1 - Tesionline

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Si prendono le mosse dall’analisi dell’ espressione contenuta nell’art. 1507 c.c.
“quando più persone hanno venduto congiuntamente, mediante un solo
contratto, una cosa indivisa”.
In primo luogo si deve opportunamente chiarire il significato di “vendita
congiuntiva”, estendendo, direi quasi per interpretazione estensiva, l’oggetto di
questa breve ricerca al tema “unità o pluralità di parti nella vendita”.
Più soggetti, titolari ciascuno di una quota sul bene comune, intervengono in
atto e dichiarano tutte di voler alienare il bene medesimo.
1. Si tratta innanzitutto di comprendere se ci si trovi innanzi ad un contratto
bi- o plurilaterale.
La dottrina assolutamente prevalente distingue tra soggetto e parte, e
precisa che una parte può contenere più soggetti, stretti tra loro da
comunanza, o, meglio, identità d’interessi (Gazzoni parla espressamente di
“identici interessi che confluiscono in una stessa direzione”; p. 92, Manuale di
diritto privato, 2000).
Parte, dunque, come sinonimo di “centro d’interessi” del contratto.
Vi sono nel contratto tante parti quanti sono i “centri d’interesse” in esso
rappresentati.
Tra le varie ragioni addotte dalla dottrina a sostegno di questa soluzione
interpretativa, ne figura anche una di carattere eminentemente letterale tratta
dal testo dell’art. 1321 c.c.. Qui si trova scritto “il contratto è l’accordo di due o
più parti”, laddove, invece, nell’art. 1098 del Codice Civile del 1865 si faceva
uso della diversa espressione “il contratto è l’accordo di due o più persone”.
Sulle ragioni di questo mutamento si esprime in modo eloquente un passo
della relazione del Guardiasigilli al Re sul progetto definitivo al nuovo codice
civile:
“ Il titolo dei contratti in generale presenta fin dal suo primo articolo i
segni di profondi mutamenti.
La nozione di contratto, infatti, è stata impostata sulla esigenza
dell’accordo di due o più parti, non di due o più persone. Con ciò si è
voluto tenere conto dell’analisi recentemente fatta sull’elemento
soggettivo del contratto, la quale ha individuato una categoria di contratti
che non si esauriscono strutturalmente nella contrapposizione di due o
più persone [loro corsivo], ma nella contrapposizione di due o più parti
[loro corsivo] di cui ciascuna è un centro autonomo di interessi”.
E, infatti, scriveva Messineo già nel lontano 1927
“ non esiste identità necessaria e costante tra la nozione di soggetto
giuridico e la nozione di parte contrattuale. “Parte” significa centro d’interessi”
(Messineo, Il negozio giuridico plurilaterale, Annuario dell’università Cattolica,
Milano, 1926-27).
Vi è d’altra parte chi, come Bianca (p.54, Il Contratto, 2000), contesta
radicalmente tale ricostruzione classica e attribuisce al concetto di “parte” il
significato di “parte sostanziale”, ovvero di soggetto nella sfera giuridica del
quale hanno a prodursi i mutamenti giuridici determinati dalla negozio posto in
essere. Nel contratto vi sarebbero, pertanto, tante parti quanti sono i soggetti
partecipi che, in virtù dell’efficacia dispiegata dallo stesso, hanno a subire la
creazione, modificazione od estinzione di rapporti relativi alla loro sfera giuridica
patrimoniale. Il “centro d’interessi”, infatti, di per se stesso considerato, non
sarebbe affatto destinatario di imputazioni giuridiche, non essendo soggetto di
diritto.
Logico corollario di questa ricostruzione è che in un contratto di
compravendita ove intervengano più soggetti pro parte venditrice (o pro parte
acquirente) vi sarebbero più parti, dandosi così vita ad un contratto plurilaterale.
Ora, se anche la qualificazione giuridico – terminologico del concetto di
“parte” proposta da questa dottrina minoritaria appare supportato da
ragionevole giustificazione, difficile sembra poter condividere la ricostruzione di
una vendita con parte plurisoggettiva in termini di contratto plurilaterale.
