Platone (427-348) «Per dove dunque troveremo il sentiero della politica? Questo, infatti, noi dobbiamo individuare e, distinguendolo dagli altri, contrassegnarlo con una particolare nota caratteristica e poi, indicando e comprendendo sotto un’unica altra specie le altre vie e diramazioni …» (Platone, Politico 258c) In un bilancio di vita la questione politica «Da giovane, pensavo, come tanti, di dedicarmi alla politica non appena fossi stato padrone di me stesso. La situazione in cui mi venni a trovare era questa: ci fu una rivoluzione, poiché molti erano malcontenti della costituzione, e il governo passò nelle mani di cinquantuno cittadini: undici in città e dieci nel Pireo, con l’incarico di occuparsi dell’agorà e dell’amministrazione civica spicciola, mentre gli altri trenta detenevano il potere assoluto. Alcuni di questi erano miei familiari e conoscenti, che mi fecero subito capire, invitandomi anche esplicitamente ad intraprenderla, che la vita pubblica mi si confaceva. Non c’è da meravigliarsi di quel che provavo: ero giovane, ed ero anche convinto che avrebbero governato la città riportandola da uno stile di vita ingitisto a un modo giusto, e dunque osservavo con attenzione come si muovevano. Non tardai pertanto ad accorgermi che costoro facevano sembrare oro, in confronto, il governo precedente. Fra l’altro, capitò anche che mandarono Socrate (un mio amico, più vecchio di me, uomo che non esiterei a proclamare il più giusto fra quelli del suo tempo), ad arrestare, insieme con altri una persona da mettere a morte, così da renderlo complice, contro la sua volontà, delle loro azioni. Egli però non obbedì, e preferì correre il rischio estremo anziché partecipare ad azioni disoneste. Osservando questa ed altre cose simili, altrettanto gravi, mi ritrassi con ribrezzo cia tutte quelle miserie. Non molto tempo dopo, caddero i Trenta, insieme col loro regime. Di nuovo, anche se con più pacatezza, mi prese il desiderio di occuparmi di politica e degli affari pubblici. Anche in quegli sconvolginienti si verificarono molti fatti disgustosi, né c’era da meravigliarsi che in una situazione rivoluzionaria le vendette personali si moltiplicassero; ma quelli che rientrarono in città furono, sul momento, di una certa moderazione. Caso volle però, in seguito, che alcuni potenti trascinassero in giudizio il nostro amico Socrate, agitando contro di lui un’accusa la più infamante per disonestà, e la più lontana dalla sua indole; lo perseguirono infatti per empietà, lo condannarono, l’uccisero, lui che non aveva voluto prender parte alla cattura illegale di uno dei loro amici, al tempo in cui anch’essi soffrivano le miserie dell’esilio. Indotto di nuovo a riflessione su queste vicende, su chi si occupa di politica, sulle leggi, sulla morale in genere, quanto più passava il tempo e andavo avanti nell’età facendo di queste considerazioni, tanto più mi sembrava difficile riuscire a far qualcosa con la politica. Senza amici e compagni, impossibile realizzare niente; e non era agevole il trovarne di disponibili, fra quelli che c’erano, dato che la città non veniva più amministrata secondo i costumi e le abitudini dei padri; del tutto impossibile poi arrivare ad acquisirne facilmente di nuovi. La lettera delle leggi e i costumi in generale si andavano corrompendo ad un punto tale che io, pur inizialmente tutto pieno dal desiderio di occuparmi della vita pubblica, guardando a ciò e vedendo come tutto si trascinava sbandando per ogni dove, finii col rimanerne sconcertato. Continuai però ad osservare la situazione, caso mai si verificassero dei miglioramenti, sia in generale, sia soprattutto nel governo, ed aspettando sempre l’occasione buona per entrare in azione. Compresi, infine, che tutte quante le città di allora si trovavano ad essere malamente governate (il loro sistema di leggi era pressoché impraticabile, senza una preparazione quasi eccezionale, unita a buona fortuna), e fui costretto a limitarmi a fare gli elogi della retta filosofia, come quella da cui sola può venire la capacità di scorgere ciò che è giusto nella vita pubblica e in quella privata; mai le generazioni degli uomini avrebbero potuto liberarsi dai mali, fino a che o non fossero giunti ai vertici del potere politico i filosofi veri e schietti, o i governanti delle città non diventassero, per un destino divino, filosofi». Platone, Lettera VII 0.01. note di collocazione storica: Del catalogo di tredici lettere che la tradizione ha attribuito a Platone solo la settima e l’ottava sono concordemente considerate autentiche. Entrambe indirizzate ai familiari di Dione (parente e consigliere del tiranno Dionisio), l’amico che Platone aveva avvicinato alla filosofia e appoggiato nel progetto di diventare il primo re filosofo a Siracusa; ma viene assassinato nel 354 e.v., proprio subito dopo avere conquistato il potere nella sua città; a lui subentra Dionisio II. Scritte intorno al 353-352, le due lettere di Platone costituiscono l’ultimo contributo che il filosofo cerca di dare alla realizzazione del suo progetto politico, dopo che nei suoi tre difficili soggiorni a Siracusa si era attivamente, e non senza gravi rischi, adoperato per fare della città siciliana il primo stato retto secondo i principi della filosofia. 0.1 Una lettera testamento che è, come ogni testamento, di rendiconto per sé, di segnalazione e, forse, monito e progetto per chi resta. Entusiasmo e delusione, grandi progetti e amari bilanci sono la trama di un racconto autobiografico, ma mostrano subito di avere la propria sede nel politico. Nel politico si addensano due assoluti antitetici e in irrisolta alternanza: la necessità, la contingenza; nella propria biografia essi diventano entusiasmo e delusione; ma la loro relazione interna è più complessa di quanto appare a prima vista. 0.1.1. La necessità del politico e il conseguente interesse ed entusiasmo. «osservavo... mi prese il desiderio di occuparmi di politica e degli affari pubblici… continuai però ad osservare... aspettando... mi vergognavo di rivelarmi a me stesso uomo capace di sole parole, ma inconcludente sul piano pratico…». Già con Socrate e i Sofisti la filosofia elegge come sede prima di riflessione non tanto (non solo) le ricerche naturalistiche (come si tramanda dei primi filosofi che un topos storiografico porta tutti a scrivere “Sulla natura” e a delineare la natura come cosmo [ordine]), quanto il mondo delle relazioni sociali nella polis, in una situazione organizzata, nello stato – cosmo della polis. L’intera filosofia di Platone segnala l’impronta di Socrate e è dominata dalla ricerca politica intorno al tema della definizione di ciò che è vero e giusto per l’individuo e per la società. 0.1.2. La contingenza del politico e l’alternanza delle delusioni «pur inizialmente tutto preso dal desiderio di occuparmi della vita pubblica, vedendo come tutto si trascinava sbandando per ogni dove, finii col rimanere sconcertato. Continuai però a osservare la situazione, caso mai si verificassero dei miglioramenti… e aspettando sempre l’occasione buona per entrare in azione…» Il procedere dei dialoghi platonici può apparire scontato e fittizio, talora sembrano monologhi interrotti da espressioni dialogiche solo “fatiche” («non c’è dubbio… certamente… sono d’accordo…non ci si può stupire affatto… parli a modo…»), quindi dialoghi solo in apparenza. Il corso di quella rappresentazione in dialogo è in realtà spesso interrotto da blocchi, dubbi, mutamenti di percorso e coraggiosa denuncia di un’impostazione che pareva corretta e si rivela priva di fondamento e incapace di portare a soluzione. Significativamente, brilla per una simile coraggiosa impostazione proprio quel dialogo che Platone dedica all’arte di governo e alla sua definizione il Politico. In quell’ambito sembra che la natura della cosa spinga a fare i conti con i limiti, la contingenza, l’alternanza dei successi. 0.1.3. La necessità della contingenza alla fine si rivela essere l’essenza del politico e, in campo più generale dell’intera filosofia. Quella contingenza si impone come dato necessario proprio quando la riflessione politica rinvia ad un modello e a un mondo ideale che tratteggia in linee essenziali e assolute. In quanto ideali si configurano come mondi prospettici, come obiettivi e punti focali cui si guarda come a mete finali e che mettono in risalto la contingenza delle scelte reali adottate. 0.1.3.1. L’intera opera platonica, per sua stessa segnalazione, diventa la presentazione di una filosofia della contingenza. Non potrà mai essere espressa, tanto meno un testo scritto può pensare di ospitarla. «... l’arte dello scrivere, per il fatto che verrà trascurata la memoria, produrrà l’oblio nelle anime di chi l’apprenderà, poiché ci si ricorderà delle cose sulla fede dello scritto, dal di fuori, per caratteri a noi estranei, non da noi stessi, interiormente. Non si è, dunque, trovato una medicina per la memoria, ma solamente un mezzo per evocare i ricordi. Agli scolari si darà una parvenza di sapere, non la verità... Lo stesso fanno i discorsi scritti: sembra che parlino come se avessero in sè un pensiero: ma se vengono interrogati, volendo comprendere a fondo qualcosa delle cose dette, significano una cosa sola e sempre la stessa. Una volta, poi, che sia stato scritto, ogni discorso ovunque si aggira allo stesso modo presso coloro che positivamente se ne interessano come presso coloro cui non importa niente e ignora a chi debba badare e a chi no. Offeso e vituperato ingiustamente, ha sempre bisogno dell’aiuto del padre: per conto suo incapace di difendersi e di venire in aiuto a se stesso» (Platone, Fedro 275a-277a). 0.1.3.2. Queste parole di Platone e le ripetute riserve che, nei propri testi, egli avanza nei confronti della scrittura, generano un comprensibile imbarazzo nel lettore delle opere platoniche: sorge il dubbio che forse la sua autentica riflessione filosofica si sia espressa non nelle opere che egli compose, ma in quell’insegnamento orale che egli tenne e al quale i discepoli, in termini assai vaghi, talora fanno riferimento nei propri testi; e che la sua dottrina politica si trovi più in quegli esperimenti di partecipazione politica cui Platone e i suoi discepoli si dedicano (per lo più con scarso successo) che non nei testi sul tema; opere che tuttavia finiscono per configurarsi come luogo di una discussione franca e di un coraggioso bilancio della propria filosofia politica (e no). 0.1.3.3. Il giudizio di disvalore che Platone formula intorno alla scrittura mette in evidenzia il carattere problematico del rapporto che egli instaura tra ricerca filosofica e scrittura: «questa mia — afferma in proposito nella Lettera VII — non è una scienza come le altre: essa non si può in alcun modo comunicare, ma come fiamma s’accende da fuoco che balza». A questa verità che non si può comunicare a viva voce e che, tanto più, sfugge alla scrittura, a questo sapere che non può cristallizzarsi nei libri, non si accede tramite l’osservazione del mondo sensibile (via tipica della tradizione naturalistica, da Talete a Democrito), nè attraverso lo studio del linguaggio e l’analisi delle regole secondo cui si struttura l’articolazione discorsiva (via della specializzazione retorica praticata dai Sofisti): questa scienza «nasce d’improvviso nell’anima dopo un lungo periodo di discussioni sull’argomento e una vita vissuta in comune, e poi si nutre di se medesima». Si tratta allora di una competenza, e come tale “assoluta”, ma che nasce dalla contingenza di un divenire continuo e di un confronto con le situazioni più disparate e talora di sconfitta. 0.2. La via di uscita è la proiezione del tema della giustizia e dello stato giusto in un modello ideale, mitico, in un mondo apparentemente privo di contingenza perché in quel mondo il sapere va al potere: filosofi che diventano reggitori o reggitori che diventano filosofi 1.2.1. senso della proposta: partire dall’idea progetto modello e non seguire l’empirico 1.2.2. le tre strade indagate e percorse da Platone: il dialogo aperto (i dialoghi “socratici”), il modello ideale (Repubblica), la definizione logica (Politico): il dialogo, il modello, la definizione. 1. il dialogo (Platone 1). all’inizio era il dialogo: gli elementi e l’impianto [note riprese da interventi precedenti] 1.1. condizioni perché vi sia dialogo 1.1.1. la consapevolezza della propria ignoranza (“so di non sapere”) come disponibilità al confronto; apertura ottenuta attraverso uno smantellamento delle convinzioni e abitudini di pensiero consolidate ma non assunte consapevolmente in proprio; a tale scopo il dubbio e l’ironia “socratica” 1.1.2. la brachilogia contro la macrologhìa: procedere per brevi domande e risposte e non per lunghi discorsi; la prima strada è fare filosofia, la seconda è fare retorica; la prima è volontà di confronto e di ricerca, la seconda è volontà di persuasione e di dominio. La brachilogia è contro lo scritto, quella è disponibilità alla confutazione e al cambiamento, questo resta immutato, silenzioso, indifeso… La brachilogia è la tecnica dell’arte maieutica e il ruolo maieutico della filosofia è un ruolo etico pedagogico. 