v domenica di pasqua (anno b) - Digilander

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V DOMENICA DI PASQUA (ANNO B)
Colore liturgico:
Bianco
Antifona d'ingresso
Cantate al Signore un canto nuovo,
perché ha compiuto prodigi;
a tutti i popoli ha rivelato la salvezza. Alleluia. (Sal 98,1-2)
Colletta
O Padre, che ci hai donato il Salvatore e lo Spirito Santo,
guarda con benevolenza i tuoi figli di adozione,
perché a tutti i credenti in Cristo
sia data la vera libertà e l’eredità eterna.
Per il nostro Signore Gesù Cristo...
Oppure:
O Dio, che ci hai inseriti in Cristo
come tralci nella vera vite, donaci il tuo Spirito,
perché, amandoci gli uni gli altri di sincero amore,
diventiamo primizie di umanità nuova
e portiamo frutti di santità e di pace.
Per il nostro Signore Gesù Cristo...
Prima lettura
At 9,26-31
Dagli Atti degli Apostoli
In quei giorni Paolo, venuto a Gerusalemme, cercava di unirsi con i discepoli, ma tutti avevano
paura di lui, non credendo ancora che fosse un discepolo.
Allora Barnaba lo prese con sé, lo presentò agli apostoli e raccontò loro come durante il viaggio
aveva visto il Signore che gli aveva parlato, e come in Damasco aveva predicato con coraggio
nel nome di Gesù. Così egli poté stare con loro e andava e veniva a Gerusalemme, parlando
apertamente nel nome del Signore e parlava e discuteva con gli Ebrei di lingua greca; ma
questi tentarono di ucciderlo. Venutolo però a sapere i fratelli, lo condussero a Cesarea e lo
fecero partire per Tarso.
La Chiesa era dunque in pace per tutta la Giudea, la Galilea e la Samaria; essa cresceva e
camminava nel timore del Signore, colma del conforto dello Spirito Santo.
Parola di Dio
Salmo responsoriale
Sal 21
A te la mia lode, Signore, nell’assemblea dei fratelli.
Lodate il Signore, voi che lo temete,
gli dia gloria la stirpe di Giacobbe.
Scioglierò i miei voti davanti ai suoi fedeli.
I poveri mangeranno e saranno saziati,
loderanno il Signore quanti lo cercano:
“Viva il loro cuore per sempre”.
Ricorderanno e torneranno al Signore
tutti i confini della terra,
si prostreranno davanti a lui tutte le famiglie dei popoli.
A lui solo si prostreranno
quanti dormono sotto terra,
davanti a lui si curveranno
quanti discendono nella polvere.
E io vivrò per lui,
lo servirà la mia discendenza.
Si parlerà del Signore alla generazione che viene;
annunzieranno la sua giustizia;
al popolo che nascerà diranno:
“Ecco l’opera del Signore!”.
Seconda lettura
1Gv 3,18-24
Dalla prima lettera di san Giovanni apostolo
Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità. Da questo
conosceremo che siamo nati dalla verità e davanti a lui rassicureremo il nostro cuore
qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa.
Carissimi, se il nostro cuore non ci rimprovera nulla, abbiamo fiducia in Dio; e qualunque cosa
chiediamo la riceviamo da lui perché osserviamo i suoi comandamenti e facciamo quel che è
gradito a lui. Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo
e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato. Chi osserva i suoi
comandamenti dimora in Dio ed egli in lui. E da questo conosciamo che dimora in noi: dallo
Spirito che ci ha dato.
Parola di Dio
Acclamazione al Vangelo (Gv 15,4.5)
Alleluia, alleluia.
Rimanete in me ed io in voi, dice il Signore;
chi rimane in me porta molto frutto.
Alleluia.
Vangelo
Gv 15,1-8
+ Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: “Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo.
Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché
porti più frutto. Voi siete già mondi, per la parola che vi ho annunziato.
Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella
vite, così anche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in
lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene
gettato via come il tralcio e si secca, e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco e lo bruciano.
Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato. In
questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli”.
Parola del Signore
PREGHIERA DEI FEDELI
Dio ci ha dato tanti benefici,
primo fra tutti il dono della fede.
Preghiamo perchè ci renda capaci di testimoniare
con la coerenza della vita questo valore inestimabile.
R. Accresci in noi la fede, Signore.
Perché la Chiesa di Cristo goda di vera e stabile pace su tutta la terra,
e crescendo nell'amore e timore di Dio Padre,
sia piena del conforto dello Spirito Santo, preghiamo. R.
