1. All’origine il mito, la rivelazione, il frammento, l’aforisma 1. il tema del viaggio, un viaggio mitico iniziatico (Parmenide, Eraclito) e la filosofia frammento, aforisma ed enigma 2. il ritorno del viaggio, del frammento e dell’aforisma all’inizio della cultura contemporanea: 2.1. le parole di Zarathustra (Nietzsche) metodo per un pensare attuale lento e costruttivo 2.2. la storia per frammenti, materiale per un viaggio di costruzione: lo sguardo dell’Angelus Novus (Benjamin). 2.3. frammentazioni contemporanee senza viaggio e senza aforismi nei diffusi non-luoghi: sguardi sociologici in prospettiva «L’approccio oracolare alla psiche difende dalle sue smisurate profondità (Eraclito) con misure letterali. […] Laio è perseguitato non dall'oracolo ma dalla letteralità delle formulazioni archetipiche. » (Hillman James, 2007, Figure del mito, Adelphi edizioni, Milano 2012, 157, 156) 1. il tema del viaggio, un viaggio mitico iniziatico (Parmenide, Eraclito) e la filosofia frammento, aforisma ed enigma L’inizio della filosofia (della filosofia occidentale antica considerata classica) si presenta come racconto di viaggi che risulteranno viaggi di iniziazione ma soprattutto, nascita e definizione della stessa filosofia. Nelle sue origini ormai “mitiche” la filosofia si presenta nella sua essenza frammentaria nelle forme di una rivelazione e illuminazione tra aforisma ed enigma. L’ambientazione ha i tratti propri del mito. Il racconto presenta il viaggio come evento sacro e unico per la meta verso cui si volge, per i simboli di cui si veste, per le parole che vengono consegnate all’iniziato. Il richiamo va a due autori a cui principalmente la tradizione fa risalire l’inizio della filosofia greca “occidentale”: Parmenide, Eraclito. Una filosofia che appare da subito come una rivelazione a noi trasmessa per frammenti. Essa ha la forma del frammento per ciò che ci viene trasmesso forse fortuitamente, ma è frammento perché è oracolo, principio, massima, aforisma, detto, verità per lo più nascosta, che non dice ma indica, apre la strada e mostra la direzione; come un enigma. La natura frammentaria della filosofia delle origini, tra fatto storico casuale o fatale, si trasforma tuttavia da subito in evento che svela la natura propria del testo filosofico, il suo essere necessariamente, e non per caso storico, frammento e cammino. E svela anche la natura delle origini, il loro essere principio perenne e non un evento consegnato al passato; così come è proprio del mito che racconta fatti dell’origine che non sono comparabili ad altri fatti storici, in quanto gli eventi dell’origine accadono una volta per tutte. Secondo la formula volutamente paradossale di Plutarco, “non sono mai accaduti perché accadono sempre”. La loro lontananza, la loro mancanza è un fatto costituente, ne determina l’accadere, il riaccadere in forme che non si presentano come un ripetere ossessivo. Anche dal punto di vista della ricerca e della riflessione, immaginativa e razionale, la volontà di toccare il centro del problema coincide con il precipitare alle origini. Le parole che le richiamano si presentano nella forma di un “detto primitivo” che assume il carattere di una sentenza o di un enigma da decifrare. Hanno il carattere di una rivelazione, di un detto che decreta, legifera, aforizza; è parola della divinità ed è quindi oracolo che si presenta con una irrisolta oscurità allusiva. 1 1.1. Parmenide: il racconto di un viaggio mitico verso la divinità e la rivelazione filosofica. «[Frammento 1.] Le cavalle che mi trascinano, tanto lungi, quanto il mio animo lo poteva desiderare mi fecero arrivare, dopo che le dee mi portarono sulla via molto celebrata che per ogni regione guida l’uomo che sa. Là fui condotto: là infatti mi portarono i molto saggi corsieri che trascinano il carro e le fanciulle mostrarono il cammino. L’asse nei mozzi mandava un suono sibilante, tutto in fuoco (perché premuto da due rotanti cerchi da una parte e dall’altra) allorché si slanciarono le fanciulle figlie del Sole, lasciate le case della Notte, a spingere il carro verso la luce, levatisi dal capo i veli. Là è la porta che divide i sentieri della Notte e del Giorno, e un architrave e una soglia di pietra la puntellano: essa stessa nella sua altezza è riempita da grandi battenti, di cui la Giustizia, che molto punisce, ha le chiavi che aprono e chiudono. le fanciulle allora, rivolgendole discorsi insinuanti, la convinsero accortamente a togliere per loro la sbarra velocemente dalla porta. La porta spalancandosi aprì ampiamente il vano dell’intelaiatura, i robusti bronzei assi facendo girare nei loro incavi uno dopo l’altro: gli assi fissati con cavicchi e punte….. [Frammento 2.] Orbene ti dirò e tu ascolta attentamente le mie parole, quali vie di ricerca sono le sole pensabili: l’una che è e che non è possibile che non sia, è il sentiero della Persuasione giacché questa tien dietro alla Verità; l’altra che non è e che non è possibile che non sia, questa io ti dichiaro che è un sentiero del tutto inindagabile: perché il non essere né lo puoi pensare (non è infatti possibile) né lo puoi esprimere. [Frammento 6.] Bisogna che il dire e il pensare sia l’essere: è dato infatti essere mentre nulla non è; che è quanto ti ho costretto ad ammettere. Da questa prima via di ricerca infatti ti allontano, eppoi inoltre da quella per la quale mortali che nulla sanno vanno errando, gente dalla doppia testa. Perché è l’incapacità che nel loro petto dirige l’errante mente; ed essi vengono trascinati insieme sordi e ciechi, istupiditi, gente che non sa decidersi, da cui l’essere e il non essere sono ritenuti identici e non identici, per cui di tutte le cose reversibile è il cammino. [Frammento 7] Perché non mai questo può venir imposto, che le cose che non sono siano: ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero.» [ipotesi di commento] Per molto tempo avrebbe parlato di quel viaggio; arrivò infatti a dedicarvi un lungo poema in versi raffinati e parole nuove, ma la dea aveva riservato per lui un discorso difficile. 2 Su di un carro trascinato da accorte cavalle, bellissime fanciulle, figlie del sole, lo conducono lontano dalle strade frequentate da gente comune, guidandolo “sulla via molto celebrata che per ogni regione guida l’uomo che sa”; l’incontro con la dea è un rito solenne, preceduto da rigorosi esami, ma le parole rivolte al giovane Parmenide, affinché “in tutti i sensi tutto indaghi”, sono oscure: “Io ti dirò e tu ascolta attentamente le mie parole, quali vie di ricerca sono le sole pensabili: l’una che è e che non è possibile che non sia… l’altra che non è e che non è possibile che non sia..” Parole autorevoli ma oscure, quanto basta per dare inizio alla lunga corte degli interpreti, ancora oggi in circolazione e in affanno. Ma, forse, la consegna della dea è chiara: il compito è la ricerca, il campo è la realtà, il fine è la verità, fino a quando “il dire e il pensare siano l’essere”. Alla fine, a scenario cambiato, i tratti austeri della divinità sono i caratteri dell’essere: “ingenerato e anche imperituro, tutt’intero, unico, immobile e senza fine”. In altri termini, l’essere è il campo del benessere; tra loro sono in stretta relazione: non si può parlare di benessere senza avere chiara l’idea di essere in cui si è collocati, dal luogo in cui si vive e che ci forma, agli altri con i quali entriamo in relazione e cura (Parmenide era anche medico e guaritore), all’ambiente che si offre allo sguardo, alla mano (Parmenide era uno scienziato tecnico e un accanito osservatore della natura). Note 1.1.1. del viaggio o della cesura, della distanza e dello sguardo che scopre e conosce. Il tema del viaggio è all’origine della formazione di tutte le unità collettive sociali: comunità, popoli, nazioni, Stati … e, in questi contesti, diventa esperienza individuale di formazione e scoperta di sé. Il viaggio diventa allora il racconto di origine, dunque un mito di fondazione. Si tratta di un viaggio di allontanamento, di presa di distanza dalle abitudini e dai luoghi comuni ed è, da questo punto di vista, un viaggio che non permette ritorno; è partenza o ripartenza pura. In quanto allontanamento è un viaggio di frammentazione [frammento 1] di ciò che viene comunemente condiviso e la cui validità si basa solo sull’accettazione diffusa, abitudinaria e irriflessa; viaggio che si accompagna ad una caduta di veli dagli occhi e dalla mente, poiché il distacco da ciò che è consueto nella sua non motivazione viene sospeso da una nuova rivelazione: uno sguardo, uno squarcio, una consapevolezza nella forma di frammento [frammento 2] che diventa varco e apertura. Per questa sua natura di manifestazione e scoperta il viaggio ha come una doppia valenza: si tratta di una investitura identitaria, ma che conserva tuttavia anche il tratto del frammento; una rivelazione, un aforisma che «non dice né nasconde, ma indica.» (Eraclito, 93). Esperienza di viaggio e frammento che possiede ad un tempo la capacità direttiva ma anche la precarietà propria dell’apertura di un processo messo in atto ma tutto da percorrere e costruire. Frammento che resta sempre nelle forme di un viaggio e viaggio che, consegnato a diversi percorsi, è destinato a restare fedele alla propria dimensione dinamica di cammino, pena la negazione della sua natura e del suo stesso avvio (un viaggio se non prosegue, si rivela una falsa partenza). 1.1.2. si tratta di una iniziazione (dai forti tratti mitici) 1.1.2.1. Si impone con evidenza l’analogia strutturale con l’inno alle Muse che fa da proemio alla Teogonia di Esiodo: il canto passa dalle Muse a Esiodo. Alla Musa di cui si parla in terza persona si sostituisce in una diretta presenza del poeta che si presenta come colui che ha ricevuto dalle Muse il canto (sono in ciò decisivi i versi 22-25.) «Esse (le Muse) una volta insegnarono a Esiodo un bel canto mentre pasceva gli armenti sotto il divino Elicona: questo discorso innanzitutto a me rivolsero le dee [...]» Le parole di inizio sono guida nella loro corretta forma grammaticale e sintattica: «Μουσάων ἀρχώμεθα, «cominciamo dalle Muse» - o, meglio, se si tiene conto della forma media e non 3 attiva del verbo: «Dalle Muse è l’inizio, dalle Muse iniziamo e siamo iniziati»; le Muse, infatti, dicono con voce concorde «ciò che è stato, ciò che sarà e ciò che fu» e il canto «scorre soave e instancabile dalle loro bocche» (vv. 38-40)» (Agamben 2016, 136) 1.1.2.2. Come nel testo di Esiodo, nel Poema di Parmenide, la Dea inizia il giovane Parmenide alla parola; la Dea dona la parola. Nei due casi è una parola che proviene dalle cose stesse. Quella parola si presenta come «il dischiudersi e il comunicarsi dell’essere». (Agamben 2016, 144) L’evento si realizza nello stile delle Muse e della rivelazione. Osserva Properzio (ca. 5016 a.C.) Elegie: “non datur ad Musas currere lata via”; “non è concesso correre dalle Muse per una via larga” (III, 1, 14). 1.1.3. si tratta del mito: nota sugli eventi delle origini e sul tempo del mito. Si tratta di eventi ai quali si riconosce il carattere di fondazione di una nuova realtà. Sono fatti dell’origine e, come tali, essi vengono riconosciuti nel loro ruolo da uno sguardo storico retrospettivo, eziologico, teso alla ricerca di un principio che serva a connettere e porre in sequenza i fatti che, a partire da quelli e collocati in una sequenza lineare, acquistano senso, vengono definiti e individuati come storici (la storia, infatti, non è l’insieme di tutti i fatti che materialmente accadono, ma di quelli che si collocano all’interno di una linearità discorsiva legata e, in qualche modo, consequenziale). I fatti posti all’inizio non sono, in senso stretto, storia ma ne costituiscono l’origine; è solo il tempo successivo, storico, che da essi dichiara di prendere avvio, ad attribuire loro il carattere di origini. Il tempo che li caratterizza corrisponde alla loro natura di fondamento. Mentre i fatti storici si susseguono secondo una certa linearità (diversificata secondo il variare delle visioni della logica storica), hanno una data precisa, un inizio e una fine, i fatti delle origini invece sono accaduti “una volta per tutte” (il termine greco che indica una simile temporalità è “ephàpax”), o, come afferma Plutarco, non sono mai accaduti perché accadono sempre. Sono questi fatti a costituire l’oggetto del mito e per definizione il mito è discorso delle origini. Ricompare nel mito la natura paradossale del camminare, riportata al massimo della sua essenzialità. Il fatto delle origini, del mito, accade sempre: 1. è cioè unico e in ciò dotato di massima stasi e stabilità, 2. è presente nell’intera durata di un camminare e lo regge unitariamente, in ciò dotato della massima infinità storica (di una eternità temporale). La temporalità propria del mito è quella appunto di essere sempre presente secondo una temporalità strutturale che è insieme esterna e immanente al tempo storico. Riti collettivi e narrazioni epiche richiamano i fatti del mito e diventano il modo per riattualizzarne nel richiamo e nel ricordo l’efficacia fondativa storica. 