1.1.3. l’accordo raggiunto è accettato come vero. La concordia è considerata (nel campo della filosofia pratica) condizione di verità. È la verità di cui l’uomo dispone (a meno di credere di poter contare su altre fonti di verità, esterne, accettate come fonti, e certe). I tratti dell’accordo - verità: 1. è la verità che nasce dalla ricerca (dialéghesthai come exetàzein) e dal confronto, 2. resta provvisoria per la sua fonte (nasce dall’apporto dei dialoganti) e per la sua apertura (resta nella sede del dialogo) 3. è contesto di etica: sommo bene per l’uomo e per la società è sia la verità raggiunta, sia lo stare nelle condizioni di poterla sempre maieuticamente raggiungere. Nell’etica come impegno dialogico per la verità vengono a coincidere virtù (privata e pubblica), giustizia, sommo bene, felicità (eu-daimonìa) 4. nel dialogo e nell’accordo che genera si attua la coincidenza di bene e sapere: non tanto (non solo) nel senso che il sapere sia il vero bene (in senso contenutistico; ricorda il monito di Eraclito: sapere molte cose non aiuta ad essere intelligenti), né nel senso che l’ignoranza è fonte di male (o che l’uomo compie il male perché ignora che sia male), ma nel senso che il bene è lo stare nel dialogo come confronto e ricerca, questo è l’unico contesto per il sapere e per il sapere come virtù (non vanto o ostentazione retorica di competenze). 1.1.4. il contrasto tra Socrate e Sofisti è un contrasto sul tema della verità come scopo del dialogo e, conseguentemente, è un contrasto etico. 1.2. la debolezza del dialogo 1.2.1. Debolezza 1. di tipo logico (argomento eristico); unire le ignoranze, pur consapevoli (so di non sapere), rende impossibile giungere a risultati e non si sa che ricerca avviare; forse è meglio mettere in comune ciò che ciascuno riesce a far emergere dalla propria vita/memoria. «MENONE. Ma in quale modo, Socrate, andrai cercando quello che assolutamente ignori? E quale delle cose che ignori farai oggetto di ricerca? E se per un caso l’imbrocchi, come farai ad accorgerti che è proprio quella che cercavi, se non la conoscevi? SOCRATE Capisco quel che vuoi dire, Menone! Vedi un po’ che bell’argomento eristico proponi! L’argomento secondo cui non è possibile all’uomo cercare né quello che sa nè quello che non sa: quel che sa perché conoscendolo non ha bisogno di cercarlo; quel che non sa perché neppure sa cosa cerca. MEN. E non ti sembra, Socrate, che sia questo un ragionamento assai ben condotto? SOCR. A me no! MEN. Dimmi perché! SOCR. Certo!» 1.2.2. Debolezza 2. di tipo dia-logico: nasce dalla consapevolezza che la verità non è a nostra disposizione, non ci è data come dono, ma è compito e risultato di un cammino condiviso di ricerca e costruzione. Se è vero ciò che abbiamo comunemente convenuto e ciò di cui siamo persuasi, la persuasione si può raggiungere, più rapidamente, più facilmente e più efficacemente con la tecnica dei discorsi lunghi costruiti ad arte. La macrologhia, l’arte retorica. Il rischio di una caduta / deformazione del logos: dal dialogo nella retorica: il logos non è parola (espressione) della verità (verbo divino), è strumento di persuasione. Se all’inizio era il logos (Parmenide, Eraclito) ma si rivela dono e tranello. Il suo legame con il vero è circolare; la tecnica della sua gestione è ambigua: ma la sua sede non è solo il dialogo, diventa la retorica; ruolo e rischi della retorica nella politica (sua sede naturale) (Gorgia, Protagora) 1.2.3. Debolezza 3. di tipo politico: il fallimento politico nella condanna a morte di Socrate. Non ha convinto nessuno; in lui l’accettazione delle Leggi è accettazione della propria autoeliminazione. La condanna a morte di Socrate, da parte della polis, delle sue leggi e della sua giustizia, rappresenta il fallimento del dialogo, almeno in contesto politico: un giusto condannato a morte dalle leggi della polis e, drammaticamente, una morte che rappresenta un atto ultimo di fedeltà alle leggi. 1.3. nel dialogo la forza della debolezza: 1.3.1. nelle leggi frutto di accordo nel dialogo sono poste le condizioni e la garanzia del confronto sociale aperto e senza preclusioni e la costruzione continua, partecipata e attiva, della polis (dello Stato, della società). 1.2.2. il tema della fedeltà alle leggi per definire un comportamento giusto o ingiusto. La natura “estrema” del quesito: occorre obbedire alle leggi anche quando queste ti condannano a morte o ti impongono il delitto massimo? L’ingiustizia nei confronti delle leggi si ha quando 1. non se ne accetta la sentenza perché sfavorevole all’utile privato; 2. trasgredendole non si rispetta il patto presente nelle leggi stesse, il patto di convivenza civile; 3. non si rispetta la natura dialogica del patto che le costituisce se non si concorre a modificarle. L’ingiustizia non consiste solo nel non rispettare le leggi, ma anche e soprattutto nel non concorrere a formarle e poi a modificarle quando si considerano ingiuste, adempiendo all’etica del dialogo. Ne deriva, di conseguenza, che l’obbedienza alle leggi se talvolta viene usata come mezzo di giustificazione giuridica per scagionare da gravi crimini (vedi nei sistemi totalitari e nei crimini contro l’umanità ordinati da chi al momento si è insediato nelle strutture di gestione dello stato) non può diventare il contesto di una giustificazione morale. «…bisogna fare ciò che la patria e la città comandano, o almeno persuaderla da che parte è il giusto; ma far violenza non è cosa santa, né contro la madre né contro il padre, e molto meno ancora contro la patria…Ma chi di voi rimane qui, e vede in che modo noi amministriamo la giustizia e come ci comportiamo nel resto della pubblica amministrazione, allora diciamo che costui si è di fatto obbligato rispetto a noi a fare ciò che noi gli ordiniamo; e se egli non obbedisce, diciamo che commette ingiustizia contro noi in tre modi: primo, perché non obbedisce a noi che lo abbiamo generato; secondo, perché non obbedisce a noi che lo abbiamo allevato; terzo, perché essendosi egli obbligato a obbedirci, né ci obbedisce né si adopra, caso che facciamo alcuna cosa non bene, di persuaderci altrimenti, nonostante che noi, quello che gli diciamo di fare, gli si proponga benevolmente, e non già duramente gli s’imponga; che anzi, mentre noi gli lasciamo libertà di scegliere delle due cose l’una, o di persuaderci o di fare quello che gli diciamo, egli non fa né l’una cosa né l’altra.» (Platone, Critone 51c, 51e-52a) 1.3.3. nel dialogo l’origine di un percorso contemporaneamente personale e condiviso della conoscenza. Conoscere è ricordare, è reminiscenza. In questo processo il ruolo della educazione, della guida/paideia. 1.3.3.1. Conoscere è ricordare: portare alla memoria attraverso il dialogo. L’argomento eristico evidenzia l’impraticabilità del dialogo impostato secondo la tecnica espressa finora da Socrate. Se la base necessaria per stare nel dialogo è la consapevolezza della propria ignoranza, la ricerca non decolla per mancanza di scopo e la somma dei “non-sapere” è ancora un non sapere, destinato a non produrre. Per uscire da questo vicolo cieco bisogna pensare che l’incalzante domanda di Socrate a Menone sull’idea di virtù, si traduca nella segnalazione di una nuova sede del sapere e del dialogo: occorre portare alla attenzione filosofica il tema della mente umana come sede naturale delle idee. Si tratta di un discorso sulle origini, si impone perciò, anche nel testo di Platone, testo filosofico, la forma mitica, in poesia e racconto, come forma adatta e propria per la presentazione dei principi postulati. «SOCR. Certo! Perché ho sentito dire da uomini e donne assai addottrinati nelle cose divine... MEN. Cosa dicevano? SOCR. Cose vere, mi sembra, e belle. MEN. Quali? E chi sono coloro che le dissero? SOCR. Sacerdoti e sacerdotesse, quelli a cui stava a cuore saper rendere ragione del proprio ministero. E quelle stesse cose dice anche Pindaro e molti altri poeti, i poeti divini, E questo dicono — ma vedi se ti sembra che dicano il vero —; dicono, dunque, che l’anima umana è immortale, e che ora essa ha un suo compimento — il che si dice morire —, ora rinasce, ma che mai essa va distrutta; ecco perché, dicono, bisogna trascorrere la vita il più santamente possibile, “poiché Persefone, a quelli che hanno già pagato il debito / dei loro antichi peccati, giunto il nono anno, di nuovo / l’anima loro rimanda su in alto verso il sole; / da tali anime i re illustri rinascono / e gli uomini potenti per forza o grandi o per sapienza, / che per tutto il tempo futuro sono, tra i mortali, chiamati eroi senza macchia”. L’anima, dunque, poiché immortale e più volte rinata, avendo veduto il mondo di qua e quello dell’Ade, in una parola tutte quante le cose, non c’è nulla che non abbia appreso. Non v’è, dunque, da stupirsi se può fare riemergere alla mente ciò che prima conosceva della virtù e di tutto il resto. Poiché, d’altra parte, la natura tutta è imparentata con se stessa e l’anima ha tutto appreso, nulla impedisce che l’anima, ricordando (ricordo che gli uomini chiamano apprendimento) una sola cosa, trovi da sé tutte le altre, quando uno sia coraggioso e infaticabile nella ricerca. Sì, cercare ed apprendere sono, nel loro complesso, reminiscenza [anamnesi].» (Platone, Menone, 1.3.3.2. Il ruolo dell’educazione, paideia La tecnica socratica del dialogo conserva la propria struttura ma cambia la propria sede operativa, si inserisce nella mente, nell’anima dell’uomo mutando il senso dei suoi momenti. La professione di ignoranza è invito a ritirarsi dai «soliti modi di ragionare del volgo», dal «cosa dirà la gente», dal «pensa ai tuoi figli» (citazioni da Critone) per camminare «dove la ragione ci porta» secondo un percorso proprio ma partecipato, quindi convenuto e condiviso («insieme si è convenuto … vediamo insieme… con la persuasione tra…»). Il “so di non sapere” è dunque ritirarsi dalle opinioni dominanti perché mai esaminate ed è scoperta della mente come sede di strumenti per definire e comprendere. Il dialogo è allora terapia e strategia filosofica per risvegliare la mente al “proprio logos” (come afferma Eraclito, autore di cui Platone resta la principale fonte documentaria). Non è più allora semplice confronto tra interlocutori che non sanno; il dialogo trova sede nella mente di ciascuno ed ha lo scopo di portare alla memoria e mettere a disposizione i concetti e le idee, patrimonio specifico della mente umana, lì depositato come risultato di molte generazioni, strumento e principio per cogliere la realtà leggendola appunto secondo concetti e rispondendo al “che cos’è” incalzante di Socrate. Conoscere è ricordare, portare alla memoria, ricostruire e mettere in azione la memoria interiore. Il dialogo, che porta ciascuno a far affiorare alla mente, in modo assolutamente personale, il patrimonio di forme mentali di orientamento, è l’arte della conoscenza. Si tratta di un apprendimento che è sollecitato dall’esperienza sensibile, che svolge il ruolo di motore, per alcuni aspetti, esterno, ma che attiva in un procedimento interno di riconoscimento e conoscenza, un cammino nella memoria interiore. Si tratta di un procedimento che non nasce per indottrinamento o convinzione dall’esterno, ma scaturisce dalla mente di ognuno debitamente richiamata al proprio patrimonio di possibilità. Questa diventa la definizione e lo scopo della filosofia e rende la filosofia, e in generale la cultura, carica di un ruolo formativo etico e politico; l’apaideia si configura come attaccamento alla propria schiavitù. «… l’educazione non è proprio come la definiscono taluni che ne fanno professione. Essi dicono che, essendo l’anima priva di scienza, sono loro che la istruiscono, come se in occhi ciechi ponessero la vista. — Lo dicono, sì, rispose. — Invece, continuai, il presente discorso vuole significare che questa facoltà insita nell’anima di ciascuno e l’organo con cui ciascuno apprende, si devono staccare dal mondo della generazione e far girare attorno insieme con l’anima intera, allo stesso modo che non è possibile volgere l’occhio dalla tenebra allo splendore se non insieme con il corpo tutto; e questo si deve fare finché l’anima divenga capace di resistere alla contemplazione di ciò che è e della parte sua più splendida. In questo consiste, secondo noi, il bene.» (Repubblica 518 b-d) 1.4. la contingenza del politico. Il dialogo, presentato come luogo ideale e naturale di una educazione culturale etica alla polis e la consapevolezza degli esiti sempre provvisori, condivisi ma modificabili, cui giunge come a verità comuni, presenta la natura contingente del politico; non dell’arte politica intesa come prassi dialogica, ma della politica come sistema condiviso di verità. 1.4.1. Contingenza che può apparire debolezza ma è invece la natura e la forza del politico. Solo la contingenza, il suo divenire alternato di successo e insuccesso e il suo non pretendere e non imporre conclusioni definitive, impedendo il cambiamento di leggi e costituzioni, può scongiurare la retorica (e in essa la fine del logos sia come dono che come strumento), giustificare e sostenere il dialogo, 1.4.2. Il dialogo è definizione della polis giusta: è giusta quella polis in cui i cittadini concorrono a definire le leggi; vale anche il contrario: le leggi sono giuste (democratiche) se frutto di un accordo (si tratta di una condizione necessaria anche se non sufficiente). 