Perché i credenti in Cristo non ricadano sotto le potenze del male,
ma sempre liberi da ogni compromesso e da ogni paura,
professino apertamente il loro credo, preghiamo. R.
Perchè l'assemblea domenicale manifesti sempre più la vera natura della Chiesa,
che nasce dalla parola di Dio e si edifica nel banchetto eucaristico,
per testimoniare la carità fraterna, preghiamo. R.
Perché ogni cristiano, a immagine somiglianze del Padre,
abbia un cuore grande,
lento all'ira e sempre disponibile al perdono, preghiamo. R.
Perché il Vangelo che abbiamo proclamato con la bocca,
metta radici di fede nella nostra vita
e produca sostanziosi frutti di giustizia e di santità, preghiamo. R.
O Signore, che ci hai creati e redenti,
fà che la nostra fede porti frutti abbondanti di giustizia e di carità,
perché il mondo veda le nostre opere buone
e glorifichi il tuo nome.
Per Cristo nostro Signore.
R. Amen.
Preghiera sulle offerte
O Dio, che in questo scambio di doni
ci fai partecipare alla comunione con te,
unico e sommo bene,
concedi che la luce della tua verità
sia testimoniata dalla nostra vita.
Per Cristo nostro Signore.
PREFAZIO PASQUALE V
È veramente cosa buona e giusta,
nostro dovere e fonte di salvezza,
proclamare sempre la tua gloria, o Signore,
e soprattutto esaltarti in questo tempo
nel quale Cristo, nostra Pasqua, si è immolato.
Offrendo il suo corpo sulla croce,
diede compimento ai sacrifici antichi,
e donandosi per la nostra redenzione
divenne altare, vittima e sacerdote.
Per questo mistero, nella pienezza della gioia pasquale,
l’umanità esulta su tutta la terra,
e con l’assemblea degli angeli e dei santi
canta l’inno della tua gloria: Santo...
Antifona di comunione
“Io sono la vera vite e voi i tralci”, dice il Signore;
“chi rimane in me e io in lui,
porta molto frutto”. Alleluia. (Gv 15,1.5)
Preghiera dopo la comunione
Assisti, Signore il tuo popolo,
che hai colmato della grazia di questi santi misteri,
e fa’ che passiamo dalla decadenza del peccato
alla pienezza della vita nuova.
Per Cristo nostro Signore.
COMMENTI
Don Claudio Doglio
1° Lettura (At 9, 26-31)
Paolo viene accettato dai discepoli
La prima lettura di oggi, dagli Atti degli Apostoli, più che un messaggio è una cronaca degli
avvenimenti.
Ci parla, infatti, del ritorno di Paolo a Gerusalemme dopo la conversione e le difficoltà da lui
incontrate per inserirsi nella comunità cristiana.
La vocazione apostolica di Paolo non dipende né dai 12 apostoli né dalla comunità di
Gerusalemme, ma deriva unicamente da un dono gratuito e immeritato di Dio.
Pur stando attento a non tagliarsi fuori della chiesa madre, l’apostolo tiene molto all’originalità
della sua vocazione ed è anche perfettamente comprensibile come egli, uscito da poco dalle fila
dei nemici, fosse seguito dai primi cristiani con una certa diffidenza.
La scarsa conoscenza che i discepoli avevano di Paolo fa sì che essi lo ritengano nemico della
Chiesa, non credendo che fosse discepolo.
Né gli apostoli avevano avuto notizia dell’avvenimento di Damasco.
Ecco perciò giustificato l’intervento di Barnaba a raccontare come sulla via di Damasco Paolo
avesse visto il Signore.
Toccò, infatti, a Barnaba presentarlo, spiegare il cambiamento che era avvenuto in Paolo e
raccontare lo zelo che aveva già dimostrato nella predicazione del vangelo.
Il brano si conclude con una descrizione entusiasta di una Chiesa unita, in crescita di uomini, e
ben avviata nella sua missione spirituale.
La comunità di lingua ebraica, vedendo che la parola dell’apostolo avrebbe demolito la loro
chiusura integralista, tentò di ucciderlo (v.29).
Paolo impersona la storia della missione della Chiesa in questi primi tempi: è rigettato dai
giudei ed accettato dai gentili.
2° Lettura (1 Gv 3, 18-24)
Questo è il suo comandamento: che crediamo e ci amiamo
Nella sua prima lettera san Giovanni apostolo ci dice che non con le parole ma con i fatti si
dimostra l’amore e l’essere nella verità.
