di splendore;
il Signore si riveste, si cinge di forza;
rende saldo il mondo, non sarà mai scosso.
Saldo è il tuo trono fin dal principio, da sempre tu sei.
Alzano i fiumi, Signore,
alzano i fiumi la loro voce,
alzano i fiumi il loro fragore.
Ma più potente delle voci di grandi acque,
più potente dei flutti del mare,
potente nell'alto è il Signore». (Sal 93,1-4)
«Guardando ancora nelle visioni notturne,
ecco apparire, sulle nubi del cielo,
uno, simile ad un figlio di uomo;
giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui,
che gli diede potere, gloria e regno;
tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano;
il suo potere è un potere eterno,
che non tramonta mai, e il suo regno è tale
che non sarà mai distrutto». (Dan 7,13-14)
«Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Gli rispose Gesù: «In verità ti dico, oggi
sarai con me nel paradiso» (Lc 23,42-43).
«Certa è questa parola:
Se moriamo con lui, vivremo anche con lui;
se con lui perseveriamo, con lui anche regneremo;
se lo rinneghiamo, anch'egli ci rinnegherà;
se noi manchiamo di fede, egli però rimane fedele,
perché non può rinnegare se stesso». (2Tm 2,11-13)
48
«A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un
regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen».
(Ap 1, 5-6).
49
2. Spunti di riflessione sulle Politiche Familiari
In stretta relazione con il presente programma pastorale viene pubblicato dall’Ufficio per la
Pastorale della Famiglia uno strumento di lavoro e di riflessione per i gruppi familiari parrocchiali
sul tema delle politiche familiari.
Esso è frutto di circa due anni di riflessioni dell’Osservatorio Diocesano per le Politiche Familiari
ed ha l’obiettivo di riconoscere e far riconoscere alle famiglie, alle comunità cristiane e ai vari
soggetti che compongono la nostra società bergamasca, il ruolo e la missione della famiglia nella
Chiesa e nella società, nonché le funzioni che impegnano la famiglia sotto il profilo umano, sociale,
pedagogico ed economico.
È premura del programma pastorale 2001-2002 promuovere una qualificata cultura della famiglia e
un’adeguata cura pastorale delle famiglie nel contesto della comunità cristiana e civile.
Gli orientamenti proposti dal programma pastorale per rileggere le pratiche pastorali della comunità
cristiana nelle sue relazioni interne e nei molteplici rapporti con la società civile incrociano
necessariamente la famiglia, la quale si trova per sua vocazione e missione al crocevia tra la Chiesa
e il mondo.
Gli spunti di riflessione offerti ai gruppi familiari parrocchiali per rileggere le pratiche pastorali
relative alla edificazione della comunità cristiana e ai rapporti con la società civile e il mondo del
lavoro potrebbero opportunamente preparare il terreno sul quale far crescere una rinnovata
attenzione alla famiglia.
La riflessione si orienta più propriamente sulle politiche familiari come insieme di azioni e
provvedimenti a vantaggio della famiglia, provenienti sia dal pubblico che dai soggetti sociali ed
economici che compongono la società, aventi lo scopo di sostenere e promuovere la famiglia nei
suoi principali compiti, funzioni e attività. Tutti quindi attuano o dovrebbero attuare azioni di
politiche familiari.
L’obiettivo delle politiche familiari consiste nel creare e mantenere per le famiglie un “ambiente”
favorevole allo svolgimento ottimale delle funzioni che le sono proprie (e non solo nelle situazioni
più critiche e drammatiche).
In Italia, ma anche nelle nostre comunità bergamasche, la famiglia risulta essere solo un criterio di
politica sociale accanto agli altri e non il principale dal quale poi discendono gli altri.
Le politiche che si rivolgono alla famiglia, sono ancora oggi fortemente centrate sui bisogni dei
singoli componenti; tutt’al più, sono enfatizzati i bisogni delle nuove forme deboli di famiglia
(svantaggiate, multi-problema, nuclei con un solo genitore, ecc.). Ciò accade perché, nella
maggioranza dei casi, si assume un codice simbolico individuale per trattare i problemi e le
questioni familiari.
La famiglia risulta essere un soggetto marginale, se non invisibile, delle politiche sociali.
Sulla famiglia si stanno scaricando i maggiori costi dell’adeguamento alle trasformazioni sociali e
produttive, con la conseguenza di una drammatica riduzione delle sue capacità riproduttive, delle
sue potenzialità solidaristiche, del suo ruolo centrale nella trasmissione di valori o modelli alle
nuove generazioni, mentre poco o nulli sono gli interventi ad essa destinati.