Senza volere qui indagare analiticamente le diverse ricostruzioni teoriche
in materia di contratto plurilaterale, basti dire come dottrina maggioritaria e
giurisprudenza ne individuino il tratto qualificante nella cosiddetta “comunione di
scopo”, portando tradizionalmente ad esempio i contratti associativi (si
precisa, peraltro, che esistono altri contratti plurilaterali, alcuni espressamente
tipizzati dal legislatore quale, ad esempio, la cessione del contratto, che
prescindono del tutto dalla “comunione di scopo”).
Dice Cassazione 1972 n. 3572:
“ Ciò che caratterizza i contratti plurilaterali non è il numero dei
contraenti, [rectius: dei soggetti partecipi all’atto], superiore a due, ma il
fatto che le prestazioni di ciascuno di essi sono dirette al conseguimento
di uno scopo comune, per cui essi si distinguono dai contratti di scambio,
nei quali la prestazione di una parte è compiuta esclusivamente
nell’interesse dell’altra”.
Il concetto di comunione di scopo viene variamente interpretato dagli
autori. Chi (Auletta, in Rdciv 1937, 150) parla di unicità del risultato giuridico chi
(Belvedere in Trim. 1971) di vantaggio comune delle prestazioni delle parti, chi
ancora, partendo dal concetto di società quale ispiratore dello steso concetto di
“comunione di scopo”, di attività ed organizzazione di gruppo (Bianca, p. 57, Il
Contratto).
Ora, volendosi attenere alla succitata ricostruzione maggioritaria del
contratto plurilaterale quale contratto con più “centri d’interesse” e “comunione
di scopo”, non si comprende come il contratto di scambio per antonomasia, la
compravendita, possa giustificare la presenza in sé di più parti, essendo, per
definizione normativa, le prestazioni da compiersi soltanto due; da una parte il
trasferimento del diritto dedotto in oggetto e dall’altra il pagamento del prezzo
pattuito.
Oltre alla pluralità di interessi manca la “comunione di scopo”. Tra
venditori da un lato ed acquirente dall’altro si perseguono scopi assolutamente
diversi, antagonistici, ed è anzi proprio mediante lo strumento contrattuale che
si giunge a darvi puntuale e definitiva composizione.
Pur se resa relativamente ad una diversa fattispecie contrattuale, la
fideiussione, risulta estremamente utile ai fini della comprensione di quanto
appena esposto, la seguente massima tratta da Cass. 1979 n. 1843.
“La confideiussione non puo' essere considerata un contratto
plurilaterale, poiche' questi contratti secondo la nozione dell'art.
1420 c.c., sono caratterizzati dal conseguimento di uno scopo comune
dei contraenti, titolari di interessi omogenei e convergenti che
trovano nel contratto il loro soddisfacimento attraverso una
utilita' dello stesso tipo per ciascuno dei contraenti, mentre nella
confideiussione il collegamento fra le varie obbligazioni assunte
dai singoli fideiussori e l'interesse comune di costoro di garantire
congiuntamente l'adempimento di un medesimo debito determina una
comunione di scopo (in senso lato) la quale, pero', non appartiene
al contratto, poiche' non coinvolge anche l'altro contraente, e
cioe' il creditore nei cui confronti essi assumono l'obbligo di
garanzia; infatti il gruppo dei confideiussori da un lato, e il
creditore dall'altro, costituiscono parti contrapposte ciascuna
titolare di interessi che, nel momento in cui la garanzia diventa
effettivamente operante, si pongono in posizione reciprocamente
antagonistica, dovendo i primi eseguire una prestazione a vantaggio
del secondo, con corrispondente sacrificio patrimoniale; ne consegue
che la nullita' di uno o piu' rapporti fideiussori (nella specie:
per falsita' della sottoscrizione) non comporta la nullita'
dell'intero contratto di fideiussione”.
2. Escluso, dunque, che per “vendita congiuntiva” si debba fare riferimento
ad un contratto plurilaterale si tenta di comprendere se si possa allora
parlare di atto collettivo
“che è quello che risulta composto di più atti di volizione, di eguale
contenuto e provenienti da più persone che si muovono
parallelamente per formare una manifestazione unitaria verso
l’esterno (Trabucchi, Istituzioni, p. 132).
