1 LA RIVOLUZIONE DEL ROCK’N’ROLL LA MUSICA DEL GRANDE RISVEGLIO Tutto cominciò col bacino di Elvis Presley che si agitava selvaggiamente su un ritmo indiavolato, scuotendo il torpore dell’America degli anni Cinquanta e della guerra fredda. Egli, insieme ad altri eroi del rock’n’roll, fu la miccia, il primo segno forte dell’avvento di quella musica, ancora oggi visto da tutti come l’inizio, il grande risveglio. In quegli anni l’America ribolliva di vari fenomeni musicali, ancora però separati tra loro. Il blues rurale delle origini si era ormai stabilmente insediato nelle grandi città, diventando qualcosa di completamente originale, grazie anche al sempre più frequente uso della chitarra elettrica. Il country si stava evolvendo verso forme più moderne, elettriche ed originali. Il gospel, la musica delle chiese protestanti frequentate dalla popolazione di colore, stava uscendo dall’ambito strettamente liturgico, contagiando col suo eccitante effetto di trance la musica profana. Ma si sentiva il bisogno di una sintesi. L’idea venne ad un certo Bill Haley che, raccogliendo qua e là da tutte queste forme musicali, creò “Rock Around The Clock”. Era il 1955. Ma il suo successo, anche se irrefrenabile, fu subito oscurato dalla profonda voce di “un giovane bianco che cantava nero”, che aveva intuito perfettamente un’altra novità sostanziale del nuovo corso. Quella musica, per esprimere pienamente le sue potenzialità, doveva essere “vista” oltre che ascoltata. Il gesto equivaleva al suono, l’abbigliamento, il taglio dei capelli, le pose oltraggiose e beffarde, corrispondevano alla potenza del ritmo e della melodia. Nacquero così, pezzi come “Heartbreak Hotel”, “Love Me Tender”, “Hound Dog” e “Jailhouse Rock” che portarono il mondo giovanile ad una propria ideologia. Per la prima volta il conformismo e 1 l’adeguamento veniva contestato. Una generazione cresceva con l’idea della ricerca del piacere. Nelle loro tasche c’erano più soldi e nelle loro teste molti più sogni. Ma c’era anche molta più violenza e desiderio di libertà individuale di quanto gli adulti dell’epoca potessero sospettare. Stanchi delle consuetudini nell’abbigliamento, nei comportamenti, nelle relazioni sociali, i giovani cominciarono a stabilirne di nuove ed inedite: nasce, insomma, lo stile come elemento essenziale della comunicazione. Ogni soggetto ha quindi un suo valore, ogni oggetto comunica qualche informazione, sia esso un taglio di capelli, una motocicletta, una giacca o una spilla. L’abbigliamento ed il comportamento servono ai ragazzi per riconoscersi e per ribadire una diversità, sono strumento di comunicazione che marcia di pari passo con la musica, che fa da catalizzatore e da strumento, musica che viene vissuta, insomma, ancor prima che ascoltata o ballata. Invece di accettare passivamente la musica proposta dagli adulti per loro, i giovani iniziarono a scegliere una musica che fosse in grado di contenere ed esprimere i loro desideri ed i loro sogni, una musica che in gran parte già esisteva, la musica dei neri americani. Ma quello che il rock’n’roll fece fu di caricare ed ampliare quel suono di significati nuovi. Ma ovviamente, anche se il rock’n’roll, attraverso il rhythm’n’blues si era largamente ispirato alla musica dei neri, l’America fu pronta a riconoscere lo scettro della regalità al suo ennesimo eroe bianco, Elvis, tenendo in secondo piano gli altri, come Chuck Berry e Fats Domino che musicalmente potevano anche rivelarsi superiori o, come nel caso di Little Richard, erano di gran lunga meno addomesticabili. Ma rispetto al passato era già un enorme passo avanti… Elvis fu solo la punta di diamante di questo fenomeno. Incarnava più e meglio di altri la nuova mitologia giovanile. Ma sulla scia del suo successo si formò tutta una generazione di scatenati rocker. C’era soprattutto Jerry Lee Lewis, più un 2 altro drappello formato da Gene Vincent, Carl Perkins, Buddy Holly, Eddie Cochran ed altri. Strana generazione, formata da eroi ribelli, ma tutto sommato fragili, disperati, e in qualche modo afflitti da una sorta di maledizione che anticipa di molto le parti più cocenti di una certa dissoluzione che avrà grande parte nella storia del rock; in altre parole sono gli anni in cui si forma per la prima volta l’idea della famigerata triade “droga sesso e rock’n’roll”. La sfera musicale degli anni Cinquanta non è solo Elvis. Al suo fianco si esibiscono in ritmi fracassanti molti altri artisti: Perry Como, Pat Boone, Chubby Checker ed il suo “Let’s Twist Again”, Johnny Cash, Bobby Darin, Neil Sedaka, Paul Anka, Roy Orbison, The Everly Brothers, The Platters e molti altri. Con questi nomi in testa e con lo stesso stile di Elvis nelle gambe, i giovani americani passano l’ultima parte degli anni Cinquanta. Il ballo sfrenato smonta regole fisse e la radio e la televisione permettono che si formi un Gap generazionale che col passare del tempo divenne tragicamente spaventoso. Con quei ritmi si arriva dunque al decennio degli anni Sessanta e, anche se il rock’n’roll continua ad influenzare i nuovi artisti, nascono forme musicali ancora più innovative. La Surf Music dei Beach Boys dà l’avvio ad un nuovo modo di fare musica, portando accanto agli ideali innovativi, ma ancora frenati dei giovani del ’55, nuove forme di ribellione. Dunque con la famigerata “Barbara-Ann” di Brian Wilson il rock’n’roll sembra essere finito come una moda passeggera, ma in realtà lancia dovunque i semi della nuova rivoluzione. Facendo, però, un passo indietro, si capisce come la nascita del rock’n’roll sia già stata pronosticata anni prima, dall’avvento nelle sale d’incisione della musica dei ghetti. 3 Gran parte della musica popolare americana nasce dall’incontro tra la cultura degli afroamericani e quella dei bianchi d’origine europea. Difatti, è raro trovare un musicista americano che non sia stato influenzato in qualche modo dalla musica degli afroamericani, né ovviamente poteva fare eccezione il rock, che anzi nasce proprio su questo presupposto, fin dai primi vagiti del rock’n’roll. Il mondo conobbe il nuovo verbo musicale attraverso il volto ambiguo di Elvis Presley, ma quella musica la suonavano già Ike Turner, Fats Domino, Ray Charles, solo per fare qualche esempio. Dunque la cosiddetta “Musica del Diavolo” non è altro che una miscela di generi preesistenti: dal gospel sacro di Ray Charles e poi dei gruppi vocali Doo Wop, al blues profano, la musica laica dei neroamericani. Con la fusione di questi due generi nacque dunque il rhythm’n’blues, includendo anche lo swing, il bop ed il jazz, il cui elemento principale era la ballabilità. Molti dei campioni del rhythm’n’blues tra gli anni Quaranta e Cinquanta possono, dunque, essere considerati come dei personaggi che hanno fortemente influenzato la nascita del rock’n’roll per il loro stile, come Joe Turner, B.B.King, Muddy Waters, John Lee Hooker, Howlin’ Wolf e Bo Diddley, affiancati dalla venuta dei gruppi Doo Wop, un nuovo genere vocale che si conquistò questo nome per i frequenti nonsense fonetici che i cantanti usavano nei loro brani; esempi tipici sono The Platters, Ink Spot, The Cadets, The Drifters, Ben E. King, The Moonglows e The Chords. Relegare il rock’n’roll e quello che ne seguì con l’etichetta di “fenomeno musicale” è l’errore più grande che gli ignari potrebbero fare. Quelle musiche influenzarono non solo l’orecchio degli ascoltatori ma, allo stesso tempo, imponevano uno stile di vita innovativo, in cui gli unici due cardini erano la ribellione e la libertà. Essi dunque prepararono i giovani degli 4 anni Cinquanta all’avvento dei Sessanta, anni caratterizzati da proteste e violenze ma, anche da grandi conquiste. Se proviamo a riepilogare gli anni a cavallo fra questi due decenni, i nomi che risaltano, ovviamente al fianco dei cantanti, sono di persone semplici che hanno però segnato il mondo politico, come per esempio John Kennedy, Malcom X e Martin LutherKing, il mondo sportivo, come Cassius Klay, ed il mondo in generale, come il Vietnam. Io non vorrei però fare un documento politico su quegli anni ma soltanto un riepilogo musicale. Uno scritto del genere lo lascio fare ai vocalist dell’anticonformismo, che affiancavano alle note parole di rabbia e disperazione, rivolte a quel mondo