2. il modello (Platone 2). Partire dalle idee e costruire lo stato ideale, luogo di giustizia, dominato dal concetto di bene. Le parole centrali dell’etica sorreggono il progetto di società definito da Platone nella Repubblica. Anche e soprattutto per Platone, come per i Sofisti, Socrate e il pensiero filosofico allora storicamente dominante, la città (la polis, lo Stato) è il contesto etico unico in cui società e individuo si compongono nell’armonia del bene. A tale scopo occorre tratteggiare gli aspetti essenziali di uno stato ideale, costruito cioè a partire dalle idee e non sulla base delle relazioni di forza esistenti di fatto in una società storicamente definita; bisogna cioè “rifugiarsi nelle idee” (Platone, Fedone) sia per capire la realtà sia per definire progetti non consegnati al semplice consenso delle opinioni (manipolabili con facilità da accorti retori) per assistere alla nascita dello Stato, di uno Stato ideale. 2.1. Uno stato, una società, una situazione ideale e la definizione della giustizia. Nel dialogo Repubblica, un’opera redatta nella forma di un dialogo raccontato, Platone avvia la ricerca dei criteri per definire ciò che è giusto e ciò che è ingiusto. È dunque un dialogo sulla virtù sociale per eccellenza: la giustizia. Non si dà giustizia o ingiustizia se non nelle relazioni sociali e se vi sono leggi che delineano il quadro sociale delle relazioni umane e ambientali; perciò la definizione della giustizia come concetto ideale e modello diventa presentazione di uno Stato ideale. Platone presenta dunque il proprio ideale di società e di Stato pensandolo, miticamente, nella forma ideale del suo sorgere e del suo formarsi secondo funzioni e proporzioni. «Ebbene, in un àmbito maggiore ci sarà forse più giustizia e la si noterà più facilmente. Perciò, se volete, cerchiamo prima negli stati che cosa essa sia. Esaminiamola poi con questo metodo anche in ogni individuo e cerchiamo di cogliere nelle caratteristiche del minore la somiglianza con il maggiore. — Così va bene, mi sembra, rispose. — Ora, ripresi io, se non di fatto, ma a parole assistessimo al processo di nascita di uno stato non vedremmo nascere pure la giustizia e l’ingiustizia? — Forse sì, ammise. — E se ciò avviene, non possiamo sperare di scorgere più agevolmente il nostro obiettivo? — Molto di più, certo. — Ora, secondo voi, dobbiamo tentar di andare sino in fondo? Non la credo una impresa da poco, e quindi pensateci su! — Ci abbiamo già pensato, disse Adimanto. Via! Fa come hai detto.» (Platone, Repubblica 368e-369b) 2.2. scelte di metodo per la costruzione dello Stato ideale e la definizione di giustizia. 2.2.1. la struttura dell'opera platonica è frutto di una duplice convergenza: 1. l'impegno filosofico etico-politico proprio della tradizione nata da Socrate e dai Sofisti, 2. impegno dominato dalla ricerca della virtù, della giustizia. 2.2.2. l'impostazione di metodo logico suggerito da Platone: non la registrazione di situazioni di fatto e di affermazioni accettate solo per la quantità, le più diffuse, ma occorre di ogni cosa cercare l'essenza, il “che cos’è” e la conoscenza essenziale si fonda sulle idee. Quindi: la riflessione politica ad opera della filosofia è presentazione dello stato ideale. 2.3. l'intreccio del testo è frutto dell'incontro tra il tema oggetto della ricerca (che cos'è la giustizia) e la tecnica con cui si giunge alla definizione del quesito. L'opera di Platone presenta e intreccia produttivamente infatti tesi e procedure: 2.3.1. dei Sofisti: la tesi sulla giustizia: giusto è l'utile; il metodo della ricerca e di costruzione della tesi: macrologhia. 2.3.2. di Socrate: la tesi sulla giustizia: bene e giustizia è il dialogare; il metodo della ricerca: "ironia" e dialogo 2.3.3. di Platone: la tesi sulla giustizia: presentazione dello stato giusto; ,metodo della ricerca: partire dall'idea (lo stato ideale) 2.4. la giusta posizione da assumere per affrontare correttamente il tema è frutto di una triplice conversione (metànoia). Occorre passare 2.4.1. dall'esterno (visione, esperienza) all'interno (idea, essenza) 2.4.2. dalle qualità (molteplici) all'essenza (unica) 2.4.3. dal privato (particolare, primo piano) al pubblico (universale, campo lungo) Le coppie elencate si spiegano se vengono lette in una doppia sequenza: verticale e orizzontale. 2.5 "se assistessimo alla nascita dello stato": 2.5.1. il tema politico è affrontato nella sua completezza e radicalità, quindi: 1. si deve partire dall'idea e non dalla esperienza; 2. l'impostazione è "mitica" perchè è discorso delle origini. 2.5.2. vedere l'origine dello stato (e quindi dello stato ideale) è vedere il sorgere della giustizia e accorgersi dell'ingiustizia 2.5.3. la composizione del "quadro grande" della giustizia o lo “stato ideale” funzioni essenziali produzione difesa governo classi lavoratori guerrieri governanti virtù temperanza coraggio sapere 2.5.4. la giustizia, l’oggetto della ricerca che sembra non comparire, non è nell’elenco delle virtù con cui le classi si dispongono al proprio ruolo nello Stato ideale, si rivela in realtà sempre presente e costituisce in effetti l'essenza del "quadro grande", dello stato ideale. [già in 01] a. Lo stato è giusto se le funzioni sono essenziali e non complicate (lo stato ideale è sobrio e quindi sano e giusto, e non di lusso sarebbe malato e ingiusto). b. Lo stato è giusto se ognuno attende alle funzione cui è adatto per natura, per educazione, per "kairòs" (per la capacità di cogliere tutte le occasioni di formazione etica e politica). c. Lo stato giusto è l'armonia (omologhia) delle funzioni che lo compongono ognuna ferma al ruolo di competenza. 2.6. il piano formativo-educativo dello stato ideale 2.6.1. in forma mitica: mito della caverna 2.6.2. in forma discorsiva: il quadro delle discipline: 1. l’esperienza (la visione sensibile), 2. le tecniche (il sapere empirico tecnico), le matematiche (il sapere ipotetico deduttivo), 3. la dialettica (la conoscenza dei principi – idee - essenze) 2.6.2.1. si tratta di un progetto educativo che si specializza in relazione alle classi dello stato e che trova la propria applicazione nella scuola filosofica platonica, l’Accademia, ipotizzata come luogo di ricerca e di formazione delle competenze per coloro che sono chiamati a reggere lo stato. 2.6.2.2. la logica della composizione del quadro delle discipline è costruita in modo da rendere operativa la conversione richiesta perché lo stato ideale possa essere delineato e costruito. Il passaggio: dall'opinione alla verità, dall'apparenza alla realtà, dalla visione all'idea. Lo stato ideale sarà governato da filosofi in quanto competenti nella gestione delle idee o dei modelli di definizione della realtà. Un piano di studi graduale e completo li porta a plasmare la propria naturale inclinazione all’arte del governo; la disciplina più alta in questo piano formativo è la dialettica, l’arte di gestire le idee secondo corrette relazioni e muoversi perciò con competenza nella realtà naturale e sociale. 2.7. politica e antropologia (una forma di biopolitica) «non siamo mai usciti dalla matrice antropologica» (Latour Bruno 1991 Non siamo mai stati moderni. Saggio di antropologia simmetrica, ed. Elèuthera, Milano 1995, 105) «…l’anima di ciascun individuo è tripartita così come uno stato risulta diviso in tre classi … poiché tre sono le parti dell’anima, tre mi appaiono anche i tipi di piaceri, uno per ciascuna parte. E così dicasi per gli appetiti e i governi. … La prima parte, diciamo, era quella che all’uomo fa apprendere, la seconda quella che gli fa provare sentimenti animosi; alla terza, per la pluralità dei suoi aspetti, non abbiamo potuto applicare un unico nome che la caratterizzasse, ma l’abbiamo chiamata in base al suo carattere più importante e forte. L’abbiamo chiamata appetitiva per la veemenza…» (Repubblica 580 de) Lo stato ideale è costruito costruisce su di una ricorrente simmetria tra le componenti dell’uomo (l’anima e le sue funzioni) e le componenti della società (le classi e le loro funzioni). Il modello di Stato è dominato da una doppia armonia: la prima è quella tra le abilità della persona e la classe sociale di appartenenza (ognuno svolgerà quella funzione, e di conseguenza apparterrà alla classe sociale che la realizza, sulla base della propria natura, educazione e delle opportunità che sa cogliere – kairòs), la seconda è quella delle classi sociali tra di loro (ognuno adempie al proprio ruolo, non prevarica e non invade campi a sé non propri e lo stato si compone in ordinata armonia). È come se l’accordo cui mirava Socrate con la propria arte maieutica dialogica venisse a trasferirsi e operare nello Stato, nelle relazioni tra individui e città e tra le classi, rendendolo perciò giusto. 2.7.1. in questa relazione in districabile tra antropologia e politica, tra individuo e città è collocata la stretta relazione che vi è tra bene individuale e bene collettivo: nessuno è giusto da solo o felice da solo e privatamente. «…è solo nella cultura capitalista occidentale che autonomia e libertà individuale occupano una posizione più elevata rispetto alla solidarietà collettiva, le relazioni, la responsabilità verso i soggetti dipendenti, l’obbligo di rispettare gli usi e i costumi di una determinata comunità. Il liberalismo privilegia quindi una certa cultura: quella occidentale moderna.» Žižek Slavoj 2007 La violenza invisibile, Rizzoli, Milano 2007 p. 147 2.8. le forme storiche dello stato, la loro reciproca generazione e degenerazione 2.8.1. le forme politiche: 1. stato timocratico, 2. stato oligarchico, 3. stato democratico, 4. stato tirannico (Repubblica 544 bc) 2.8.2. il corrispettivo antropologico: «uomo regale, timocratico, oligarchico, democratico, tirannico» (Repubblica 580b) 2.8.3. analisi e previsione dei blocchi e delle cicliche degenerazioni, a dinamica interna, delle forme dello stato. Platone costruisce le linee di uno Stato ideale sede di giustizia, ma prende anche in analisi le forme (le costituzioni) storiche che caratterizzano gli stati esistenti; ne individua quattro, ne studia la natura e coglie la dinamica del loro divenire interno, per studiare anche la loro degenerazione e alternanza quasi in fatale deriva ciclica. Una particolare attenzione è rivolta al passaggio: perché e quando lo stato democratico tende a degenerare nella forma della tirannia e quale strategia facilita e determina il passaggio dalla democrazia alla demagogia e quindi alla tirannia. : « — Su dunque, amico caro, qual è il carattere della tirannide? Che infatti essa trapassi a tale dalla democrazia, possiam dirlo evidente. — Evidente. E non sorgon forse a un dipresso allo stesso modo dall’oligarchia la democrazia, e dalla democrazia la tirannide? — Come? […] — Ora anche quel bene che pone a sé come termine la democrazia, non sarà l’insaziabilità di questo a dissolvere anche lei? — Cos’è che dici essa si pone qual termine? — La libertà, feci. Questo infatti potrai udire in una città retta a democrazia che è il massimo bene che essa abbia, e che per questo in essa soltanto valga la pena di vivere a chi sia libero per natura. — Si dice infatti, disse, e molto, questa sentenza. — Or dunque, ciò che io stavo per domandare, non sarà l’insaziabilità di questo e l’incuranza degli altri beni a mutare questa costituzione, e a far sì che abbia bisogno della tirannide? (Platone, Repubblica 562 abc) Il coraggio filosofico di Platone consiste nel dar corpo e nel rappresentare anche in forma più generale, nello stesso dialogo che vede il sorgere dello Stato ideale e giusto, i passaggi e i momenti che lo portano ad una inevitabile e quasi inesorabile dissoluzione, sempre non per aggressione esterna ma per corruzione interna. Sembrano tre i punti principali di intoppo. 2.8.3.1. L’idea di Bene, principio reggente che resta privo di ogni possibile definizione. Questa mancata definizione diventa un elemento centrale e fondamentale nel pensiero etico di Platone. In sede politica può apparire come assenza di fondamento del piano, mancando un fine visibile. In realtà, in coerenza con l’impostazione di Socrate questa indefinibilità si rivela essere non blocco o freno, ma essenza e anima dell’agire politico delle componenti dello stato: la tendenza verso il bene nella consapevolezza che nessuno ne possiede già la definizione. 