Gazzoni riporta quale esempio tipico di atto collettivo l’art. 1108 3° comma,
(Manuale, pag. 92).
Si tratta ora di approfondire il concetto di atto collettivo e di comprendere
ove esso ricorra effettivamente nella pratica.
Estremamente utile a tal fine la massima di Cassazione 1993 n. 7481.
“La promessa di vendita di un bene in comunione e', di norma,
considerata dalle parti attinente al bene medesimo come "un unicum"
inscindibile e non come somma delle singole quote che fanno capo ai
singoli comproprietari, di guisa che questi ultimi - salvo che
l'unico documento predisposto per il detto negozio venga redatto in
modo tale da farne risultare la volonta' di scomposizione in piu'
contratti preliminari, in base ai quali ognuno dei comproprietari si
impegni esclusivamente a vendere la propria quota al promissario
acquirente, con esclusione di forme di collegamento negoziale o di
previsione di condizioni idonee a rimuovere la reciproca
insensibilita' dei contratti stessi all'inadempimento di uno di essi
- costituiscono un'unica parte complessa e le loro dichiarazioni di
voler vendere si fondono in un'unica volonta' negoziale. Ne consegue
che, quando una di tali dichiarazioni manchi (o sia invalida), non si
forma (o si forma invalidamente) la volonta' di una delle parti del
contratto preliminare, escludendosi, pertanto, "in toto", la
possibilita' del promissario acquirente di ottenere la sentenza
costitutiva di cui all'art. 2932 c.c. nei confronti dei soli
comproprietari promittenti, sull'assunto di una mera inefficacia del
contratto stesso rispetto a quelli rimasti estranei”
Pur essendosi occupata la Suprema Corte nella fattispecie in esame di
un compromesso, ciò nondimeno risulta evidente come la sostanza dei
principi da essa affermati possano essere ampiamente estesi alla vendita.
Fatta questa premessa, si consideri il primo periodo della massima riportata:
“La promessa di vendita di un bene in comunione e', di norma,
considerata dalle parti attinente al bene medesimo come "un unicum"
inscindibile e non come somma delle singole quote che fanno capo ai
singoli comproprietari”.
Il Supremo Collegio prende le mosse dalla interpretazione della volontà
negoziale e ritiene che laddove si manifesti in un unico documento
(“contestualità documentale”), da parte di tutti i soggetti titolari di una quota
indivisa sul bene comune, la volontà di alienare l’intero bene, ci si trovi in
presenza di un contratto bilaterale a parte alienante plurisoggettiva. In
particolare, ad avviso della Corte, costituiscono indicatori essenziali della
presenza di un unico contratto e di una sola volontà pro parte alieante
l’espressa indicazione dell’oggetto del contratto come bene unitario e la
previsione di un prezzo globale.
Traducendo quanto sopra in una clausola ad hoc, probabilmente si
dovrebbe dire:
“Tizio, Caio e Sempronio cedono e vendono a Mevio che acquista, l’intero
fondo Tusculano per il prezzo complessivo di Lire un miliardo”.
e, per il caso del preliminare:
“Tizio, Caio e Sempronio promettono di cedere e vendere a Mevio che
promette di acquistare, l’intero fondo Tusculano per il prezzo complessivo di
Lire un miliardo”.
Radicalmente diverso, invece, sarebbe se il documento che raccoglie la
volontà delle parti fosse redatto in modo da far risultare più promesse di
vendita, in virtù delle quali ciascun comproprietario si impegna ad alienare
pro quota il suo diritto. In questo caso, sempre che non si sia prevista una
clausola condizionale o comunque non risulti un collegamento negoziale tra
i vari atti pur formalizzati nella contestualità del documento, il promissario
acquirente potrebbe pretendere la stipulazione del definitivo da parte dei soli
comproprietari stipulanti, senza che questi possano eccepire la mancata
sottoscrizione da parte degli altri titolari, onde sostenere la mancata
perfezione dello strumento negoziale.
Questa conclusione enunciata da Cassazione non sono affatto
scontatate.
Infatti, se è pur vero che relativamente al criterio di interpretazione della
volontà negoziale ricorre in altre pronunce del Supremo Collegio lo stesso
approccio, relativamente alle conseguenze prodotte del mancato consenso
di alcune delle parti non vi è invece concordia. Si consideri, ad esempio,
Cass. 1981 n. 2457.