1.1.4. si tratta del metodo. Il cammino che, superati tanti ostacoli, doveva condurre alla verità si incontra con parole misteriose che non dicono ma indicano. Il viaggio stesso non è più un mezzo per raggiungere la verità ma si rivela come uno stare nella situazione della verità; un viaggio in sé che si presenta come essere per strada: μετά ὁδός, μέθοδος, diventa cioè metodo. È anche definizione della filosofia; è la sua presentazione nella forma di un cammino. La filosofia non è un insieme di verità, ma è metodo e cammino. Ciò che si raggiunge non è meta ma frammento per una filosofia in cammino, viaggio che non termina, ma non diventa nemmeno errabondo, tornando sui suoi passi, timoroso del procedere come accade invece a «mortali che nulla sanno vanno errando, gente dalla doppia testa. Perché è l’incapacità che nel loro petto dirige l’errante mente; ed essi vengono trascinati insieme sordi e ciechi, istupiditi, gente che non sa decidersi, da cui l’essere e il non essere sono ritenuti identici e non identici, per cui di tutte le cose reversibile è il cammino.» (Parmenide Fr. 6) 1.1.5. Una rivelazione frammento/aforisma che propone uno sguardo totale: l'essere. « Bisogna che il dire e il pensare sia l’essere: è dato infatti essere mentre nulla non è; che è quanto ti ho costretto ad ammettere.» (Fr. 6) 4 Impegnata nel costituire un linguaggio specifico con cui esprimere le sue categorie e i suoi principi, la filosofia greca dei primi secoli riesce a elaborare una propria terminologia che le consente di dare forma ai concetti astratti e universali, oggetto della sua riflessione, espressi in termini comuni capaci di unire l’idea e il sensibile, di trasformare un segno in denotazione. Presupposti necessari per questa elaborazione sono: 1. la capacità razionale di sollevarsi al di sopra del dato concreto e parziale, di pensare in modo astratto (per esempio di arrivare a concepire «l'uomo» come astrazione e non come individuo dall'identità determinata, «questo uomo», «Socrate»); 2. la possibilità linguistica di esprimere un concetto astratto: condizione resa possibile dalla presenza, nella lingua greca, dell'articolo determinativo. Grazie a esso un nome comune, un aggettivo, un verbo possono diventare concetti astratti: facendo precedere il nome dall'articolo determinativo, «cavallo» inteso come ente particolare diventa «il cavallo», il concetto di cavallo; un gesto «giusto» conduce a «il giusto», all'idea di giustizia. Il termine essere, che nel testo di Parmenide compare sia nella forma «che è» (estí, fr. 2), sia nelle forme «l'ente» (tò ón) e «l'essere» (tó éinaì) (frr. 4, 6, 7, 8), indica la massima astrazione: con essa Parmenide supera l'immediata molteplicità delle singole cose visibili (espressa sino ad allora con il termine plurale «le cose che esistono» tà ónta), per spingersi oltre ciò che è visibile, particolare e giungere a ciò che è pensabile solo in termini generali, universali. Il verbo essere, che sino ad allora aveva avuto la semplice funzione di legare il soggetto al suo predicato, diviene ora nel testo di Parmenide soggetto unitario e totale con propri attributi reali e vincoli logici. Questo soggetto non è individuale, né concreto, e può essere colto solo da uno sguardo che è in grado di sollevarsi al di sopra dei sensi. Con un processo di astrazione che gli consenta di staccarsi dalle cose particolari (questo oggetto con queste qualità, questo tavolo che è di pietra e si trova sotto questo portico) il filosofo può infatti giungere a pensare quel fondamento generale, unico, universale che è l'essere. L’essere diventa ontologia 1.1.6. Il principio di verità della parola. Parmenide segnala la capacità della parola di rimandare alla realtà, a tutta la realtà. Sul rimando alla realtà la parola umana fonda la propria intenzionalità: la parola esiste come rimando; è una realtà ad un tempo debole, perché esiste e scompare nel rimandare, forte in quanto ciò che esiste, esiste per l’uomo in quanto indicato, segnalato, intenzionato dalla parola. Sul rimando della parola alla realtà, quindi sulla sua intrinseca natura, ne fonda il vincolo d’uso: il tuo pensare e il tuo dire siano l’essere. Questa è l’enunciazione filosofica della verità. Verità che trova da subito una sede di carattere logico-conoscitivo e una sede di carattere etico: per conoscenza, logica ed etica, occorre custodire la parola nella sua essenza, cioè nel legame che essa conserva con la realtà. 1.1.6. 1. si tratta del diventare soggetto nell’umanità.«… il legame inscindibile che sembra legare l’umanità alla parola. Nella definizione che vuole che l’uomo sia il vivente che ha il linguaggio, l’elemento decisivo non è, secondo ogni evidenza, la vita, ma la lingua». (Agamben Giorgio, 2016, Che cos’è la filosofia?, Quodlibet, Macerata, 14) «Dobbiamo dunque guardare all’incomprensibile come a un'acquisizione esclusiva dell'homo sapiens, all'indicibile come a una categoria che appartiene unicamente al linguaggio umano. Il carattere proprio di questo linguaggio è che esso stabilisce una particolare relazione con l'essere di cui parla, comunque lo abbia nominato e qualificato. Qualsiasi cosa nominiamo e concepiamo, per il solo fatto di essere stata nominata è già in qualche modo pre-supposta al linguaggio e alla conoscenza. È questa l'intenzionalità fondamentale della parola umana che è già sempre in relazione con qualcosa che presuppone come irrelato». (Agamben, 2016, 15) 1.1.6.2. Il suo poema si presenta allora come un’iniziazione non tanto alla filosofia, come scienza e conoscenza o altre competenze, ma come iniziazione dell’uomo alla propria umanità. Iniziazione che si realizza attraverso il diventare soggetto. L’uomo è soggetto in senso etimologico letterale e sostanziale reale (ontologico), in quanto sub-jectum: si sottopone, soggiace (ὑπόκειται diranno Platone e Aristotele) a qualcosa che viene scoperto, a cui si apre e 5 verso cui si dispone come presupposto; presupposizione terreno del rimando, dell’intenzionalità e della relazione. L’uomo è soggetto in quanto entra in relazione sulla base di due presupposizioni fondanti (tra loro legati). [1.] presupposto numero uno: il linguaggio, la parola presuppone la realtà, l’essere cui fa riferimento… su questa base la parola umana fonda la propria intenzionalità: «è già sempre in relazione con qualcosa che presuppone come irrelato», come primo. «L'essere è ciò che è presupposto al linguaggio (al nome che lo manifesta), ciò sulla cui presupposizione si dice ciò che si dice. La presupposizione esprime dunque la relazione originaria fra linguaggio ed essere, fra i nomi e le cose e la presupposizione prima è che vi sia una tale relazione. La posizione di un rapporto fra il linguaggio e mondo - la posizione della pre-supposizione - è la prestazione costitutiva del linguaggio umano così come la filosofia occidentale lo ha concepito: l'onto-logia, il fatto che l'essere si dica e che il dire si riferisca all'essere. Solo su questa presupposizione sono possibili la predicazione e il discorso: essa è il su- cui della predicazione intesa come λέγειν τι κατά τινος, dire qualcosa su qualcosa. Il «su qualcosa» (κατά τινος) non è omogeneo al dire qualcosa, ma esprime e, insieme, nasconde il fatto che, in esso, è stato già sempre presupposto il nesso onto-logico di linguaggio e essere - che, cioè, il linguaggio porti sempre su qualcosa e non parli a vuoto.» (Agamben, 2016, 17) [2.] presupposto numero due l’esistenza di una lingua, come sistema organizzato: «Parlare si può solo sulla presupposizione di una lingua. […] Tutto ciò che conosciamo della lingua, lo abbiamo appreso a partire dalla parola e tutto ciò che comprendiamo della parola, lo intendiamo a partire dalla lingua» (Agamben, 23); è la condizione della parola, condizione perché la parola sia tale, perchè la voce venga riconosciuta come parola e non resti un semplice suono. «Si rifletta sulla natura paradossale dell'ente di ragione chiamato lingua (diciamo ente di ragione, perché non è chiaro se esso esista nella mente, nei discorsi in atto o solo nei libri di grammatica e nei dizionari). Esso è stato costruito attraverso una paziente, minuziosa analisi dell'atto di parola, supponendo che parlare si possa solo sulla presupposizione di una lingua e che le cose siano sempre già nominate (anche se è impossibile spiegare - se non in modo mitologico - come e da chi) in un sistema di segni che si riferisce potenzialmente e non solo attualmente alle cose». (Agamben 2016, 22) Su questa base la distinzione tra parola e lingua, poiché è nel linguaggio che l’uomo ha accesso all’esperienza della voce (experimentum vocis – Agamben 2016, il primo saggio), “elemento decisivo” dell’umanità del soggetto. Parola nella voce ma non coincidente con la voce, questo è ciò che distingue l’uomo dall’animale; «Il linguaggio è nella voce, ma non è la voce: è nel luogo e in luogo di essa.» (Agamben, 30; così le tesi di Aristotele). Il soggetto è dunque definito dalla presupposizione linguistica e ontologica (e quindi dall’intenzionalità) per la sua struttura umana naturale e storica. Il viaggio narrato da Parmenide si configura come una iniziazione al «movimento ontologico della presupposizione: il senso è una presupposizione della denotazione e la langue una presupposizione della parole, così come l'essenza è una presupposizione dell'esistenza e la potenza una presupposizione dell'atto. » (Agamben 2016, 22-23); apre cioè un accesso all’essere (al senso che è denotazione del reale), e alla parola (alla lingua che rende possibile alla voce di diventare parola e non restare un mero suono senza senso, denotazione, scrittura [o grammatica]) e al proprio diventare soggetto umano, alla propria soggettività. Processo che coglie e segna il costituirsi di ogni senso comune attento al proprio progressivo divenire: «E come l'essere e la lingua restano presupposti al loro svolgimento storico, così la presupposizione determina anche il modo in cui l'Occidente ha pensato la politica. La comunità che è in questione nel linguaggio viene infatti presupposta nella forma di un apriori storico o di un fondamento…» (Agamben, 25) 1.1.6.2.1. «Si rifletta sul carattere particolare dell'evento antropogenetico di cui queste fratture sono la conseguenza: l'uomo accede alla sua natura propria - al linguaggio, che lo definisce come ζῷον λόγον ἔχον e animal rationale - solo storicamente, cioè 6 attraverso un tramandamento esosomatico. Se, infatti, questo accesso gli è precluso, egli perde la facoltà di apprendere il linguaggio e si presenta come un essere non propriamente o non ancora umano (si pensi agli enfants sauvages e ai bambini-lupo che hanno tanto inquietato l'età dei lumi). Ciò significa che nell'uomo - cioè nel vivente che accede alla sua natura solo attraverso la storia - umano e inumano si stanno di fronte senza alcuna articolazione naturale e che qualcosa come una civiltà può nascere solo a partire dall'invenzione e dalla costruzione di una articolazione storica fra di essi. La prestazione specifica della filosofia e della riflessione grammaticale sarà quella di individuare e di costruire nella voce il luogo di questa articolazione.» (Agamben, 29) Parmenide, con il suo lungo e sorvegliato viaggio (sotto il controllo della “Giustizia, che molto punisce”), è ammesso alla parola della dea. Una parola che appartiene ad un sistema linguistico da lui non prodotto e che si rivela essere presupposto del viaggio e acquisito in forza di una “tramandamento esosomatico”. Così Parmenide ottiene l’accesso alla parola; non si tratta della sola voce; egli colloca la propria voce facendosi soggetto di parola in un linguaggio che indica le proprie condizioni di validità e di verità: coerenza di regole linguistiche (senso), accordo con la realtà, con l’essere (denotazione). Per diventare soggetto che «in tutti i sensi tutto indaghi». 