Questa verità biblica non è una nozione astratta, ma un comportamento morale, per cui solo
l’agire bene dimostra che uno è nella verità.
Il vero credente può avere fiducia in Dio e da Lui attendere ogni cosa poiché osserva il suo
comandamento d’amore.
Tuttavia, anche se il suo cuore lo condannasse per aver deviato dal retto cammino, egli,
anziché disperare, deve riflettere che Dio, essendo più grande di lui, conosce ogni cosa, anche
e soprattutto la sua debolezza e di conseguenza è pronto al perdono.
Il comandamento di Cristo è duplice: credere e amare.
Credere però non in una dottrina astratta, ma nella persona del Figlio di Dio.
L’osservanza di questo comandamento è resa possibile dallo Spirito Santo da lui donatoci; per
mezzo suo ci è infatti possibile essere in comunione con Cristo.
Questo si ottiene se ci amiamo gli uni gli altri ma non a parole bensì nei fatti e in verità.
Giovanni, in questo brano, precisa concretamente i frutti che nascono dalla nostra unione
mistica con il Cristo.
Il frutto fondamentale che caratterizza la morale pasquale è l’amore “con i fatti e nella verità”
(v.18).
La formula indica i due criteri di autenticità dell’amore: la sua esistenzialità (“fatti”) e la sua
teologicità (“verità”).
La “verità” per Giovanni è la rivelazione del Cristo accolta nella fede: l’adesione alla Verità.
Cristo ci fa essere come il Cristo che “ha dato la vita per la persona amata” (Gv.15,13).
La fede e l’amore sono, allora, i costituenti essenziali della nostra realtà di cristiani, sono il
comandamento per eccellenza.
“Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo
gli uni gli altri” (v.23).
Il principio di discernimento della vita cristiana è l’amore fraterno.
Dio è amore quindi la partecipazione alla sua vita deve essere conoscibile attraverso l’amore.
Ed è ugualmente valido l’aspetto contrario: chi non ama rimane nella morte; non è giunto a
Dio che è l’autore della vita, rimane nell’ambito del mondo nel quale regna la morte.
La caratteristica massima dell’amore è quella che ci ha offerto Gesù donando la vita per i
fratelli.
Ma l’amore cristiano non rivestirà necessariamente un carattere così eccezionale: la donazione
della vita fino alla morte non sarà la condizione normale nelle relazioni con il prossimo.
L’amore si manifesterà abitualmente nella vita di ogni giorno davanti alle necessità altrui.
In definitiva il termometro dell’amore è la capacità di donarsi.
L’amore non consiste in belle parole ma nell’azione efficace per rimediare alle necessità altrui
soffocando il proprio egoismo.
Vangelo (Gv 15, 1-8)
Chi rimane in me ed io in lui fa molto frutto
Il vangelo di oggi, secondo Giovanni, ci propone l’immagine agricola della vigna con la quale
viene rappresentato il popolo di Dio.
Il tema centrale è quello della intima unione tra Cristo e il Padre (Gesù è la vera vite di cui il
Padre ha cura) e tra Cristo ed i discepoli (i tralci cioè innestati sulla vite).
La preoccupazione del Signore per l’avvenire del suo Corpo, che è la Chiesa da lui fondata e
incaricata di portare al mondo la Buona Novella, è quella di restare innestati a Lui: condizione
essenziale per portare frutto.
Non c’è vita cristiana senza una intima unione con Cristo e la sua Chiesa.
La vite, estremamente familiare ai palestinesi, è una pianta che esige molte cure.
Già l’Antico Testamento, a più riprese, aveva utilizzato questo simbolismo della vigna per
illustrare il nesso che intercorreva tra Israele e il suo Dio, un nesso di cure e premure da parte
del Signore e di indifferenza e rifiuto da parte di Israele ( Is 5,1-7.Ger 2,21.Ez 17,1-10 ).
Ora egli intende parlare della solidarietà dell’unione intima tra lui e i suoi discepoli e, a questo
scopo, si serve dell’immagine della vite e dei tralci.
C’è però qui una grande sostituzione rispetto alla immagine tradizionale: la vite non è più il
popolo giudaico ma Gesù; il vignaiolo continua ad essere il Padre, i tralci sono i discepoli, cioè
la Chiesa.
Il tralcio unito al ceppo, l’adesione vitale del credente al Cristo, sono essenziali per la fecondità
dei frutti.