“Il contratto di promessa di vendita di immobile appartenente in
proprieta' indivisa a piu' soggetti, predisposti con l'indicazione
di tutti i comproprietari quali venditori e tale da aver riguardo
all'intero immobile come complesso inscindibile per la mancata
indicazione delle singole quote dei comproprietari, che sia, poi,
sottoscritto da uno soltanto di essi, resta incompleto, e quindi
inefficace per l'intera "res", essendo carente, con la mancata
sottoscrizione da parte degli altri comproprietari, il necessario
atto dispositivo plurisoggettivo, richiesto sia dalla condizione
giuridica di comproprieta' del bene sia dalla espressa previsione
negoziale. Trattasi, tuttavia di inefficacia non assoluta ma
relativa, che puo' essere fatta valere soltanto dal promittente
compratore, in quanto esclusivo titolare dell'interesse all'acquisto
dell'immobile per intero, che puo' anche chiedere l'esecuzione del
contratto in relazione alla quota del comproprietario intervenuto
validamente, senza che questi possa opporvisi, tranne che nella
convenzione non vi sia una espressa clausola che condizioni la sua
efficacia al consenso di tutti i comproprietari”.
La Cassazione, pur nella ineccepibile ricostruzione in termini di parte
plurisoggettiva della parte venditrice, nonché nella esatta interpretazione
della volontà negoziale non sviluppa in modo consequenziale le premesse,
e dichiara, erroneamente, che ove manchi il consenso di uno dei
comproprietari il promettente acquirente può comunque chiedere
l’esecuzione specifica dell’obbligo a contrarre nei confronti degli intervenuti
in atto.
Il Supremo Collegio, in questa pronuncia, come del resto evidenziato anche
da Cass. 1993 n. 7481. sembra non comprendere appieno la natura
giuridica della parte, cosiddetta, “plurisoggettiva” e di utilizzare
impropriamente il concetto di inefficacia.
A ben vedere sembra che di efficacia o inefficacia si possa parlare solo
quando ci si trovi in presenza di un contratto perfetto. Il contratto produce
effetti nella sfera giuridica dei contraenti in quanto quest’ultimi, validamente
prestando il consenso, lo abbiano perfezionato. Prima della perfezione vi
sono l’inesistenza ed eventualmente le conseguenze legate alla
responsabilità pre-contrattuale ex art. 1337 c.c..
Ora, se la parte venditrice è composta di più soggetti e ci si trova, dunque, in
presenza di un atto collettivo, il quale è dato dalla somma delle volontà dei
singoli partecipi all’atto stesso, è evidente che se manca una sola di queste
volontà, viene meno, o meglio, non si forma ab origine la stessa volontà
della parte.
Per meglio comprendere quanto appena espresso può essere utile
sottolineare la diversa incidenza dei vizi del consenso a seconda che essi
insistano su un contratto bilaterale a parte plurisoggettiva od invece su un
contratto plurilaterale .
Nel caso da ultimo citato il vizio che colpisce la partecipazione di una delle
parti non si estende di necessità a tutto il contratto, a meno che, come
espressamente stabilito dall’art. 1420 c.c., quella partecipazione non sia da
considerarsi essenziale. In un contratto con parte pluripersonale, invece, la
volontà viziata di uno solo dei soggetti che la compone non consente alla
volontà della parte di esprimersi validamente e di produrre effetto alcuno, a
prescindere da ogni considerazione sulla essenzialità o meno della posizione
occupata dal soggetto all’interno della parte stessa.
Sembra dunque, almeno in parte, errare Cassazione 1986 / 1180 laddove
recita:
“ Con riguardo al contratto di compravendita con pluralita' di
venditori, in qualita' di comproprietari del bene oggetto di
trasferimento, la nullita' del rapporto, attinente ad uno soltanto
di detti venditori (nella specie, per minore eta'), configura
nullita' parziale regolata dall'art. 1419 c.c. (e pertanto, si
estende all'intero contratto se risulta che i contraenti non lo
avrebbero concluso senza la parte colpita da nullita'), mentre esula
dalla disciplina dell'art. 1420 c.c., in tema di nullita' del
contratto plurilaterale, che si riferisce alla diversa ipotesi in
cui vi siano prestazioni di piu' soggetti dirette ad uno scopo
comune, e non due prestazioni legate da vincolo di
sinallagmaticita' “.