2.8.3.2. I pericoli che il reggitore – filosofo corre in uno stato governato da una moltitudine guidata dalla demagogia di retori, falsi politici, imbroglioni… a. È il rischio generato dall’uso del discorso in forma retorica per persuadere e ottenere il consenso da una folla riunita. È il tema che Platone affronta nella sua lunga lotta contro i Sofisti: Gorgia, Protagora, Menone … Platone, Gorgia: l’arte retorica «GORGIA. E se tu sapessi tutto, Socrate, [ti meraviglieresti] che la retorica in sé comprenda, per così dire, tutte le potenze e tutte le abbia in suo dominio. Te ne darò una notevole prova: più di una volta, insieme a mio fratello e ad altri medici, andato a casa di qualche ammalato, che non voleva bere la medicina o si rifiutava di farsi tagliare o cauterizzare dal medico, mentre il medico non riusciva a persuaderlo ci riuscii io, con nessun’altra arte se non con la retorica. Ecco perché posso dire che in qualsivoglia città vadano un rètore e un medico, se una discussione si aprisse nell’assemblea popolare o in un’altra riunione qualsiasi, per decidere quale dei due debba essere scelto in qualità di medico, il medico non comparirebbe affatto, mentre il rètore, se lo volesse, verrebbe eletto. E così, se il rètore si trovasse a concorrere con qualsiasi altro tecnico, più di ogni altro riuscirebbe a farsi scegliere, poiché non v’è materia su cui non riesca più persuasivo di qualsiasi competente di fronte a una massa di persone tale e tanto grande è la potenza dell’arte. Certo, Socrate, bisogna usare la retorica come si usa una qualsiasi altra tecnica agonistica.» Gorgia 456abc b. premi e blandizie per gli istinti primari del popolo riunito (Platone, Repubblica) « — Che ciascuno di quei privati che si fanno pagare, e che costoro chiaman sofisti e considerano rivali nell’arte, niun’altra educazione impartiscono che non siano appunto queste opinioni del volgo, da esso espresse quando si raduna, e questa chiamano sapienza: come sarebbe di uno che apprendesse gli umori e gli appetiti di una bestia cresciuta grande e gagliarda, come bisogni accostarlesi e come toccarla, e quando sia più intrattabile o più mansa e perché, e le singole voci che via via ha l’abitudine di emettere, e quali sian quelle, in bocca a un altro, per cui essa si ammansisce o si infuria; e avendo appreso tutto ciò col viverci insieme e col passar del tempo, lo chiamasse sapienza, e sistematolo come in una arte si volgesse a insegnarla, senza nulla sapere in verità cosa sia bello o brutto, buono o cattivo, giusto o ingiusto di tali opinioni e desideri, ma solo applicando tutti questi nomi alle opinioni della grande bestia, chiamando buone le cose di cui quella si diletta, cattive quelle per cui si arrabbia, né avendo altra ragione alcuna da dare su di esse, ma chiamando giuste e belle le cose necessarie, senza aver mai egli veduto né essendo in grado di mostrare ad altri di quanto in realtà le nature del necessario e del buono differiscan tra loro. Un tipo simile, per Zeus, non ti par egli sia un ben curioso educatore? — A me certo!, disse.» Platone, Repubblica 493 abc Una riflessione più ampia: con la prassi dei retori – sofisti, come ricostruita da Platone, «…la sfera pubblica [si] popola dunque non più di attori rappresentativi, che sostengono con i loro speech acts il peso di una responsabilità loro accordata per mandato e per delega da un’assemblea particolare, ma la affolla di uno “sciame” di singole figure che affermano se stesse o dialogano tra loro come se lo spazio del pubblico non fosse più contrassegnato e distinto in nulla rispetto allo spazio del privato.» Andrea Beretta, La sfera pubblica e la democrazia. Coimplicazioni processuali, Tesi Scuola Superiore IUSS, 2011. c. il caso Socrate, la condanna a morte di un giusto da parte dello Stato, segna la crisi interna della democrazia. Il mito della caverna è una storia di schiavitù e di liberazione, ma anche del tragico fallimento del progetto di liberare la moltitudine dalle ombre e dalle catene delle proprie opinioni e illusioni, considerate, per assuefazione, abitudine ed attaccamento, difese come l’unica indiscutibile realtà e verità. Platone invita a prendere in considerazione l’ipotesi di un processo di risveglio e di un cammino di risalita dalle ombre della caverna alla luce della realtà e dei suoi principi: «Ammetti che capitasse loro naturalmente un caso come questo: che uno fosse sciolto, costretto improvvisamente ad alzarsi, a girare attorno il capo, a camminare e levare lo sguardo alla luce…». A cammino, dolorosamente, portato a termine, Socrate (Platone) immagina un suo rientro nella caverna, con il compito di liberare quei prigionieri; di fronte alle riserve e ai dubbi avanzati nei confronti di un simile ritorno al mondo delle ombre («dovremmo veramente fare ingiustizia a queste nature e farle vivere peggio, quando possono vivere meglio») Socrate ricorda il principio sommo di giustizia politica, centro ispiratore dell’intero progetto dello stato ideale: «Ti sei dimenticato di nuovo, mio caro, replicai, che alla legge non interessa che una sola classe dello stato si trovi in una condizione particolarmente favorevole. Essa cerca di realizzare questo risultato nello stato tutto.» L’esito complessivo dell’intera missione di ritorno, di riscatto e di liberazione è drammaticamente tragico: «E se dovesse discernere nuovamente quelle ombre e contendere con coloro che sono rimasti sempre prigionieri, nel periodo in cui ha la vista offuscata, prima che gli occhi tornino allo stato normale? e se questo periodo in cui rifà l’abitudine fosse piuttosto lungo? Non sarebbe egli allora oggetto di riso? e non si direbbe di lui che dalla sua ascesa torna con gli occhi rovinati e che non vale neppure la pena di tentare di andar sù? E chi prendesse a sciogliere e a condurre sù quei prigionieri, forse che non l’ucciderebbero, se potessero averlo tra le mani e ammazzarlo?» Platone fa parlare Socrate e delinea sullo sfondo la condanna a morte di un giusto, proprio Socrate, da parte dello stato, che dovrebbe essere contesto unico di giustizia. 2.8.3.3. La crisi, le difficoltà e le contraddizioni interne della scienza formativa somma: la dialettica Nel quadro delle discipline cui Platone affida il compito di formare i filosofi al compito di governo dello stato ideale compare al vertice la dialettica: scienza delle idee, cioè di quei principi sommi che permettono la conoscenza secondo essenza della realtà tutta e la gestione razionale dello stato. «…per secondo segmento dell’intellegibile intendo quello cui il discorso attinge con il potere dialettico, considerando le ipotesi non principi, ma ipotesi nel senso reale della parola, punti di appoggio e di slancio per arrivare a ciò che è immune da ipotesi, al principio del tutto; e, dopo averlo raggiunto, ripiegare, attenendosi rigorosamente alle conseguenze che ne derivano, e così discendere alla conclusione senza assolutamente ricorrere a niente di sensibile, ma alle sole idee, mediante le idee passando alle idee; e nelle idee termina tutto il processo. —» (Repubblica 511 b,c) L’attività filosofica di Platone ritorna, dopo la Repubblica, sul tema della dialettica indicata come scienza somma ma, da questo punto di vista, tutti i dialoghi successivi mettono in evidenza le insolubili difficoltà poste dalla disciplina vertice e indicano le nuove strade percorse, come se la perplessità qui espressa in rapida battuta («Comprendo, rispose, ma non abbastanza.») fosse preludio alla lunga discussione sui problemi posti dalla scienza dialettica attuati nel contesto dell’Accademia e raccontati nei dialoghi platonici detti “dialettici”. 3. la definizione (Platone 3) La logica e la definizione del politico (come uomo politico, come area, situazione, scienza e arte politica) è l’obiettivo specifico del dialogo di Platone intitolato Politico. 3.01. il piano generale nell’ordine dei dialoghi era doppio e questo doppio ingresso è già chiarificatore del “che cos’è” il politico (la politica). Vengono percorse due strade. 1. Il progetto a tre tappe: definire cosa sia il sofista, il politico, il filosofo. Al sofista riservato il dialogo Sofista, al politico il dialogo Politico, al filosofo … i dialoghi…. Qui il politico è “stretto” tra il filosofo e il sofista, da essi può ricavare risorse (la scienza, la persuasione) e rischi (l’astrattezza senza arte, la persuasione senza ricerca della verità o la demagogia). 2. Il racconto cosmologico/storico: dopo aver delineato il disegno del cosmo così come si è venuto formando dalla strategia del Demiurgo e, nel cosmo, la forma e il ruolo degli umani (così nel dialogo Timeo), occorre consegnare gli uomini allo Stato, collocarli nella polis, affinché la loro natura risulti pienamente formata. «…si è stabilito che Timeo, che tra noi [Timeo, Crizia, Ermocrate] è il più dotto dell’astronomia e più studio ha speso nel conoscere la natura dell’universo, parli per primo, cominciando dall’origine del mondo, e finisca alla natura degli uomini. Io [Crizia], dopo di lui, quasi ricevendo da lui gli uomini generati dalla sua parola e in parte da te [Socrate] egregiamente educati, li condurrò secondo la storia e la legge di Solone dinanzi al nostro tribunale, e li farò cittadini di questa città, come se fossero quegli ateniesi di allora, che la memoria delle sacre scritture ha richiamati dall’oblio, e in seguito ragionerò di loro come di concittadini e di ateniesi.» (Timeo 27a,b) 3.1. le strategie di metodo presentate analiticamente e applicate nel Politico. 3.1.1. il metodo per distinzione e sintesi (diairesis e synagoghé): la scoperta della ricchezza (di ragionamenti e di risorse) nella molteplicità distinta e non confusa, raccolta e non negata. «LO STRANIERO Per dove dunque troveremo il sentiero della politica ? Questo, infatti, noi dobbiamo individuare e, distinguendolo dagli altri, contrassegnarlo con una particolare nota caratteristica e poi, indicando e comprendendo sotto un’unica altra specie le altre vie e diramazioni, bisogna far sì che l’anima nostra pensi il complesso delle scienze come distinto in due specie.» 258c La definizione del politico è impostata e cercata all’interno della nozione di scienza e delle sue possibili accezioni. Il metodo per arrivare alla definizione è quello della divisione per due, in opposizione paritetica, e della successiva sintesi finale risalendo i rami della dicotomia antinomica; la diairesis e synagoghé; metodo che permette di esplorare con continuità, senza nulla tralasciare, e con chiarezza il campo in cui si colloca il tema, qui, cioè, il politico; indirettamente vengono alla luce i contesti con i quali il politico, per appartenenza naturale, deve fare i conti o dai quali non può prescindere (in quanto causa o concausa del politico) se vuole conoscere la propria natura, il proprio ruolo e svolgere con efficacia la propria funzione. La diairesis e la conseguente (contemporanea) synagoghé; più volte sottolineata la necessità di distinguere per opposti (e non per elementi parziali opposti al tutto) allo scopo di arrivare ad una corretta nozione dell’oggetto e del tema (esempio qui riportato dopo 262c-263a, 264 ab); solo l’accurata analisi nel distinguere permetterà una raccolta che definisce con pertinenza e senza confusione l’oggetto. 3.1.1.1. le scoperte rese possibili dal metodo della divisione e sintesi: 3.1.1.1.1. la biopolitica: l’arte del governo si specifica all’interno di una diramazione che registra, sul proprio tronco, la presenza degli animali; difficile pensare allora che l’arte politica si basi sulla distinzione e opposizioni tra umani e non-umani e ignori la natura animale degli umani; si tratta di una prima e originale forma di “biopolitica”. Lo stesso Platone presenta gli uomini come «animali più vicini degli altri alla natura divina» (Politico 271e). Platone, del resto, cerca più volte di risolvere in natura, nella biologia antropologica, i contrasti e le relazioni che la politica non sa gestire e sulla cui composizione fonda tuttavia la propria forza e la propria giustizia. Curare e controllare le unioni sessuali (mescolando e unendo in “matrimonio”) diventa una competenza dello stato, e siamo nella biopolitica: la procreazione va programmata per rendere la qualità dei cittadini la migliore possibile. Unendo le nature simili per rafforzare una funzione, per garantire la miglior difesa dello Stato, come avviene soprattutto per l’educazione dei guerrieri-custodi, esposta nella Repubblica: «Tu dunque, ripresi, che sei il loro legislatore, come hai scelto gli uomini, così sceglierai pure le donne e le assegnerai loro col criterio della maggiore affinità naturale possibile; ed essi, avendo case e pasti comuni e nessuno possedendo nulla di simile a titolo personale, staranno assieme e, assieme mescolati nei ginnasi come nella rimanente pratica educazione, saranno spinti a unirsi da una necessità, secondo me, connaturata in loro. Non ti sembra che io parli di conseguenze necessarie? — Si, rispose, conseguenze necessarie prodotte da necessità non geometriche, ma amorose; e può darsi che queste esercitino uno stimolo maggiore di quelle ai fini di persuadere e trascinare la massa.» (Repubblica 458cd). Unendo le nature diverse per garantire l’armonia della città, il «migliore dei tessuti» politico-sociali, suggerito nelle ultime battute del Politico: «LO STRANIERO. È invece più giusto parlare di quelli che si interessano delle parentele e vedere se commettono qualche errore. […] Gli amanti del decoro, direi, cercano il costume di vita uguale al loro, e quando possono prendono la sposa dalle donne che sono come loro… questo fa pure il genere dei valorosi… mentre ambedue i generi debbono fare tutto l’opposto di ciò. SOCRATE IL GIOVANE Come e perché? LO STR. Perché il valore, quando si produce per molte generazioni di figli senza mescolarsi alla natura saggia e temperante, per natura dapprima è in pieno vigore, e poi, alla fine, fiorisce d’ogni specie di follia. SOCR. IL G. È verosimile. LO STR. Invece d’altra parte l’anima troppo piena di timidezza, che non mescola a questa il valore e l’audacia, rinata tale per molte generazioni, diviene per forza di natura negligente e tarda più del conveniente e finisce così coll’essere in ogni modo deficiente. SOCR. IL G. Anche questo è verosimile che accada così. LO STR. Io dicevo quindi che non è per nulla difficile stabilire questi legami quando ci sia la condizione per cui ambedue i generi d’anime di cui parliamo abbiano una sola comune opinione su ciò che è bello e buono. Questa sola infatti è tutta l’opera della tessitura del re, non permettere mai che il costume saggio e temperante si distacchi da quello dei valorosi, tesserli invece insieme per mezzo dell’unità d’opinioni, per mezzo di onori, di biasimi, di riconoscimenti laudativi, di scambi reciproci di garanzie, mettendo insieme da loro una stoffa liscia