Il “rimanere” in Cristo è fondamentale al germoglio della fede che è in noi perché possa avere
un senso e possa sopravvivere.
Se il fedele si stacca da Gesù è condannato alla perdizione.
Già ora l’uomo decide il suo destino.
Dietro il simbolo del tralcio secco e arido c’è il mistero del rifiuto che l’uomo può opporre alla
vita e all’amore; c’è la vicenda del confronto tra la luce e le tenebre.
L’autosufficienza, portata alla sua estrema conseguenza, allontana da Dio e spezza l’unione
con lui.
Il discepolo deve rimanere in questo amore per mezzo dell’ubbidienza.
Questa unione del discepolo con Cristo rassomiglia a quella del Figlio con il Padre.
La potatura consente la necessaria purificazione per avere una Chiesa “senza macchia e senza
ruga”.
La fede non è data una volta per sempre, ma è una realtà viva come l’amore ed esige una
continua crescita ed una continua liberazione da scorie e limitazioni.
Questo legame con Dio, alimentato dall’eucaristia e dalla preghiera, permette al Cristiano di
sentirsi interiormente vivo e di dare un senso di gioia, servizio e disponibilità fraterna alla sua
esistenza.
La mutua immanenza di Gesù nel credente e del credente in Gesù è condizione indispensabile
per “portare frutto”.
I frutti di questa comunione sono perciò la crescita della fede e la crescita dell’amore.
Nel vangelo secondo Giovanni di oggi c’è anche un discorso di Chiesa e di unità della Chiesa:
chi si stacca dall’unica vite è destinato a morire.
Agostino
Comment. in Ioan. 81, 3-4
La vite e i tralci
"Io sono la vite e voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui produce molto frutto: perché
senza di me voi non potete far nulla" (Gv 15,5).
Nessuno pensi che il tralcio possa da solo produrre almeno qualche frutto. Il Signore ha
detto che chi è in lui produce «molto frutto». E non ha detto: Senza di me potete fare poco
ma: «Senza di me Voi non potete fare nulla». Sia il poco sia il molto, non si può farlo
comunque senza di lui, poiché senza di lui non si può fare nulla. Perché anche se, quando il
tralcio produce pochi frutti, l`agricoltore lo monda, affinché ne produca di piú: tuttavia, se non
resterà unito alla vite e non trarrà alimento dalla radice, non potrà da se stesso portare nessun
frutto. Anche se Cristo non sarebbe la vite se non fosse uomo, non potrebbe tuttavia fornire ai
tralci la capacità di produrre frutti, se non fosse anche Dio. Di modo che, come senza questa
grazia è impossibile la vita, cosí la morte è in potere del libero arbitrio.
"Chi poi non rimarrà in me sarà gettato via come il tralcio; e si dissecca; e poi sarà
raccolto e gettato nel fuoco dove brucerà" (Gv 15,6). Il tralcio è infatti tanto prezioso se resta
unito alla vite, quanto, se ne è reciso, è privo di valore. Come il Signore fa rilevare per bocca
del profeta Ezechiele (cf. Ez 15,5), i rami di vite recisi non possono né essere utili
all`agricoltura, né usati dal falegname in alcuna opera. Il tralcio di vite ha due sole alternative:
o restare unito alla vite o essere gettato nel fuoco: se non è unito alla vite sarà buttato nel
fuoco. Quindi, per non finire nelle fiamme, deve restare unito alla vite.
"Se voi rimanete in me e le mie parole rimangono in voi domandate quanto volete e vi
sarà fatto" (Gv 15,7).
Rimanendo in Cristo, che cosa possono chiedere i fedeli se non quanto a Cristo
conviene? Che possono volere, se restano uniti al Salvatore, se non ciò che non si oppone alla
loro salvezza? Una cosa infatti desideriamo, quando siamo in Cristo, e una cosa ben diversa
quando siamo ancora uniti a questo mondo. Ma qualche volta può accadere che il fatto di
dimorare in questo mondo ci spinga a chiedere qualcosa che, senza che noi ce ne rendiamo
conto, non è utile alla nostra salvezza. Ma questo certamente non ci avviene se siamo in
Cristo, poiché egli esaudisce le nostre richieste solo quando giovano alla nostra salute eterna.