sempre più in balia del denaro. In quegli anni, infatti, spuntarono nomi di idoli musicali nuovi: Bob Dylan, Joan Baez, Woody Guthrie, Pete Seeger, James Brown, The Birds, Jimy Hendrix, Simon & Garfunkel e la loro “Sound of Silence”, ed infine i mitici Janis Joplin e Jim Morrison. Intere legioni di masse giovanili sono dunque pronte ad entrare da protagoniste nella storia di questi anni, unificate da un’espressione che le fece sentire parte di un movimento di rinnovamento. Il rock’n’roll del resto aveva esaurito da qualche tempo la sua funzione, dopo aver stuzzicato con fantasie ribellistiche l’immaginario degli adolescenti. Aveva dato il via ad un cambiamento che era necessario anche nella musica. A portarla fu un giovanissimo e scontroso folksinger che aveva cambiato il suo nome, Robert Zimmerman, nel più attraente Bob Dylan, in omaggio al grande poeta Dylan Thomas. Armato solo della sua chitarra e di una voce scarna e penetrante, riuscì a trovare il nuovo verbo, che di lì a poco avrebbe totalmente trasformato la consapevolezza che la musica pop aveva in se stessa. Ma all’inizio era solo uno dei tanti giovani cantanti folk arrivati dalla provincia americana 5 nel cuore della grande mela newyorkese, al Greenwich Village. In quello strano quartiere, agli inizi degli anni Sessanta, si stava verificando una curiosa saldatura tra diversi tasselli della nuova cultura. Era il rifugio di artisti, disadattati di ogni risma, esponenti della “New Left”, ma anche di musicisti, jazz e folk, e degli scrittori beat, una sorta di comunità alternativa nella quale cominciavano a ritrovarsi tutti coloro che non si riconoscevano nei valori ufficiali del Paese. L’esigenza di rinnovamento permise a Dylan di dare una risposta a questi nuovi bisogni. Le sue canzoni chiedevano con forza di essere ascoltate, non danzate, apparivano incredibilmente sincere, per nulla commerciali, e per di più avevano il merito di cogliere perfettamente quel brivido di cambiamento che si stava diffondendo tra i giovani: “Masters Of War” e “Blowing In The Wind” sono alcune delle pietre miliari di questa rivoluzione, la cui enorme popolarità ebbe l’effetto di spingere l’intero corpo della musica pop a parlare un’altra lingua. In tre anni, tra il ’60 ed il ’63, l’America fu attraversata da tensioni, sogni, speranze e dolori inarrestabili, ed il primo a cantare tutto questo fu, dunque, Bob Dylan. C’era stato chi prima di lui, al Village, aveva cominciato a riscrivere il folk secondo canoni nuovi, come Dave Van Ronk e Rambling Jack Elliott, ma Dylan si accostava alla musica tradizionale, all’eredità di Woody Guthrie ed al lavoro di Pete Seeger, con una disposizione completamente nuova, figlia del rock’n’roll ma armata di una volontà di comunicare, di usare la parola, di mettere in campo contenuti importanti ed arte, che il rock’n’roll degli anni ’50 non conosceva assolutamente. Se il rock’n’roll era musica di movimento in senso sociologico, per fatti in qualche modo indipendenti dalla volontà degli artisti, il folk revival si presenta come progetto 6 culturale consapevole, come riforma possibile ed immediata del comunicare e del far musica. Il rock, come oggi lo intendiamo, la protesta politica di massa, il “Free Speech Movement”, le occupazioni delle università, la sperimentazione delle droghe, i figli dei fiori, arriveranno dopo, ma saranno tutti figli, in qualche modo, di quegli anni e di quella comunità newyorkese, dove, al di là della protesta, dei contenuti evidenti delle canzoni, il folk impone un modello di rapporto tra pubblico ed artista, tra canzone e realtà, che per l’epoca era davvero dirompente ed esplosivo. C’erano altri personaggi importanti nella scena musicale del folk revival, ognuno a suo modo leggendario, ognuno importante, proprio perché rappresentava una parte di un sentimento, di una realtà in movimento. C’era Joan Baez, che già prima di Dylan aveva iniziato a proporre un approccio più libero alla canzone tradizionale folk, e che al fianco del cantautore percorrerà le strade del successo. Poi da sola combatterà per anni in favore dei diritti civili e della pace. C’era Phil Ochs, il vero e proprio cronista della protesta degli anni Sessanta, outsider totale, poeta del talking blues più urbano e tagliente; ed ancora Tom Rush, Richie Havens, Barry McGuire, Hoyt Axton, Tim Hardin, Buffy St.Marie, Tom Paxton, pronti a diventare, ognuno a suo modo, i portavoce di una nuova generazione, di nuovi sentimenti, di una nuova canzone folk. Una canzone che se all’inizio manteneva saldi i legami con la tradizione, in breve propose il cambiamento, nuovi suoni e nuovi atteggiamenti, facendo nascere, con l’apporto indispensabile di Dylan, quello che comunemente oggi chiamiamo il “Cantautore”. Il teatro di questo potente rilancio della canzone folk fu il Festival di Newport, dove nel 1963 ci fu la consacrazione ufficiale di Bob Dylan e Joan Baez. Manca ancora qualche 7 anno all’era dei grandi raduni pop, e le prime adunate giovanili si sviluppano proprio intorno a questi festival folk. Dylan, insomma, è il padre del folk rock, ma il genere, in realtà, nelle sue caratteristiche più celebri, viene definito altrove, per la precisione in California: l’invasione dei gruppi britannici beat, provoca alla metà degli anni Sessanta la nascita di innumerevoli formazioni che, negli Usa, cercano di mettersi al passo con i Beatles ed i Rolling Stones, con capelli a caschetto, chitarre elettriche e divise ben tagliate (la risposta americana ai Beatles furono i Byrds di David Crosby e Roger McGunn). Al fianco del revival folk dylaniano, in California stava nascendo un’altra stella: Brian Wilson e la Surf Music. Anche se precedente alle manifestazioni di protesta, lo stile dei Beach Boys alimentava il sogno californiano, fantasticando con canzoni Doo Wop e residui di rock’n’roll sull’idea del benessere. Era solo musica commerciale ma, allo stesso tempo piaceva e divertiva. Forse era gradito proprio perché sognatore ed irreale e proponeva al pubblico mondiale il sogno della ricchezza. In California i giovani erano pieni di soldi e di tempo libero e questi erano un po’ i sogni di tutti i giovani del mondo. Il surf offuscava le ribellioni e faceva credere di vivere in un mondo felice. Come vedremo però tutto questo accadde prima che la California fosse la culla della tragica triade “droga, sesso e rock’n’roll” e, purtroppo anche questa nuova musica venne risucchiata. Allo stesso tempo però permetteva di non pensare a quegli anni, fischiettando o intonando canzoni come “Barbara-Ann” o “I Get Around”, “California Dreamin’” dei Mamas and Papas e “Have You Ever Seen The Rain” dei Creedence Clearwater Revival, che ancora oggi certi giovani cantano e ballano. 8 Erano gli anni dei Kennedy e del sogno americano, ma come vedremo erano destinati a durare poco e a spegnersi nella musica di protesta di Woodstock. 2 “HEY! HEY! LBJ – HOW MANY KIDS – - DID YOU KILL – TODAY?” “PRESIDENTE QUANTI NE HAI UCCISI OGGI?” In principio fu il Numero. Nel 1955, negli Stati Uniti d’America, c’erano 2 milioni e mezzo di studenti universitari. Nel 1965 ce n’erano quasi 8 milioni. In 10 anni il numero degli studenti universitari era più che triplicato. L’armata dei Baby Boomers, dei figli nati nell’immediato dopoguerra, irrompe come un’orda incontenibile sulla società, sulle aule, sulle strade, sulla musica; un’orda viziata, sana, confusa, ricca, bella e malcontenta come mai prima di essa una generazione di giovani era stata. E quando nel calderone ribollente dei grandi numeri demografici fu gettato l’esplosivo del Vietnam, il detonatore del nascente movimento femminista, l’incertezza sul futuro mercato del lavoro costretto ad assorbire tante nuove braccia, il sangue dei Kennedy, il Mao Pensiero ed infine la pillola anticoncezionale, il Big Bang della rivoluzione giovanile divenne inevitabile. Berkeley. Chicago. Woodstock. L’offensiva del Tet, la strage di My Lai, gli studenti dimostranti uccisi dalla polizia dalla Guardia Nazionale nel campus dell’università del South Carolina e poi nel college di Kent State. I ragazzi di leva che bruciavano le cartoline precetto, simbolo della loro schiavizzazione militare. Le ragazze che bruciavano i reggiseni, odiose briglie della loro condizione femminile finalmente strappata alla condanna della procreazione da ”Enovid 10”, la pillola anticoncezionale messa ufficialmente in vendita il 9 aprile 1960. 