e, come si dice, «finemente tessuta» e così sempre affidare in comune a tali uomini i poteri negli stati. SOCR. IL G. Come? LO STR. Là dove ci sia bisogno di un solo magistrato, scegliendo come tale a presiedere uno che abbia ambedue le qualità; dove invece ci sia bisogno di più, mescolando una parte per ciascuna delle due categorie di uomini. Il costume infatti dei magistrati saggi e temperanti è molto prudente, giusto, guida verso la salvezza, mancano essi però di veemenza, di una certa agilità e audacia, di iniziativa nell’azione. SOCR. IL G. Par giusto, almeno, anche questo. LO STR. I comportamenti dei valorosi dall’altra parte mancano, più di quegli altri, di giustizia e di prudenza, hanno invece nelle loro azioni audacia e prontezza d’iniziativa spiccatissime. Senza che ambedue questi tipi di uomini convivano insieme è impossibile che qualsiasi cosa riesca bene in uno stato, sia nella vita privata che in quella pubblica. SOCR. IL G. Come no, infatti? LO STR. Diciamo allora che questo è il compimento del tessuto, composto con retta tessitura, dell’arte politica: quando l’arte regia, per comunione d’intenti e per via d’amicizia riconducendo ad unità l’indole degli uomini valorosi e dei temperanti, realizza così il più sontuoso ed il migliore di tutti i tessuti, e, avvolgendone tutti gli altri, schiavi e liberi, nelle città, li tien stretti in questo intreccio, e regge e governa senza trascurar mai nulla di quanto conviene ad uno stato felice. SOCR. IL G. Tu, straniero, per parte tua ci hai compiutamente delineato, in modo perfetto, la figura di chi è re e uomo politico. (Politico 310b – 311c) [ricompare 3.1.1.1.2. un errore ricorrente nel ragionare politico messo in luce dal metodo della divisione per antinomie: quando il dialogo nel procedere per definire secondo il metodo della divisione per opposti, affronta il tema di come dividere il problema della gestione, dell’allevamento degli esseri animati in gruppo, Socrate il giovane propone la distinzione tra uomini e bestie (animali). Lo straniero, che conduce il dialogo, segnala qui un grave errore; lo segnala prima con analogie, poi con un ragionamento di tipo logico. «SOCRATE IL GIOVANE. In che senso dunque dici che noi poco fa non abbiamo distinto bene? LO STR. In questo, cioè con lo stesso errore che farebbe uno se tentando di distinguere in due aspetti il genere umano, distinguesse come dividono molti di qui, i quali separano da tutti gli altri uomini i Greci, come una parte dotata di una sua unità, e tutti insieme gli altri generi d’uomini, innumerevoli, senza reciproca comunicazione e l’uno all’altro inintelligibili per la diversità delle lingue, chiamano, con una sola denominazione, ‘il barbaro’ e per questa denominazione unica pensano anche che si tratti in realtà di un genere solo. Oppure anche come uno che ritenesse di suddividere in due specie il complesso dei numeri solo staccando da tutti gli altri il numero diecimila, quasi distinguesse così l’una specie, e poi, a tutto ciò che resta apponendo un unico nome, sempre in base a questa sua denominazione anche ciò pensasse a sua volta come tale da ricondursi ad un unico genere diverso e distinto da quell’altro di prima. Distinguerebbe invece meglio, direi, e con maggiore fedeltà alla regola di suddividere secondo le specie e per due, uno che dividesse il numero in pari e dispari, e così il genere umano in maschile e femminile, e separasse invece, opponendoli a tutti gli altri insieme, i Lidi o i Frigi o qualche altro popolo, allorché cadesse nella difficoltà costituita dalla impossibilità di trovare che ciascuno dei due termini che vengano separati, oltre ad essere parte, è insieme anche genere.» (Politico 262c-263a) In prima battuta dunque Platone accusa il rischio di una posizione di chiusura “xenofoba” (diremmo oggi) che condanna la polis greca all’incomprensione e alla chiusura, negando così quell’impostazione cosmopolitica che la contraddistingue nelle proposte filosofiche e politiche che riesce a formulare. [en passant: “Come dice Lévy-Strauss, «il barbaro è prima di tutto l’uomo che crede alla barbarie»” Latour Bruno 1991 Non siamo mai stati moderni. Saggio di antropologia simmetrica, ed. Elèuthera, Milano 1995, 83] In seconda battuta chiarisce l’errore “logico”: distinguere tra greci e uomini è contrapporre i greci come genere al genere uomini di cui sono parte; i greci pretenderebbero così di essere parte del genere umano e, ad un tempo, di essere anche un genere o il genere; di coincidere con esso riservandoselo in esclusiva, cioè con pretesa di totalità e di fatto escludendo gli altri dal genere; in una battuta successiva lo straniero raccomanda a Socrate (il giovane):«LO STR. Quando abbiamo una specie di qualche cosa, necessariamente essa è anche parte di ciò di cui si dice specie mentre non vi è nessuna necessità che la parte sia specie. Tu, Socrate, dirai sempre che io sostengo questa relazione e non quella opposta. SOCR. IL G. Farò così.» (Politico 263b) L’essere parte della specie, come del genere, non può determinare che la (una) parte diventi la specie o il genere. Una terza considerazione risalta però dalla critica che lo straniero rivolge a Socrate il giovane, utilizzando l’analogia della distinzione “greci” – “barbari”: Socrate (il giovane), nel proseguire la divisione antinomica, proponeva la contrapposizione bestie e uomini; l’errore è appunto quello di equiparare una specie, l’uomo (parte del genere), a tutte le altre specie chiamate genericamente “bestie” o “esseri animali”; cioè contemporaneamente il genere umano rivendicava per sé l’appartenenza ai viventi animali e si contrapponeva ad essi. Platone non segnala sole l’errore logico, ma soprattutto, credo, l’errore politico (si è infatti alla ricerca della definizione del politico) di dimenticare l’irriducibile e insopprimibile animalità dell’uomo. «LO STR. L’origine della deviazione che ci ha condotti fin qui. Io direi infatti che siamo proprio partiti di là dove tu, interrogato sul modo di dividere l’allevamento per gruppi, affermasti con grande premura che ci sono due generi degli animali, il genere umano e l’altro, un unico genere esso pure, quello di tutte le bestie. SOCR. IL G. È vero, siamo partiti di qui. LO STR. E a me parve allora essere tua convinzione che, separata una parte, avessi lasciato un unico genere per tutto il resto e ciò perché tu avevi un nome solo ed identico da dare a tutti gli elementi di questo resto, chiamandoli ‘bestie’. SOCR. IL G. Era proprio così. LO STR. Ora, giovane temerario più d’ogni altro, se mai c’è un qualche animale intelligente oltre all’uomo, come pare siano le gru, oppure qualche altro simile, il quale pure distribuisca i nomi con lo stesso tuo metodo, io credo che opporrebbe le gru, per esempio, come base per l’unità di un genere, a tutti gli altri animali, e renderebbe così onore a se stesso e, d’altra parte, raccoglierebbe insieme con gli uomini tutti gli altri in un identico genere, e questi ultimi non denominerebbe forse altrimenti che col nome di ‘bestie’. Cerchiamo dunque di guardarci da tutti gli errori simili.» (Politico 263 c-e) In sintesi e conclusione. 1. L’errore che tende a ricorrere nell’applicazione dell’arte della diairesis e sunagoghé è quello di equiparare la parte con il tutto, la specie con il genere. La distinzione, come se si trattasse di opposti di pari livello, tra uomini e animali, greci e uomini, greci e barbari, nell’equiparazione, contiene l’errore di dimenticare che i greci sono parte e appartengono per natura comunque al genere degli animali, degli uomini e dei “barbari” (se di genere si tratta qui); non se ne può negare l’insopprimibile animalità, umanità, reciprocità; senza un simile riconoscimento la politica nega quella realtà che è chiamata a gestire. 2. È qui presente la logica politica del noi / loro (amici / nemici) che pretenderebbe una definizione unitaria per i greci e una analoga che mette insieme tutto il resto, indistintamente e genericamente. Si tratta di un dividere e definire che procede per esclusione e contrapposizione. 3. Denunciare l’errore logico è scoprirlo come errore politico e, contemporaneamente, definire la politica. La divisione non corretta è funzionale a creare opposizione e esclusione. La divisione corretta: a) coglie la specificità e la individualità storica reale di ciò che viene identificato, b) su questa base, e solo allora, può porre in relazione e costruire un “tessuto” sociale [qui opera la funzione dello schematismo del tessuto, ordito e trama]. 4. Individuare l’errore della divisione permette una doppia operazione politica: a) chiarire le appartenenze contro arbitrarie esclusioni, b) ribadire distinzioni contro arbitrarie appartenenze (contro generiche “ammucchiate”, populistiche, proprie del “gentismo”), come accade, denuncia Platone, quando il re, rinunciando al proprio ruolo e per ottenere consenso si adegua e segue il gregge invece di condurlo. (Politico 267e268a; in 3.1.1.1.3.) 3.1.1.1.3. la diramazione che porta agli animali viventi domestici in forma di gregge produce una rilevante nota politica: la critica alla politica in cui il re si muove alla velocità del gregge e ne segue la lentezza assecondandolo, incapace di guidare prevedendo e precedendo (il passaggio può ricordare il momento della Repubblica in cui Platone presenta l’arte del demagogo. Consiste nel seguire il popolo-bestione conoscendone e assecondandone i capricci e le urla… la politica del sondaggismo). «LO STR. E non vediamo allora che ancor più ridicolo appare il re, quando si pone in competizione col suo gregge, e correndo mantiene lo stesso passo con l’uomo meglio esercitato in questo genere di vita svagata?» (Politico 266 cd) «LO STR. Per esempio tutti i commercianti all’ingrosso, gli agricoltori, i fornai, ed inoltre i maestri di ginnastica e i medici, quanti sono, sai tu che potrebbero tutti senza eccezione sostenere energicamente contro coloro che sono pastori d’uomini, e noi chiamammo ‘politici’, sostenere che essi stessi sono quelli che veramente si interessano dell’allevamento degli uomini, e non solo del gregge degli uomini, ma pure dei capi stessi degli uomini? SOCR. IL G. E avrebbero dunque ragione? LO STR. Forse.» (Politico 267e268a) 3.1.2. il metodo e la funzione del mito e dei modelli. La necessità di un ricorso al mito non solo per proseguire il logos, la definizione, il ragionamento, ma per poter poi, nel discorso, “toccare il culmine della nostra ricerca” (Politico 268e). Numerosi sono i miti presenti nei testi platonici; i miti a destinazione politica presenti nella Repubblica; qui vengono ripresi i miti (alcuni) presenti nel Politico. 3.1.2.1. Platone attiva un frequente ricorso al mito nel cammino di conoscenza, di definizione e di ricerca; egli stesso parla della «straordinaria mole del mito» (Politico 277b), per gestire la quale è necessario elaborarla in modelli: «È difficile, caro, dimostrare in modo soddisfacente qualche cosa di importante senza aiutarci con dei modelli» (Politico 277d); passaggio e strumenti, questi, indispensabili per conoscere le realtà dotate di complessità e di grandezza. In sintesi si può sostenere: la «straordinaria mole del mito» porta a generare un pluralità di modelli, e questi sono indispensabili nella loro varietà e diversità considerata l’importanza e la complessità del tema: «È difficile, caro, dimostrare in modo soddisfacente qualche cosa di importante senza aiutarci con dei modelli» (Politico 277d) «A questo scopo noi dicevamo di aver bisogno di un modello» (Politico 279a.) «… per le cose più importanti e più elevate non c’è immagine alcuna elaborata in modo da esser utile agli uomini per immediata evidenza, la quale mostrata da chi ha in mente di colmare il desiderio ch’è nell’anima di chi chiede di conoscere quelle cose, possa permettergli di farlo in modo soddisfacente, cercando egli appunto di porre in relazione queste ultime con qualche sensazione. Bisogna perciò esercitarsi a saper dare e ricevere il discorso relativo a ciascuna delle cose che sono.» (Politico 285e286a) C’è dunque, più in generale un legame mito-modelli-scienza, e non di tipo semplicemente metaforico, ma si tratta di un legame necessario, specie per le realtà complesse, non univoche e che mai possono essere riportate a definizioni ultime e univoche; sono infatti complesse e caratterizzate dal divenire in quanto entità viventi. «STRANIERO. Nel nostro discorso inseriremo, direi, un gioco; dobbiamo far uso di una larga parte di un lungo mito e poi per quanto ancora resta, separare sempre, come già abbiamo fatto, parte da parte, e così toccare il culmine della nostra ricerca. Non bisogna far così? SOCR. IL G. Certo. LO STR. Ma intanto presta tutta la tua attenzione al mio mito, come i bambini; non sono poi molti anni che sei fuori dell’età dei giochi.» (Politico 268de) Seguono il mito – racconto dell’agnello dal vello d’oro (Politico 268e ss), il mito - racconto degli antichi uomini che nascono dalla terra, senza accoppiarsi tra loro (Politico 269b) E si impone anche una tecnica di gestione del mito: anche nei miti occorre salire alle loro radici fino ad arrivare ai miti cosmici, cosmologici (una storia del cosmo o il cosmo collocato nella storia) e, in percezione storica, cogliere il cosmo in radicale e totale cambiamento delle sue leggi e delle sue dinamiche. Partendo da lì, inserire di conseguenza e affrontare il discorso delle sorti dell’umanità e il tema in discussione: definire i limiti e le caratteristiche dell’arte di governo degli uomini (si tratta della seconda strada delineata nel Timeo). «Ma nessuno ha rivelato l’avvenimento che è all’origine di quanto ci tramandano tutti questi miti, ora noi lo dobbiamo fare; averlo fatto sarà utile per dimostrare che cos’è il re.» (Politico 269c) Seguono, di nuovo, il mito dello scambio fra tramonto e levare del sole, il mito dei due cicli cosmici: il primo a gestione divina il secondo, col ritirarsi degli dei, a gestione umana; le due diverse direzioni di moto del tempo nelle due ere (nei due opposti cicli) (qui il racconto dell’uomo la cui vita va in direzione opposta, partendo dalla sua vecchiaia diventa giovane e bambino fino a scomparire (Politico 270de) 3.1.2.2. Platone parla della «straordinaria mole del mito» (Politico 277b), e afferma di volere, con il suo aiuto, « toccare il culmine della nostra ricerca». Qual è questo culmine? 