Rimanendo dunque noi in lui e in noi restando le sue parole, potremo chiedergli qualunque
cosa, ed egli la compirà in noi. Se gli chiediamo qualcosa ed egli non ci esaudisce, significa che
quanto abbiamo chiesto non favorisce il rimanere in lui e non è conforme alla sua parola che in
noi dimora, ma riguarda invece desideri e debolezze della carne, che non sono certo in lui, e
nelle quali non è certo la sua parola. Quanto alla preghiera che egli stesso ci ha insegnata e
con la quale diciamo: "Padre nostro che sei nei cieli" (Mt 6,9), essa fa parte sicuramente delle
sue parole.
Non allontaniamoci, dunque, nelle nostre richieste al Signore, dalla lettera e dallo spirito
di questa preghiera: se cosí facciamo, ogni cosa che chiederemo egli ce la concederà. Le sue
parole rimangono in noi, quando facciamo quanto ci ha ordinato e desideriamo quanto Ci ha
promesso; ma quando invece le sue parole restano, sí, nella nostra memoria, ma non se ne
trova traccia nella nostra vita e nei nostri costumi, allora il tralcio non fa piú parte della vite,
perché non assorbe piú la vita dalla sua radice. Questa distinzione tra il conoscere la legge e
metterla in pratica è efficacemente posta in rilievo dal profeta che dice: "Si ricordano dei suoi
comandamenti per metterli in pratica" (Sal 102,18) . Non sono pochi, infatti, coloro che si
ricordano dei suoi comandamenti solo per disprezzarli, per deriderli e fare il contrario di ciò che
essi ordinano. In costoro non hanno dimora le parole di Cristo; essi sono in qualche modo in
contatto con esse, ma non sono affatto ad esse uniti. E tali parole non solo non produrranno in
costoro alcun beneficio, ma renderanno invece testimonianza contro di essi. E poiché quelle
parole sono in loro, ma essi non le conservano, sono esse che posseggono loro, per
condannarli.
Ambrogio
Exameron III, V, 12, 49-52
La vite simbolo della nostra fecondità spirituale
Saprai certamente che, come hai in comune con i fiori una sorte caduca, cosí hai in
comune la letizia con le viti da cui si ricava il vino che rallegra il cuore dell`uomo (cf. Sal
103,15). E magari tu imitassi, o uomo, un simile esempio, in modo da procurarti letizia e
giocondità. In te si trova la dolcezza della tua amabilità, da te sgorga, in te rimane, è insita in
te; in te stesso devi cercare la gioia della tua coscienza. Perciò la Scrittura dice: "Bevi l`acqua
dai tuoi vasi e dalla fonte dei tuoi pozzi" (Pr 5,15). Anzitutto nulla è piú gradito del profumo
della vite in fiore, se è vero che il succo spremuto dal fiore della vite produce una bevanda che
nello stesso tempo riesce gradevole e giova alla salute. Inoltre, chi non proverebbe meraviglia
al vedere che dal vinacciolo di un acino la vite prorompe fino alla sommità dell`albero che
protegge come con un amplesso e avvince tra le sue braccia e circonda in una stretta rigorosa,
riveste di pampini e cinge di una corona di grappoli? Essa, ad imitazione della nostra vita,
prima affonda la sua radice viva nel terreno; poi, siccome per natura è flessibile e non sta ritta,
stringe tutto ciò che riesce ad afferrare con i suoi viticci quasi fossero braccia e, reggendosi per
mezzo di questi, sale in alto.
Del tutto simile è il popolo fedele che viene piantato, per cosí dire, mediante la radice
della fede e frenato dalla propaggine dell`umiltà. Di essa dice bene il profeta: "Hai trasportato
la vite dall`Egitto e ne hai piantato le radici e la terra ne è stata riempita. La sua ombra ha
ricoperto i monti e i suoi viticci i cedri del Signore. Stese i suoi rami fino al mare e fino al fiume
le sue propaggini" (Sal 79,9-12). E il Signore stesso parlò per bocca d`Isaia dicendo: "Il mio
diletto acquistò una vigna su un colle, in un luogo fertile, e la circondai d`un muro e vangai
tutt`attorno la vigna di Sorec e nel mezzo vi innalzai una torre" (Is 5,1-2). La circondò infatti
come con la palizzata dei comandamenti celesti e con la scolta degli angeli. Infatti "l`angelo
del Signore si accamperà attorno a quanti lo temono" (Sal 33,8). Pose nella Chiesa come la
torre degli apostoli, dei profeti, dei dottori, che sogliono vigilare per la pace della Chiesa. La
vangò tutt`intorno, quando la liberò dal peso delle cure terrene; nulla infatti grava la mente
piú delle preoccupazioni di questo mondo e dell`avidità di denaro o di potere. Ciò ti viene
mostrato nel Vangelo quando leggi che quella donna, che uno spirito teneva inferma, era cosí
curva da non poter guardare in alto. Era curva la sua anima che, rivolta ai guadagni, non
vedeva la grazia celeste. Gesú la guardò, la chiamò, e subito la donna depose i pesi terreni.