9 Come un documentario che corre sempre più veloce e rischia di bruciare la pellicola, gli anni ‘60 zoomano via in una serie di immagini che formano la memoria del nostro tempo. Le Comuni, i Love-In, amiamoci tutti insieme e guai a chi è geloso, gli spinelli e i trip acidi, la voce di Bob Dylan che cerca risposte impossibili “Blowin’ In The Wind” portate via dal vento, l’amarezza desolante di speranze immense bruciate alla velocità di 700 metri al secondo, la velocità di uscita dalla canna dei proiettili che uccidono i Kennedy e poi LutherKing. La galassia di una generazione intera è esplosa. E poi i numeri, di nuovo implacabili. 10 mila ragazzi muoiono ogni anno, nel ’67, nel ’68, nel ’69, nelle paludi infette di Mekong. Una strage senza senso, senza futuro. “Hey! Hey! LBJ – How Many Kids – Did You Kill – Today?” scandiscono i cortei davanti alla Casa Bianca, giorno e notte, sera e mattina. “Quanti ragazzi hai ucciso oggi, presidente?”. “Non fidatevi di nessuno che abbia più di 30 anni” invitava Jerry Rubin, cervello del “Movimento” vagamente offuscato dalla canapa indiana e dall’acido lisergico. “Do It!” fatelo, urlava, qualunque cosa vi passi per la testa, “Do It!”, l’amore, la canna, la rivoluzione, “Do It!”. E milioni di genitori usciti dai “gentili” anni ‘50, la decade della tranquillità e del godimento dei trionfi americani, guardavano i loro figli con il cuore in gola e la testa in tumulto: ingrati dopo tutto quello che abbiamo fatto per voi… Lo battezzarono Generation Gap, il fosso fra le generazioni, e pareva davvero immenso. Pareva un’americanata e stava per sbarcare ovunque nel ’68 di Parigi, nelle università, negli anni definiti formidabili. Le studentesse si bevevano “The Femminine Mistyque”, la mistica della femminilità di Betty Friedan, vangelo del protofemminismo e le loro madri “scappavano” e riempivano le sale dei cinema per volare via con Mary Poppins, grande 10 successo del 1965, la governante perfetta e immaginaria di famigliole perfette ed immaginarie. I ragazzi correvano in Canada e Scandinavia per sfuggire alla chiamata di leva ed i padri canticchiavano “In Spagna s’è bagnata la campagna” leit motiv di “My Fary Lady”, favola di femminilità duttile e di maschilismo benevolo. Alla Columbia University, a New York, gli studenti innalzavano le barricate contro la polizia: “Mai più porci nel nostro campus” gridavano, e spesso i porci erano i loro padri in divisa blu, che manganellavano e piangevano i figli nei quali avevano tanto investito e sperato. A Chicago, nel ’68, il sindaco Daly, in odore di mafia, protegge il Congresso del Partito Democratico che sta per produrre il disastroso candidato McGovern contro il repubblicano Nixon, con le cariche della polizia ed i dobermann di attacco. Tutta l’America vede in diretta, alla tv, i propri figli azzannati dai cani dell’establishment politico e piange: 7 anni prima, nel 1961, un uomo era andato alla Casa Bianca promettendo di “portare la torcia” di una nuova generazione di americani, Jack Kennedy, ma a Chicago, il suo partito, il Democratico, deve difendersi dai nuovi americani con i cani da presa. Per forza che sullo schermo trionfa James Bond, l’uomo che non ha dubbi, l’agente del bene contro il male. In Vietnam il generale Westmoreland annuncia: “La vittoria è a portata di mano”… Andiamo al cinema che è più serio… Hollywood. In un giorno dolce, sereno di mezza estate, il 9 agosto del 1969, un folle che si crede figlio di Satana, Charles Manson, cantante sbattuto fuori dal gruppo dei Beach Boys dai propri compagni perché considerato troppo “cattivo”, invade la casa del regista Roman Polanski a Bel Air, il cuore di Beverly Hills, e massacra a coltellate quattro persone. Fra loro, la bellissima, delicata moglie del regista, Sharon Tate, 11 incinta di 6 mesi. “Satana” Manson le apre il ventre con 16 colpi di pugnale e distrugge anche la sua creatura non nata, ancora palpitante nel corpo della mamma. “L’America è strappata dal dissenso e dall’odio” proclama il New York Times, ma in una notte di luglio, nel 1969, il buio dell’angoscia collettiva è illuminato da uno strano fantasma bianco, col viso coperto da uno specchio che annuncia a 500 milioni di persone in tutto il pianeta, immobili davanti al televisore “Houston: L’Aquila E’ Atterrata”. E alle 20.17 ora italiana, Neil Armstrong posa il suo piede nella polvere della blue moon, della pallida Luna. Mai l’America era arrivata tanto in alto. Mai era stata così in basso. Armstrong tocca il viso della Luna, ma a Chappaquiddick l’ultimo portabandiera della famiglia Kennedy, il senatore Ted, precipita in un fosso con l’auto, lascia annegare la segretaria Mary Jo Kopeckne che si stava portando a letto e scappa via per non essere incriminato, come un coniglio. Si salverà dalla galera grazie ai soldi e al nome, ma le sue speranze di raccogliere la torcia caduta dalle mani dei fratelli annegherà per sempre con quella donna. A Woodstock, nel ’69, decine di migliaia di giovani si chiamano fuori dalla società che li ha prodotti, immergendosi come battezzandi in un Giordano rock, nel fiume della musica e di controcultura, per lavarsi di dosso la società che li ha prodotti, quell’America dei padri che ascolta sognando il tema d’amore “Romeo e Giulietta”, composto da Henry Mancini, mentre loro intonano l’inno di una generazione e di un anno: “Aquarius”. Fermate il mondo, dicono, vogliamo scendere. Ma il mondo non si fermò. E nessuno ne discese. Sembrava davvero la fine, quel 1969, ed era soltanto l’inizio. Il calderone bollente degli anni Sessanta era diventato un pacifico “Acquario”. Un’America era morta e un’altra stava nascendo. Non migliore, non peggiore. Solo un’altra, un’ennesima America. 12 Proprio a San Francisco, in California, si sviluppano le tematiche rivoluzionarie del movimento giovanile, spinte da un lato dalla contestazione studentesca esplosa nel campus di Berkeley, dall’altro da una tendenza alla vita comunitaria che sarà perfettamente riflessa dai gruppi musicali, che si proporranno come metafora artistica di queste nuove tensioni sociali. Anche quella che viene definita Musica Psichedelica, trova in California un terreno particolarmente fertile, arrivando a punte di estremismo difficilmente rintracciabili altrove. La droga che in quegli anni era intesa soprattutto come un mezzo di conoscenza e d’espansione dei normali confini psichici, diventò un preciso tema culturale, spesso indissolubilmente legato alla musica. Già negli anni ’50 alcool e anfetamine erano entrati prepotentemente nel rock’n’roll, ma come fatto personale, anzi nascosto, della vita degli artisti. Lo stesso era avvenuto da sempre nel jazz. Ma per la prima volta la droga, perfettamente integrata da altre affascinanti culture, come quella per il misticismo orientale, viene in qualche modo considerata positiva, soprattutto per quanto riguarda gli allucinogeni, che sembravano garantire realmente la percezione di un altro mondo, rispetto a quello convenzionale e conformista imposto dal sistema. E ci furono ovviamente anche eccessi. Lo stesso Lsd, droga assai pericolosa per una personalità instabile e già tendente alla psicosi, fece numerosissime vittime. In California l’esaltazione della droga si mescola anche ad una più generale mentalità underground, e in qualche caso entra direttamente nel modo stesso di costruire la musica. Esempi tipici di questa tendenza furono quei gruppi che costruirono sonorità misteriose, che alludevano direttamente alla percezione della musica attraverso lo specchio deformante degli allucinogeni, e quelli che allargavano a dismisura il concetto di performance, 13 fino a raggiungere una dilatazione spazio-temporale, anch’essa vicina alle esperienze dell’alterazione lisergica. Se pensiamo che perfino i “puliti” Beatles, scrissero alcune delle loro splendide canzoni con chiari riferimenti alla droga, si può capire come questa componente fosse assolutamente integrata nella cultura giovanile di allora. I generi proliferarono e si sviluppò anche un notevole movimento blues, portato avanti sia dai musicisti locali sia da forestieri