3.1.2.2.1. «Sarebbero innumerevoli le altre cose da dirsi volendo elencare tutte le conseguenze di un simile ordinamento dell’universo. Quanto poi a ciò che vien detto degli uomini, riguardo a quel loro modo di vita per cui si offriva loro spontanea la soddisfazione dei loro bisogni, eccone la ragione. La divinità stessa li guidava al pascolo e presiedeva loro, come fanno ora gli uomini, i quali, animali più vicini degli altri alla natura divina, guidano al pascolo gli altri generi di viventi di loro meno nobili. Sotto quella guida del dio non v’era bisogno né di costituzioni di stati né dell’acquisto di donne o di figli [lo slogan né Dio, né patria, né famiglia!!!]; tutti infatti risorgevano alla vita dalla terra, e senza conservare alcun ricordo di ciò che era stato prima; ma se tutto ciò mancava, frutta senza limite avevano dagli alberi e dalle altre numerosissime piante, non certo prodotto di opere agricole, ma spontaneamente producendoli il suolo. Senza vesti, senza letto, vivevano all’aria aperta la maggior parte del tempo loro, infatti le stagioni erano tutte ben temperate in modo che essi non ne subivano noia alcuna, ed avevano teneri giacigli fatti con l’erba che cresceva dalla terra senza limitazione.» (Politico 271e-272a) Nel primo ciclo cosmico, a gestione divina, gli uomini sono “anomoi”, privi di legge per la sua inutilità, privi di bisogni, per l’abbondanza dei beni nei consumi naturali (in una società non dominata dal valore degli artefatti), privi di relazioni sessuali per la procreazione, privi di istituzioni sociali e in condizione di felicità. Torna il tema dell’anomia (presente nella tradizione pitagoricoorfica e cinica, tradizioni tra loro opposte) come situazione capace di indicare due situazioni antitetiche, esterne alla legge, in cui gli uomini si possono miticamente trovare: lo stato animale delle bestie (come accade per quei popoli che vivono al margine dell’area della civiltà, cioè della Grecia-centro della civiltà; Erodoto li caratterizza per due tratti: l’assenza di giustizia e l’assenza di leggi [né dìche, né nòmos]; e vi aggiunge la fanerogamia), la stato storico della gestione divina (il mito che Platone racconta caratterizza quel corso per due tratti: l’assenza di leggi, l’assenza di unioni sessuali). Il tema ricompare nella riflessione politica di Aristotele: «… quindi chi non è in grado di entrare nella comunità o per la sua autosufficienza non ne sente il bisogno, non è parte dello stato, e di conseguenza è o bestia o dio.» (Aristotele, Politica 1253a28-33) La tradizione platonica e aristotelica, raccolta e rielaborata dalla riflessione degli arabi, torna invece al tema dell’anomìa come situazione mitica di perfezione. Nelle dottrine di Averroè lo Stato ideale è caratterizzato dalla inutilità della legge. La legge è medicina: come la medicina sorge in relazione alla malattia, così la legge sorge in relazione all’imperfezione politica civile, all’assenza cioè di una vera polis o segnala comunque sempre uno stato patologico presente nella società. Se esiste amore tra i cittadini è superflua la legge e non è questa a fondare l’ordine civile. Il pensiero non riveste un ruolo prioritario di fondazione di ordine e di norme per il sociale, anzi è da esso separato e l’uomo tende, contemplativamente, a farvi parte, nella specifica particolarità garantita dalla sua specifica immaginazione. “Negando che al pensiero competa la produzione di un ordine morale, l’averroismo rappresenta forse la più radicale affermazione dell’originaria anomia del pensiero. … Pensare non significherà più condurre una vita alla forma in cui essa coincide con la legge: il pensiero appare invece la costituzione di un’esistenza che resta inafferrabile ad ogni forma di legge. La vita del pensiero, il bios theoretikos pone il vivente al di fuori della città [intelletto agente separato e unico crea una situazione di separatezza contemplativa condizione di realizzazione piena dell’uomo]; non a caso Aristotele aveva comparato la vita nel pensiero alla vita dello straniero, a quel bios xenicos che la legge non riesce a cogliere né ad articolare perché assolutamente esteriore al nomos.” (Emanuele Caccia, La trasparenza delle immagini. Averroè e l’averroismo, ed. B. Mondadori, Milano 2005, p. 191-192) Averroè (1126-1198) (Muhammad ibn Ahmad Muhammad ibn Rushd), Commentarium magnum in Aristotelis “De anima” 3.1.2.2.2. in quale direzione, questo mito, porta l’analisi, facendo «toccare il culmine della nostra ricerca»? Pone a tema il rapporto tra leggi e arte di governo e porta ad affermare la tesi che le leggi devono essere “al minimo”. Già nel dialogo Repubblica lo Stato è considerato malato se complesso e di lusso e, la più grave di questa complessità - malattia è l’eccessiva quantità delle leggi. Trova il passo Nel Politico il tema del limite dell’arte di governo porta all’affermazione della sobrietà delle leggi, all’equazione Stato giusto = stato con poche leggi. Tesi che si sostiene per due argomentazioni. La prima è la debolezza della legge: non è in grado di prevedere e quindi gestire la complessità del reale e rischia di ridurre tutto a norme generiche ed esterne al vivere dell’uomo. Citazione La seconda è l’affermazione della superiorità dell’arte di governo sulla legge. Il percorso, sempre riassunto, ma presentato in modo più analitico è: le leggi vanno rispettate, e una forma del loro rispetto è conservarne il valore aggiornandole (come nel dialogo Critone), ma gestite nell’arte di governo, non imposte in modo astratto e inflessibile. 3.1.2.2.3. Sul tema della superiorità della legge o dell’arte di governo Platone segnala un grave rischio. Uno degli errori più pericolosi in cui cade la riflessione sul politico è quello di condurre le proprie tesi e i ragionamenti mischiando i due periodi del ciclo storico. Se nel periodo a gestione divina, per i tratti indicati, l’arte di governo è, ad un tempo superiore (perché divina) e inutile (che venga condotta da parte degli uomini) come ancor più inutile è la legge, nel periodo successivo e opposto, quello a gestione umana con il ritirarsi degli dei, occorre in altro modo, e come Platone ha impostato, parlare della legge, dei suoi limiti e della sua rilevanza, del suo rapporto con l’arte di governo. L’errore da evitare è parlare dell’arte di governo del periodo umano come se si parlasse di “utopia”, del periodo divino, utilizzando quei concetti e quelle relazioni. Errore in cui lo stesso Platone incappa nello sviluppo del dialogo e che, sempre con accorta strategia formale, immediatamente denuncia: «LO STR. In quanto, interrogati riguardo al re e all’uomo politico presenti nell’attuale ciclo e appartenenti al genere umano d’oggi, abbiamo parlato del pastore appartenente al ciclo opposto, pastore del gregge umano di allora e perciò dio anziché uomo, in questo senso siamo andati completamente fuori di strada; in quanto invece lo abbiamo presentato come capo di tutto lo stato, senza per altro precisare in che modo, in questo senso abbiamo detto la verità, benché non l’abbiamo detta né compiutamente né chiaramente, e perciò abbiamo sbagliato meno gravemente che nell’altro senso. SOCR. IL G. È vero. LO STR. Bisogna pertanto, a quanto pare, che noi definiamo anche il metodo secondo cui si esercita il potere di questo sullo stato e solo così possiamo prevedere di trattare compiutamente il problema dell’uomo politico. SOCR. IL G. Benissimo. LO STR. E proprio per questo abbiamo introdotto anche il mito … […] LO STR. Ed io credo, Socrate, che questa figura del pastore divino sia ancora troppo grande in paragone ad un re, mentre i politici di qui e del nostro tempo hanno invece natura molto più simile a quella dei loro soggetti, e molto più si accostano ad essi per l’educazione di cui sono partecipi e così per il modo come vengono allevati. SOCR. IL G. È assolutamente vero. […] LO STR. L’origine dei nostri errori risale dunque proprio a questo punto della divisione.» (Politico 274a-275d) 3.1.2.3. Un recente ritorno del mito, della narrazione come strumento di fondazione della validità di un modello e di un progetto politico: lo storytelling; tecnica di intervento che comprende il ruolo delle emozioni, più che della ragione, nella formazione della fiducia e del consenso. (da Cacciotto Marco 2011 Marketing politico. Come vincere le elezioni e governare, il Mulino, Bologna) «La politica come narrazione. «In politica si devono narrare storie coerenti, memorabili e di forte effetto emotivo, soprattutto per presentare se stessi e ciò che si rappresenta. La persuasione politica è una questione di reti e di racconti.» Drew Westen Narrazione (storytelling) è divenuto il termine chiave nelle elezioni degli ultimi due decenni: Berlusconi, Clinton, Bush e Sarkozy ne hanno fatto uso per trasmettere agli elettori un certo profilo di immagine e un’idea del paese. L’incontro del marketing e delle scienze politiche con le neuroscienze permetterà di comprendere sempre meglio il funzionamento della mente umana nella formazione delle decisioni politiche. Il comportamento elettorale sembrerebbe, in base a diversi studi recenti, molto più legato a elementi emotivi che razionali.» (Cacciotto 2011 137-138) « Lo storytelling. A partire dagli anni Novanta, prima nel mondo delle imprese e poi in quello della politica, si è assistito alla diffusione di un nuovo paradigma del marketing e della comunicazione definito storytelling e sancito dal passaggio dalla brand image (immagine di marca) alla brand story (storia di marca). Improvvisamente il focus si spostava dal marchio alle narrazioni collegate al marchio, riscoprendo un metodo di consenso e di legittimazione antichissimo: «l’arte di raccontare storie è nata quasi in contemporanea con la comparsa dell’uomo sulla terra e ha costituito un importante strumento di condivisione dei valori sociali» [Salmon 2007]. Per Roland Barthes «il racconto è presente in tutti i tempi, in tutti i luoghi, in tutte le società; il racconto comincia con la storia stessa dell’umanità; non esiste, non è mai esistito in alcun luogo un popolo senza racconti» [1969, 7]. Nella politica, d’altro canto, le ideologie politiche sono state sempre trasmesse di generazione in generazione, e dai leader ai cittadini, attraverso racconti [Westen 200]; trad. it. 2008, 139]. Come mai improvvisamente lo storyrelling è divenuto un approccio dominante nel marketing? Per due ordini di ragioni: da un lato un crescente successo nell’ambito delle scienze sociali, che ha fatto parlare di «svolta narrativa» e di «revival dello storytelling» [Salmon 2007]; dall’altro la necessità di trovare nuovi modi per catturare l’attenzione e conservare consumatori sempre più distratti e infedeli. [se ne fa ampio ricorso anche nella pubblicità e a illustrare uno specifico prodotto: vedi il mulino bianco e le illustrazioni dei suoi singoli prodotti… sono storie] Lo storytelling ha la funzione di mobilitare le emozioni attraverso la pratica di racconti condivisi, la capacità di coinvolgere il cittadino consumatore/elettore in una relazione durevole ed emozionale. Vincent [2002] sottolinea come le campagne pubblicitarie diventino sequenze narrative, i consumatori audience, i loghi vengano sostituiti da personaggi. Un approccio non solo adatto alle campagne elettorali, ma che, secondo Cornog [2004], fa parte della storia delle elezioni presidenziali statunitensi da George Washington ai giorni nostri. Sin dalle origini della Repubblica americana i candidati hanno dovuto raccontare agli elettori delle storie convincenti sulla nazione, sui suoi problemi e, soprattutto, su se stessi.» (Cacciotto 2011, 146) «Aver compreso il ruolo delle storie nella rappresentazione della realtà e il funzionamento del cervello che, di fronte a informazioni in grado di minacciare convinzioni precostituite, è in grado di bloccarle giungendo a conclusioni emotive differenti ha permesso di migliorare l’efficacia dei messaggi e delle narrazioni politiche.» (Cacciotto 2011, 148) «…tra i commenti più duri vi fu quello di James Carville, che durante una trasmissione di Meet the Press [Polletta 2006, VII] si pronunciò in questi termini: «I repubblicani dicono: «vi proteggeremo dai terroristi di Teheran e dagli omosessuali di Hollywood». Noi diciamo «siamo per l’aria pura, scuole migliori, più assistenza sanitaria». Loro raccontano una storia, noi recitiamo una litania.» I repubblicani facevano ricorso al classico schema delle favole e dei racconti mitologici, spingendo gli americani a scegliere