E’ ben vero, infatti, che si è fuori dall’ambito applicativo 1420 c.c. ma è
altrettanto vero che non sembra si possa fare neppure riferimento all’art. 1419,
almeno se si vuole seguire quella parte della dottrina che afferma come questa
norma si riferisca alle ipotesi di nullità del contratto in senso oggettivo, ovvero
invalidità di talune, specifiche clausole facenti parte del complessivo contenuto
del negozio1.
Tornando alla incidenza dei vizi del consenso in costanza di parte
plurisoggettiva, si è detto, dunque, come la volontà viziata (o mancante) di uno
solo dei soggetti costituenti la parte collettiva impedisca allo stesso contratto di
produrre effetto alcuno, e ciò per inesistenza dello stesso o se si preferisce per
nullità o mancanza dell’accordo.
Per cui, per riprendere la critica a Cass. 1981 n. 2457, nel
1
Peraltro, va detto, come la Cassazione anche in altre occasioni abbia avuto modo di rifarsi al concetto di
nullità parziale ex art. 1419 quando, pattuita una prestazione collegiale e indivisibile di un gruppo di
persone risulti, rispetto a una di queste, una causa di incapacità o di incompatibilità soggettiva. Si vedano,
in questo senso, Cass. 73451 e 88/3214.
preliminare di vendita di cosa comune fatta congiuntamente, ove manchi o sia
invalida la volontà di una delle parti del contratto preliminare, non si potrà agire
ex art. 2932 c.c. nei confronti dei soli promettenti venditori validamente
intervenuti. E ciò, lo si ribadisce, non tanto per il rilievo pur pertinente, che non
vi è dubbio che “il singolo proprietario possa avere interesse a vendere il bene
solo congiuntamente agli altri aventi diritto (specialmente se questi sono stretti
parenti o persone alle quali comunque non vuole recare danno)”2 quanto
piuttosto per la mancanza di consenso, o meglio, di uno dei “termini del
consenso”, vale a dire la volontà della parte promittente alienante, onde viene a
prodursi l’ impossibilità di perfezionare lo strumento negoziale e
conseguentemente di disporre di un titolo per agire ex art. 2932 c.c..
Peraltro, la criticata ricostruzione di Cass. n. 2457/1981 non è affatto
isolata, ed anzi, il Supremo Collegio, sempre fedele alla ricostruzione in termini
di inefficacia relativa del contratto, si è spinta più oltre. Si consideri in
particolare la pronuncia n. 7744/1992 ove fu detto che
“Qualora un contratto preliminare di vendita di un intero immobile
indiviso sia stato stipulato da alcuni soltanto dei comproprietari,
e' ammissibile la pronuncia della sentenza costitutiva ex art. 2932
c.c., con contestuale riduzione del prezzo pattuito, limitatamente
alle quote di proprieta' dei promittenti venditori”.
Qui, invero, la Corte, non solo, coerentemente con le precedenti
pronunce sopraccitate ammetteva la esecuzione in forma specifica dell’obbligo
a contrarre nei confronti dei contitolari partecipi all’atto, ma addirittura, sulla
scorta di un’esigenza riequilibratrice delle posizioni contrattuali, andava a
modificare una delle pattuizioni dell’accordo negoziale, violando così
palesemente il principio della intangibilità del contenuto del preliminare così
come stabilito dalle parti.
A frenare questo trend che da evolutivo finiva col diventare
eccessivamente innovativo, intervenne proprio la prima tra le sentenze che si
sono fino a qui considerate, ovvero Cass. 1993 n. 7481.