trasferitisi in California. Ad animare questa rivoluzione, bianca e rivolta al rock, del blues originario furono parecchi cantanti, ma la più famosa è senz’altro Janis Joplin, che proprio in California visse la sua fulminea e tragica carriera. Ma ci furono anche molte strane combinazioni, come quella dei Creedence Clearwater Revival, che mescolarono rock, rhithm’n’blues e anche lo stile bayou, ottenendo un ritmo essenziale ed eccitante che li portò ad avere una lunga serie di successi discografici. Ma queste mescolanze erano all’ordine del giorno. Il rock alla metà degli anni Sessanta era come un gigantesco ed effervescente laboratorio di sperimentazioni e di sfrenata creatività. Sta di fatto che proprio in California nasce il culto del concerto rock, con potenzialità quasi mistiche. E da qui, non a caso, vengono fuori i primi “santi”, o martiri del rock. La Joplin, in primo luogo, e poi il “Re-Lucertola”, Jim Morrison, che fu il grande, insuperabile sciamano di una ritualità perversa ed incontenibile. Se ad un certo punto si diffuse nel mondo giovanile la convinzione che un concerto potesse essere qualcosa di più della musica, un’occasione d’allargamento delle proprie percezioni psichiche e sensoriali, lo si deve soprattutto ai Doors. Morrison portava nella musica rock elementi della tradizione colta europea, con riferimenti perfino alla tragedia greca, e di disinibita tribalità, in una sorta di trance collettiva che ricordava i tratti delle musiche primitive. In uno spettacolo 14 dal vivo poteva accadere di tutto, e da questo punto in poi, parallelamente alla maturazione delle incisioni discografiche, nasce il mito del concerto rock. 3 LA CALIFORNIA: L’ULTIMO SOGNO BIANCO Scoppiò come un frutto tropicale maturo, spargendo su tutta l’America e sul mondo i semi di un sogno che sarebbe durato per decenni. Cresciuta sulla pianta di una guerra mondiale che aveva saldato il suo clima secco, perfetto per coltivare arance e per fabbricare aeroplani senza ruggine, con la sua collocazione strategica sulla sponda del Pacifico, la California, soprattutto fra Los Angeles, Las Vegas e San Diego, divenne tra la fine degli anni ’50 e l’inizio dei ’60 la terra promessa di una nazione del mondo. La frontiera insieme biblica e dolcissima del “latte e miele” sulla quale l’America intera sarebbe accorsa al suono di “California Dreamin’”. Dal 1849, quando i pionieri avevano attraversato, morendo di sete e di fame, la Valle della Morte, l’America non aveva mai visto una corsa all’Ovest come quella degli anni Cinquanta e Sessanta verso le coste del Pacifico. Nei vent’anni far il 1955 ed il 1975, venti milioni di persone, quasi tutte giovani, quasi tutte bianche, quasi tutte abbagliate dal sogno del “Promised Land” sarebbero rotolate verso l’ultima sponda dell’America, ad Ovest. Fuggivano dalle vecchie città ferruginose e affollate dell’Est, Boston, New York, Philadelphia, Chicago, Detroit, in un’evasione che prima li portò dal centro verso i sobborghi, e poi dai sobborghi verso la California, nella caccia disperata e continua della droga senza la quale ogni americano soffre: lo spazio. Una sorta di “agorafobia” collettiva, d’odio per le folle e l’affollamento, spinse milioni di persone a cercare spazi, 15 sole, opportunità, grandi cieli fra le ultime pendici innevate della Montagne Rocciose e le spiagge infinite del Pacifico. “California, Here I Come”, “California aspettami, arrivo”, cantavano i nuovi pionieri sbarcando dai lunghi treni e dai primi aerei arrivati dopo giorni e giorni di viaggio dall’altra sponda, la sponda Atlantica. Non si capisce se, in quegli anni Sessanta di boom, il mito alimentò la corsa, o la corsa alimentò il mito, forse la cosa fu reciproca. Fatto sta che i giovani volevano strade lunghe e diritte nelle quali abbandonarsi fino in fondo all’amore ormai irrefrenabile per l’automobile, anche a costo della morte alla James Dean. E le spiagge, centinaia di chilometri di spiagge bagnate dal “surf”, dalle onde lunghe del Pacifico, sembrarono brulicare d’incanto di una gioventù stupenda e ingualcibile, incurabilmente bionda: le “California Girls”. Come tutto quello che accade nella storia della cultura americana, anche la California trovò subito la sua colonna sonora nei già nominati Beach Boys, i ragazzi da spiaggia che diedero voce, accordi, parole all’Ultima Utopia sole-mare, “Fun, Fun, Fun”, divertimento, divertimento, nient’altro che divertimento. Mai la divaricazione fra le Americhe era sembrata più grande. L’Est era visto come una sorta di gabbia mentre, gli occhi dei ragazzi vedevano nella California del surfin’ e dei bikini, il futuro luminoso e nitido, come i tramonti interminabili, visti dalla spiaggia di Santa Monica. Pochi, allora, vedevano in quella luce abbagliante le ombre dei mali che stavano crescendo. Lo smog da auto e ciminiere che cresceva, restando intrappolato nella conca tra le montagne ed il mare. I rischi dei venti caldi non più imbrigliati nella vegetazione. L’alluvione dei “freaks”, dei balordi rotolati da tutta l’America fino a qui per cercare nirvana, lsd e comuni dell’amore. Ma più di tutto, la macchia del sole era la sottile delusione, il senso del vuoto che ben presto si sarebbero 16 insinuati sotto le pelli abbronzate dei giovani per bruciare nella prima grande ribellione studentesca, nel 1967. E nell’ultimo, forse il più simbolico, dei grandi omicidi politici, quello che uccise Bob Kennedy, nel ’68. La California è stata l’ultimo sogno bianco di “Get Away From It All”, di mollare tutto, di buttarsi alle spalle la storia e la cronaca, e di trovare finalmente il paradiso nel quale godere i frutti della propria ricchezza. E se quel sogno anni Sessanta oggi può sembrare ingenuo, si rammenti che occorreranno venti e più anni perché si spezzi. Si dovrà arrivare all’incubo dell’Aids per abbandonare l’illusione del sesso libero e spensierato. Si dovrà attendere il crack immobiliare degli anni ’80 perché si capisca che, anche in California, i prezzi degli immobili possono salire. E si dovranno aspettare gli anni ’90 per assistere alla rivolta della Los Angeles nera, bruna e gialla, e scoprire quanto odio fra razze si celasse sotto i bikini delle California Girls e nei muscoli dei culturisti che pompano i pesi a “Muscle Beach”, la spiaggia di Venice a Santa Monica. Ma se la corsa sta finendo, che corsa è stata! Tutte le mode di una generazione, dal frisbee al surf, dalla disco music dei Bee Gees al bikini, dalla beach volley alle ossessioni igenicoalimentari, sono partite da qui. E nessuno che sia stato in California, che si sia affacciato per la prima volta sul balcone dell’ultimo oceano, ha potuto evitare di sentire nel petto il brivido di una “Good Vibration”. Perché se il mondo non finisce mai, il nostro mondo di europei finisce qui, in California. E poi comincia il tramonto. Ma la spiaggia dell’anarchia, Venice, dura ancora. Dura ancora nei cuori dei nostalgici, ma anche nelle menti delle nuove generazioni eclissate dalla paura della droga, dalle troppe libertà anticonformiste che altro non creano che disordini quotidiani. E allora che si fa? Si sogna. Si sogna di 17 dover riconquistare le proprie libertà, proprio come i figli dei fiori, si sogna di essere ribelli ed anarchici come i “freakkettoni”. E Venice è proprio il posto adatto per questo genere di sogni e, perché no, per questo genere di persone, che sogna di rifiutare di piegarsi alle regole dettate dalla società e che sogna di tornare in quella spiaggia di Los Angeles. È sempre stata necessaria una personalità particolare per vivere a Venice, una personalità aperta agli imprevisti, disposta ad accettare i suoni assordanti delle radio che popolano ogni angolo delle strade, le grida rauche degli ubriaconi a tutte le ore del giorno e della notte. Può sembrare decadente a chi non la conosce bene e non è entrato nel suo spirito: possono parere matti freakkettoni quelli che passano le loro giornate sulle panchine a cantare, a suonare i bongos o a ballare al suono degli enormi registratori appoggiati sull’erba. Eppure Venice rimane un punto fermo per le generazioni di giovani americani che l’hanno vista esplodere proprio nel periodo del dominio rock’n’roll degli anni Sessanta, che l’hanno vista patria di Jim Morrison, dei Mamas & Papas e dei Beach Boys. Negli anni Cinquanta arrivarono i beatniks, che videro nel sottoproletariato di Venice la possibilità di una presa di coscienza rivoluzionaria. Erano i poeti, gli artisti e gli scrittori che Jack Kerouac chiamò la Beat Generation. Ai beatniks seguì la generazione dei figli dei fiori, vagabondi liberi di suonare, ballare, cantare e bere per le strade, senza nessun ordine da rispettare, né musicale né sociale. Ma alla fine del ’77 la polizia iniziò ad arrestarli perché suonavano illegalmente su proprietà privata… e allora il sogno finì, o perlomeno, il sogno reale di quegli anni finì, perché nella mente dei più assidui sognatori, la possibilità di un ritorno al passato è sempre viva. Quello che fino al ’74 - ’78 fu uno dei posti meno cari di Los Angeles in cui vivere, oggi è uno dei quartieri meno ospitali 18 per gli artisti squattrinati. Venice è ormai quasi solo per pochi privilegiati. Eppure intellettuali freak e nuove generazioni beat e hippy continuano a viverci, incontrandosi al “Fig Free”, un caffè che serve solo cibi naturali e mette su solo della “buona, sana, vecchia musica”. 