Il nostro Paese, nella realtà dei fatti, non risulta aver una esplicita politica familiare, anzi,
storicamente l’Italia è caratterizzata dalla forte controversia sulla opportunità che tale politica venga
sviluppata.
La famiglia rimane “il non detto” delle politiche sociali; è la gamba nascosta che fa muovere i
processi di socializzazione e di articolazione dei gruppi sociali. All’interno della nostra società la
famiglia è un partner necessario e dato per scontato, ma insieme scarsamente riconosciuto.
Quali azioni di politiche familiari si intraprendono nelle nostre comunità? Esistono momenti e
luoghi di coordinamento degli interventi?
50
Le caratteristiche di reciprocità e solidarietà che sostanziano le relazioni familiari insieme alle
funzioni di riproduzione sociale e di socializzazione culturale non possono e non devono certo
essere considerate come aspetti esclusivamente privati della famiglia.
Infatti, la famiglia è una realtà che media e realizza buona parte degli aspetti connessi alla
riproduzione del quotidiano: consumo, socializzazione dei figli, stabilizzazione della personalità
adulta, rapporti con agenzie extra-familiari, soddisfazioni dei bisogni primari, ecc... In essa si
producono (e continuano ad essere prodotti) beni e servizi che vanno al di là della singola famiglia,
essi entrano in processi di scambio e di valorizzazione di estrema importanza dal punto di vista del
sistema societario. Pensiamo ad esempio al ruolo che essa assume e svolge nell’ambito sanitario,
giuridico, economico e dell’istruzione.
La funzione sociale e non privatistica della solidarietà familiare affiora soprattutto nelle situazioni
più critiche o di maggior disagio (si pensi ad esempio all’handicap o alla cura degli anziani).
Le concrete politiche sociali hanno di fatto penalizzato il matrimonio e le aggregazioni familiari.
Hanno operato sulla base di criteri che nella realtà non hanno promosso e facilitato le condizioni di
normalità familiare, ma piuttosto hanno spinto i servizi ad occuparsi quasi esclusivamente o dei
singoli individui o delle situazioni di disagio o patologia familiare.
I genitori, costantemente, lentamente e inesorabilmente, si sono trasformati in soggetti economici
che, di fronte alla rigidità del mercato e dei servizi, sono diventati formidabili ammortizzatori
sociali.
La logica del sistema dei servizi dovrebbe pertanto cambiare: si tratta di passare dall’attuale che
utilizza le funzioni della famiglia per colmare le lacune dello stato sociale, a quella che garantisca
alla famiglia una partecipazione e una cogestione delle scelte sociali significative, perché sia
protagonista del proprio vissuto.
Il tempo del lavoro non può privare la famiglia del tempo essenziale per realizzare la propria
vocazione relazionale ed educativa. Il lavoro va pensato e finalizzato soprattutto considerando la
famiglia. Il tempo del lavoro e il tempo della famiglia non vanno visti in contrapposizione, ma in
co-relazione. Un’esasperazione dei tempi del lavoro a danno dei tempi della famiglia, è bene
ricordarlo agli economisti e anche agli imprenditori, porta nel lungo periodo a risultati antieconomici (elevato turnover, qualità minore delle prestazioni, livelli maggiori di ansia e di
insoddisfazione del lavoratore).
È possibile promuovere una nuova cultura del lavoro compatibile con i tempi della famiglia, capace
di accogliere le esigenze di entrambi i genitori di entrare ed uscire dal lavoro per esigenze familiari?
Le politiche familiari dovrebbero prevedere una serie di interventi sempre più mirati e selettivi, che
abbiano come assunto di partenza i seguenti criteri:
- la famiglia normale (soggetto principale, anche se non l’unico);
- la differenziazione strutturale, culturale e generazionale delle diverse forme familiari;
- il ciclo di vita della famiglia.
Occorre oggi, come non mai, portare la famiglia ad essere soggetto sociale e
ricreare una cultura che permetta di ritrovare quei valori e quelle capacità che
le sono proprie, coordinando gli interventi che localmente si compiono da parte
dei diversi enti locali oltre che dal privato e dal privato sociale.
Coniugi e famiglie non sono soltanto l’oggetto della sollecitudine pastorale della Chiesa, ma ne
sono soggetto attivo e responsabile. Come nella società civile è necessario riportare la famiglia al
centro dell’attenzione, così anche per le comunità cristiane è d’assoluta e indiscutibile priorità il
mettere al centro della programmazione pastorale la famiglia.