tra buoni e cattivi, e usavano personaggi nuovi che attualizzavano parti dell’eterna rappresentazione della sfida del bene contro il male, come la minaccia, la vendetta e la salvezza.» (Cacciotto 2011, 149) 3.1.3. il metodo dell’analogia, delle immagini per metafora, allo scopo di “creare nomi” (Politico 260e) e, così, cogliere la sostanza, la specificità, il che cos’è del politico. Il teso di Platone è denso di analogie. Analogia tra ambiti: medico, architetto 259e pascolo e pastore 261d, allevamento di pesci, di oche, di gru 264c, l’arte della tessitura 279b, il pilota della nave, il medico 297e ….. Per la gestione dell’analogia viene adottato un plurimo atteggiamento di metodo: 3.1.3.1. il suo utilizzo è condizione di scoperta: «Oppure vuoi invece che, usando il metodo dell’analogia, come facevamo poco fa, creiamo un nome ancora con la stessa analogia, dato che ne è senza, direi, anche questo genere del comandare direttamente…?» (Politico 260a) 3.1.3.2. la gestione della metafora secondo la logica degli schemi, dello schematismo: base per definire e costruire modelli per la teoria; 3.1.3.3. la necessità di uscire dall’analogia per arrivare alla definizione: «Osserviamo allora la differenza tra i re e tutti gli altri pastori» (Politico 267e) 3.1.4. il metodo della giusta misura della ricerca e del discorso e del doppio confronto che tale metodo (esigenza) comporta. Nel Politico la discussione intorno alla lunghezza o brevità, alla sovrabbondanza o al difetto della ricerca esposta trova soluzione nella seguente proposta: per decidere del grande e del piccolo come giudizio circa l’adeguato sviluppo della ricerca è necessario guardare sia alla relazione reciproca di eccesso e di difetto all’interno di una stessa arte, sia alla giusta misura in generale. La relazione reciproca per definire le categorie di maggiore e minore è di carattere scientifico (o teorica interna), la relazione del maggiore minore con la giusta misura è politica (o pratica ed esterna; è quello, credo, che Aristotele definisce il criterio della mesòtes, del giusto mezzo, come definizione di correttezza e pertinenza delle virtù etiche, quelle che si realizzano e formano nelle relazioni sociali). «LO STR. Dobbiamo quindi porli, questi rapporti, sia per il grande sia per il piccolo, come due modi di essere e due criteri di giudizio, mentre non dobbiamo ammettere invece, come dicevamo poco fa, che si debba parlare del grande e del piccolo ponendoli solo in relazione reciproca, e bisogna invece dire piuttosto, come or ora si è visto, sia della loro relazione reciproca, sia, d’altra parte, della loro relazione alla giusta misura. Vorremmo noi sapere perché? » (Politico 283e) «È chiaro che noi suddivideremo l’arte di misurare, come si disse, dividendola in due sezioni così e cioè ponendo una sua sezione formata da tutte le arti che misurano numero, lunghezza, altezza, larghezza, velocità in relazione a valori volta per volta opposti, e un’altra formata dalle arti per cui la misura ha senso in relazione alla giusta misura, al conveniente, all’opportuno, al dovuto, a tutto ciò che sta discosto dagli estremi e nel mezzo.» (Politico 284e) Solo dall’interno di una disciplina è possibile decidere se le sue parti sono trattate in eccesso o in difetto, ciò in forza di una relazione interna tra maggiore e minore. Dall’esterno di una disciplina invece, cioè in riferimento ad una giusta misura, è possibile misurare l’opportunità di una trattazione; questo esterno rimanda alla dimensione politico che possiede l’arte della misura del «conveniente… opportuno… dovuto … tutto ciò che sta discosto dagli estremi», cioè il giusto mezzo, la giusta misura. 3.1.5. il metodo che procede per esclusione e definisce il limite delle competenze del politico; si tratta di distinguere tra la politica che è causa dello Stato dalle altre arti che possono dirsi solo concausa: sono necessarie per l’esistenza dello Stato (perciò concausa) ma non ne sono causa (la definizione dei termini è dello stesso Platone, Politico 281e). L’elenco dei settori esterni al politico ha lo scopo ulteriore (al di là di una definizione teorica) di segnalare il limite del politico, indicando con chiarezza ciò che non è di sua competenza. Si tratta di una distinzione che, dunque, 1. permette di definire per esclusione l’area dell’arte di governo, 2. delinea la concezione dell’arte politica come competenza che deve tendere al minimo e alla giusta misura. Catalogare per togliere è 1. definire con il modus tollens e 2. permettere il passaggio dal massimo al minimo. Qui la scelta di metodo per la ricerca, ancora una volta, si traduce in carattere dell’oggetto cercato, in definizione della dinamica e del modo di essere giusto dello Stato. L’elenco comprende sette generi: «…detti da noi concause, insieme alle loro opere or ora elencate sono stati allontanati e distinti dall’attività propria del re e del politico.» (Politico 289cd) 3.1.6. il metodo del confronto tra le costituzioni, del ruolo in esse delle leggi e dell’arte di governo. 3.1.6.1. Questa strada di ricerca (quasi di diritto comparato) richiede di essere preparati a incontrare anche le prassi più nocive e più assurde. «LO STR. Sì; perché l’assurdo sorge nella coscienza di tutti dalla ignoranza. E infatti io stesso proprio anche ora subii questa affezione; da un momento all’altro fui preso da smarrimento mentre guardavo il coro che si muove intorno agli affari dello stato. SOCR. IL G. Ma che cosa hai visto? LO STR. L’imbroglione più grande fra tutti i sofisti e il più esperto in quest’arte, colui che dobbiamo distinguere, anche se distinguerlo è difficilissimo, da quelli che sono davvero uomini politici e regi, se vogliamo vedere con chiarezza l’oggetto della nostra ricerca.» (Politico 291bc) Nel coro che si muove intorno allo Stato con pretese di gestione politica ma corrompendone la funzione e contendendo al re il proprio ruolo si collocano, menzionati da Platone: 3.1.6.1.1. i “malvagi sapienti” intellettuali e consiglieri del politico che, come osserva nel dialogo Repubblica… «Non hai mai pensato quanto sia penetrante lo sguardo dell’animuccia propria dei cosiddetti malvagi sapienti? e quanto acutamente discerna gli oggetti cui è rivolta, appunto perché è dotata di vista non mediocre, ma è costretta a servire alla loro cattiveria sì che i mali da essa prodotti sono tanto più numerosi quanto più acuto è il suo sguardo? — Senza dubbio, rispose.» (Repubblica 519a) 3.1.6.1.2. “araldi”, scribi valenti, esperti nelle pratiche pubbliche che ne rallentano e bloccano la funzione: «è da queste parti che compariranno i più vivaci contestatori dei diritti dell’arte politica. Benché potrebbe apparire assurdo del tutto cercar questi obiettori fra i servi dell’una o dell’altra condizione» (Politico 290b) 3.1.6.2. le costituzioni e il loro doppio. Le Costituzioni sono le forme organiche dell’arte di governare secondo conoscenza e scienza; di esse, del loro sviluppo e della loro ciclica (fatale?) corruzione Platone si è occupato nel dialogo Repubblica. Qui il tema della loro evoluzione viene messo in luce dalla logica interna del loro doppio, della loro doppiezza: si coglie il loro mutare e il loro degenerare tenendo presente il loro doppio, cioè: «rivolgendo la loro attenzione alla costrizione violenta e alla libera accettazione» (Politico 291e) quantità costrizione violenta libera accettazione Uno Tirannia Regno Pochi Oligarchia Aristocrazia Molti (demagogia ?) Democrazia In tale quadro prende forma un quesito centrale: «questo noi dobbiamo ora esaminare e cioè in quale mai delle predette costituzioni accade che trovi espressione concreta la scienza dell’esercizio del potere sugli uomini, scienza che direi la più difficile a possedersi e pure la più importante» (Politico 292). A deciderlo sono due elementi: le leggi (il loro numero la loro natura), l’arte di governo (la sua presenza reale o la sua simulazione). 3.1.6.2.1. le leggi. La posizione è articolata: 3.1.6.2.1.1. sono indispensabili: «darà leggi ai molti, io credo, e genericamente e in certo senso, così, in modo grossolano per quanto riguarda ciascun individuo» (Politico 295a) 3.1.6.2.1.2. non sono naturalmente (per loro stessa natura) nelle condizioni di pretendere per sé l’arte di governo (o la sede del politico, la definizione del politico): 1. in quanto sono universali e tendenzialmente “immobili” (o più immobili certo del vivere) non sono in grado di recepire e rispondere alle molte differenze e esigenze reali; 2. in quanto, e per definizione e nascita, le leggi e le costituzioni sono sempre «imitazioni della verità» (Politico 300c), «imitazioni di quella vera costituzione…» (Politico 301a). Un’imitazione stretta tra due estremi: a. inseguono la realtà, altrimenti non servirebbero; b. si ispirano alle leggi giuste (giuste per definizione, per logica e scienza, quindi ideali), e queste non sono mai le leggi date, che sono obbligate infatti a piegarsi alla gestione del contingente; fa testo, in tal senso, anche l’urgenza di comporre, nell’arte di governo, due virtù: fermezza (audacia, l’essere valorosi) e saggezza (temperanza) (Politico 309c-311c) «Ma la cosa migliore non è che abbiano forza le leggi, ma invece l’uomo che è re intelligente. Sai perché? SOCR. IL G. Perché? LO STR. Perché una legge non potrebbe mai, comprendendo in sé con esattezza ciò che è migliore e insieme più giusto per tutti, a tutti impartire le ingiunzioni secondo il meglio. Infatti le dissomiglianze degli uomini e delle loro azioni e il fatto che mai nulla, diremo, di ciò che è uomo è immobile non permettono che nessun’arte, quale si sia, enunci nulla di semplice che sia immediatamente valido per tutti i casi e per tutto il tempo, in nessun campo. Possiamo dunque dire di essere d’accordo in ciò? SOCR. IL G. Certo.» (Politico 294ab) 3.1.6.2.2. l’arte di governare e la relazione alle leggi; a tale proposito la doppia, antinomica (apparentemente) osservazione: 3.1.6.2.2.1. l’esercizio di ogni arte è consegnata a leggi e al loro rispetto; occorre denunciarne la mancata osservanza: «se uno risulterà compiere una ricerca sull’arte di pilotare e sul navigare o sulla conservazione della salute e… tutto ciò in modo contrastante alle leggi scritte e darà prova di cavillare in qualche modo su queste cose … dopo averlo denunciato lo porti così davanti a un tribunale come corruttore degli altri più giovani e istigatore…» (Politico 299b) 3.1.6.2.2.2. tuttavia imporre e attenersi solo al rigoroso e rigido rispetto delle leggi scritte determina la morte di ogni arte. Considerata la naturale incapacità delle leggi a gestire la complessità del sociale e per la sua impossibilità a comporre in uno, in armonia, le diversità sociali e il loro mutare continuo «nulla di ciò che è uomo è immobile» (Politico 294b), occorre riconoscere una certa autonomia e superiorità dell’arte e della ricerca nei confronti delle leggi (una volta che queste sono rispettate). Dopo aver richiamato una lunga serie, ed eterogenea, di arti: navigazione, medicina, agricoltura, pittura, architettura, caccia, veterinaria, scacchi, l’arte dei numeri… si ragiona così: «che cosa mai sarebbe di tutto ciò se fosse sottoposto a tale regime, se tutto ciò dovesse appunto seguire le leggi scritte e non l’arte? SOCR. IL G. È chiaro che tutte le arti, completamente, noi verremo a perdere, e neppure in seguito mai tornerebbero ad essere a causa di questa legge che impedirebbe ogni ricerca; e così la vita, che anche ora è difficile, allora diventerebbe assolutamente insopportabile.» (Politico 299e 300a) 3.1.6.2.3. quale è la migliore delle costituzioni? 3.1.6.2.3.1. la preferenza va all’uno, al regno ove l’unità è posta nelle condizioni migliori per possedere ed esercitare l’arte di governo e garantire «la presenza di una scienza» (Politico 292c) «sia chiamato “re” … chi possiede almeno la scienza regia» (Politico 292e293a) È la tesi fortemente sostenuta in tutta la Repubblica; non è dunque questione di dinastie o di elezioni, ma di competenze nel ruolo politico del governare, che, per Platone, opera per se stessa, con leggi o senza leggi (cfr (Politico 293c); l’unità qui non indica dunque un assetto istituzionale ma un progetto politico capace di garantire l’armonia e le differenze; l’armonia dal conservarsi e comporsi delle differenze «l’arte regia, per comunione d’intenti e per via d’amicizia riconducendo ad unità l’indole degli uomini valorosi e dei temperanti […]…Senza che ambedue questi tipi di uomini convivano insieme è impossibile che qualsiasi cosa riesca bene in uno stato» (Politico 311b, testo ripreso al termine); uomini presentati, secondo l’arte della divisione (per la conseguente sintesi), come tra loro opposti, nell’antitesi: audacia, saggezza. 3.1.6.2.3.2. il punto prospettico di arrivo è ancora una società con il numero più ridotto di leggi (Stato sobrio anche nelle leggi; Repubblica) e, all’estremo vertice, l’anomia garantita dalla universale uguaglianza e partecipazione di tutti alle risorse naturali, in sobrietà e senza la corruzione creata dal lusso (legando Repubblica, Politico e …la filosofia dei cinici); torna la nostalgia dell’armonia politica che contrassegna, secondo il mito, il primo ciclo della storia dell’umanità (da usare con cautela visto l’invito di Platone a non creare interferenze tra i due opposti cicli cosmici e storici - a gestione divina, a gestione umana - la prima certo più discreta della seconda e quindi modello per la seconda). 