1.1.6.3. Il suo poema è un’iniziazione al senso della verità e alla esperienza del non dicibile, dell’indicibile, presente nella intenzionalità della parola e della mente. Si tratta della consapevolezza della intenzionalità colta nella relazione della parola all’essere (presupposto primo), al linguaggio (presupposto secondo). «Ma allora che cosa pensiamo quando pensiamo un essere interamente senza rapporto col linguaggio? Quando il pensiero cerca di afferrare l'incomprensibile e l'indicibile, esso cerca in verità di afferrare precisamente la struttura presupponente del linguaggio, la sua intenzionalità, il suo essere in relazione a qualcosa che si suppone esistente fuori dalla relazione. E un essere interamente senza rapporto col linguaggio possiamo pensarlo solo attraverso un linguaggio senza alcun rapporto con l'essere. […] … l'interpretazione (la ἐρμηνέια) dell'atto di parola attraverso la lingua, che rende possibile il sapere e la conoscenza, conduce in ultima istanza a una impossibilità di parlare. A questa struttura presupponente del linguaggio corrisponde la particolarità del suo modo di essere, che consiste nel fatto che esso deve togliersi per far essere la cosa nominata. […] Il linguaggio è ontologicamente debolissimo, nel senso che non può che sparire nella cosa che nomina, altrimenti, invece di designarla e svelarla, farebbe ostacolo alla sua comprensione. E, tuttavia, proprio in questo risiede la sua potenza specifica - nel suo rimanere impercepito e non detto in ciò che nomina e dice. […] E un essere debolissimo è non soltanto il linguaggio, ma anche il soggetto che in esso si produce e di esso deve in qualche modo venire a capo. Una soggettività nasce, infatti, ogni volta che il vivente incontra il linguaggio, ogni volta in cui dice io. Ma proprio perché si è generato in esso e attraverso di esso, è così arduo per il soggetto afferrare il proprio aver luogo. D'altra parte il linguaggio - la lingua - non vive e si anima che se un locutore lo assume in un atto di parola. La filosofia occidentale nasce dal corpo a corpo di questi due esseri debolissimi che consistono e hanno luogo l'uno nell'altro e l'uno nell'altro fanno incessantemente naufragio - e, per questo, cercano ostinatamente di afferrarsi e comprendersi.» (Agamben, 2016, 16, 23-24). Colto in questa direzione il viaggio di Parmenide si conferma come un viaggio filosofico sempre mitico, verso un’inattingibile ma necessaria (e fondativa) origine. 1.1.7. Si tratta di venire iniziati alla logica della non giustificazione e dunque della gratuità. «Essendo ingenerato è anche imperituro» (Fr. 8) 1.1.7.1. Cosa attira, quasi inesorabilmente, nel mito inteso come discorso delle origini? la ricerca di una giustificazione di sé, la difficoltà di stare di fronte all’esistenza come dato ingiustificabile. Alla “infondatezza dell’esistenza”, all’esistenza come mancanza di senso nel 7 suo darsi alla conoscenza, all’esperienza, come dato di fatto che non può esibire una giustificazione capace di legittimare il proprio esistere diverso dal suo semplice fatto di esistere, si oppone una ricerca ossessionata e ossessionante di una giustificazione applicata anche al fatto dell’esistere. Essa rappresenta una incapacità di avvertire e stare nella logica positiva della gratuità ingiustificata e non calcolante, della logica del dono come tratto che definisce l’esistenza o l’essere. Lo indica Parmenide presentando l’essere come “ingenerato e imperituro” e avvertendo come la ricerca di una causa dell’essere diventava un affacciarsi sul non-essere, sul nulla… strada «per la quale mortali che nulla sanno vanno errando, gente dalla doppia testa. Perché è l’incapacità che nel loro petto dirige l’errante mente; ed essi vengono trascinati insieme sordi e ciechi, istupiditi, gente che non sa decidersi, da cui l’essere e il non essere sono ritenuti identici e non identici, per cui di tutte le cose reversibile è il cammino» (Fr. 6). Mentre l’essere: «Essendo ingenerato è anche imperituro, tutt'intero, unico, immobile e senza fine. Non mai era né sarà, perché è ora tutt'insieme, uno, continuo. Difatti quale origine gli vuoi cercare? Come e donde il suo nascere? Dal non essere non ti permetterò né di dirlo né di pensarlo. Infatti non si può né dire né pensare ciò che non è. E quand'anche, quale necessità può aver spinto lui, che comincia dal nulla, a nascere dopo o prima?» (Fr. 8). 1.1.7.2. A partire dall’essere come “ingenerato e imperituro” e dal mito come discorso filosofico dell’origine che come tale resta ingiustificabile, Parmenide (interpretativamente) presenta la gratuità dell’esistere proprio nella sua fatticità non derivata e non giustificabile, la presenta come origine ed unica e quindi come perenne esperienza mitica. La logica che viene proposta non è quella della deduzione secondo causa e necessità (logica essenziale ma settoriale) ma quella della gratuità e dell’accadere. Nella sua ingiustificata e “mancanza di senso” essa si rivela progetto di senso, principio e fonte di un senso che porta a significato operativo l’esistere e lo pone nel campo delle relazioni simboliche. Il pensare deriva dall’essere e non viceversa. 1.1.7.3. Il tema della ingiustificabilità dell’esistere viene ripreso nell’età contemporanea da Martin Heidegger: «Più precisamente, in Essere e tempo l'evento della decisione confronta l'Esserci con la propria "gettatezza", con la sua fatticità costitutiva (Geworfenheit), con il suo essere "consegnato" all'essere. Si tratta di un atto che porta il soggetto ad assumere la propria infondatezza originaria, strappandolo dall'immedesimazione anonima ai sembianti sociali, al mondo della chiacchiera, all'impersonalità massificata e inautentica del "Si" (Man); si tratta della libertà radicale alla quale l'esistenza è ontologicamente vincolata.» (Recalcati Massimo 2016, Jacques Lacan, Volume II. La clinica psicoanalitica: struttura e soggetto, Raffaello Cortina editore, Milano, 71) Ciò che viene portato all’attenzione è «la mancanza di fondamento dell'esistenza umana, la sua esposizione alla contingenza illimitata della vita, l'impossibilità che essa possa divenire il fondamento di se stessa (ens causa sui). … la radice stessa dell’esistenza, la quale si sottrae, per principio, a ogni esplicazione ontologica definitiva.» (Recalcati 2016, 73) Non si tratta di nichilismo ma di apertura etica. Al centro dell’esistenza si pone quindi, eticamente e ontologicamente, la decisione (la Entschlossenheit); l’assunzione si sé come progetto, il cammino e l’origine continua. 1.1.7.4. Passare dalla competenza alla comprensione. La competenza che fisicamente o fisiologicamente è già in possesso di ciascuno deve diventare comprensione; in questo nascere alla comprensione la competenza diventa progetto conoscitivo ed etico. 1.2. Eraclito sceglie una forma espressiva ricca di immagini, metafore, analogie con cui mira ad alludere più che a spiegare (tanto da assumere la fama di «oscuro»), e incide le sue sentenze su lamine d'oro che depone nel tempio di Artemide a Efeso. Ancora un viaggio verso gli dei, cha ha l’aspetto di una rivelazione, iniziazione, scoperta e ripartenza: la salita al tempio delle divinità per deporvi, in giusta sede, lontana dai comuni mortali, il testo filosofico. Il tempio si rivela, al termine del viaggio, la sede adeguata della filosofia per la natura stessa del Dio che 8 vi abita e, sorprendentemente, per la natura particolare della sua parola e, ora, della filosofia: «[Frammento 93.] Il signore, il cui oracolo è a Delfi, non dice né nasconde, ma indica.» 1.2.1. Con questi gesti (lo scrivere, il parlare per metafore e il porre il proprio testo in un luogo sacro) egli intende contemporaneamente allontanarsi dai cammini del pensiero comune ma anche segnalare il valore pubblico del proprio annuncio. La necessità di preservare il proprio pensiero dall'incomprensione della moltitudine degli ignoranti non si ottiene per solo allontanamento e sottrazione, fuga di fronte alla comune stupidità, ma soprattutto risvegliando ciascuno a ciò che è a tutti comune: la propria mente. Il tempio, per tradizione luogo sacro e mitico, viene raggiunto abbandonando la piazza, luogo del pensare comune; ricordando però che “comune” è parola, in Eraclito, dal significato fortemente ambiguo e ambivalente: comune [κοινός, ξυνός] al dire di tutti come accade a chi resta presso indimostrate ovvietà e chiacchiere vane, comune [συν-νοῦς], cioè etimologicamente con intelletto, che è un potere che appartiene a tutti, a tutti comune, se ognuno si risveglia alla propria mente e in essa al proprio lògos. In questo caso il termine comune “xynòs” [ξυνός], indicando il muoversi secondo intelletto che è a tutti comune, si oppone al termine proprio e particolare, che indica il seguire una “saggezza” [φρόνησις] considerata solo propria e privata “ìdios” [ἴδιος, cioè “idiota”, ristretta nel cerchio del solo proprio interesse]. Un cammino di allontanamento da ciò che è comune diventa paradossalmente scoperta di ciò che è a tutti comune se ci si risveglia al proprio logos. «[Frammento 1.] Di questo lógos che è sempre gli uomini non hanno intelligenza, sia prima di averlo ascoltato sia subito dopo averlo ascoltato; benché infatti tutte le cose accadano secondo questo lógos, essi assomigliano a persone inesperte, pur provandosi in parole e in opere tali quali sono quelle che io spiego, distinguendo secondo natura ciascuna cosa e dicendo com’è. Ma agli altri uomini rimane celato ciò che fanno da svegli, allo stesso modo che non sono coscienti di ciò che fanno dormendo.» A breve commento. «La percezione della frattura del piano del linguaggio in semiotico e semantico coincide, in questo senso, con l'origine della filosofia greca. Se l’interpretazione di E. Hoffmann del fr. 1 di Eraclito è, come riteniamo con Melandri (2004, pp. 162-164), corretta, essa si trova espressa con chiarezza proprio all'inizio della συγγραφή eraclitea nell'opposizione fra λόγος (discorso) e ἔπεα (vocaboli, parole). Gli uomini - qui si legge - non intendono il λόγος né prima né dopo di averlo ascoltato, perché si fermano al piano semiotico delle parole (ἔπεα) e non fanno esperienza di ciò che è in questione nel fatto di parlare, nel linguaggio come tale.». (Agamben Giorgio, 2016, Che cos’è la filosofia?, Quodlibet, Macerata, 90-91). «[Frammento 2.] Bisogna dunque seguire ciò che è comune. Ma pur essendo questo lógos comune, la maggior parte degli uomini vive come se avesse una propria e particolare saggezza. [ζώουσιν οἱ πολλοί ὡς ἰδίαν ἒχοντες φρόνησιν] [Frammento 34.] Assomiglἱiano a sordi coloro che, anche dopo aver ascoltato, non comprendono; di loro il proverbio testimonia: «Presenti, essi sono assenti». [Frammento 40.] Sapere molte cose non insegna ad avere intelligenza: l’avrebbe altrimenti insegnato ad Esiodo, a Pitagora e poi a Senofane e ad Ecateo. Il cammino di allontanamento è scoperta di sé come strada (metodo) e contesto (luogo) di indagine. [Frammento 43.] Per quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo intera la via, tu potresti mai trovare i confini dell’anima: così profondo è il suo lógos. [Frammento 101.] Ho indagato me stesso. [Frammento 113.] Il pensare è a tutti comune. [a comprendere il frammento 113 occorre riprendere i termini greci: il termine “comune” è indicato con le parole κοινός o ξυνός; significando ciò che è comune, etimologicamente le due parole rimandano ai termini συν-νοῦς, cioè con intelletto; si afferma dunque che il pensare per 9 definizione è un potere che appartiene a tutti, a tutti comune, se ognuno si risveglia alla propria mente e in essa al proprio lògos. Cfr frammento 1,2,43,101,116] [Frammento 115.] È proprio dell’anima un lógos che accresce se stesso. [Frammento 116.] Ad ogni uomo è concesso conoscere se stesso ed esser saggio. [Frammento 119.] Per l’uomo il carattere è il suo demone. 1.2.2. Solo la ricerca del lògos consente di giungere alla verità e di andare oltre l'apparenza sensibile: al di là dell'illusorio divenire delle cose, trascorrere del tempo, opporsi degli elementi c'è infatti un ordine stabile che regola le tensioni, accorda i contrasti, unifica le opposizioni. Questo ordine (kósmos) e questa legge (lògos) sono accessibili a tutti coloro che sanno sollevarsi al di sopra dell'apparenza sensibile: costoro sanno che dietro il contrasto delle cose, al di là dell'illusorio divenire della realtà c'è una legge immutabile che regola da sempre e per sempre l'intero universo. Il cammino proposto prende le forme di un viaggio di scoperta tormentato e senza fine per la natura stessa del logos comune, la cui unità è armonia di contrari, armonia discordante. Dunque, per la natura stessa del lógos, principio unico e totale [come è proprio del mito], è solo restando nella disponibilità di un cammino e progredendo per frammenti che si resta nel vero. [Frammento 50.] Ascoltando non me, ma il lógos, è saggio convenire che tutto è uno. [Frammento 41.] Un’unica cosa è la saggezza, comprendere la ragione per la quale tutto è governato attraverso tutto. [Frammento 48.] L’arco ha dunque per nome vita e per opera morte. [Frammento 8.] L’opposto concorde e dai discordi bellissima armonia. [Frammento 51.] Non comprendono come, pur discordando in se stesso, è concorde: armonia contrastante, come quella dell’arco e della lira. [Frammento 91.] Nello stesso fiume non è possibile scendere due volte. [Frammento 49a.] Negli stessi fiumi scendiamo e non scendiamo, siamo e non siamo. [Frammento 54.] L’armonia nascosta vale più di quella che appare. [Frammento 123.] La natura delle cose ama celarsi. 