Prima di questa, invero, già il Supremo Collegio aveva fatto presagire i
segni di una svolta con Cass. 1991 n. 9749:
“Nell'ipotesi di vendita di un immobile indiviso predisposta perche'
ad essa partecipino tutti i comproprietari e che sia poi stipulata da
alcuni soltanto di essi, il contratto deve ritenersi incompleto e
soggetto ad inefficacia relativa che puo' essere fatta valere
soltanto dal compratore, il quale in quanto esclusivo titolare
dell'interesse all'acquisto del bene per l'intero, puo' anche
chiedere l'esecuzione del contratto in relazione alla quota del
comproprietario intervenuto validamente nel negozio, senza che questi
possa opporvisi, salvo che dall'interpretazione della convenzione
risulti che la stessa sia stata sottoscritta dalle parti nel comune
presupposto (o condizione tacita) della adesione successiva degli
altri contitolari del bene, cio' che il negozio sia stato predisposto
2
Lepri, La compravendita immobiliare, Giuffrè, Milano, 1193, p. 698.
come vendita unitaria, non occorrendo una specifica clausola redatta
in tal senso”.
Qui, per vero, manca, rispetto a Cass. 7481/1993, l’ulteriore, decisivo
passaggio verso la presunzione iuris tantum, ogni qualvolta venga dedotta in
contratto la cosa comune, di una volontà negoziale volta a porre in essere una
vendita unitaria, o se si preferisce, una vendita bilaterale a parte venditrice
plurisoggettiva, la quale, in mancanza del consenso validamente prestato da
parte di tutti i costituenti la parte collettiva – venditrice, non è relativamente
inefficace bensì non viene affatto ad esistenza.
Tornando ora all’art. 1507 ed applicandovi gli esiti della ricerca sino a qui
condotta, risulta agevole concludere per una lettura del primo comma della
norma in chiave di contratto unitario, il legislatore, laddove dice “hanno venduto
congiuntamente, mediante un solo contratto” si riferisce evidentemente ad una
unica vendita di bene comune, posta in essere da tutti i contitolari dello stesso
costituitisi in una unica parte contrattuale e rappresentanti un unico centro
d’interesse.
Ciò, a ben vedere, si ricava non solo dal tenore letterale della
disposizione, con la precisa scelta lessicale dei termini impiegati, ma anche
dalla particolare disciplina del riscatto contenuta nel secondo comma. Qui,
invero, come risulta evidente, il legislatore si preoccupa di tutelare l’acquirente
soggetto a riscatto, dal rischio di vedersi trasformato il suo diritto di piena
proprietà sul bene, che è quello cui egli aveva interesse ad acquisire e che
aveva determinato il suo consenso alla stipula dello strumento negoziale
traslativo, in un diritto diverso, non solo quantitativamente ma anche
qualitativamente. Dalla signoria assoluta sulla cosa ad un mero diritto sulla
quota, di valore certo inferiore a quello proporzionale. Dal potere di godere e
disporre del bene in modo autonomo, alla necessità di sottostare ai vincoli di
amministrazione congiuntiva stabiliti dagli art. 1100 e ss..
Il legislatore, quindi, si preoccupa di conservare l’originario assetto di
interessi, e offre, di fatto, la possibilità all’acquirente riscattato di retrocedere
l’intero bene, ritornando così nella stessa condizione in cui si trovava prima di
addivenire alla stipula della compravendita.
Non accade altrettanto, invece, per il caso in cui, pur nell’unità
documentale dell’atto, i singoli proprietari del bene abbiano posto in essere più
vendite, alienando ciascuno la propria quota al comune acquirente.
Nella ricorrenza di una tale fattispecie, la legge, stabilisce con l’art. 1508,
che il diritto di riscatto esercitato anche da uno solo dei comproprietari dovrà
necessariamente essere subito dall’acquirente, senza che questi possa in
nessun modo impedire la costituzione, di fatto, di un regime di comunione.
Si ritiene, peraltro, che le due fattispecie appena esposte, non
esauriscano lo spettro della diverse possibilità che si possono concretamente
osservare nella pratica.
Infatti, se pur la considerazione non globale del bene in contratto e la
mancanza della previsione di un prezzo unitario per la vendita costituiscano,
come si è avuto modo di rilevare, evidente prova di pluralità di atti dispositivi,
ciò nondimeno si crede di poter affermare che ciò non sia sufficiente per
escludere a priori l’applicabilità dell’art. 1507, secondo comma.