51
Una modalità pastorale efficace per sostenere la famiglia nella sua vocazione e nella sua missione
consiste nel verificare in quale misura la famiglia è coinvolta nella programmazione e
nell’attuazione pastorale. Le diverse attività pastorali intraprese dalla parrocchia dovrebbero essere
opportunamente progettate, analizzate, realizzate e verificate considerando le implicazioni che
queste hanno nella vita familiare, prevedendo un reale coinvolgimento delle famiglie stesse.
Si rivela più promettente misurarsi e aprirsi a quanto di positivo avviene all’interno e nell’insieme
delle comunità cristiane componenti la diocesi, promuovendo un nuovo modello comunitario
capace di attivare forme di solidarietà che si preoccupano non solo di aiutare le famiglie bisognose,
ma anche di non promuovere una qualificata cultura della solidarietà familiare.
Ogni comunità cristiana dovrebbe opportunamente sensibilizzare le famiglie per renderle più
consapevoli della propria missione e della propria responsabilità, favorendo l’associazionismo
familiare e diventando autorevoli interlocutori delle istituzioni, nelle quali, talvolta anche senza
saperlo, si decide la vita stessa delle famiglie.
52
3. Spunti di riflessione e strumenti di lavoro pastorale sull’educazione
La revisione delle pratiche pastorali, in cui la comunità cristiana si rapporta con la società civile e le
sue istituzioni, trova nel momento scolastico un elemento paradigmatico e importante, sia sul
versante dei rapporti istituzionali, sia sul versante della ripresa di senso etico a livello personale e a
livello comunitario.
Per svolgere questo compito, si propone che il consiglio pastorale parrocchiale prenda spunto dal
testo qui di seguito suggerito ed elabori momenti di studio, di dibattito e di confronto per prendere
coscienza della qualità dei comportamenti attuati finora e per giungere ad alcune proposte pastorali
programmatiche per il futuro.
L’idea di partenza è quella che la dimensione educativa costituisce un punto nodale dell’azione
pastorale, perché elemento irrinunciabile della formazione della cultura. Non si possono qui
sviluppare questi concetti, per altro elaborati in un’abbondante bibliografia4. Da ciò discende
facilmente che la proposta educativa viene dalla comunità intera e non solo dall’agenzia scolastica,
perciò è necessario che la comunità tutta si riappropri della proposta scolastica come parte ed
elemento dell’azione educativa più generale.
Un passo significativo di questo compito consiste nel prestare attenzione ad alcuni elementi cardine
della riforma scolastica in atto, come luoghi da cui partire per dialogare con l’istituzione scolastica.
Possiamo intitolare così la strategia pastorale di cui la parrocchia dovrebbe farsi carico: La
proposta di un itinerario per un patto educativo.
Sullo sfondo di questo lavoro porremmo un’importante distinzione di cui tenere conto, quella tra
istituti scolastici cattolici e statali, per ciascuno dei quali occorre elaborare un’azione pastorale
adeguata, tenendo conto che la Chiesa non può affatto riservarsi solo la cura degli istituti cattolici,
proprio perché perderebbe la sua caratteristica di testimone della carità e la sua missionarietà.
I criteri generali di riferimento per l’elaborazione di un patto educativo
possono essere così riassunti.
1. Dovere della comunità di informarsi sui cambiamenti e sulle novità in atto nella scuola
(Che cosa vuol dire scuola dell’autonomia? Che cos’è il Piano d’Offerta Formativa “POF”?
Quali sono i progetti, i programmi e i problemi delle scuole del territorio? Qual è l’offerta
formativa delle scuole del territorio?).
2. Formulazione e condivisione di un progetto educativo di ispirazione cristiana da portare
avanti nella comunità (Che cosa fa la comunità cristiana per educare/formare? Qual è il tipo di
catechesi? E oltre la catechesi? C’è un intervento continuo sui bambini/ragazzi/giovani non solo
nei momenti programmati, ma con la coerenza della vita e con la forza dell’esempio? Quale
disegno educativo si potrebbe individuare coordinando le proposte educative della scuola e delle
altre agenzie educative presenti sul territorio e nella Parrocchia: società sportive, associazioni
culturali, filodrammatiche, musicali, solidaristiche, Oratorio, …?).