3 Come gli hippy che ammiro tanto, noi, i nuovi beatniks de “S’Antipilu” siamo un gruppo strano: semplice ma allo stesso tempo ribelle ai dogmi ed ai pregiudizi che la piccola società del paesino sulle rive del Cuga, ci vuole imporre. Volevo tornare a quella vita contemplativa, e per questo ci riuniamo spesso in quella lugubre, ma allo stesso tempo gioiosa, casa degli inizi del ‘900. Il mio gruppo è prettamente maschile ma, proprio per contraddire il nome che gli abbiamo dato (“S’Antipilu” in dialetto urese significa, infatti “vietato alle donne”), alle nostre feste e ai nostri ammassamenti partecipano anche le ragazze. Facciamo feste costantemente un paio di notti a settimana e, a volte, anche ininterrottamente per giorni. Nel nostro mondo inglobiamo ragazzi di ideali e pensieri diversi dai nostri, accettiamo anche se a malincuore i loro stili di musica preferiti e per questo, a volte, ci sorbiamo anche il punk, lo ska e la maledettissima musica dance del duemila. Lo facciamo con riluttanza non perché quel tipo di musica non ci piaccia, ma solo ed esclusivamente perché preferiamo la “vecchia” musica. Siamo, insomma, un gruppo di ragazzi fuori dal comune, sfacciatamente atipici e convinti di essere nati in un’epoca che non appartiene alle nostre prospettive: insomma, coglioni anacronistici. Quello che accadeva negli anni ’60, ad Uri non accade mai. Non volevo accettare l’idea che la gente avesse dimenticato quegli anni, caratterizzati da proteste, violenze e lotte, ma 19 soprattutto da libertà ed uguaglianza. Uri è così soffocante che pare risucchiarti ogni energia. Il paese è un deserto intellettuale e culturale e, come ha scritto Max in una poesia dedicata al club, certe zone sono delle vere e proprie gabbie. Non c’è nessun posto dove andare, a parte il lago, naturalmente. L’unica alternativa al restare chiusi in casa è recarsi negli innumerevoli bar o circoli privati che ribolliscono di vecchi alcolizzati. In quelle bettole passavamo delle ore a trangugiare alcolici di ogni tipo. Ma forse sbaglio a descriverli così…da un po’ di tempo i locali si sono modernizzati: hanno installato decine e decine di videopoker! Così oltre che agli avvinazzati, ora nei bar ci sono anche i malridotti, gli spiantati ed anche quelli che si sbronzano facendosi fregare da una macchinetta mangiasoldi. Per nostra fortuna, in un sabato sera di settembre, mentre si consumava l’ennesima sbronza di gruppo, a qualcuno venne in mente di “aprire” un club. Così, il giorno seguente ci mettemmo tutti d’accordo e creammo il celeberrimo “S’Antipilu”. Era il settembre 2003 quando a Sarkasmo, Cerbero e Barbatella venne in mente di fondare un club, ma l’ingenuità e l’ignoranza, nel paese erano ancora molto diffusi. I nuovi anni ’60 non erano ancora arrivati (e forse non torneranno mai più) ma a loro piacque credere che potevano riviverli in un piccolo mondo, quello che avrebbero creato. Barbatella spiega: <<Abbiamo aperto il club perché eravamo stufi dei casini controproducenti ed anche perché la piazzetta non ci conteneva più. Avevamo bisogno di un posto tranquillo dove poter annientare le preoccupazioni e dove poter essere felici in tutta libertà, fra amici.>> L’origine del nome è stata caratterizzata dalla padrona di casa, che con le sue idee venerande, attempate e ormai canute diede l’ordine di proibire l’ingresso a qualsiasi tipo di persona di sesso femminile, sia essa bambina, ragazza o donna anziana. 20 Naturalmente, questo dettame fu da subito infranto. Dapprincipio le ragazze entravano di soppiatto, a tarda ora, evitando così l’occhio indiscreto dei vicini, ma in seguito, col passare delle feste e, soprattutto, delle sbronze, noi giovani hippy di Uri trovammo il coraggio di sbattere al muro le regole; e così, ora “S’Antipilu” pullula anche di ragazze. Oltre al memorabile e compianto Dio del rock Elvis, a me, Max e compagni piace molto anche il blues. Da mattina a sera, e da notte a mattina, i muri tappezzati del nostro club rimbombano dei ritmi nostalgici di Joplin, Mayall, Clapton e Morrison, assordando con costanti cadenze anni ’60 le ormai disperate orecchie dei vicini. Ogni membro del club ha una propria idea. Ha anche un proprio introito e, difficilmente, capita che si chieda l’aiuto di un altro per essere in grado di affrontare una spesa. C’è chi si sostenta con il solo aiuto dei parenti, che tra l’altro è parecchio umiliante, perché a volte capita di non avere a disposizione abbastanza quattrini quanti se ne desiderino e dunque si va incontro ad inesorabili rinunce. C’è chi si sostenta con il proprio lavoro, fisso o saltuario che sia, e ancora chi si mantiene sia con l’aiuto dei parenti, sia con lavoretti occasionali. Ogni persona, dunque, ha una propria vita a parte, fuori dal club, ed anche una storia diversa. Forse questa è una delle tante diversità che ci separa dall’essere dei veri hippy: non vivere costantemente assieme tra noi. Ma forse, oltre alla ripulsa nei confronti della droga e all’inevitabile rispetto delle regole, sono anche le uniche differenze. Fra i tanti volti che animano le serate all’interno de “S’Antipilu” ci sono modi di vita differenti ma che vengono annientati ed equiparati una volta entrati nel magico portone color noce della “nostra” casa. C’è il muratore che lavora fino a tardi e torna a casa stanco e sporco di cemento, il contadino 21 che dopo un’intera giornata passata a strappare le erbacce dalla terra viene al club a godersi una birra ghiacciata, tra amici. Ci sono gli studenti (in gran parte) che, assolti i loro obblighi, si godono le ore di libertà in tutto rilassamento. Ed infine ci sono i disoccupati, vittime di un sistema a loro inadeguato o, molto più semplicemente, martiri della disoccupazione, che li deride ed ignora, nonostante abbiano un titolo. Dunque, la casa riesce ad unire gente di ogni sorta, con ideali e gusti diversi. Un solo sogno ci affianca l’un l’altro e ci rafforza sempre di più ogni giorno che trascorriamo assieme: la libertà. Grazie all’apertura del club possiamo, infatti, gridare di aver conquistato un piccolo tassello di libertà, e possiamo farlo a squarciagola perché, in fondo, il nostro club raggruppa i nostri sogni ed il nostro modo di essere; in altre parole, “S’Antipilu” è il nostro mondo. Come i ribelli delle altre generazioni, noi, i ragazzi del circolo rifiutiamo le categorie rigide. Tutte quelle libertà, sia fisiche sia emotive, ci danno un piacere selvaggio, ma ci sono dei prezzi da pagare. Cerchiamo di proteggerci l’un l’altro dalle reazioni negative suscitate dal nostro animo ribelle, ma gli screzi ed i disprezzi che riceviamo, colpiscono comunque nel segno. <<Puoi fottertene la prima volta, le altre volte puoi continuare a credere di fare la cosa giusta, ma col passare del tempo cedi e non è possibile evitare di pensare che potrebbero aver ragione…>> Con questa frase si esaudisce il pensiero e la paura che, chiuso il club, senza l’aiuto degli amici, ogni componente potrebbe perdersi di continuo. Ricordo un sabato notte, quando, nel bel mezzo di una festa psichedelica, avvolta dal fumo dell’incenso e dall’allucinazione