1.3. la ragione filosofica nella unità sistemica e paradossale del frammento. Nei frammenti di Eraclito diventa esplicita la tecnica del frammento aforisma; in essi il frammento manifesta la propria struttura, la propria logica. Essa ruota attorno a tre elementi: 1. unità: il lògos (unità e totalità); 2. i contrari: gli estremi, gli opposti (la “discordia”); 3. il divenire: il movimento continuo (pànta réi, concordia discors). Ogni frammento è sistema, unità e totalità, in forza del paradosso, dell’antinomia, dei contrari che lo costituiscono come sua propria struttura e lo rendono aforisma. Solo cogliendone la struttura logica specifica, messa a disposizione dalla nozione di paradosso è possibile una lettura d’uso interpretativo e riflessivo, e con cautela di metodo, dei frammenti/aforismi della prima filosofia (della filosofia greca al suo nascere, delle origini della filosofia occidentale) e della ripresa della forma aforistica in tutto il corso storico della produzione filosofica, in variazione continua di stile e di temi. La direzione mentale da adottare può dunque essere consegnata all’antinomia propria del frammento aforisma: il frammento è aforisma in quanto indica una totalità che coglie nel suo dinamismo interno esprimendone la natura attraverso un paradosso. I termini che vanno conservati sono dunque: frammento/sistema, unità/totalità, armonia/paradosso (armonia dei contrari). Il frammento, strutturato come un paradosso, è visione totale e sistema; il mondo infatti abitualmente si dà in coppie di opposti che ne colgono l’intrinseco divenire, la dinamica interna avvertita nella sua massima ampiezza; nella relazione tra gli opposti (negati e conservati proprio in quanto posti in relazione) è possibile che il mondo si dia allo sguardo e alla narrazione, affermando e nascondendo. Eraclito: «[Frammento 123.] La natura delle cose ama celarsi.»; «[Frammento 54.] L’armonia nascosta vale più di quella che appare.» 10 1.3.1. Occorre compiere una doppia constatazione. 1. La prima è relativa alla natura dei primi testi filosofici, cioè frammenti e aforismi: l’antinomia tra elementi contrari costituisce la struttura degli enunciati nella forma di frammenti / aforismi. 2. La seconda chiama in causa la ragione filosofica e la sua natura e la sua forma propria, irrinunciabile: nel frammento / aforisma la ragione filosofica trasmette la consapevolezza della natura inesorabilmente frammentaria del sapere cui la mente umana ha accesso; una consapevolezza che si fonda sia sulla natura del reale sia sulla natura dell’anima che ad esso si apre. Si tratta della tesi che Eraclito formula attraverso la presentazione Logos come regola, principio ed essenza universale: “concordia discors”: «[Frammento 8.] L’opposto concorde e dai discordi bellissima armonia.»; e attraverso la presentazione dell’anima che, secondo Eraclito, possiede, è un logos profondo: «[Frammento 43.] Per quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo intera la via, tu potresti mai trovare i confini dell’anima: così profondo è il suo lógos.» L’invito a percorrere l’anima fino ai suoi irraggiungibili confini, l’armonia della tensione tra gli opposti, non rimanda a qualcosa di intimo o intimistico, a una “profondità” soggettiva; il logos è oggettivamente unico e totale nella armonia discordante che ne definisce l’essenza, che può manifestarsi nelle espressioni aperte e continue di una filosofia-frammento. Può valere a commento quanto T.W. Adorno afferma dell’opera d’arte: «Profonde sono le opere che né celano il divergente o contraddittorio né lo lasciano stare non appianato. Costringendolo alla manifestazione che viene dedotta dal non appianato, esse incarnano la possibilità di appianamento. Il dar forma agli antagonismi non li abolisce, non li concilia. Col manifestarsi e col determinare tutto il lavoro che li riguarda, essi diventano essenziali; nell'immagine estetica essi divengono tematici, e per questo la loro sostanzialità si rivela tanto più plasticamente. Varie fasi storiche concedevano veramente maggiori possibilità alla conciliazione che non la fase presente, che la rifiuta radicalmente. Tuttavia, quale integrazione non violenta del divergente, l'opera d'arte [la filosofia-frammento] trascende al contempo gli antagonismi dell'esistenza senza ricorrere all'inganno di dire che essi non esistono più. La contraddizione più interna delle opere d'arte [della filosofia-frammento], la più minacciosa e feconda, è che esse sono inconciliate perché conciliano, mentre invece la loro costitutiva inconciliatezza sbarra la conciliazione anche a loro stesse. Ma nella loro funzione sintetica, nel connettere il non connesso, esse si incontrano con la conoscenza. […] l’articolazione è la salvezza del molteplice nell’uno. […] La categoria del frammentario, che si colloca a questo punto, non è quella della contingente singolarità: il frammento è quella parte della totalità dell'opera che resiste alla totalità stessa». (Adorno Wiesengrund Theodor, 1970, Teoria estetica, Einaudi, Torino 1977, 78,319, 320) 1.3.2. «Come gli oracoli, sembra voler dire cose diverse a persone diverse.» (Edoardo Nesi, a proposito di David Foster Wallace in appendice a Wallace David Foster 2008 Una cosa divertente che non farò mai più, Minimum fax, Roma 2010); siamo di fronte alla inesauribilità ermeneutica dell’aforisma e del mito. Per restare in comunicazione nel frammento/aforisma, come nel mito, occorre accettare il valore dell’ambiguità e rifiutare (non tollerare) l’intolleranza, l’esclusione e la chiusura precostitutite: «Il contegno di cui si discute è quello della «intolerance of ambiguity», dell’insofferenza di ciò che è ambivalente, di ciò che non è sussumibile senza residui; in definitiva intolleranza di ciò che è aperto, di ciò che non è anticipatamente deciso da alcuna istanza, intolleranza dell’esperienza stessa». (Adorno Wiesengrund Theodor, 1970, Teoria estetica, Einaudi, Torino 1977, 197) 1.3.3. I contrari (il paradosso, l’antinomia e la relazione tra i contrari che compie il paradosso) e il frammento compaiono assieme, all’inizio della filosofia greca, nelle opere di Parmenide e di Eraclito in particolare, ma anche nelle molte composizioni, solo citate (come nei dialoghi di Platone, Fedone, Parmenide, Sofista, Menesseno) e per lo più perdute, dal titolo τά ἐναντία, i contrari; compaiono come le due forme di espressione letteraria necessarie alla filosofia, il paradosso e il frammento. Il paradosso è la struttura logica del frammento, di un 11 enunciato/frammento che è aforisma; che dà una visione unitaria e globale, da un particolare punto di vista, sull’intero tema cui guarda e di cui coglie l’interno perenne divenire. 1.3.3.1. Nel frammento la stretta consonanza tra mito e filosofia. Consonanza espressa quasi programmaticamente proprio Eraclito in un frammento che è indistricabilmente mitico e filosofico: «[Frammento 93.] Il signore, il cui oracolo è a Delfi, non dice né nasconde, ma indica.» Il mito indica una direzione possibile così come accade ai principi che la filosofia pone alla base del proprio ragionare: entrambi scelgono un punto di vista e indicano una direzione di percorso. Anche nella forma espressiva, cioè come aforisma e frammento, l’inizio della filosofia conserva i tratti del mito: quella forma è un inizio perenne, indica la natura e la capacità della filosofia, opera come essenza di ogni altra forma espressiva che il testo filosofico decide di adottare. Mito e principi, in quanto si pongono all’origine, non si configurano infatti come eventi qualsiasi che quando accadono si consegnano di conseguenza al passato, ma originano in continuazione, alimentano, sostengono, controllano e permettono come fondamento il percorso che grazie a loro si snoda. 1.3.3.2. In particolare la tecnica dei contrari costituisce la struttura delle opere di Platone; in esse la forma del dialogo mette in azione (mette in dramma) la tecnica dei contrari; una impostazione che permette di non escludere preventivamente ma di rendere protagoniste e porre a confronto dialettico (in un dialogo) posizioni tra loro fortemente divergenti, costringerle a risalire ai propri ultimi fondamenti e così a posizionarsi nella mente di ciascuno non come tesi da memorizzare e ripetere in schieramenti di parte, ma come metodi e processi per operare e produrre secondo logica che è capacità di visione e di confronto. A manifesto di questo metodo fondato sui contrari può essere assunto il dialogo di Platone: Fedone (in cui il metodo, in particolare, è anche formalmente presentato 70d-71b. Cfr. Bonelli Maddalena 2015, Leggere il Fedone di Platone, Carocci, Roma, 36-39); ma si tratta della struttura portante in opera soprattutto nei dialoghi “dialettici” come Filebo, Sofista, Parmenide. 1.3.3.3. Osserva Lucien Goldmann ragionando intorno alla forma di paradosso e frammento a partire dai Pensieri di Pascal: «…l’uomo non può né evitare né accettare il paradosso dato che non è uomo se non nella misura in cui, affermando la possibilità reale della sintesi, ne fa il perno della propria esistenza, pur restando permanentemente cosciente che questa stessa affermazione non potrebbe sfuggire al paradosso, che la certezza più assoluta, la più forte, che gli sia dato di raggiungere non è né nell’ordine della ragione né in quello dell’intuizione diretta ed immediata; è una certezza incerta, pratica (Kant), una certezza del coeur, un postulato, una scommessa. In conclusione, nella misura in cui l’uomo vuole, fin da questa vita, dire qualcosa di valido, su se stesso, sul mondo e anche su Dio, non può evitare il paradosso, che rimane la sola ed unica forma di verità che sia alla sua portata. […] Lo stesso argomento vale anche per il frammento. Se il paradosso è la sola figura stilistica adeguata ad esprimere un pensiero per il quale la verità è sempre riunione di contrari, il frammento è la sola forma di espressione adeguata per un’opera il cui messaggio essenziale è nell’affermazione che l’uomo è un essere paradossale, nello stesso tempo grande e piccolo, forte e debole. Grande e forte, perché non abbandona mai l’esigenza di un vero e di un bene puri, non mescolati di falso e di male; piccolo e debole, perché non può mai arrivare ad una conoscenza o ad un’azione che, anche non raggiungendoli, si avvicinino almeno a quei valori. […] Può esservi un piano logico per uno scritto razionalista, un ordine della persuasione per uno scritto spiritualista; per un’opera tragica vi è una sola forma di ordine valido, quella del frammento, che è ricerca di ordine, ma ricerca che non è riuscita, e non può riuscire, ad avvicinarlo.» (Goldmann Lucien , Il dio nascosto. La visione tragica in Pascal e Racine, ed. Laterza, Bari 1971, pp.291ss.) 1.3.3.4. La direzione verso il frammento e il frammentario è dunque una scelta e una consapevolezza iniziale della stessa filosofia, che mette così in guardia contro le chiusure di sistema; essa resta perciò un tentativo ed una forma sempre ricorrenti nella produzione filosofica (perlomeno da Parmenide a Nietzsche, e proprio da Nietzsche rilanciata dal ‘900 a 12 oggi; ad esempio Adorno, Badiou…). Scelta allo scopo di salvare la filosofia smontando la pretesa che le opere siano ciò che non possono essere, una verità definitiva, e indicando tuttavia ciò che devono volere essere, cioè una ricerca del vero; nessuno infatti può rinunciare al vero senza cadere per ciò stesso in contraddizione. Il frammento ha tutt'e due questi momenti: vuole la verità fino al sistema, e lo indica, ma nega il sistema come oggetto che possa essere esibito. Il livello di un'opera filosofica è definito essenzialmente dalla sua capacità di esporsi e rispettare l'impossibile unificazione, ma ad un tempo di non sottrarsi ad essa come proprio obiettivo focale prospettico. (Si tratta di percorsi di riflessione che sono messe in evidenza in particolare da Adorno Wiesengrund Theodor, 1970, in Teoria estetica, Einaudi, Torino 1977, 318-321) 1.3.3.5. La tensione uno – molti segna dunque la logica del frammento (e della filosofia). Lo sorregge la consapevolezza che non si dà unità senza la distinzione e la molteplicità; vi sarebbe soltanto una totalità vuota coincidente con il nulla. Ancora, lo sorregge la consapevolezza che non si coglie la molteplicità, non si afferrano le distinzioni senza lo sguardo e il cammino rivolto all’unità come progetto; senza la tensione verso l’unità, non si coglie il distinto ma solo la dispersione per se stessa o addirittura, provocatoriamente fine a se stessa.«…la conciliazione… loro non è il risultato del conflitto ma unicamente il fatto che il conflitto trova un linguaggio.» (Adorno 1970, 331) Applicando. 