3. Confronto con il progetto educativo della scuola e individuazione di punti di contatto e di
possibile collaborazione (La scuola è vista principalmente come controparte da tenere d’occhio
e da giudicare o invece come agenzia educativa utile da valorizzare e salvaguardare, lasciandole
i suoi compiti e permettendole di svolgerli? Quali sono i valori comuni? Ci sono finalità e
obiettivi da perseguire insieme per rafforzare l’azione educativa? In che misura le dimensioni
costitutive della comunità cristiana: Parola, Liturgia, Testimonianza della Carità, si rapportano
al progetto educativo della scuola?).
4
Citiamo, solo per esempio, il volume G. SALDARINI (ED.), Il presbitero educatore, Milano 1989 e F. G. BRAMBILLA,
«Linee teologiche per la pastorale giovanile», Educare i giovani alla fede, Milano 1990.
53
4. Sostegno e rafforzamento reciproco di iniziative e progetti validi e condivisi (La comunità
cristiana sostiene l’azione della scuola organizzando aggiornamenti e incontri di formazione per
operatori pastorali e genitori su argomenti di interesse comune? Si prevede nella comunità
l’attuazione di iniziative in cui sia possibile anche alla scuola partecipare in qualche forma? Il
volontariato della comunità prevede di dare tempo ed energie anche alla scuola in modo da
permettere una migliore realizzazione e il contenimento dei costi di alcuni progetti? Vengono
predisposti percorsi di formazione che non siano paralleli o antitetici a quelli scolastici, ma che
sfruttino, valorizzino o chiariscano dal punto di vista morale alcuni spunti trattati dalla scuola?).
5. Accordo nella gestione del tempo extra scolastico (Si cerca di stimolare l’Oratorio e le altre
agenzie educative, parrocchiali e non, per attuare un comune programma educativo in cui non si
sovrappongano iniziative creando doppioni, interferenze, rivalità, competizioni? Esiste un
dialogo e un coordinamento tra le varie agenzie educative presenti? Si è consapevoli che
l’azione della comunità e della scuola sono dirette agli stessi soggetti e che questi hanno il
diritto di non essere considerati “clienti” da accaparrarsi con poco rispetto per la loro libertà?).
6. Predisposizione di “pacchetti” formativi e culturali che possano essere utilizzati dalle
scuole (Vengono individuate e formate persone che possono fare da guida in itinerari
storico/religiosi o nella lettura e interpretazione di opere d’arte anche con l’uso di materiale
audiovisivo o multimediale predisposto appositamente? È possibile proporre alla scuola itinerari
formativi coordinati o anche solo mettere a disposizione della scuola “esperti” per argomenti
“delicati” quali la comunicazione, la relazione interpersonale, l’affettività, l’educazione sessuale
o per argomenti quali la pace-giustizia, i problemi esistenziali…? Si pensa a progetti educativi
che prevedano l’utilizzo e la condivisione di strutture parrocchiali e di strutture scolastiche? ).
7. Valorizzazione dei docenti di ispirazione cristiana e degli insegnanti di religione (Si
sostiene il loro operato? Sono considerati fonte di informazioni, risorse da valorizzare? Si fa
riferimento alla loro esperienza per organizzare iniziative di tipo educativo? Esiste un raccordo
della catechesi e delle attività oratoriane con l’Insegnamento della Religione Cattolica “IRC”?).
8. Presenza di gruppi di docenti, genitori, studenti che si impegnino e siano propositivi
all’interno della scuola (Viene dato spazio alle associazioni di docenti e genitori? C’è
consapevolezza del ruolo che possono svolgere negli organi collegiali? Si cerca di formare in
alcune persone le competenze necessarie per poter dare suggerimenti, pareri, indicazioni
preziose per la stesura di un Piano dell’Offerta Formativa adeguato alle esigenze dell’utenza e
del territorio, rispettoso della persona e dei valori morali?).
9. Integrazione delle scuole paritarie cattoliche nella comunità cristiana (Vengono considerate
una risorsa e in qualche modo una “espressione” della comunità oppure fanno mondo a sé, senza
agganci con la realtà locale? Valgono anche per queste scuole gli stessi tipi di atteggiamenti che
si ritengono importanti e costruttivi verso la scuola statale? Come vengono valorizzate,
organizzate e gestite le scuole materne di ispirazione cristiana? Vale per queste scuole materne
il modello di scuole di comunità?).