dovuta alla birra, arrivò una telefonata. Era uno dei vicini… Aveva protestato duramente, opponendosi all’assordante pianola di “Light My Fire”. Così, dopo uno 22 sfogo durato alcuni minuti, le mie urla di rabbia e sconforto cessarono. Quella notte non sarà mai dimenticata. È stata la nostra prima sconfitta. Per non rischiare di perdere il club, infatti, fummo costretti a moderare il volume dell’amplificatore e cedere alle pretese di un esterno. Ricordo che non sopportavo quel silenzio. Mi dava un senso di depressione. Ci eravamo arresi. Così, lasciai gli altri a godersi un pazzo filmato, girato alcuni giorni prima, e, dopo aver recuperato le mie cose, scappai. Vagai per tutta la notte, senza una meta, senza una regola. Piansi anche, parecchio. Quella telefonata mi aveva profondamente deluso e cambiato. Deluso perché non credevo che i miei compagni si arrendessero così facilmente (ma cosa potevano fare?), e mi aveva cambiato perché l’idea di libertà che avevo in mente di creare, era una pura e chiara utopia. Quello che non sopportavo era il concetto di adeguamento che volevano impormi. Per questo mollai tutto e camminai per tutta la notte. Da solo, da libero. Senza nessuno che m’imponesse degli obblighi. Camminai sotto la pioggia, piansi e le mie lacrime si mescolarono alle gocce d’acqua. E vi giuro che non c’è modo migliore per sentirsi realmente liberi. Capii anche che purtroppo il nostro club non era quello che sognavo. Era solo un nuovo bar, mascherato dai tanti poster e assordato dalla musica. Ma in fin dei conti era solo un altro bar. Per questo, ora, quando ci vado, non provo più le vibrazioni che provavo prima e, soprattutto, guardo i miei amici con occhi diversi. Anche se, nel nostro piccolo, possiamo essere liberi, abbiamo sempre delle fottutissime regole da rispettare, e per andare avanti dobbiamo piegarci a loro. L’unico caffè che ci attirava e ci faceva sentire liberi, senza aver bisogno di un luogo di ritrovo, l’hanno chiuso dopo sei mesi, ma là dentro, passammo la nostra migliore estate. 23 Siamo giovani creativi, ribelli e non lo facciamo solo per il gusto di farlo. Crediamo in quello che facciamo e questo ci rende unici ed imparagonabili a qualsiasi altro tipo di giovani. Un’altra convinzione che abbiamo è quella di essere noi stessi. Non ci piace essere accettati per quello che possiamo sembrare, bensì per quello che siamo realmente. Per questo vestiamo strano e ci comportiamo in modo strano; in altre parole, siamo fuori da ogni regola. Beviamo un sacco… litri di birra. La nostra particolarità è che, da sbronzi, non maltrattiamo cose o persone ma ci “limitiamo” a far casino cantando. Fumiamo anche moltissimo. Sigarette di tutte le marche. A volte anche il trinciato. Fumiamo, beviamo, cantiamo e balliamo. Sono queste le insegne delle nostre feste. Ci sbronziamo in continuazione e in continuazione cantiamo e balliamo. Come si dice in dialetto urese: siamo “a cazzu”. Non possiamo neanche essere paragonati agli hippy perché i ragazzi de “S’Antipilu” disprezzano ogni tipo di droga ed evitano di affiancare chi ne fa uso, mentre quelli degli anni ’60 si sballavano in continuazione A “S’Antipilu” si sogna in grande, anche se non si è ancora arrivati totalmente alla stravaganza, e forse non ci si arriverà mai. Alcuni di noi, con capelli e barbe alla Gesù Cristo, si appropriano di abiti di altre epoche e culture; cappelli, bracciali, mantelli, camicie e jeans, a “zampa” o a “tubo”, stivali da cow-boy, occhiali da sole, fasce alla Jimi Hendrix. Siamo “meravigliosi” non perché siamo belli o stupendi, ma semplicemente perché destiamo meraviglia in chi ci scorge. Con questi atteggiamenti, Io, Max, Braghetta, Barbatella, Sarkasmo e Celisi speriamo di coinvolgere anche gli altri e, come per il rock’n’roll, crediamo di potercela fare. Non lo facciamo perché sappiamo di essere meravigliosi, ma semplicemente perché vogliamo che anche gli altri viaggino sulla nostra stessa linea d’onda e che provino e sentano le 24 nostre stesse vibrazioni tribali ed allo stesso tempo individualiste. Il casino dell’amplificatore rimbombava tra le pareti, creando un’atmosfera allegra e pazzamente psichedelica, il ché paragonato ad un acido lo minimizzava ad una cazzata. I compact disc appesi al lampadario riflettono la luce del sole, espandendola alle pareti sotto una forma iridea, e, come per magia, specchiano nell’intonaco bianco i ritmi assordanti del rock’n’roll, facendo attraversare così i confini psichici dell’immaginazione umana. Anche le distanze vengono annientate. Fare due chilometri a piedi per arrivare alla casa è una sciocchezza. Ubicata nella zona antica del paese, nel centro storico, a due passi dalla piazza centrale, il club “S’Antipilu” è una vera e propria casa. La facciata esterna, tipica di una casa dei primi anni del Novecento, appare, al primo impatto con i bulbi oculari, molto rovinata. Il continuo battere delle gocce d’acqua ha formato qua e là delle chiazze, con gradazioni di nero e verde. Il minuscolo e stretto balcone è formato da una lastra di marmo ed il parapetto è talmente arrugginito che una semplice spinta può farlo cedere. La casa è, infatti, divisa in due piani, ma a noi è consentito l’accesso solo al pian terreno (un’altra fottutissima regola!). L’ingresso è pressoché fatiscente; il robusto portone è pesantissimo, modellato da intarsi in castagno su di un’unica lastra in noce. Il battente, montato sull’anta destra, è avvolto da un paio di strati di nastro adesivo trasparente, relegando così il rumore sordo della picchiata ad un docile tocco (tutto perché i vicini si lamentavano del continuo battere alla porta – un’altra maledettissima regola -). Al di sopra delle due ante, un’inferriata foggiata secondo antichi stili architettonici, sovrasta, come una corona, l’immenso portale della 25 perdizione. In altri sensi, può sembrare come la porta dell’inferno dantesco, dove invece che le frasi “Lasciate ogni speranza voi che entrate […], per me si va tra la perduta gente […], e innanzi a me non vi furon cose create se non eterne, ed io eterna duro […]”, ci sono incise le iniziali del vecchio proprietario. Può, però, sembrare anche la colonna del paradiso perché, una volta superata la soglia, si arriva in un mondo a parte, quasi irreale, formato solo da amore, uguaglianza, birra e rock’n’roll. Gli sportelli della persiana danno l’ultimo tocco di vetustà alla casa e la panchina in pietra, a lato del portone, un non so che d’antico. Valicato l’ingresso principale, lo spettacolo che si presenta davanti è originalmente stupendo: l’esatto contrario del parere che chiunque poteva farsi, guardando il club dall’esterno. Un tavolo da sei posti è sistemato al centro della stanza, circondato da quattro sedie, con il sedile in vimini. A destra dell’entrata c’è una vecchia lavatrice, ancora funzionante, affiancata da una poltroncina, rivestita di velluto. Dalla parte opposta, il caminetto da alla casa alcune comodità, evitando il freddo invernale. Viene utilizzato spessissimo anche per la cottura della carne arrosto e di conseguenza è annerito dalla fuliggine. Spostando l’occhio più avanti, si vedono anche un vecchio frigorifero, eternamente carico di birra, una credenza color panna, che custodisce le provviste e le pentole della casa, ed una cassa in cartone, adagiata in un angolo e stracolma di legna. Due porte bianche, forse in legno di noce, con vetri non trasparenti, nascondono, ad un primo sguardo, due camere. L’angolo cottura, piuttosto piccolo, dove trovano posto un vecchio cucinino ed un lavabo in ceramica, graffiato; ed il bagno, occupato da un water difettoso, un lavandino eternamente sgocciolante ed una vasca da bagno inutilizzabile, piena di secchi e stracci. 