Egli mostra che da simili brame erano gravati coloro ai quali dice: "Venite a me tutti voi che
siete affaticati ed oppressi, e io vi ristorerò" (Mt 11,28). L`anima di quella donna, come se le
avessero scavato intorno la terra, poté respirare e si raddrizzò.
Ma anche la vite, quando intorno le è stato zappato il terreno, viene legata e tenuta
diritta affinché non si pieghi verso terra. Alcuni tralci si tagliano, altri si fanno ramificare: si
tagliano quelli che ostentano un`inutile esuberanza, si fanno ramificare quelli che l`esperto
agricoltore giudica produttivi. Perché dovrei descrivere l`ordinata disposizione dei pali di
sostegno e la bellezza dei pergolati, che insegnano con verità e chiarezza come nella Chiesa
debba essere conservata l`uguaglianza, sicché nessuno, se ricco, e ragguardevole, si senta
superiore e nessuno, se povero, e di oscuri natali, si abbatta o si disperi? Nella Chiesa ci sia
per tutti un`unica e uguale libertà, con tutti si usi pari giustizia e identica cortesia. Perciò nel
mezzo si innalza una torre, per mostrare tutt`intorno l`esempio di quei contadini, di quei
pescatori che meritano di occupare la rocca della virtù. Sul loro esempio i nostri sentimenti si
elevino, non giacciano a terra spregevoli ed abietti; ma ciascuno innalzi l`animo a ciò che sta
sopra di noi e abbia il coraggio di dire: "Ma la nostra cittadinanza è nei cieli" (Fil 3,20). Quindi,
per non essere piegato dalle burrasche del secolo e travolto dalla tempesta, ognuno, come fa
la vite con i suoi viticci e le sue volute, si stringe a tutti quelli che gli sono vicini quasi in un
abbraccio di carità e unito ad essi si sente tranquillo. E` la carità che ci unisce a ciò che sta
sopra di noi e ci introduce in cielo. "Se uno rimane nella carità, Dio rimane in lui" (1Gv 4,16).
Perciò anche il Signore dice: "Rimanete in me ed io in voi. Come il tralcio non può produrre
frutto da solo, se non resta unito alla vite, cosí anche voi, se non rimanete in me. Io sono la
vite, voi i tralci" (Gv 15,4-5).
Manifestamente il Signore ha indicato che l`esempio della vite deve essere richiamato
quale regola per la nostra vita. Sappiamo che quella, riscaldata dal tepore primaverile,
dapprima comincia a gemmare, poi manda fuori il frutto dagli stessi nodi dei tralci, dai quali
nascendo l`uva prende forma e, a poco a poco sviluppandosi, conserva l`asprezza del prodotto
immaturo e non può diventare dolce se non raggiunge la maturazione sotto l`azione del sole.
Quale spettacolo è piú gradevole, quale frutto piú dolce che vedere i festoni pendenti come
monili di cui si adorna la campagna in tutto il suo splendore, cogliere i grappoli rilucenti d`un
colore dorato o simili alla porpora? Crederesti di veder scintillare le ametiste e le altre gemme,
balenare le pietre indiane, risplendere l`attraente eleganza delle perle, e non ti accorgi che
tutto ciò ti ammonisce a stare in guardia perché il giorno supremo non trovi immaturi i tuoi
frutti, il tempo dell`età nella sua pienezza non produca opere di scarso valore. Il frutto acerbo
suole essere senz`altro amaro e non può essere dolce se non ciò che è cresciuto sino alla
perfetta maturità. A quest`uomo perfetto solitamente non nuoce né il freddo della morte con il
suo brivido né il sole dell`iniquità, perché lo protegge con la sua ombra la grazia divina e
spegne ogni incendio di cupidigie mondane e di lussuria carnale e ne tiene lontani gli ardori. Ti
lodino tutti coloro che ti vedono e ammirino le schiere dei cristiani come ghirlande di tralci,
contempli ciascuno i magnifici ornamenti delle anime fedeli, tragga diletto dalla maturità della
loro prudenza, dallo splendore della loro fede, dalla dignità della loro testimonianza, dalla
bellezza della loro santa vita, dall`abbondanza della loro misericordia, cosí che ti possano dire:
"La tua sposa è come vite ricca di grappoli nell`interno della tua casa" (Sal 127,3), perché con
l`esercizio di una generosa liberalità riproduci l`opulenza d`una vite carica di grappoli.