1.3.3.5.1. L’ampia produzione filosofica di Platone e Aristotele, fondamento concettuale, linguistico e sistemico dell’intera filosofia occidentale, si alimenta dichiaratamente alle origini sia come mito, sia come viaggio iniziatico, sia ai primi “frammenti” della filosofia. La tradizione che precede le opere di Platone e di Aristotele è infatti storicamente a disposizione e ricostruibile grazie ai loro testi e al valore di principio che essi stessi vi attribuiscono. Nello loro opere tuttavia il rapporto tra filosofia e mito non è facile né univoco. Il pensiero filosofico, che riserva a sé il lógos opponendolo al mýthos, esprime fin dalla sua nascita forti critiche nei confronti della tradizione mitica e mitologica e anche nei confronti della prima filosofia; critiche che compaiono quasi con sistematica frequenza, in ogni occasione utile, nelle opere di Platone e di Aristotele. Tuttavia, a contrastare quelle tesi, il mito e i primi aforismi della filosofia compaiono con forza nelle loro opere e non solo attraverso un’operazione di scelta, interpretazione, correzione e lettura allegorica, ma per assolvere problemi centrali per la filosofia e la cultura in generale. Il motivo è dichiarato. La stessa filosofia antica, che sembra affermarsi per distinzione dal mito, ammette la presenza di un dire e cercare di carattere filosofico già nel mito: «In un passo della Metafisica (1074 b sgg.), Aristotele distingue dalla tradizione mitica le favole che gli uomini hanno creato per persuadere la moltitudine, dando agli dèi una forma e dei sentimenti umani; ma aggiunge subito dopo: «Se si separa dal racconto mitico il suo fondamento iniziale e si considera solo questo fondamento, cioè la credenza che tutte le sostanze prima sono dèi, allora ci si accorgerà che questa è una tradizione veramente divina». » (Vernant Jean-Pierre 1974, Mito e società nell’antica Grecia, Einaudi, Torino 1981, 211) 1.3.3.5.2. Riservata alla indecidibilità univoca del mito e degli aforismi della filosofia prima, la ricerca e difesa di una unica e autentica identità è un inganno, un inganno circa origini inesistenti o certamente non definibili, un inganno nei confronti delle realtà e della potenzialità presenti, un autoinganno: una paura di confronto come paura di riconoscimento di sé nel proprio essere sempre altro… e ciò anche nelle migliori intenzioni; le migliori intenzioni sono anche le intenzioni maggiormente difensive o auto difensive, di un individuo, di una società o meglio, direbbe Aristotele, di una identità (identità ma non singolarità) e di una comunità (di una Gemeinschaft, non di una Gesellschaft). 1.3.3.5.3. La logica dell’antinomia: l’antinomia, ambivalenza nell’arte e dell’arte, come in ogni espressione che abbia riguardi nei confronti della realtà, non è disgiunzione di elementi da separare (“come il grano dal loglio”) e tra i quali occorre operare una scelta: «La dicotomia 13 è sbagliata perché presenta come semplice alternativa la tensione tra i due momenti.» (Adorno 1970,427). Se si vuole, alla disgiunzione proposta da Parmenide e portata all’estremo attraverso i termini essere non-essere, verità e errore… con l’invito a seguire una strada abbandonando l’altra, Eraclito oppone l’antinomia, l’ambivalenza che fa riferimento ad estremi, a contrari, opposti ma come estremi di una relazione e di una tensione condotta al massimo delle proprie possibilità esplorative «8. L’opposto concorde e dai discordi bellissima armonia.»; armonia di elementi discordanti come l’arco e la lira: «51. Non comprendono come, pur discordando in se stesso, è concorde: armonia contrastante, come quella dell’arco e della lira»; come il logos dell’anima posto tra confini non raggiungibili, dunque armonia per frammenti o momenti di un percorso in perenne divenire come accade nella corrente di un fiume (flusso del reale e flusso della coscienza) nel quale scendiamo e non scendiamo «49a. Negli stessi fiumi scendiamo e non scendiamo, siamo e non siamo.»; «91. Nello stesso fiume non è possibile scendere due volte». Se il fiume è sempre lo stesso, l’acqua che scorre è sempre diversa, altrimenti non sarebbe fiume, ma stagno. Il fiume è anch’esso metafora della “concordia discors”: unisce gli estremi della quiete, della stasi, della fissità (il letto e le sue rive) e del moto, del divenire (l’acqua che vi scorre, non è assente e non esonda): è questa armonia di elementi discordanti a comporlo. Da questo punto di vista il fiume è la più ampia metafora del “panta réi” espresso da Eraclito e indica il mondo, la vita, la persona, il pensiero… 1.4. Appendice operativa come in un tentativo di laboratorio il viaggio, il paradosso e la logica nel frammento: limite e ambito della logica - fine / fallimento della logica (affidata al principio di non contraddizione: Parmenide) - indicatore dei confini di percorribilità logica (Eraclito) il paradosso e il frammento una tecnica di problem solving, e indicatore di direzioni possibili - indica gli estremi presso i quali non è possibile stare - indica gli estremi tra i quali è necessario stare analisi e laboratorio: un frammento: visione d’insieme grazie al paradosso (composizione di poche righe) la tecnica di composizione: si può basare su tre parole chiave parola 1. pensa ad una realtà “totale” [che può essere pensata come una totalità] (mondo, persona, vita, cultura, anima, sentimento, corpo, vista, giustizia, bellezza …un indicatore di insieme) parola 2. trova una parola (chiave) che ne possa indicare l’esplorazione e svelarne la natura (che sia in grado di indicarne la natura specifica [applicabile alla sua totalità; esempio: percorrere, esplorare, scendere, ascoltare, governare) parola 3 [parola doppia: coppia di opposti, esplicita o indicata]. indica il movimento / viaggio (totale) che può essere generato da quella chiave (movimento come mutamento, comportamento, stile…) indicandolo per estremi possibili di situazione (uno/molti, siamo e non siamo, vita/morte, appare/nascosta, presenti/assenti, ordine/disordine), di spazio (confini, scorrere, profondità/superficie…) esempio: la tua anima è un logos profondo (Eraclito) parola 1 parola 2 parola 3 esempio: la ragione è l’ordine del mondo parola 2 parola 3 parola 1 Un esempio applicato alle storie di oggi. «Ho sempre pensato che i sintomi della concezione cinica e narcisistica dell'esistenza che domina l'Occidente siano il rovescio speculare di quelli del fondamentalismo islamico come se si trattasse di due facce della stessa medaglia. Da una parte il crollo dei valori, dall'altra la loro furiosa restaurazione; da una parte il libertinismo 14 della perversione, dall'altra il cemento armato della paranoia; da una parte una libertà senza ideali, dall'altra l'Ideale come bussola infallibile; da una parte il pragmatismo disincantato dall'altra il fanatismo più folle; da un parte l'esibizionismo senza veli dei corpi, dall'altra la repressione più austera. I più recenti episodi di terrorismo mi obbligano a ripensare questa opposizione: la violenza feroce di soggetti isolati non può essere fatta rientrare nello schema del fanatismo paranoico della Causa che si rivolta contro la concezione immorale e pagana della vita dell'Occidente.» (Recalcati Massimo, Quei giovani psicotici e il delirio terroristico, in la Repubblica, 22.07.2016) 2. il ritorno del viaggio, del frammento e dell’aforisma all’inizio della cultura contemporanea: tre ipotesi di analisi (tra loro eterogenee) 2.1. le parole di Zarathustra (Nietzsche) metodo per un pensare attuale lento e costruttivo 2.2. la storia per frammenti, materiale per un viaggio di costruzione: lo sguardo dell’Angelus Novus (Benjamin). 2.3. frammentazioni contemporanee senza viaggio e senza aforismi nei diffusi non-luoghi: sguardi sociologici in prospettiva 2.1. le parole di Zarathustra (Nietzsche) metodo per un pensare attuale lento e costruttivo Il viaggio di trasfigurazione e di rifondazione. Nietzsche Friedrich, 1883-1885, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, Adelphi, Milano 1973 «Prefazione di Zarathustra 1 Giunto a trent'anni, Zarathustra lasciò il suo paese e il lago del suo paese, e andò sui monti. Qui godette del suo spirito e della sua solitudine, né per dieci anni se ne stancò. Alla fine si trasformò il suo cuore, - e un mattino egli si alzò insieme all'aurora, si fece al cospetto del sole e così gli parlò: «Astro possente! Che sarebbe la tua felicità, se non avessi coloro ai quali tu risplendi ! Per dieci anni sei venuto quassù, alla mia caverna: io sazio della tua luce e di questo cammino saresti divenuto, senza di me, la mia aquila, il mio serpente. Noi però ti abbiamo atteso ogni mattino e liberato del tuo superfluo; di ciò ti abbiamo benedetto. Ecco ! La mia saggezza mi ha saturato fino al disgusto; come l'ape che troppo miele ha raccolto, ho bisogno di mani che si protendano. Vorrei spartire i miei doni, finché i saggi tra gli uomini tornassero a rallegrarsi della loro follia e i poveri della loro ricchezza. Perciò devo scendere giù in basso : come tu fai la sera, quando vai dietro al mare e porti la luce al mondo infero, o ricchissimo fra gli astri ! Anch'io devo, al pari di te, tramontare, come dicono gli uomini, ai quali voglio discendere. Benedicimi, occhio pacato, scevro d'invidia anche alla vista di una felicità troppo grande ! Benedici il calice, traboccante a far scorrere acqua d'oro, che ovunque porti il riflesso splendente della tua dolcezza ! Ecco! Il calice vuol tornare vuoto, Zarathustra vuol tornare uomo». — Così cominciò il tramonto di Zarathustra. 2 15 Zarathustra prese a discendere da solo la montagna, senza incontrare alcuno. Ma giunto alle foreste, ecco si trovò dinanzi un vegliardo, che, in cerca di radici per la foresta, aveva lasciato la sua pia capanna. E così parlò a Zarathustra il vegliardo: «Questo viandante non mi è sconosciuto: alcuni anni fa è passato di qui. Zarathustra era il suo nome; ma egli si è trasformato. Portavi allora la tua cenere sul monte : oggi vuoi portare nelle valli il tuo fuoco? Non temi i castighi contro gli incendiari? Sì, riconosco Zarathustra. Puro è il suo occhio, né disgusto si cela sulle sue labbra. Non incede egli a passo di danza? Trasformato è Zarathustra, un bambino è diventato Zarathustra, Zarathustra è un risvegliato: che cerchi mai presso coloro che dormono? Hai vissuto nella solitudine come in un mare, e il mare ti ha portato. Guai ! vuoi scendere a terra? Guai ! vuoi tornare a trascinare da solo il tuo corpo?». Zarathustra rispose: «Io amo gli uomini». «E perché mai, disse il sant'uomo, io sono andato nella foresta e nel deserto? Non fu forse perché amavo troppo gli uomini? Adesso io amo Iddio: gli uomini, io non li amo. L'uomo è per me una cosa troppo imperfetta. L'amore per gli uomini mi ammazzerebbe». Zarathustra rispose : «Non di amore dovevo parlare ! Io reco agli uomini un dono». «Non dar loro nulla, disse il santo. Levagli piuttosto qualcosa e portalo insieme a loro - questo sarà per essi il massimo beneficio: purché lo sia anche per te ! E se proprio vuoi dargli qualcosa, non dare più di un'elemosina, e falli mendicare per questo!». «No, rispose Zarathustra, io non faccio elemosine. Non sono abbastanza povero per farlo». Il santo rise di Zarathustra e disse: «Bada che essi vogliano accettare i tuoi tesori ! Sono diffidenti verso gli eremiti e non credono che noi veniamo a portare doni. I nostri passi risuonano troppo solitari per i loro vicoli. E quando di notte, a letto, sentono un uomo camminare assai prima che il sole sorga, si chiedono: dove andrà quel ladro? Non andare dagli uomini, resta nella foresta ! Va' piuttosto dagli animali ! Perché non vuoi, come me, essere - un orso tra gli orsi, un uccello tra gli uccelli?». «E che fa il santo nella foresta?», chiese Zarathustra. Il santo rispose: «Io faccio canzoni e le canto, e nel far canzoni, rido, piango e mugolo: così lodo Iddio. Cantando, piangendo, ridendo, mugolando, io lodo il dio che è il mio dio. Ma tu che ci porti in dono?». Udite queste parole, Zarathustra salutò il santo e disse : «Che mai posso avere da darvi ! Lasciatemi andare, presto - che non vi porti via nulla !». - E così si separarono, il vegliardo e l'uomo, ridendo come ridono due fanciulli. Ma quando fu solo, così parlò Zarathustra al suo cuore : «È mai possibile ! Questo santo vegliardo non ha ancora sentito dire nella sua foresta, che Dio è morto !». (Nietzsche Friedrich, 1883-1885, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, Adelphi, Milano 1973, 3-5) 2.1.1. È legittimo vedere in questo incipit la ripresa di motivi antichi: evidenti richiami biblici (come Mosè che scende dal monte Sinai con le tavole della legge, l’episodio della trasfigurazione di Gesù sul monte Tabor di cui parlano i Vangeli, il tema della kenòsis di cui parla Paolo…), ripresa dei primi motivi della filosofia (il viaggio di Parmenide e la rivelazione, le posizioni di Eraclito nei confronti dei dormienti) e conseguenti propositi rifondativi generali. Del resto si tratta di un compito di smontaggio e ricostruzione di cui Nietzsche è consapevole fino a dichiaralo come proprio scopo. «Mi è stato detto abbastanza spesso, e sempre con gran meraviglia, che in tutti i miei scritti, dalla Nascita della tragedia sino al recente Preludio di una filosofia del futuro, ci sarebbe qualcosa di comune e di caratteristico: essi conterrebbero tutti, mi si è detto, lacci e reti per uccelli imprudenti e quasi una costante, nascosta istigazione a sovvertire consueti apprezzamenti e apprezzate 16 consuetudini. Come? Tutto sarebbe solo umano, troppo umano? Con un tal sospiro si uscirebbe dai miei scritti, non senza una sorta di orrore e di sfiducia persino contro la morale, anzi parecchio tentati e spronati a fare per una volta i patrocinatori delle cose peggiori, come se esse fossero solo le meglio calunniate. I miei scritti sono stati definiti una scuola del sospetto, anzi del disprezzo, ma fortunatamente anche del coraggio, anzi dell'audacia. In effetti, io credo che nessuno abbia mai guardato nel mondo con un sospetto altrettanto profondo, e non solo come occasionale avvocato del diavolo, ma, per dirla in termini teologici, anche come accusatore e nemico di Dio.» (Nietzsche, Umano, troppo umano). 