Infatti, può ben darsi che la parte acquirente, pur avendo acquistato dai vari
comproprietari la singola quota da ciascuno di essi detenuta, abbia voluto, con
l’assenso della controparte, condizionare l’un l’altro l’esito dei vari negozi
dispositivi. In tal modo, qualora, avveratesi tutte le condizioni, per avere tutte le
parti trasferito la loro quota, egli diventi titolare dell’intero bene, appare con ogni
evidenza come l’esito raggiunto non sia nella sostanza differente da quello che
scaturisce naturalmente da una vendita congiuntiva in senso proprio. La
fattispecie negoziale complessiva, nella sua architettura giuridica, certo, è,
strutturalmente diversa; da una parte vi sono una molteplicità di negozi,
dall’altro ve n’è uno solo, ma il modo in cui le parti hanno inteso regolare i loro
rapporti è identico, il risultato pratico che avevano di mira è lo stesso:
l’attribuzione solo ed unicamente del bene comune nella sua interezza.
Pertanto, se all’acquirente dovesse essere negata la possibilità di
opporsi al ricatto parziale, in virtù di un’applicazione rigida e letterale dell’art.
1507, egli dovrebbe necessariamente subire la comunione, in evidente
dispregio delle omogenee volontà negoziali espresse nei diversi contratti di
vendita.
Il problema che, evidentemente, si pone con maggiore risalto è quello
dalla prova o se si preferisce della interpretazione della volontà negoziale. E’
affatto necessario, infatti, avere certezza della circostanza che l’intento delle
parti si sia effettivamente rivolto nel senso sopra descritto.
Ora, è chiaro, che se nell’atto-documento che raccoglie i vari negozi
dispositivi delle quote dei comunisti è stata inserita un espressa clausola
condizionale, non si da adito ad incertezza alcuna. Diverso , invece, sarebbe in
caso di silenzio. In tal caso bisognerebbe ricorrere all’istituto della
presupposizione, con tutti i limiti che ciò potrebbe comportare in ordine all’esito
dell’accertamento della volontà.
Un sostegno, se pur indiretto , alla ricostruzione che si è fino a qui
proposta emerge, a nostro avviso, dalla stessa Cass. 1993 n. 7481, di cui,
per necessità di più agevole comprensione, si riporta integralmente la
massima, evidenziando in neretto la parte che qui interessa:
“La promessa di vendita di un bene in comunione e', di norma,
considerata dalle parti attinente al bene medesimo come "un unicum"
inscindibile e non come somma delle singole quote che fanno capo ai
singoli comproprietari, di guisa che questi ultimi - salvo che
l'unico documento predisposto per il detto negozio venga redatto in
modo tale da farne risultare la volonta' di scomposizione in piu'
contratti preliminari, in base ai quali ognuno dei comproprietari si
impegni esclusivamente a vendere la propria quota al promissario
acquirente, con esclusione di forme di collegamento negoziale o di
previsione di condizioni idonee a rimuovere la reciproca
insensibilita' dei contratti stessi all'inadempimento di uno di essi
- costituiscono un'unica parte complessa e le loro dichiarazioni di
voler vendere si fondono in un'unica volonta' negoziale. Ne consegue
che, quando una di tali dichiarazioni manchi (o sia invalida), non si
forma (o si forma invalidamente) la volonta' di una delle parti del
contratto preliminare, escludendosi, pertanto, "in toto", la
possibilita' del promissario acquirente di ottenere la sentenza
costitutiva di cui all'art. 2932 c.c. nei confronti dei soli
comproprietari promittenti, sull'assunto di una mera inefficacia del
contratto stesso rispetto a quelli rimasti estranei”
La Suprema Corte, parafrasando il complesso costrutto sintattico della
massima riportata, sembra, in sostanza voler dire che, per escludere la
presenza di una parte collettiva , non è sufficiente che il negozio sia
“redatto in modo tale da farne risultare la volontà di scomposizione in
più contratti preliminari”, poiché anche in questo caso può darsi che le
parti, mediante la previsione di una clausola condizionale, pur nella
molteplicità strutturale degli atti dispositivi, abbiano inteso dare vita ad
una vendita unitaria del bene comune, la quale, dunque, come tale dovrà
essere trattata, in riferimento ad ogni aspetto utile, tra cui ci si sente di
includere anche il riscatto convenzionale ex art. 1507 secondo comma.
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