26 Le scale che portano ai piani superiori sono strette a tal punto che due persone affiancate fanno fatica a starci. Una ringhiera ed un pianerottolo completano la struttura, creata in vecchio stile italico. Anche le pareti hanno una loro tendenza: tappezzate di poster e fogli di giornale d’ogni tipo, fanno riferimento a delle vere e proprie epoche musicali. C’è l’angolo Nomadi, dove le foto della band di Augusto Daolio coprono l’intonaco. Foto di concerti e di cantanti mitici, tipo Francesco Guccini, Lou Reed, Jimi Hendrix e Keith Richards, affiancano fotografie dei componenti del club, nelle più svariate pose immaginabili. Due corone di volantini, che sensibilizzano i ragazzi al pericolo del virus dell’HIV, completano l’intelaiatura scheletrica della porta (senza ante) che da alla sala principale de “S’Antipilu”. A mo’ di sipario, i nastri di delimitazione stradale scendono come stalattiti dall’antro di una caverna e preparano ad uno spettacolo indescrivibilmente impareggiabile. Foto di tanti ricordi occupano i muri, e l’intonaco che nonostante gli anni rimane intatto, è come la musica che ascoltiamo: infinita. Entrando, il primo sguardo è rivolto allo scaffale che contiene i bicchieri in vetro e cristallo. Ai suoi fianchi prendono posto un piccolo stereo collegato ad un amplificatore ed una piastra antica per l’ascolto dei vecchi dischi in vinile, acquistata in un mercatino delle pulci della limitrofa provincia; ed un divano in velluto, sistemato ad angolo, utilizzato nelle pazze notti interminabili. Ancora poster e vecchie foto tappezzano i muri, tagliati in due dalla carta da parati, fino a renderli totalmente ricoperti. Un vecchio tavolo con sei sedie in legno è sistemato al centro della stanza e riempie lo spazio altrimenti vuoto. Altri due divani in stoffa ed una poltrona sono posizionati agli angoli della stanza magica e coprono posti a sedere per sette persone. 27 C’è anche una vecchia televisione in bianco e nero che trasmette immagini, allo stesso tempo nuove ma antiche, che sembra voglia fermare il tempo agli anni ’60, portando con se chi la guarda; ed una radio del periodo hippy, utilizzata per l’ascolto delle partite di calcio. Lo sguardo fisso di Jim Morrison si staglia dal poster in tela, come a voler punire o biasimare con nostalgia i ragazzi de “S’Antipilu” e, con autorità sembra voglia che si ascolti la sua musica… Ed a volte lo accontentiamo. Non mancava neanche Gilles Villeneuve che, con la sua occhiata persa nel vuoto, sembra mettere al corrente dei pericoli dell’automobile, e Piero Pelù, che con la sua posa oltraggiosamente morrisiana, sembra chiedere che si smetta con le guerre ed il gioco del Risiko, dove si sa, vince chi è più forte e più ricco. Ci sono anche le pose comiche che, affiancate a quelle serie e composte degli attori e dei musicisti sembra che quasi parlino, dicendo ai ragazzi di non cambiare mai. Una foto di gruppo ricorda anche un vecchio amico del club (anche se ancora “S’Antipilu” non esisteva): Alex. Cinese e molto simpatico, negli anni della sua presenza aveva arricchito la psicologia dei giovani, introducendo nel loro mondo il “Mao Pensiero” e il misticismo orientale. Ricordo che era molto simpatico con i suoi occhi a mandorla. Era diverso da noi, ma in fondo era uguale a noi; per questo è riuscito a diventare uno dei miei migliori amici, ed ora mi manca molto. Gli Abba, Zucchero, Vasco Rossi, i Village People e soprattutto i Queen di Freddie Mercury sono gli idoli dei “s’antipiliani”, sottintendendo naturalmente gli eroi degli anni d’oro. Mercury piace, soprattutto a me, non solo perché aveva un’ottima voce, ma anche perché il suo atteggiamento bisessuale è gradito anche da me. Non che io sia omosessuale; ma soltanto amante del bello, senza inibizioni, maschile o femminile che sia. 28 La volta, arcuata a mo’ di cappella ecclesiastica, dove ogni curva pare un altare, da l’impressione di stare all’interno di una tenda circense, e le scale che portano al piano di sopra, in quanto “invalicabili”, sembrano portare ad un luogo stregato, e ad alcuni incute una sorta di misteriosa paura. Poi c’era il pupazzo, il santone del club. Da una fredda ed umida stanza di un magazzino abbandonato si ritrovò a “S’Antipilu. Gli attribuimmo il nome di “Babbu Caddia”. È passata tanta acqua sotto i ponti da quel febbraio del 1990, quando l’ex “Giozzi”, vestito da mascotte dei mondiali di calcio “Italia ‘90”, faceva gioire centinaia di bambini e ragazzi, per le vie del paese. Non si sarebbe mai immaginato che a distanza di tanto tempo un’allegra e pazza comitiva l’avrebbe usato, come figura, come testa, come simbolo di un qualcosa. “Babbu Caddia” è diventato lo “starter” delle loro feste. Lo si guarda e gli si grida “l’anziano”: quasi gli si dà da bere. L’idea del nome non è proprio del gruppo ma di un amico esterno che ogni tanto fa la sua apparizione nel club: Zio Nanni, che durante una semplice festa glielo impose e da allora, come per incanto, sembra che quel nomignolo fosse il migliore mai pronunciato prima. Ma “S’Antipilu” non è solo festa e baldoria… È soprattutto una miscela d’idee di tanti ragazzi semplici, incasinati, partiti, fuori di testa, svitati ed ottimisti. Siamo gli hippies del 2000: “Birra, Amici e Rock’n’Roll”, piuttosto che “Droga, Sesso e Rock’n’Roll”. Se un esterno dovesse descrivermi nelle mie pazze serate al club, direbbe: <<Ce n’è uno in particolare che a prima vista può sembrare uno sbandato: scarpe strane, graffiate, quasi distrutte; jeans di qualsiasi tipo, marca o colore; felpa semplice e larga, come a voler nascondere la pancia da bevitore; alto, con la barba a volte incolta e con peli differenti di qualsiasi 29 colore; capelli spettinati ed arruffati, quasi a sembrare sporchi. A completare il tutto, a volte indossa un giubbotto anni ’70 in velluto, ed una coppola anch’essa vellutata>>. Una delle colonne portanti dell’arredamento del club è la frase: “Non tutto ciò che è vecchio è da buttare”. È nel vero senso della parola una casa in vecchio stile, con vecchi mobili, e in fondo anche noi siamo in vecchio stile; ci siamo adattati alla casa e la casa si è adattata a noi. Una televisione vecchia ed un vecchio frigorifero sono gli elettrodomestici più usati. Abbiamo rispetto però se le cose non funzionano come dovrebbero: nessuno protesta se si fulmina una “vecchia” lampadina, se il “vecchio” lavabo perde, se il “vecchio” cucinino bruciacchia le pentole o è difettoso all’accensione (<<Hai presente i geyser di un vulcano? Quando si scola la pasta in quella cucina si ha lo stesso effetto!>>, ricorda Braghetta), se il “vecchio” frigo non raffredda abbastanza le bottiglie di birra o, quando lo fa, quasi le congela. Ma soprattutto, nessuno protesta se lo sciacquone del “vecchio” cesso funziona male: l’importante è che funzioni, anche perché l’ha riparato Max, con una mezza bottiglia di plastica. A “S’Antipilu” c’è bisogno di foto sempre più spettacolari ed originali, perché ogni festa è diversa dalle altre ed è sempre migliore. Alcuni pensano che la musica dance possa darti la possibilità di poter “restaurare” una vecchia canzone ed è per questo che a loro piace anche il rock’n’roll. Altri ancora preferiscono il punk, lo ska o altre musiche perché possono farti superare le percezioni spazio-temporali, ma non hanno ancora captato totalmente la cultura della “vecchia” musica. La differenza fra la dance e la “nostra” musica è che la nostra non è solo un rumore di fondo: è una dichiarazione di diversità; folk, jazz, 30 blues, country e rock’n’roll sono musiche per “vecchi” e non hanno la benché minima traccia di commerciabilità, eppure a noi piace e, soprattutto, ci fa sognare… Qualcuno, addirittura basa la sua idea di esistenza sull’amicizia ed il sogno da realizzare è quello di vivere assieme, come una vecchia comunità hippy. Non vogliamo diventare come i nostri genitori. Guardandoli ci accorgiamo che si sono arresi, hanno fatto compromessi e si sono ritrovati con poco in mano. Per questo i ragazzi di oggi vogliono tutto e subito, invece che quasi niente nel giro di settant’anni. Non voglio passare la vita a lavorare, con il solo scopo di arrivare alla pensione! Se il lavoro c’è, ben venga! Ma non permetterò che mi offuschi la mente e mi privi della mia felicità e dei miei amici! Se devo rinunciare a queste cose, non voglio né un dannato lavoro, né una fottutissima famigliola felice! Come è impossibile trovare un ago in un pagliaio, era impossibile trovare tristezza nei nostri volti. Addirittura, il piacere dell’amplesso non ci attraeva più di tanto. Preferivamo una bevuta o una sana ballata di rock’n’roll ad una scopata. In altre parole, in un mondo fatto di ombre, “S’Antipilu” era lo spiraglio di luce. Queste piccole frasi però sono offuscate dalle vicende causate