Père Abbé
“Io sono la vera vite “. Abbiamo qui una di quelle numerose affermazioni in cui Gesù
rivela la sua identità: Io sono l’acqua viva, la luce del mondo, il buon pastore, la porta delle
pecore, la resurrezione e la vita, la via, la verità, ecc. Gli elementi a cui Egli si identifica sono
quasi sempre elementi essenziali alla vita umana, e spesso vi è aggiunto un aggettivo che
sottolinea la loro importanza: l’acqua viva, il buon pastore, per esempio.
Qui Gesù si presenta come la vera vite. Per cogliere il senso di questo aggettivo,
occorre ricordare che la verità nel pensiero ebraico è strettamente legata all’idea di fedeltà e
di costanza. Non bisogna dimenticare soprattutto che nell’Antico Testamento, e in particolare
nei libri dei Profeti, il popolo di Israele è paragonato ad una vigna (Osea 10,1; Ger 2,21; Ez
17, 1-10; Isaia 5,1-8, ecc.). Ma il problema con questa vigna è che essa non è stata vera,
non è stata fedele, e dunque non ha dato frutto al suo proprietario. E’ dunque in opposizione a
quella vite là che Gesù dichiara: “Io sono la vera vite”.
Un’altra categoria importante nel nostro testo è quella della permanenza. La parola
“rimanere” ritorna costantemente, (otto volte) come un leitmotiv. Noi non possiamo portare
frutti se non rimaniamo strettamente uniti a Gesù ; cioè soltanto se rimaniamo in lui e lui in
noi. E la gloria del Padre di Gesù, che è il vignaiolo, è che noi portiamo molti frutti. In effetti,
noi non siamo chiamati ad essere i discepoli di Gesù e a formare la sua Chiesa semplicemente
per la nostra perfezione individuale, bensì per portare dei frutti nel mondo al quale siamo
inviati per essere i testimoni della salvezza portata da Gesù.
Gesù estende ancora più oltre l’immagine della vite. Per produrre frutti non basta
rimanere attaccati al ceppo. Bisogna accettare di essere purificati, potati, accettare di essere
spogliati di tutto ciò che è estraneo al Vangelo.
Nella prima lettura abbiamo l’esempio di qualcuno che si è lasciato potare. Sulla via di
Damasco Paolo è stato spogliato di tutto, e innestato sulla vera vite che è il Cristo, del quale
poi sarebbe stato uno dei tralci più fecondi.
Quanto alla seconda lettura, dell’Apostolo Giovanni, ci invita a non lasciarci scoraggiare
quando abbiamo commesso delle infedeltà, quando ci sentiamo come tralci secchi e quando il
nostro cuore ci accusa. Dio è più grande del nostro cuore e conosce tutto. Il suo amore
misericordioso può sempre riconnetterci con la vera vite e farci portare frutto in abbondanza –
un frutto che non sarà mai esclusivamente nostro, ma quello della vera vite di cui noi non
siamo che dei tralci.
Mons. Antonio Riboldi
Non solo a parole, ma con i fatti
La grandezza di un uomo tante volte si misura dalla profondità con cui sa tessere i rapporti con
chi gli è vicino o incontra sulla sua strada. Rapporti che non solo diventano poi sicura
condivisione in tutto, ma costituiscono salde fondamenta su cui può stare tranquilla la fiducia.
Ed è essenziale questo modo di stare insieme o vicini: oltre che vero dono. Così come la
inconsistenza di un uomo è nella sua superficialità dei sentimenti: questi apparentemente
hanno manifestazioni chiassose che sembrano "recitare" chissà quale amore; in effetti sono
tanto effimeri che non vanno al di là delle parole o dei gesti donati con facilità ed effusione.
Non possono essere salde fondamenta per una fiducia. Purtroppo il nostro mondo è fatto di
questo effimero, al punto che quasi non è più credibile neppure la parola "amicizia".