2.1.2. Il frammento / l’aforisma strumento di liberazione; come “fedeltà alla terra” al suo intrinseco divenire e al suo ineffabile enigma. Interrogativi, enigmi, aforismi. «Noi per nascita divinatori d’enigmi» Nietzsche rifiuta di servirsi delle tradizionali forme del testo filosofico (come il trattato, la lezione, il saggio) vedendo nell’esposizione ordinata, organica, argomentata l’espressione di un sapere dogmatico, pietrificato; non a caso nella forma del trattato sono scritte le opere di metafisica, scienza, morale che i dotti destinano al «gregge degli animali veneranti». Allo spirito libero cui Nietzsche si rivolge si addicono invece la frammentarietà e l’essenzialità dell’aforisma, l’inquietudine dell’interrogativo, l’ambiguità dell’enigma. Queste forme paiono imporsi naturalmente alla sua filosofia, che esige modi espressivi capaci di rompere i rigidi schemi della razionalità ottocentesca per dare spazio al dubbio, alla meraviglia, all’irrisione, all’invettiva… e restituire così all’uomo l’immaginazione e il pensiero, il sorriso, il ridere, il danzare e la volontà. La scelta aforistica, adottata pressoché in tutte le opere, consente in particolare a Nietzsche di abbandonare l’unicità e l’assolutezza della prospettiva di indagine assunta dai precedenti sistemi filosofici (lo spirito nell’idealismo, i rapporti economici nel marxismo, la scienza nel positivismo sono intesi come principi esplicativi totali a cui viene ricondotto ogni fenomeno) e di adottare molteplici punti di vista, riprendendo da diverse angolature gli stessi temi. Il procedere aforistico, volutamente sganciato da strutture di sistema ma teso a demolire ostacoli, smontare pregiudizi, aprire varchi, indicare e iniziare strade… è uno stile che si impone anche per la lettura delle opere di Nietzsche che le ascolta e che rende impossibile una riconduzione delle sue affermazioni a piani di sistematicità teoretica, filosofica (magari manualistica). 2.1.3. La forma del testo diventa una prassi filosofica particolare fino a farsi modulo produttivo e metodo generale; nell’aforisma (nella forma) è contenuto uno specifico impegno filosofico. La filosofia nella forma dell’aforisma (della sentenza, della massima, del frammento) è una filosofia che non si accontenta di lettori attenti, vuole lettori che assumano il coraggio della interpretazione e quindi dell’analisi genealogica e del “fare filosofia con il martello”. Nella Genealogia della morale (1887) Nietzsche stesso indica il modo in cui si dovrebbe leggere un aforisma: «In altri casi la forma aforistica presenta delle difficoltà ... un aforisma, modellato e fuso con vigore, per il fatto che viene letto non è ancora ‘decifrato’; deve invece prendere inizio, a questo punto, la sua interpretazione, per cui occorre un’arte dell’interpretazione.» Il complesso gioco di significati sottintesi e di allusioni, di illuminazioni folgoranti e di ardite metafore, nonché una certa dose di freddo argomentare, rendono l’aforisma di Nietzsche di ardua lettura e richiede il coraggio dell’interpretazione, resta perennemente un testo aperto, richiede la pacatezza e la lentezza dell’ascolto. 2.1.3.1. una riflessione di Dietrich Bonhoeffer sul tema del frammento e su come il frammento imponga la dimensione culturale del viaggio e del pensiero filosofico: «Ci sono poi frammenti che […] restano significativi attraverso i secoli, perché il loro completamento può essere solo affare di Dio, cioè frammenti che devono essere frammenti — penso ad esempio all’Arte della fuga. Se la nostra vita rispecchia anche solo da lontano un frammento di questo tipo, nel quale i diversi temi che si aggiungono sempre più numerosi si armonizzano almeno per un breve istante, e nel quale il grande contrappunto viene mantenuto stabilmente dall’inizio alla fine, 17 sicché poi, dopo l’interruzione, al massimo si può intonare ancora il corale “Così mi avanzo davanti al tuo trono” — allora non dovremo lamentarci neppure della nostra vita frammentaria, ma dovremo anzi esserne contenti.» (Resistenza e Resa). 2.1.3.2. la ragione del frammento, come forma e definizione della filosofia etica della liberazione, ha la sua radice nell’esistenza così come è definita, in Nietzsche, dal concetto di “eterno ritorno” come attimo (Augenblick); “attimo” è il tempo proprio della volontà. La concezione antica dell’eterno ritorno: il fato circolare del tutto già accaduto. Nella tradizione diffusa l’idea dell’eterno ritorno teorizza un ricorrere fatale e doloroso degli stessi attimi, degli stessi eventi nel tempo, un tornare fatale che svela l’inutilità degli atti di volontà degli uomini, nega la possibilità di sottrarsi a un destino già deciso e che si ripeterà inesorabile, denuncia l’illusione dell’uomo di porsi fuori dal tempo, al principio o alla fine, per emettere dall’esterno giudizi sul tempo, sul mondo, sull’uomo e, con la propria volontà, cambiare il corso degli eventi. Rassegnazione e sudditanza sono la conseguenza: l’eterno ritorno svela anzi il nulla di ogni progetto etico, religioso, scientifico. La concezione proposta dell’eterno ritorno: l’attimo (un battito di ciglia). La circolarità ripetitiva del passato e futuro, propria della idea tradizionale dell’eterno ritorno e della concezione circolare del tempo, viene ridefinita da Nietzsche quando viene colta nel suo punto di origine: il passato ed il futuro coincidono e quindi accadono realmente nel tempo dell’atto di volontà, nell’istante (Augenblick, un “battito di ciglia”) in cui il soggetto decide. La teoria dell’eterno ritorno introduce così, a sua definizione, la temporalità dell’attimo, del presente della volontà; ne pone l’essenza in un tempo totalmente affidato alla decisione, al coraggio, alla volontà soggettiva annullando così il fatalismo che dominava la concezione tradizionale dell’eterno ritorno e togliendo la negazione della volontà che quella concezione porta con sé. 2.1.4. frammento e la cura “slow” per la civiltà contemporanea (frenetica, convulsa…): elogio della lentezza per un pensare che è contemplazione, atteggiamento interpretativo richiesta dalla densità irrisolta del frammento / aforisma. Elogio della lentezza come metodo: «Ed infine: a che scopo dovremmo dire così ad alta voce e con tale fervore quel che noi siamo, quel che vogliamo e non vogliamo? Osserviamolo, invece, più freddamente, più in distanza, con maggior saggezza, più dall’alto, diciamolo, come può essere detto fra noi, così segretamente che nessuno vi badi, che nessuno badi a noi! Soprattutto diciamolo lentamente... Questa prefazione viene tardi, ma non troppo tardi; che importano, in fondo, cinque, sei anni? Un libro del genere, un problema del genere non ha fretta: inoltre, noi siamo entrambi amici del lento, tanto io che il mio libro. Non per nulla si è stati filologi, e forse lo siamo ancora: la qual cosa vuol dire, maestri della lettura lenta; e si finisce anche per scrivere lentamente. Oggi non rientra soltanto nelle mie abitudini, ma fa anche parte del mio gusto — un gusto malizioso forse? — non scrivere più nulla che non porti alla disperazione ogni genere di gente «frettolosa ». Filologia, infatti, è quella onorevole arte che esige dal suo cultore soprattutto una cosa, trarsi da parte, lasciarsi tempo, divenire silenzioso, divenire lento, essendo un’arte e una perizia di orafi della parola, che deve compiere un finissimo attento lavoro e non raggiunge nulla se non lo raggiunge lento. Ma proprio per questo fatto è oggi più necessaria che mai; è proprio per questo mezzo che essa ci attira e ci incanta quanto mai fortemente, nel cuore di un’epoca del «lavoro», intendo dire della fretta, della precipitazione indecorosa e sudaticcia, che vuol «sbrigare» immediatamente ogni cosa, anche ogni libro antico e nuovo per una tale arte non è tanto facile sbrigare una qualsiasi cosa, essa insegna a leggere bene, cioè a leggere lentamente, in profondità, guardandosi avanti e indietro, non senza secondi fini lasciando porte aperte, con dita ed occhi delicati... Miei pazienti amici, questo libro si augura soltanto perfetti lettori e filologi: imparate a leggermi bene!» Ruta di Genova, nell’autunno dell’anno 1886. (Nietzsche Friedrich, 1886, Aurora, Mondadori, Milano 1981, p.10-11) E nella Genealogia della morale: «oh come siamo felici noi che ci interessiamo alla conoscenza, ammesso che si sappia tacere abbastanza a lungo (prefazione. 2) E' chiaro che 18 per esercitare così la lettura come arte, è necessaria soprattutto una cosa che al giorno d'oggi si è disimparata più di tante altre - e perciò per arrivare alla leggibilità delle mie opere, ci vorrà ancora tempo - una cosa, cioè, per cui si deve essere piuttosto simili a una vacca e in nessun caso a un "uomo moderno": il ruminare.(pref. 8) Chiudere ogni tanto le porte e le finestre della coscienza, non farsi molestare dal fracasso e dalla lotta con cui il mondo occulto degli organi al nostro servizio manifesta la sua collaborazione e opposizione, un po’ di tranquillità, un po’ di tabula rasa della coscienza, per fare ancora spazio a qualcosa di nuovo...questo è il vantaggio di una dimenticanza attiva (II,1).» (Genealogia della morale). 2.1.5. il frammento, l’aforisma, è filosofia dello smontaggio e liberazione, se imponendo la riflessione, la meditazione, l’ascolto in lentezza, permette di “auscultare” (come un medico) gli idoli e metterne in luce il suono cavo, il vuoto; smascherandone la cattiva oppressione l’umanità smette di essere prona e venerante nell’idolatria dei molti pesi di cui è oppressa e di cui si carica. «Un’altra guarigione, in certe circostanze ancora più desiderata da me, sta nell’auscultare gli idoli . . . Vi sono nel mondo più idoli che realtà: il mio «cattivo sguardo», il mio «malocchio» per questo mondo, e questo è anche il mio «cattivo orecchio» . . . Porre qui una buona volta domande con il martello e forse udire per tutta risposta quel famoso suono cavo che parla dai visceri enflati — quale delizia per uno che ha altri orecchi dietro gli orecchi, — per me vecchio psicologo e acchiappatopi, per il quale proprio quel che vorrebbe starsene in silenzio deve gridar forte… Anche questo scritto — ne è una spia il titolo — è soprattutto uno svago, una macchia solare, un salto a lato nell’ozio di uno psicologo. E’ forse anche una nuova guerra? E si auscultano forse nuovi idoli?... Questo piccolo scritto è una grande dichiarazione di guerra; e per quanto riguarda l’auscultare gli idoli, questa volta non sono idoli del nostro tempo, ma idoli eterni, quelli che qui vengono toccati col martello come con un diapason — non esistono altri idoli più vecchi, più convinti, più boriosamente gonfi di questi . . . E neanche più vuoti . . . Questo non impedisce che essi siano i più creduti; e, soprattutto nel caso più nobile, non sono detti nemmeno idoli. Torino, 30 settembre 1888,giorno in cui fu terminato il primo libro della “Trasvalutazione di tutti i valori”» (Nietzsche Friedrich 1888, Crepuscolo degli idoli, ovvero, come si filosofa con il martello, Adelphi edizioni, Milano 1988, 23-24) 2.2. la storia per frammenti, materiale per un viaggio di costruzione: lo sguardo dell’Angelus Novus (Benjamin). Uno sguardo più ampio a partire dalla frammentazione: Benjamin Walter 1942 Tesi sul concetto di storia. «Nelle Tesi di filosofia della storia, Benjamin denuncia l’ottimismo progressista dello storicismo relativistico e spesso positivistico del tardo Ottocento e del primo Novecento. La dichiarata razionalità della storia si rivela, ai suoi occhi, apologia del presente e di ogni presente contrassegnato dalla mitologia e dalla giurisprudenza di un vincitore. Di là dalla prospettiva storicistica, che egli accusa di mistificazione sistematica, la storia appare a Benjamin come una fenomenologia dell’essere nel mondo del dominio: la borghesia capitalistica ha abolito i residui di apparente autonomia del soggetto e ha trasformato gli uomini in merci, la cui sopravvivenza è legata alla propria circolazione nel mercato. La redenzione dell’uomo può giungere soltanto da una rottura radicale col passato improntato dal dominio e da un recupero della tradizione sacra, messianica. Ma, in mancanza di elementi di fede, come i presupposti della liberazione-redenzione non sono dati, così anche la soggettività liberante attende di essere istituita.» Furio Jesi, Enciclopedia Garzanti di Filosofia, Benjamin Walter. 