10. Valorizzazione dei soggetti impegnati nel progetto educativo. (Come vengono valorizzati i
genitori nell’individuazione e nello svolgimento delle attività educative e scolastiche? Come
vengono aiutati i preadolescenti, gli adolescenti e i giovani a vivere il tempo scolastico come
tempo decisivo per la loro formazione, per la loro vita e per la loro testimonianza cristiana?
Vengono aiutati ad assumere responsabilità nella scuola?).
A partire da queste indicazioni ogni parrocchia può elaborare itinerari di
programmazione pastorale diversi, più confacenti alle caratteristiche della sua
comunità. Ci basti solo aggiungere un ultimo elemento. Il punto d’aggancio
54
con la struttura scolastica deve essere congruente con la logica istituzionale
della scuola stessa.
In tale senso, la normativa sull’autonomia scolastica chiama la scuola alla progettazione di un Piano
dell’Offerta Formativa che sia attento e adeguato al contesto in cui essa sviluppa la propria azione
di educazione, formazione e istruzione, cogliendo e valorizzando in particolare le istanze e le
esigenze delle famiglie e di tutte le agenzie educative presenti nel territorio.
In tale prospettiva si estende il campo della partecipazione e dell’intervento delle rappresentanze nei
tradizionali Organi Collegiali Scolastici (Consiglio di Classe, Consiglio d’Istituto, Comitato
Genitori) anche a quelle degli organismi extrascolastici (associazioni di genitori legalmente
costituite o non, commissioni scolastiche parrocchiali o comunali...).
Non si tratta di invadenza in un delicato e importante ambito educativo, quale è quello espresso
dalla scuola, ma della ricerca di un concorso di risorse, di persone e di idee, affinché l’offerta
formativa di ogni istituzione scolastica sia davvero il risultato di un processo, seppure lungo e
complesso, di corresponsabilità e di alleanza educativa.
L’obiettivo, quindi di questo lavoro di revisione pastorale, potrebbe essere così descritto: ripensare
l’azione pastorale alla luce delle nuove normative che vedono la scuola sempre più nel territorio e
del territorio. Operativamente sembrerebbe opportuno, se già non esistono altre realtà operanti nella
parrocchia, costituire una commissione di cristiani interessati e coinvolti nel lavoro scolastico e nel
ministero ecclesiale che si prefigga di costruire e pubblicare un progetto educativo parrocchiale5.
5
Indicazioni più puntuali possono essere fornite dagli Uffici di Curia e dall’ACS.
55
4. Vocabolarietto
4.1 Premessa
Proviamo a dare una forma più sintetica ai criteri già richiamati nel programma
pastorale (3.1.) per poter valutare le pratiche pastorali. Si tratterebbe di vedere quale
idea di chiesa e di fede sono soggiacenti alle azioni pastorali sociali, quali forme di
testimonianza cristiana si privilegiano, quali effetti e ripercussioni si hanno sulla
società civile. Perciò occorre avere alcuni elementi di ‘misurazione’, ricavati dalle
convinzioni e dalle prospettive di fondo che la nostra chiesa di Bergamo sta
elaborando e proponendo in questi anni come cammino di revisione alla luce del
Vaticano II.
4.2 Funzione ermeneutica della fede
Ermeneutica vuol dire interpretare, portare alla luce ed evidenziare il senso
inscritto nelle cose e nelle esperienze delle persone. Il senso è la direzione e le
ragioni che danno unità e valore a una esperienza. Per capire tale senso occorre
riflettere sopra le esperienze e per rifletterci occorre mettere in gioco la propria
libertà, cioè le proprie scelte e convinzioni profonde. Di fronte agli sforzi che
gli uomini fanno per costruire una società, la fede in Gesù Cristo (che è atto
della libertà) è chiamata prima di tutto a interpretare il senso inscritto in queste
esperienze umane e sociali secondo due funzioni (in realtà sono una sola
espressa in forme diverse) che prendiamo dal linguaggio biblico.
-
56
Funzione profetica: la verità di (che è) Gesù Cristo è sempre giudizio, critica,
relativizzazione di ogni pratica sociale, ne svela l’ambiguità, il limite, la presenza del
peccato. Anche quando si tratta di pratiche sociali cristiane.
Funzione sapienziale: la verità cristiana dà voce, parola e volto a quelle esperienze ed
esigenze di bene e di giustizia mai completamente assenti negli sforzi di costruire la società.
Riconosce una presenza di aspirazioni e pratiche morali, anche se oggi sembra più faticoso
portarle ad evidenza.