3.1.6.2.4. le riserve nei confronti di un governo consegnato a molti (democrazia? Democrazia diretta?) e la sua natura (ideale) di costituzione migliore. «LO STR. Dico ancora che una moltitudine, in nessun caso, quale si sia la sua composizione, mai diventerebbe capace di organizzare razionalmente uno stato per aver conquistato la scienza di cui parliamo; noi dobbiamo invece ricercare là dove vi è un potere limitato, di pochi, quell’unica costituzione che è la retta costituzione e dobbiamo considerarne imitazioni le altre, come anche poco fa fu affermato, le une imitazioni nel meglio, le altre nel peggio.» (Politico 297bc) 3.1.6.2.4.1. La deriva della democrazia sottoposta a un doppio rischio: 1. cadere vittima della demagogia: nei dialoghi Gorgia, Protagora, sotto l’abilità dell’arte retorica a gestione “sofistica”, del «sofista chiacchierone» (Politico 299b) «uomini sediziosi, che presiedono alle più grandi immagini illusorie di costituzione e sono illusoria immagine essi stessi, grandissimi imitatori e ciurmatori, sì che sono massimi sofisti tra i sofisti» (Politico 303c); 2. cadere vittima della tirannia: nel dialogo Repubblica. 3.1.6.2.4.2. Ma in un regime in cui le leggi non si rendessero necessarie (di nuovo il mito dell’anomia) la democrazia diventa la costituzione migliore. «Supera ogni altra cosa vivere in democrazia dovendo scegliere fra costituzioni che siano tutte prive della disciplina della legge, ma essendo invece ordinate nella legge non è per nulla accettabile vivere in essa, molto preferibile e migliore è star nella prima [monarchia, diremmo illuminata], non considerando la settima; questa infatti da tutte è da separare, come la divinità dagli uomini, dico da tutte le altre costituzioni.» (Politico 303b) 3.2. la definizione del “politico” «LO STR. E quella che su tutte queste governa e cura le leggi e tutte le cose dello stato e tutto contesse in modo perfetto, raccogliendo, colla denominazione di ciò che v’ha di comune in tutto questo, tutta la sua capacità, sarebbe giustissimo, come pare, che noi la chiamassimo ‘politica’. SOCR. IL G. Assolutamente giusto.» (Politico 305e) 3.2.1. intreccio di natura, leggi e arte in legame armonico di elementi dissimili tra loro e che senza educazione, leggi ed arte andrebbero in opposte direzioni portando a dissoluzione il tessuto dello Stato: «LO STR. Solo invece in coloro che fin da principio nati di nobile indole sono stati allevati secondo la loro natura, solo in essi quel legame si può ingenerare mediante l’aiuto delle leggi, e così per loro vale come rimedio creato dall’arte; e, come dicemmo, questo è il legame più divino fra parti della virtù per natura dissimili fra loro e per natura portate verso opposte direzioni.» (Politico 310a) 3.2.2. e l’intreccio tra saggezza e valore come tra trama e ordito di un tessuto (metafora molto sfruttata per la definizione della società divenuta stato e per l’arte di governo, arte del tessitore): «LO STR. In questo stesso modo allora mi pare che l’arte regia conservando in sua mano la funzione propria dell’arte di presiedere non permetterà a tutti coloro che nei limiti della legge curano la educazione e l’allevamento dei giovani di esercitarli in azioni compiendo le quali non si plasmino costumi di vita che convengano all’intreccio proprio dell’arte stessa, mentre invece proprio in questo modo solo inviterà ad educare. E quelli che non sono in grado di partecipare di un costume di vita valoroso e saggiamente temperante e di quant’altro c’è che tenda alla virtù, ma sono respinti verso l’ateismo, la sregolatezza, l’ingiustizia dalla violenza di una natura malvagia, questi, punendoli con la morte, coll’esilio, con la pena dell’estremo disonore, quell’arte scaccia dallo stato.» (Politico 308e309a) 3.2.2.1. con strategie di “biopolitica” (in ripresa): «LO STR. Non dobbiamo dire dunque che mai quel legame e intreccio sarà duraturo se avviene fra cattivi o fra buoni e cattivi, che non c’è scienza alcuna che possa seriamente usarne mai in simili casi? SOCR. IL G. E come potrebbe infatti? LO STR. Solo invece in coloro che fin da principio nati di nobile indole sono stati allevati secondo la loro natura, solo in essi quel legame si può ingenerare mediante l’aiuto delle leggi, e così per loro vale come rimedio creato dall’arte; e come dicemmo, questo è il legame più divino fra parti della virtù per natura dissimili fra loro e per natura portate verso opposte direzioni.» (Politico 309e-310a) 3.2.2.2. con arte politica; qui opera l’immagine del tessuto: «LO STR. Io dicevo quindi che non è per nulla difficile stabilire questi legami quando ci sia la condizione per cui ambedue i generi d’anime di cui parliamo abbiano una sola comune opinione su ciò che è bello e buono. Questa sola infatti è tutta l’opera della tessitura del re, non permettere mai che il costume saggio e temperante si distacchi da quello dei valorosi, tesserli invece insieme per mezzo dell’unità d’opinioni, per mezzo di onori, di biasimi, di riconoscimenti laudativi, di scambi reciproci di garanzie, mettendo insieme da loro una stoffa liscia e, come si dice, «finemente tessuta» e così sempre affidare in comune a tali uomini i poteri negli stati. SOCR. IL G. Come? LO STR. Là dove ci sia bisogno di un solo magistrato, scegliendo come tale a presiedere uno che abbia ambedue le qualità; dove invece ci sia bisogno di più, mescolando una parte per ciascuna delle due categorie di uomini. Il costume infatti dei magistrati saggi temperanti è molto prudente, giusto, guida verso la salvezza, mancano essi però di veemenza, di una certa agilità e audacia, di iniziativa nell’azione. SOCR. IL G. Par giusto, almeno, anche questo. LO STR. I comportamenti dei valorosi dall’altra parte mancano, più di quegli altri, di giustizia e di prudenza, hanno invece nelle loro azioni audacia e prontezza d’iniziativa spiccatissime. Senza che ambedue questi tipi di uomini convivano insieme è impossibile che qualsiasi cosa riesca bene in uno stato, sia nella vita privata che in quella pubblica. SOCR. IL G. Come no, infatti? LO STR. Diciamo allora che questo è il compimento del tessuto, composto con retta tessitura, dell’arte politica: quando l’arte regia, per comunione d’intenti e per via d’amicizia riconducendo ad unità l’indole degli uomini valorosi e dei temperanti, realizza così il più sontuoso ed il migliore di tutti i tessuti, e, avvolgendone tutti gli altri, schiavi e liberi, nelle città, li tien stretti in questo intreccio, e regge e governa senza trascurar mai nulla di quanto conviene ad uno stato felice. SOCR. IL G. Tu, straniero, per parte tua ci hai compiutamente delineato, in modo perfetto, la figura di chi è re e uomo politico.» (Politico 310e-311c) 3.3. l’incastro generale della ricerca: il metodo adottato per la definizione dell’arte politica si rivela essere in realtà la definizione stessa dell’arte politica. 3.3.1. Quello che si presentava come il racconto del cammino percorso per cogliere e isolare, definire e ritagliare dal resto il politico si rivela essere una presentazione plurivoca ma non equivoca del politico stesso. Solo la pazienza analitica del dividere secondo coerenza logica, quindi seguendo il cammino delle antinomie, si traduce in scoperta delle differenze e quindi delle ricchezze, delle presenze e delle possibilità del sociale naturale e umano, contrassegnato, in quanto vivente, da una insopprimibile mutevolezza. 3.3.2. La divisione non è però arte politica in sé. Lasciata a se stessa dà vita a ipotesi sociali e politiche basate sul criterio della contrapposizione, dell’esclusione, del non riconoscimento; procedimenti identitari che si definiscono in base alla negazione, alla esclusione e alla voluta (spesso criminale, come nei genocidi fisici o culturali) dimenticanza. L’arte politica è conoscenza e scienza; nel primo movimento della riflessione per diairesis di Platone, essa viene infatti radicata sul primo troncone analitico, quello della conoscenza, non della semplice azione; se fosse solo azione sarebbe dipendente da teorie esterne (ideologie si direbbe oggi), pregiudizi e priva di progetto proprio e di consapevolezza del proprio fare; è conoscenza che si manifesta come arte del comandare in forza del conoscere e dell’essere scienza. In questo conoscere e gestire l’arte politica è la capacità di raccogliere, comporre con coerenza, conservare in armonia le diramazioni che innervano il sociale. [1] In conclusione, la politica è dunque un infinito (sempre aperto e mai terminato) lavoro di scoperta analitica delle differenze e del loro coordinamento, ispirato alla giusta misura e al bene individuale e comune; le diversità arricchiscono se integrate: «Ora, noi crediamo di plasmare lo stato felice non rendendo felici nello stato alcuni pochi individui separatamente presi, ma l’insieme dello stato.» (Repubblica 420c) E questa è la definizione di democrazia. «Klaus Eder nel suo recentissimo saggio The Transformations of the Public Sphere and Their Impact on Democratization elabora e dimostra una teoria dell’evoluzione della “sfera pubblica” partendo da una concezione processuale della democrazia: lo stesso termine “democratizzazione” usato da Eder implica nella sua essenza linguistica di nomen actionis una continuità, che lo studioso interpreta come “a permanent process of being defined and redefined”. La continua definizione e ridefinizione della direttrice di tale processo dipende da fattori interni al processo stesso – fattori che possono ugualmente far progredire o regredire il processo di democratizzazione. E, per Eder, “public spheres are the key to explaining the self-rectifying dynamic of democratization”, poiché esse permettono, attraverso la proposta, la comunicazione e il dibattito di contenuti, idee, significati e valori, lo sviluppo di legami intersoggettivi tra singoli individui: la creazione, cioè, del demos “which is supposed to govern”.» (Klaus Eder, The Transformations of the Public Sphere and Their Impact on Democratization, in La democrazia di fronte allo stato. Una discussione sulle difficoltà della politica moderna, a cura di Alessandro Pizzorno, Milano, Feltrinelli, 2010.) Andrea Beretta, La sfera pubblica e la democrazia. Coimplicazioni processuali, Tesi Scuola Superiore IUSS, 2011 [2] In conclusione, riprendendo il tema del saggio tessitore al termine del disegno storico e catalogatore presentato da Platone nel Politico. La riflessione è di Peter Sloterdijk, al termine di una vivace presentazione del metodo e del viaggio compiuto da Platone nel dialogo il Politico: dal saggio sesto: Regole per il parco umano. Una risposta alla Lettera sull’“umanismo” di Heidegger, in Sloterdijk Peter 2001 Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger, Bompiani, Milano 2004 «“Diciamo allora che questo è il compimento del tessuto, composto con retta tessitura, dell’arte politica: quando l’arte regia, per comunione d’intenti e per via d’amicizia riconducendo ad unità l’indole degli uomini valorosi e dei temperanti, realizza così il più sontuoso e il migliore di tutti i tessuti, e, avvolgendone tutti gli altri, schiavi e liberi, nelle città, li tien stretti in questo intreccio.” (Platone, Politico, 311bc) Per il lettore di oggi che guarda indietro ai ginnasi umanistici dell’epoca borghese e all’eugenetica nazista e contemporaneamente getta già uno sguardo verso l’epoca biotecnologica, è impossibile misconoscere l’esplosività di queste riflessioni. Ciò che Platone afferma per bocca del suo straniero è il programma di una società umanistica che prende corpo in un singolare umanista assoluto, il signore dell’arte pastorale regia. Il compito di questo superumanista non sarebbe altro che la pianificazione delle caratteristiche di una élite che deve venir allevata proprio per volontà della totalità. Rimane da considerare una complicazione: il pastore platonico può essere un custode dell’uomo degno di fiducia solo perché incarna la figura terrena dell’unico pastore originariamente vero, cioè di dio, che in tempi lontani, e cioè sotto la signoria di Cronos, era il diretto custode degli uomini. Non si deve dimenticare anche che in Platone dio viene chiamato in causa solo come il più originario custode e allevatore dell’uomo. Ora però, dopo il grande sovvertimento (metabolé), dopo che sotto la signoria di Zeus gli dèi si sono ritirati e hanno lasciato agli uomini la responsabilità di custodire se stessi, resta, come il custode e l’allevatore più degno, il saggio, nel quale è più vivo il ricordo della visione celeste del bene assoluto. Senza l’immagine guida del saggio la cura che l’uomo ha dell’uomo rimane una passione inutile. Dopo duemilacinquecento anni di effetto-Platone, ora sembra che non solo gli dèi, ma anche i saggi si siano ritirati, e che ci abbiano lasciati soli, con la nostra sconsideratezza e le nostre mezze conoscenze su tutto. Al posto dei saggi ci rimangono solo i loro scritti, nel loro chiarore fioco e nella loro crescente oscurità. Si trovano ancora in edizioni più o meno accessibili, e potrebbero venire ancora letti se soltanto si sapesse perché si dovrebbe ancora leggerli. Il loro destino è di starsene in silenziosi scaffali, come lettere in giacenza, che nessuno andrà più a ritirare: immagini o illusioni di una saggezza cui i contemporanei non riescono più a credere, spediti da autori di cui non sappiamo più se possono essere ancora nostri amici.» (Sloterdijk 2001 p. 264-265)