Ci chiamiamo tutti amici: in apparenza ne abbiamo tanti; troppi: ma quando ci guardiamo
dentro o cerchiamo la loro mano, o vorremmo posare il nostro capo sul loro petto, come fece
Giovanni con Gesù, incontriamo uno spaventoso vuoto, che rivela la misura di rapporti o
amicizie che sono un vuoto girare attorno alla grande e necessaria realtà dell'amore.
Qui, proprio qui, è uno dei grandi dolori che soffrono in tanti: quello di sentirsi soli, non
abbastanza amati, o amati senza la necessaria profondità e condivisione.
Giovanni l'Apostolo, scrivendo alle prime comunità dei cristiani, lui che era stato il "discepolo
che Gesù amava" e che quindi portava l'amore come la luce che dà vita all'uomo, così
decisamente afferma: "Figlioli, non amiamo a parole, né con la lingua, ma coi fatti e nella
verità... Questo, ricordatelo, è il comandamento di Dio: che crediamo nel nome del Figlio suo
Gesù Cristo e ci amiamo pli uni gli altri secondo il precetto che ci ha dato. Chi osserva i suoi
comandamenti dimora in Dio ed egli in lui" (1 Gv 3, 18-24).
Sono parole chiare che non dovrebbero avere bisogno di commenti: ossia il comando di Dio è
che amiamo tutti, senza eccezione, quanti il Signore ci mette sulla strada, non con la lingua
che sa sempre trovare bellissime parole nel descrivere l'amore e i mille modi di amare; parole
che però il più delle volte fanno parte dei sogni facili a comporre, forse nella illusione di aver
adempiuto al comandamento della carità. Se le parole d'amore che si dicono tutti i giorni
ovunque, nelle case, o per la strada, nelle chiese o nei canvegni, fossero anche solo una
boccata d'aria buona, avremmo un mondo senza nuvole e di una serenità primaverile. La
realtà è che si viaggia nel buio più pesto. Le parole non costruiscono pane e neppure giustizia
o pace.
Dobbiamo "amare coi fatti e nella verità". Ho sempre sperimentato in tanti anni di vita tra le
miserie di questa nostra società – e ne ho incontrate tante, ma proprio tante che è difficile
anche solo ricordare – che davanti al fratello che soffre o per fame o per mancanza di casa, o
di lavoro, o per altre mille ragioni, le parole sono accolte nella misura che sono accompagnate
dai fatti. Ancora più urgente che l'amore sia nella verità. Amarci veramente non è solo donare
il proprio cuore, ma donarlo nel modo giusto. Come è facile chiamare amore con i fatti anche
ciò che è contro il vero bene della persona. Basta pensare ai matrimoni falliti per scuse che
non sono mai scuse; a concubinati che trovano sempre ragioni che non sono ragioni; a
indifferenze che sono comode vie d'uscita di fronte a difficoltà, ma diventano pesanti accuse di
omissione.
Come vedete, è veramente divino il comandamento del Signore, quello di amarci, ma è pieno
di insidie e di difficoltà. Ci viene in aiuto Gesu stesso con parole che sono non solo
insegnamento all'amore, ma amore nei fatti e nella verità. "Rimanete in me e io in voi. Come il
tralcio non può dar frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete
in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di
me non potete far nulla" (Gv 15, 1-8). La parola che usa Gesù parlando ai suoi e quindi a noi
tutti, non è più e solo quella di "arnatevi come io vi ho amato"; ma è quella di "rimanete in
me" e con un paragone che fa uscire gli occhi dallo stupore, "come io sono in voi".
L'evangelista Marco quando descrive la chiamata degli Apostoli così definisce il loro rapporto
con Gesù, o il motivo della loro elezione o scelta: "Li scelse perché restassero con Lui e per poi
mandarli". Ed anche noi a volte cantiamo: "resta con noi, Signore!". Ora è non solo "rimanete
con me" – e sarebbe già un fatto grandissimo: cosa c'è di più bello, di più paradisiaco di essere
invitati a stare con Dio? – Ma qualcosa di infinitamente più grande: "rimanete in me, come io
in voi". Qui è l'invito a "entrare" nella vita di Gesù, proprio dentro il suo mondo, al punto da
fare dipendere la nostra dalla Sua, come fa il tralcio innestato sulla vite. Non so se è possibile
trovare paragoni nella vita comune che dipingano e riproducano questo "rimanere in
qualcuno". Forse quando due si amano veramente, come due fidanzati, due sposi, due veri
amici, si fa esperienza di questo "rimanere l'uno nell'altro". Se è stupendo tra gli uomini, come
non deve essere tra gli uomini e Dio?
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