* Analizzando le proprie pratiche ecclesiali sociali, una comunità cristiana
dovrebbe ‘verificare’ come in esse ‘salva’ la funzione profetica del vangelo e
quanto cerca di scoprire e dare volto alle esigenze umane già presenti nella
società.
4.3 Mediazione etica
Questo criterio nasce da una convinzione forte. La fede cristiana ha come
‘oggetto’ un Dio fatto uomo, dunque l’attenzione all’umanità di Dio (che è
Gesù Cristo) e all’umanità dei credenti sono un elemento essenziale del credere
cristiano. La vita sociale è sempre un insieme di relazioni dove non si cerca
solo l’utile e il potere, ma si vivono esperienze simboliche (riconoscimento di
sé, rispetto, fraternità, gratitudine, creatività…) che plasmano la coscienza
delle persone. Mediazione morale vuol dire che la testimonianza cristiana
quando tocca i problemi della vita sociale fa appello all’umano della fede (di
Gesù) e passa attraverso l’umano della società. La verità del vangelo deve
essere mostrata come capace di comprendere i problemi e le esperienze degli
uomini che vivono in società (famiglia, lavoro, politica, sviluppo…), ma senza
pretendere di avere già in tasca le risposte precise, o pensare che solo i cristiani
di fatto sanno dare risposte a questi problemi. Al contrario, vanno riconosciuti
gli sforzi e le fatiche che la società pone per arrivare a forme più umane di vita
insieme, senza per altro ignorarne le ambiguità. La mediazione etica allora non
si riduce (anche se può esigerlo in certi momenti) al compromesso (pratica
57
dove si cede qualcosa per avere qualcos’altro). Tanto meno si deve considerare
come un tradire la fede; anzi è riconoscere la sua capacità di fecondità nei
rapporti umani.
* Quando svolgono attività di ‘promozione umana’ in nome e a partire dalla fede, le nostre
comunità cristiane sono chiamate a verificare quanta attenzione è rivolta all’umano di Gesù e
dell’uomo odierno.
4.4 Libertà – Sussidiarietà
Gesù non ha operato i miracoli semplicemente per venire incontro ai bisogni delle persone e
nemmeno faceva del bene solo a coloro che voleva diventassero suoi discepoli. Piuttosto aveva a
cuore la libertà delle persone: voleva che attraverso il bisogno colmato dalla sua premura, l’uomo
capisse che c’è un Dio che si prende cura di lui dando una direzione e una speranza alla sua
libertà. Il compito della chiesa è quello di annunciare, celebrare e testimoniare l’attenzione alla
libertà dell’uomo da parte di Dio in Cristo. Anche quando una comunità cristiana organizza e
promuove attività sociali, assistenziali o educative, la ‘cosa’ più importante è far crescere e
valorizzare la responsabilità delle persone, è rispettare la loro dignità, è aiutarle a essere libere,
cioè a mettersi in gioco e a spendersi, decidendosi per un bene che dà valore alla vita. Qui si
radica il grande principio e criterio della sussidiarietà, oggi tanto invocato quanto magari piegato
alle più contraddittorie letture. Sussidiarietà non è semplicemente esigere che l’istituzione pubblica
lasci fare e dia i soldi ai ‘privati’; essa è piuttosto riconoscere l’importanza della responsabilità
delle persone e delle soggettività sociali affinché si dia una buona qualità del vivere insieme.
Secondo la Centesimus Annus (n. 48) di Giovanni Paolo II la sussidiarietà si definisce secondo il
seguente principio: “una società di ordine superiore non deve interferire nella vita interna di una
società di ordine inferiore, privandola delle sue competenze, ma deve piuttosto sostenerla in caso di
necessità ed aiutarla a coordinare la sua azione con quella delle altre componenti sociali, in vista
del bene comune”.
* Per la verifica pastorale si potrebbe analizzare come le nostre comunità si rapportano alle
istituzioni civili: chiedono solo risorse e spazi di autonomia, oppure hanno a cuore che la società
tutta sia valorizzata nella sua responsabilità? Nella gestione delle proprie strutture poi si deve
avere a cuore la libertà e la responsabilità delle persone oppure basta preoccuparsi solo di
‘soddisfare’ bisogni svolgendo prestazioni? Che cosa implica l’attenzione a questa ottica?