2.2.1. «La concezione di un progresso del genere umano nella storia è inseparabile da quella del processo della storia stessa come percorrente un tempo omogeneo e vuoto. La critica dell’idea di questo processo deve costituire la base della critica dell’idea del progresso come 19 tale.» (Benjamin Walter 1955 Angelus novus. Saggi e frammenti. Tesi di filosofia della storia, Einaudi, Torino 1981, p. 83). «Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo “come propriamente è stato”. Significa impadronirsi di un ricordo come esso balena nell’istante di un pericolo» (Benjamin 1955, p. 77). «“La mia ala è pronta al volo, / ritorno volentieri indietro, / poiché restassi pur tempo vitale, / avrei poca fortuna.” (Gerhard Scholem, Gruss vom Angelus). «C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.» (Benjamin Walter 1955 Angelus novus. Saggi e frammenti. Tesi di filosofia della storia, Einaudi, Torino 1981, 80) 2.2.1.1. Un commento: «Come ha osservato Walter Benjamin, la tempesta spinge irresistibilmente i viandanti nel futuro a cui volgono le spalle, mentre la montagna di detriti davanti a loro sale gradualmente verso il cielo: «Noi chiamiamo questa tempesta progresso» (in nota: Walter Benjamin, Illuminations, New York 1979, p. 290)» (Bauman Zygmunt 1991 Modernità e ambivalenza, Bollati Boringhieri, Torino 2010 p. 21). 2.2.1.2. Un bilancio. Frantumare l’idolo della filosofia della storia, nelle svariate forme in cui essa si vuole qualificare (sviluppo, progresso, decadenza, caos, anarchia…) «Come il monaco medievale, il lettore delle Tesi è invitato ad esercitarsi nell’idea di una riserva nei confronti delle vicende mondane e, nella fattispecie, della loro configurazione storico-politica (il politische Weltkind). Tale riserva si esprime in una radicale messa in questione dell’immagine della storia come processo, marcia in avanti di un’umanità che ha reciso i vincoli “naturali” della sua origine. Alla luce di questa immagine la categoria del progresso, che volge al futuro il senso del procedere, e la visione dello Historismus, che conferisce il sigillo dell’autonoma fattualità alla contingenza di ogni evento, risultano derivare da un unico modello generativo, quello della storia come il complesso di tutto ciò che accade non potendo far altro che pro-cedere, travolgendo ciò che gli resiste. Se ci si arresta a quest’immagine, il punto di vista di ogni conoscenza storica non può che essere quello dei vincitori, di coloro che si identificano con il processo stesso e, soprattutto, con la forma di dominio che ne esprime il presente. […] L’incanto progressista e il disincanto storicista soccombono ad una medesima illusione, quella che risolve l’accadere storico in totalità dei fatti, nella gabbia d’acciaio di ciò che si è concluso: ambito del perfectum. Rispetto ad esso la coscienza non può che adeguarsi, intendendo l’adaequatio rei et intellectus nel senso di un perfetto rovesciamento tra l’attività del soggetto e la passività dell’oggetto. In questo caso è la storia stessa a presentarsi come il soggetto, come medium resosi autonomo in cui si è secolarizzato lo spirito. Nell’epoca in cui a dominare è il feticismo della forma-merce, proprio nella storia pare realizzarsi la sua perfetta incarnazione. In quanto feticcio della soggettività, formazione che ha in sé il principio del proprio movimento, la storia appare a Benjamin come l’eidolon più difficile da abbattere. È innanzitutto per questo motivo che il ricorso alla teologia si rende necessario. Il compito di quest’ultima, secondo quanto Benjamin aveva affermato nel 1930 in un colloquio con Brecht relativo al progetto della rivista “Krise und Kritik”, sta proprio nella «distruzione radicale del mondo dell’immagini». Nell’indirizzare alla storia un gesto distruttivo, che può essere solo teologico, Benjamin corrisponde al precetto istitutivo dell’ebraismo: “non farsi immagine alcuna” del Nome di Dio. Con questo gesto egli prende distanza non solo da quella 20 secolarizzazione dell’escatologia nello spazio profano della storia… […] Nell’equazione tra storia e progresso o nella sua assolutizzazione storicistica in nuda processualità non s’incarna il Dio ebraico-cristiano, nemmeno nella forma hegeliana di un concetto finalmente compreso, bensì un’immagine idolatrica del divino, anzi un feticcio: apparenza fissata in cosa. […] «La tradizione degli oppressi ci insegna che lo “stato d’eccezione” in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponda a questo. Allora ci starà davanti, come nostro compito, di suscitare il vero stato d’eccezione, migliorando così la nostra posizione nella lotta contro il fascismo. La cui chance sta, non da ultimo, nel fatto che gli oppositori lo affrontano in nome del progresso, come se questo fosse una norma della storia. — Lo stupore perché le cose che noi viviamo sono “ancora” possibili nel ventesimo secolo non è filosofico. Non sta all’inizio di alcuna conoscenza, se non di questa: che l’idea di storia da cui deriva non è sostenibile.» […] Il primo passo in tale direzione consiste nel frantumare il totalitarismo di questo modello, il suo carattere di «falsa universalità». Per questo bisogna spingere il concetto di progresso verso il suo limite, farlo precipitare verso la sua soglia critica. Allora il processo si rivela una catastrofe, la totalità si trasforma in un cumulo di macerie. […] Quel che resta qui non è, però, né il tempo né la sua fine. Quel che resta è l’immagine dell’incompiutezza dell’origine che proprio l’unità di catastrofe e redenzione rivela.» (Desideri Fabrizio, Baldi Massimo 2010 Benjamin, Carocci editore, Roma p. 168-171, 191) [è qui la differenza tra il messianismo ebraico e il messianismo cristiano, compreso l’abbandono di una teologia “cattolica” fondata sulla redenzione dal peccato, magari originale; se vi è un “peccato” originale è l’incompiutezza della creazione.] «Il “tempo perduto” di Benjamin non è il passato, ma il futuro. Il suo sguardo rivolto all’indietro è l’utopia infranta che può accendere solo “nel passato la scintilla della speranza”.» (P. Szondi, citato in Desideri-Baldi 2010 p.102) 2.2.2. L’apertura. Nonostante o forse perché e quando il passato si presenta in termini di macerie e non di ordine, allora diventa materiale per costruire. Non impone un concetto già scritto di progresso e ordine, spinge verso il futuro in termini di scelte compositive. Osserva Adorno, più tardi, sul tema del passato delle opere e del loro rapporto produttivo con il tempo successivo: «Affinché però la qualità si dispieghi storicamente, non c’è bisogno solo di essa, in sé, bensì di ciò che le segue e dà rilievo al più antico; forse c'è addirittura una relazione fra qualità e processo di deperimento». (Adorno Wiesengrund Theodor, 1970, Teoria estetica, Einaudi, Torino 1977, 328) Tornano le frasi di Benjamin nelle considerazioni di Habermas: «Vorrei prendere lo spunto da una frase che Benjamin rivolse una volta contro il modo di procedere della storia della cultura: «essa accresce il peso dei tesori che gravano sulle spalle dell’umanità. Ma non dà a quest’ultima la forza di scuoterseli di dosso e quindi di farli suoi». Proprio in questo Benjamin individua il compito della critica. Benjamin non considera le testimonianze della cultura dal punto di vista storico dei beni culturali accumulati, che sono contemporaneamente delle testimonianze della barbarie, ma, come egli stesso osserva con durezza, dal punto di vista critico della dissoluzione della cultura «in beni che possono essere oggetto di proprietà per l’umanità».» (Habermas Jürgen 1973 Cultura e società, 235-6) Se nelle macerie del passato si scorge un sia pur labile disegno, esso non appartiene al passato, è solo riferito al passato ma è possibile in quanto lo sguardo è rivolto al futuro e quelle macerie diventano la concretezza dell’operare nel tempo. In altri termini, le macerie, la frantumazione, la frammentazione non sono qui, nella storia, sinonimo di distruzione ma sguardo onesto che mette a disposizione materiale per la ripresa, il rilancio, la costruzione. 2.2.3. Note libere a commento - «Ho letto quella frase decine di volte, e ogni volta mi è sembrata più oscura, ma anche più vera». (Matteo Codignola, Un tentativo di balena) - «seguire logiche senza ragione» (Elisa) (cantante) 21 - «...Alle volte mi basta uno scorcio che s'apre nel bel mezzo d'un paesaggio incongruo, un affiorare di luci nella nebbia, il dialogo di due passanti che s'incontrano nel viavai, per pensare che partendo di lì metterò assieme pezzo a pezzo la città perfetta, fatta di frammenti...» (Italo Calvino, Le città invisibili) - «La categoria del frammentario, che si colloca a questo punto, non è quella della contingente singolarità: il frammento è quella parte della totalità dell'opera che resiste alla totalità stessa.» (Adorno Wiesengrund Theodor, 1970, Teoria estetica, Einaudi, Torino 1977, 78) - Frammenti / aforismi. Osserva Maurizio Ferraris a proposito dei brevi interventi di Umberto Eco, nella rubrica “La bustina di Minerva” (raccolta in libro e pubblicata: Bompiani, Milano 2000): «… Sì, succedeva, la bustina di Minerva era consona alla filosofia, la nottola di Minerva, purché si trasformasse l’appunto in un breve articolo. Eco ha ricordato (ed è una esperienza comune per chiunque si occupi di filosofia e scriva sui giornali) che contrariamente a quello che molti possono pensare, quegli interventi brevi non sono la ricaduta di libri più ponderosi e pensosi, ma, al contrario, la prima manifestazione di idee, che forse, in seguito, avranno uno sviluppo più esteso, ma che per l’intanto si mettono lì, come un bonsai. Nel minimo si raccoglie una monade, che può essere sviluppata o rimanere com’è e dov’è, ma che comunque ha (o almeno deve avere) la sua compiutezza, che è, si badi bene, quella di una idea, non quella, magari suggestiva ma incompiuta e spesso alla fine deludente, di un frammento.» (Ferraris Maurizio 2008 Il tunnel delle multe. Ontologia degli oggetti quotidiani, Einaudi, Torino p. 235) - se guardo indietro vedo macerie PIANTO ‘MAI PIU’ ! asciugo gli occhi, abbozzo un sorriso raccolgo mattoni… tra tutto quel materiale in avanzo dai sistemi troveremo qualcosa per costruirci una casa ! (Silvia Barbieri) - Un prodotto dalla street art: un murale come fregio continuo lungo 550 metri e alto 10, di un’ottantina di figure che sintetizzano millenni di storia in accostamento cronologico tematico libero, realizzato sul lungotevere romano, tra Ponte Mazzini e Ponte Sisto, inaugurato il 21 aprile 2016, opera dell’artista e regista sudafricano William Kentridge, dal titolo Triumphs and Lament. «Con il senso della storia che cambia. Il presente ogni volta influenza il passato. Io ho messo insieme dei frammenti.» (W. Kentridge, la Repubblica, 10 aprile 2016, 36) 2.3. frammentazioni contemporanee senza viaggio e senza aforismi nei diffusi non-luoghi: sguardi sociologici in prospettiva 22 Le attuali comunicazioni frammentare (sms, tweet…) o i contemporanei diffusi frammenti. Frammenti senza aforismi (?). Luoghi di transito e comunicazioni di transito. I luoghi, gli spazi della comunicazione contemporanea quotidiana o i «Tipi di territorio»: Lo spazio personale. La nicchia. Lo spazio d’uso. I1 turno. La guaina. La riserva di possesso. La riserva di informazione. La riserva conversazionale. Per la presentazione e analisi: Boni Federico 2007 Sociologia della comunicazione interpersonale, Laterza, Roma-Bari. Ai Tipi di territorio corrispondono Tipi di marca (contrassegni che indicano che «lì» c’è un territorio) e Tipi di violazione… forme di comunicazione e di non comunicazione; frammenti di legami in diversa continuità o discontinuità. Un concetto che ricorre a definire il luogo e il tempo contemporanei e le comunicazioni: il non-luogo; oggetto di studio analitico ad opera di Marc Augé. 2.3.1. i non-luoghi dello spazio vissuto e le forme frammentate del (non)comunicare: il non luogo della comunicazione (o la comunicazione negata nella comunicazione, o le nuove forme e opportunità del comunicare). Una definizione di non-luogo; i non-luoghi delle nuove comunicazioni o delle “comunicazioni di transito” (non vanno compresi tra i non-luoghi i luoghi virtuali messi a disposizione dalla rete web; vedi dopo). Qui il deficit delle risorse conversazionali è riempito da una "comunicazione di transito" che