dai vicini. Per quanto mi riguarda, ho perso le speranze. Non sogno più un mondo tutto mio all’interno della casa. È impossibile crearlo. È irreale. Anch’io sono costretto a piegarmi alle regole. Devo convincermi che “S’Antipilu” è solo un semplice luogo di ritrovo. Per me ora, dopo quello che è successo in tre giorni, sostituisce il bar di Alberto. È solo un posto nuovo dove sbronzarci, ridere e scherzare. Non credo che canterò più come prima o che ballerò come ballavo prima. Non ha più la 31 stessa intensità della settimana scorsa. Non mi divertirò più come prima. Ma richiamiamo alla mente anche altre frasi: <<Se non credi che questo dolce paradiso abbia un prezzo, ricordami di mostrarti le cicatrici>>. Il ché sta a significare che la gente esterna al club non apprezza le nostre feste ed i nostri casini, personali o no, e se non è la scritta “Caution: weird load”, “Attenzione: carico folle”, liberamente copiata dal retro dei pulmini Wolswagen degli hippy, ad attirare l’attenzione, basta la musica per farci notare. E se qualche giorno fa avevo la forza e la grinta per combattere quella gente, ora dopo quello che è successo, non posso e non voglio più farlo. È bastata una piccola sconfitta per farmi cambiare opinione sul nostro club. Certo, continuerò ad andarci ma non sarà mai più la stessa cosa. Gli spuntini non saranno più quelli di una volta. Le bevute non saranno più le stesse. Hanno vinto loro. I maledetti vicini, gelosi o esausti. Ormai sono imprigionato all’interno di una regola, come l’amplificatore. Ho una scritta appesa al petto. “Sono sotto sequestro per usi inconsueti e per distruzione della quiete pubblica. Censured!”. Ci hanno zittito! Mi paragono a lui, povero e innocente complice dei nostri casini. A “S’Antipilu”, senza di lui, non ci sarà più la stessa atmosfera… Prima ne parlavo come una casa magica, ora ne parlo come una casa normale, semplice e obbligata a rispettare le regole. Mi viene in mente una cosa: può essere che il blues mi sia entrato dentro? La parola blues significa tristezza, depressione, malinconia. Può essere che il blues abbia catturato me e “S’Antipilu”? Oppure è la “musica del diavolo” che ha causato tutto questo? Non so… Non voglio saperlo… Mi basta ricordare come eravamo. Felici, liberi, strani… Ora saremo 32 solo strani, prigionieri e quasi normali… Mi spiace per questo ma penso che fosse inevitabile… Magari, un domani, i posteri ricorderanno “S’Antipilu” come il luogo più scoppiato di Uri, forse come la casa dei pazzi o forse come la casa degli hippy, dei giovani liberi di Uri, dove se ti andava di fare qualcosa potevi farlo. Ora che ci penso forse anche il fatto di non voler accettare la droga, era una regola nascosta. Forse siamo pieni di regole, di consuetudini che neanche vediamo perché siamo stati abituati da sempre a non vederle e a ritenerle normali. “S’Antipilu” però poteva scovarle, pian piano, ed abbatterle. Poteva farlo… ma non abbiamo trovato il coraggio di affrontarle e sconfiggerle. Ci siamo arresi al primo ostacolo. Abbiamo una casa tutta nostra, abbiamo la possibilità di sbronzarci in tutta solitudine, ma in fondo, io penso che, noi, i giovani hippy del 2000, i beatniks di Uri, o come ci vogliano chiamare, ci siamo piegati ed, in un certo senso, abbiamo perso… Ma visto che questo breve libro lo sto scrivendo io, non è detto che debba seguire le regole della realtà. Io sono contro le regole imposte dagli altri. Ed io, nel mio piccolo libro le abbatto. Vincerò io e dirò che i ragazzi de “S’Antipilu”, invece che spegnere la radio, quella notte, e sedersi nei divani e stare incantati a guardare un filmino pazzo, hanno reagito. Hanno chiuso il telefono, sono usciti in strada, hanno urlato al mondo la loro rabbia. Poi sono rientrati, hanno riattaccato l’amplificatore ed hanno spaccato i timpani dei vicini. A fine nottata, poi, esausti delle loro performance, hanno spento la radio, hanno acceso la tivù e hanno scolato tutta la birra. Sono riusciti ad oltrepassare i confini della realtà. Hanno chiuso gli occhi ed hanno ballato assieme al Re-Lucertola, assieme a Janis; hanno cantato in coro con i Beach Boys 33 “Barbara-Ann”, poi sono volati a Woodstock, hanno suonato la chitarra con i denti, assieme a Jimi Hendrix; hanno ballato i ritmi di “California Dreamin’” e di “Everybody Needs Somebody To Love”, ed hanno mosso il culo al fianco di Elvis. Poi, stufi della pazza America sono fuggiti in Inghilterra, hanno ricevuto l’onorificenza di baronetti assieme ai Beatles, hanno nuotato con George tra le onde del Pacifico e poi hanno fatto le orge assieme a Keith Richards. Ma loro erano italiani. Son tornati in patria per questo. Hanno incontrato Lucio, Fabrizio e Francesco, hanno cantato con loro “Emozioni”, “La Guerra Di Piero” e “Il Vecchio E Il Bambino”. Dopo aver fatto tutto questo mancava loro solo una cosa. Allora sono andati al cimitero di Novellara, e passando attraverso la sua folta barba, si sono seduti sul trono al fianco di Augusto. Hanno capito di essere “vagabondi” come lui e, come lui hanno vinto. Ma questa non è la realtà. È solo il finale di uno stupidissimo libercolo. La vera realtà è “S’Antipilu”. E quella non cambierà mai. Non la si potrà modificare. Rimarrà indelebilmente scritta nei cuori di chi l’ha vissuta, e non potrà mai essere cancellata o distrutta, come stanno cercando di fare ora i nostri vicini. Potrebbero anche aver ragione, o forse l’hanno proprio. Ma in fin dei conti cosa è la ragione? È un modo come un altro per auto-gratificarsi, per non aver torto. Ma nella vita, quella che intendo io, la ragione o il torto non esistono. Esiste solo ciò che fai. E se ci credi, quella diventa, secondo me, la cosa giusta, a discapito della ragione o del torto che gli altri possano darti. 34 4 Come avrete notato, queste pagine non seguono una loro logica. Le ho create appositamente così perché non voglio che i miei scritti siano relegati con un’etichetta. Non voglio che ci sia un prologo, una parte centrale o le note dell’autore. Se notate bene, il mio stile non si basa su schemi prescritti. Ho inserito i miei sentimenti e le mie idee all’interno di ogni frase. Le note dell’autore cominciano dal primo paragrafo, le informazioni sono presenti in ogni periodo grammaticale e i miei pareri riempiono i vuoti lasciati dalle altre parole. Ho voluto iniziare questo libro con la storia della musica vera. Dal rock’n’roll di Elvis al blues di Jim Morrison, trascurando volutamente gli altri generi. Rischiavo così di fare una biografia degli anni Sessanta. Allora cosa ho fatto? Ho preso un block notes e sono andato a “S’Antipilu”. Ho catturato le emozioni dei miei amici, le ho immobilizzate come in una fotografia, e poi, una volta tornato a casa, le ho trascritte. Magari così facendo sto inventando un nuovo stile di scrittura, magari no. Non mi fotte. Ok, ho finito. Non credo di avervi annoiato ma anche se fosse, me ne sbatto. L’estate che sta per iniziare sarà molto scoppiata, credo. E ricordatevi che dopo l’estate arriverà il primo anniversario de “S’Antipilu”. Chi potrà impedirci di non spaccare tutto quella notte? L’indomani però sarà Autunno e torneranno i casini… Speriamo di resistere e poter festeggiare assieme anche il secondo anniversario del nostro club. Insomma, come disse Augusto, festeggeremo assieme i dieci, i venti, i trenta ed i quaranta anni di nascita de “S’Antipilu”. Dopo potrà anche morire… ma mi raccomando: non prima! 35 La foto di copertina è della straordinaria Janis Joplin. Ho voluto scegliere proprio quella foto perché, visto che si parla di anni ’60, lei è la più indicata. Il cerchio nel quale è “imprigionata” la sua foto rappresenta il tunnel che l’ha risucchiata il 3 ottobre del 1970, mentre l’imperfezione che si può notare proprio sopra al titolo, l’ho voluta personalmente (infatti, nella foto reale il cerchio è perfetto), a dimostrazione che nei cuori di qualcuno, la mitica Janis vive ancora. Il titolo invece, è la “targa” che gli stessi hippy avevano nei loro pulmini Wolswagen. A me rappresenta qualcosa che potrebbe ripetersi…speriamo. Vi ringrazio e vi saluto con l’augurio di potervi mostrare il mio terzo scritto… Alla Proxima… Giampietro Delogu Abbozzato ad Uri nel giugno 2004 Terminato ad Uri nell’agosto 2004 36