4.5 Bene comune – Solidarietà
Un modo di pensare diffuso nell’ethos comune è quello di ritenere la propria identità e le
proprie ‘fortune’ come frutto esclusivo delle proprie capacità e dei propri sforzi. In realtà
nessuno si fa da sé; la propria libertà è sempre legata a quella degli altri, non solo nel senso che
gli altri sono un limite da rispettare, ma più radicalmente nel senso che ciò che noi siamo lo
abbiamo prima di tutto ricevuto. C’è una serie di legami sociali, di condizioni comuni
all’origine della nostra identità che non si possono ignorare. Questa è la solidarietà, esperienza
originaria nella quale nasciamo e viviamo; da qui scaturisce il dovere morale di ricercare il
bene comune. E’ il patto sociale che ci costituisce da sempre e che porta a cercare i nostri
interessi e i nostri valori nell’orizzonte del bene comune, interpretabile come il tessuto di
relazioni e valori condivisi e le interdipendenze che generano effetti sulla vita delle persone.
Quindi il cristiano che si domanda come vivere la propria fede all’interno del sociale, trova che
la fede stessa senza nulla perdere della sua specificità lo porta a riconoscere legami e relazioni,
58
a scoprire un patrimonio culturale condiviso e a valutare il riflesso delle proprie azioni sugli
altri, soprattutto sui più deboli. Sentiamo due indicazioni del magistero sociale della Chiesa.
“In quanto essere sociale, l’uomo costituisce il suo destino in una serie di raggruppamenti
particolari che esigono, come loro compimento e condizione necessaria del loro sviluppo, una
società più vasta, di carattere universale: la società politica. Ogni attività particolare deve
sistemarsi in questa società allargata e assumere, con ciò stesso, la dimensione del bene
comune. Ciò sottintende l’importanza della educazione alla vita associata dove, oltre
l’informazione sui diritti di ciascuno, sia messo in luce il loro necessario correlativo: il
riconoscimento dei doveri nei confronti degli altri” ( Paolo VI, Octogesima Adveniens, n. 24).
“L’esercizio della solidarietà all’interno di ogni società è valido, quando tutti i componenti
si riconoscono tra di loro come persone. Coloro che contano di più, disponendo di una
posizione più grande di beni e servizi comuni, si sentano responsabili dei più deboli e siano
disposti a condividere quanto possiedono. I più deboli, da parte loro, nella stessa linea di
solidarietà, non adottino un atteggiamento puramente passivo o distruttivo del tessuto sociale
ma, pur rivendicando i loro legittimi diritti, facciano quanto loro spetta per il bene di tutti. I
gruppi intermedi a loro volta, non insistano egoisticamente nel loro particolare interesse, ma
rispettino gli interessi degli altri” (Giovanni Paolo II, Sollecitudo Rei Socialis, n. 39).
* La difficoltà oggi a definire cosa è bene comune non toglie il dovere di valutare quanto
nelle nostre pratiche pastorali difendiamo i nostri ‘spazi’ (sia pur legittimamente) e quanto
contribuiamo a creare legami, forme solidali, luoghi di attivazione del bene comune.
4.6 Laicità
Le società moderne occidentali hanno un caposaldo fondamentale del loro funzionamento: la
necessità del consenso per arrivare al bene comune. D’altra parte per un cristiano il vangelo non
contiene risposte prefabbricate ai problemi civili odierni e concreti e nemmeno vuole imporre
con la forza la verità che esso contiene. Da questa duplice convinzione scaturisce il criterio della
laicità come stile cristiano e moderno insieme per agire socialmente. In particolare esso
significa:
 Riconoscere le regole che disciplinano le relazioni fra persone e gruppi differenti, regole certo
storiche e mutevoli, imperfette o addirittura ambigue, ma comunque mediate dal consenso.
 Partecipare alla formazione del consenso, attraverso il confronto e lo scambio della parola e
insieme la testimonianza della carità. Solo attraverso il confronto tra diversi si forma una società
democratica secondo la modernità. In una società democratica poi il bene comune passa
necessariamente attraverso la mediazione della libertà, anche se non mancano rischi di
omologazione e manipolazione.
 Tenere presente che le istanze della fede e della morale in essa fondate si attuano sempre in
rapporto a ciò che è possibile. In una società democratica il bene morale, fondato sulla fede, è
sempre un bene possibile e praticabile; questo vuol dire, in altre parole, tenere conto dei vincoli
e delle opportunità delle interazioni sociali. Non c’è dunque coincidenza né separazione fra
legge morale e legge civile.
* Occorrerebbe domandarci sullo stile con il quale le nostre comunità cristiane propongono
le proprie pratiche pastorali di rilievo civile: sono riconoscibili da tutti? Rispettano le leggi della
città? Sanno accettare anche ‘il gioco’ democratico quando si interagisce con le istituzioni
pubbliche?