diviene linguaggio sociale diffuso; viene definita "di transito" quella comunicazione semplificata che si svolge di norma nei luoghi che, a ben guardare, sono non-luoghi, luoghi di transizione che, per la loro periodicità e il loro intensificarsi come durata, diventano luoghi di lunga persistenza: treni, metro, autobus, bar, uffici pubblici, giardini pubblici, discoteche, comunicazioni telefoniche ecc. Ambiti nei quali prendono consistenza specifici e doverosi stereotipi, ma si tratta di infraspazi destinati ad un futuro essenziale e indispensabile di rete connettiva, valorizzazione e apertura di tessuti abitativi precedenti (in citazione libera da Barbieri, Pepe (a cura), Infraspazi, Meltemi, Roma 2006). L’osservazione sociologica attuale presta una particolare attenzione ai non-luoghi al punto che sembra partire proprio da quelli per osservare e comprendere la dinamica della società contemporanea. (cfr. anche Floch Jean-Marie Esploratori o sonnambuli? Elaborazione di una tipologia comportamentale dei viaggiatori della metropolitana, in Bettettini G., Calabrese O., Larusso A.M., Violi P., Volli O. 2005 Semiotica, R. Cortina, Milano; Augé Marc, 2013, L’antropologo e il mondo globale, Raffello Cortina editore, Milano 2014) 2.3.1.1. Cosa sono i non-luoghi in cinque movimenti: alcune definizioni. Si considera luogo l’area di riferimento per la propria identità o, in modo più astratto, l’area con la quale ci si identifica, sede dei punti di orientamento rivendicati come propri e specifici: luogo è l’area per la quale si esibisce la cittadinanza (sono italiano, europeo), un ruolo sociale (sono dirigente, operaio), uno stato sociale (la mia famiglia), il gruppo (della vedovella, dei propilei ecc.). Non luogo è lo spazio delle transizioni, alle quali non si attribuisce alcun ruolo identitario per sé: il metrò, il treno, un supermercato, l’autostrada, il quartiere se in situazione di banlieu ecc. Afferma Michel Foucault: «… un “non luogo”, una pura distanza, il fatto che gli avversari non appartengono ad uno stesso spazio.» (Foucault Michel 1971 Microfisica del potere. Interventi politici, Einaudi, Torino 1977, 39); se si vuole è un luogo (lo è spazialmente) ma dove sono conservate e mostrate, risultano evidenti, le distanze, la non relazione, la non appartenenza tra coloro (e/o tra le cose) che vi sono presenti o “collocati”; anche un luogo familiare, un luogo della riunione e dell’incontro può diventare un non luogo. 2.3.2. le forme comunicative del non-luogo. Il non-luogo è definito da una forma di comunicazione specifica nella sua forma generica. Momenti di comunicazione sospesa, rarefatta, abitudinaria e non partecipata sono presenti e caratterizzanti. Ma la loro rilevanza è un’altra: essi rischiano di diffondersi e crescere per ripetizione anche in luoghi scelti come proprio contesto culturale-identitaria. Insomma la dinamica dell’età contemporanea sarebbe letta a partire dallo scontro in atto, e totalmente imprevedibile negli esiti, tra luogo e non-luogo e dalla tendenza ad espandersi in luoghi canonici delle comunicazioni tipiche dei non-luoghi. 23 (così lo studio di Augé Marc 2007 Tra i confini. Città, luoghi, integrazioni, B.Mondadori, Milano) 2.3.2.1. le forme del tempo e del viaggio negato il non tempo, non luogo, non movimento dell’industria culturale; il tempo vuoto, voluto e conservato come tale, delle proposte dell’industria culturale: «La domanda che cosa l'industria culturale infligga agli uomini è verosimilmente troppo ingenua; l'effetto dell'industria culturale è assai meno specifico di quanto la forma della domanda suggerisca. Il tempo vuoto viene riempito di vuoto, non si ha nemmeno produzione di falsa coscienza, tutto lo sforzo serve semplicemente a lasciare così come è quella di già presente.» (Adorno Wiesengrund Theodor, 1970, Teoria estetica, Einaudi, Torino 1977, 410) Si incontrano qui più negatività di carattere strumentale e non formativo-dialettico: i non-luoghi (su cui si concentrano gli studi antropologici e sociologici di Marc Augé come analisi dei non-luoghi sede delle comunicazioni di transito o non comunicazioni), il non-tempo. Un tempo che non trascorre, che non ospita alcun divenire, alcun mutamento perché è solo ripresa e conferma di luoghi comuni (in senso spaziale, temporale e linguistico-concettuale), cioè di non-luoghi, luoghi in cui non ci si ritrova in quanto in essi si attua il dissolvimento dell’io come possibilità estetiche e cognitive e con un processo di “forclusione”; un’assenza a se stessi non accompagnata da consapevolezza, assenza di cui non si è consapevoli, anzi negata come situazione di assenza; non vi è infatti in essa alcuna traccia di consapevolezza che sia in atto una produzione di una falsa coscienza. La scena è nota: già descritta nelle sue diverse fasi, nel mito della caverna platonica e prima, nel “frammento” di Parmenide: gente dalla doppia testa, per cui essere e non-essere sono la stessa cosa; o meglio il non-essere diventa essere; l’ombra diventa realtà, il discutere intorno alle ombre (e il far convegni) diventa cultura, produzione culturale, scienza pubblica. 2.3.2.2. comunicazioni in cerca di luogo: «Vi sono messaggi che servono essenzialmente a stabilire, prolungare o interrompere la comunicazione, a verificare se il canale funziona («Pronto, mi senti?»), ad attirare l’attenzione dell’interlocutore o ad assicurarsi la sua continuità («Allora, mi ascolti? » o, in stile shakesperiano, «Prestatemi orecchio!» — e, all’altro capo del filo, «Hm-hm!»). Quest’accentuazione del contatto (la funzione fatica, secondo la terminologia di Malinowski) può dare luogo a uno scambio sovrabbondante di formule stereotipate, a interi dialoghi il cui unico scopo è di prolungare la comunicazione...» (Jacobson, Saggi di linguistica generale, in Fubini, o.c.) 2.3.3. una dinamica. È in atto una doppia e antitetica tendenza: 1. dei luoghi a diventare non luoghi, con comunicazioni stereotipate e rarefatte; 2. dei non luoghi a diventare luoghi con autopromozione di sé come evento, luoghi identitari, comunitari, di gruppo (sedi di eventi: mostre, sfilate…). Nella società contemporanea i non luoghi subiscono una dilatazione imprevedibile e sicuramente non volontaria: le ore passate sul treno, in metrò, in autostrada; il dilatarsi e moltiplicarsi dei supermercati e del tempo lì trascorso ecc. Si tratta di luoghi non identitari ma che materialmente assorbono momenti e spazi sempre più ampi della giornata. 2.3.3.1. un tentativo. La società attuale sembra caratterizzarsi dalla tendenza dei non luoghi a diventare o imporsi come luoghi: il metro si abbellisce, nelle proprie stazioni ospita mostre o eventi musicali, il supermarket si fa ludoteca, dispone di oasi interne, espone mostre (il crakingart di Oriocenter), ospita sfilate di moda, concorso dei presepi (Centro commerciale di Curno), mette a disposizione spazi per culti religiosi… e la banlieu diventa un contesto di nuova identità politica alternativa, di protesta quando non rivoluzionaria. 2.3.3.2. un meticciato. Se si assiste al progetto del non-luogo di diventare luogo (con pretese appunto di segnare nuove identità, per lo meno aggregative), o si avverte la volontà del nonluogo di soppiantare precedenti luoghi (si passerà la domenica all’iper e non in chiesa), si scopre anche come ogni luogo possa diventare un non-luogo, o si scopre anzi la presenza di non-luogo in ogni luogo. 2.3.3.3. non-luoghi che diventano luoghi perché la frequentazione, gli incontri, l’osservazione attribuisce loro domesticità e lì si addensano azioni e ricordi. «Non è un nonluogo (il metrò), 24 in ogni caso per me, né per coloro che vi compiono regolarmente lo stesso tragitto. Nel metrò, essi hanno dei ricordi, delle abitudini, riconoscono dei volti e intrattengono con lo spazio di certe stazioni una sorta di intimità corporea misurabile nel ritmo della discesa nella rampa di scale, nella precisione del gesto con cui si introduce il biglietto nella fessura del portello di accesso o nell’accelerazione del passo quando si indovina dal rumore l’arrivo del treno sul bordo del binario. Non è un nonluogo per coloro i quali, come me, continuano a percepirlo come un elemento essenziale della Parigi intra muros, quella Parigi indissociabile dal suo metrò celebrato in certe canzoni, in certi film o testi nel dopoguerra e negli anni Cinquanta, da Georges Ulmer a Serge Gainsbourg, da René Clair a Raymond Queneau. La Place Pigalle (“Un p’tit jet d’eau, Un’ station de métro »), Porte de Lilas, Le Poinçoinneur des Lilas (“Des p’tits trous, Des p’tits trous”) e Zazie: sono i ritornelli, le immagini e le parole che hanno accompagnato la mia generazione dall’infanzia alla giovinezza. Come avremmo potuto non credere di vivere al centro del mondo? Questo centro che il mondo intero si era mobilitato per liberare e di cui il metrò costituiva le arterie, il cuore e le vene, visto che, da Bastille a Etoile, da Wagram ad Austerlitz o da Louvre a République, non smetteva di celebrarne quotidianamente la grandezza?» (Marc Augé, Il metrò rivisitato, Raffaello Cortina editore, 2009, p. 31-32). 2.3.4. fino all’elogio del non luogo, come frammenti di comunicazioni sospese in un viaggio che non ha fine, né termine nè scopo ma opportunità e… forse alterità; un «seguire logiche senza ragione» (Elisa [cantante]). «Tuttavia la moltiplicazione degli spazi anonimi nei quali non sembra radicarsi alcuna relazione sociale crea paradossalmente nuove familiarità. Ci si sente meno sperduti, perfino all’altro capo del mondo, quando si entra in un supermercato. Le pubblicità, i negozi di articoli di lusso, i marchi contrassegnano i nuovi spazi della circolazione planetaria, come, per esempio, gli aeroporti. Le iscrizioni o gli annunci in inglese contribuiscono inoltre a uniformare simbolicamente il pianeta, proprio come i monumenti dell’architettura internazionale che s’innalzano nelle grandi metropoli mondiali e sembrano farsi eco da un continente all’altro. I paesaggi del mondo attuale — ossia di un mondo segnato dall’accelerazione del tempo, dal restringimento del pianeta e dall'individualizzazione dei percorsi — sono essenzialmente paesaggi urbani o in via di urbanizzazione. Ma la città cambia, salta oltre i muri e si estende ben oltre il suo cuore “storico”, allunga i propri tentacoli lungo i fiumi, le coste e le vie di comunicazione per legarsi sempre più strettamente alle città vicine. Percepiamo ogni giorno i segni di un rapido cambiamento di scala di cui gli schermi della televisione e dei computer sono insieme l’indice e l’acceleratore. Le generazioni più giovani e quelle di domani trovano i propri riferimenti in questo nuovo spazio-tempo. E così le nostre rispettive infanzie rischiano di perdersi di vista.» (Augé Marc, 2013, L’antropologo e il mondo globale, Raffaello Cortina editore, Milano 2014, 47) Le differenze, un tempo segnate dalle distanze spaziali, paiono ora concentrarsi indifferentemente nei luoghi del vivere, che diventano anche aree di transito, frammenti capaci di ricordare e restare in comunicazione con il mondo globale, come accade ad ogni realtà locale collegata in rete globale, come accade, filosoficamente, nella monade-sostanza presentata da Leibniz. Le dimensioni locale e globale si intrecciano per nuovi cammini e frammenti (cfr. le tesi nello studio antropologico citato: Augé Marc, 2013, L’antropologo e il mondo globale, Raffaello Cortina editore, Milano 2014, la sintesi alle pp. 51-52). «Il luogo non si oppone al nonluogo come il bene al male o il vivere bene al vivere male. Il luogo assoluto corrisponde piuttosto a uno spazio in cui ognuno sarebbe obbligato a soggiornare in virtù dell'età, del sesso, del posto occupato nella filiazione e delle regole dell’unione matrimoniale: uno spazio in cui il senso sociale, inteso come l’insieme delle relazioni sociali autorizzate o prescritte, sarebbe al suo culmine, in cui la solitudine sarebbe impossibile e la libertà individuale impensabile. Il nonluogo assoluto sarebbe invece uno spazio senza regole né alcun tipo di obblighi collettivi: uno spazio senza alterità, uno spazio di 25 solitudine infinita. L’assoluto del luogo è totalitario, l'assoluto del nonluogo è la morte. Evocare questi due estremi significa definire la posta in gioco di ogni politica democratica: come salvare il senso (sociale) senza uccidere la libertà (individuale) e viceversa?» (Augé Marc, 2013, L’antropologo e il mondo globale, Raffello Cortina editore, Milano 2014, 52) Si può precisare: l’isolamento è rancoroso, la solitudine è contemplativa e luogo di un pensare lento, per rilanciare la comunicazione. Detto con Eraclito (parafrasando): il luogo assoluto, il dire assoluto sono senza libertà; il non luogo assoluto, il non dire assoluto è isolamento. Si tratta di estremi di una sfida perennemente in gioco e in divenire, come una infinita e produttiva concordia discors. 26