59
5. Bibliografia
Vengono qui segnalate solo alcune essenzialissime indicazioni per la lettura e l’approfondimento sia
sul piano della formazione del clero che su quello del lavoro pastorale.
Testi del magistero sociale.
Sono da rileggere prima di tutto le pagine della Gaudium et Spes che, sia pur legata in alcune
sue parti a interpretazioni superate dai mutamenti recenti, presenta criteri e stili di attenzione al
sociale importanti anche oggi. Questa lettura può essere accompagnata da alcuni brevi
commenti come quelli contenuti nella pubblicazione della scuola di teologia del nostro
Seminario Sulle tracce del Concilio.
Possiede sempre una attualità la prospettiva metodologica indicata dalla Octogesima
Adveniens, lettera apostolica di Paolo VI pubblicata in occasione del 80° anniversario della
Rerum Novarum il 15 maggio 1971. La lettura attenta di questo testo aiuta ad individuare i criteri
per una responsabilità sia dei cristiani che delle comunità nei confronti del sociale e della politica.
Più orientato nel senso di una pastorale sociale (caratteristiche, finalità, praticabilità) è il testo
della CEI Evangelizzare il sociale. Orientamenti e direttive pastorali, 22 novembre 1992.
Alcuni testi di possibile lettura.
G. VECCHIO, La dottrina sociale della chiesa. Profilo storico dalla Rerum Novarum alla
Centesimus Annus, ed. In dialogo, Milano 1992, pp. 270. Di facile lettura seppur sintetica presenta
l’inquadramento storico e i tratti essenziali dei pronunciamenti magisteriali in tema sociale.
E. COMBI – E. MONTI, Fede cristiana e agire sociale, ed. Centro Ambrosiano, Milano 1994, pp.
298. Agile volume che presenta il tema sia sul versante biblico che su quello storico magisteriale
con una attenzione a fornire elementi di lettura e di formazione per il discernimento cristiano.
Strumento pensato anche per il lavoro pastorale (per questo è utile la lettura) senza per altro che
manchi di richiami alla bibliografia più approfondita.
AA.VV., Una Chiesa nella città. Memoria, realtà, sogno, ed. Centro Ambrosiano, Milano 1999, p.
123. Si tratta di una raccolta degli interventi tenuti in una ‘tre giorni’ di parroci milanesi di città.
Anche se l’attenzione riflette il contesto pastorale cittadino, le interpretazioni e i criteri di lettura
dei fenomeni sociali e dei possibili ‘compiti’ della comunità cristiana sono interessanti e utili anche
per i nostri contesti, pure diversi.
AA.VV., La responsabilità politica della chiesa, ed. Glossa, Milano 1994, pp. 119. Attraverso
i saggi di G. Zanchi, G. Angelini, G. Colombo, viene delineata la modalità dell’azione dei
cristiani e della chiesa nei confronti della società sul versante storico, teologico ed etico
pastorale. Il taglio è quello di una riflessione critica che stimola una maggiore consapevolezza
circa il tema, andando oltre i luoghi comuni o ‘le frasi fatte’.
Riflessioni circa il nostro tema si trovano poi in vari riviste; segnaliamo, tra quelle più
accessibili, Aggiornamenti Sociali pubblicata dai gesuiti del Centro S. Fedele di Milano e La
Società, rivista trimestrale dedicata alla presentazione e alla documentazione circa i
pronunciamenti del magistero sociale.
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Sommario
Programma pastorale 2001-2002 ...................................................
Strumenti di approfondimento .......................................................
1. L’icona biblica: Tu lo dici; io sono re! (Gv 18,33-38. 19,1-11)40
1.1 Il metodo .........................................................................40
1.1.1 Lectio ...........................................................................40
1.1.2 Meditatio ......................................................................45
1.1.3 Oratio ...........................................................................46
1.1.4 Contemplatio ................................................................48
2. Spunti di riflessione sulle Politiche familiari ........................50
3. Vocabolarietto .......................................................................53
3.1 Premessa .........................................................................56
3.2 Funzione ermeneutica della fede ....................................56
3.3 Mediazione etica .............................................................57
3.4 Libertà – Sussidiarietà ....................................................58
3.5 Bene comune – solidarietà ..............................................58
3.6 Laicità .............................................................................59
4. Bibliografia ............................................................................60
Sommario ..............................................................................61
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