Giorgio Muratore, Il quartiere della Garbatella

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IL QUARTIERE DELLA GARBATELLA E LE SUE ARCHITETTURE
Giorgio Muratore
A partire dalla sua fortunata, recente, apparizione come scenario di alcune sequenze in "Caro diario" di Nanni Moretti il
quartiere romano della Garbatella pare godere di una sua rinnovata, straordinaria e diffusa forma di popolarità.
In effetti, il quartiere, notissimo tra gli architetti e studiato sistematicamente ormai da oltre trent'anni come uno dei luoghi
più interessanti dal punto di vista storico, urbanistico e architettonico di Roma moderna, fino ad oggi, non ha goduto di
grande considerazione tra il grande pubblico e, un po' come tutte le periferie popolari della città, ha subìto, invece, per
decenni ondate successive fatte di disprezzo, di disattenzione e di relativo oblio.
Ma a farne un vero e proprio oggetto di culto metropolitano concorrono ormai non solo e non tanto le sue, al fondo
sintomatiche, fortune cinematografiche, ché, se mai, queste, ne sono appunto solo traccia indiziaria e ricaduta nostalgica più
recente, quanto la straordinaria complessità culturale, vero sedimento storico e sociale di una delle stagioni più complesse e,
peraltro, vitali del Novecento romano.
Come ognuno ben sa la Garbatella, insieme alla coeva esperienza della Città Giardino Aniene, più nota forse ai romani sotto
il nome di Montesacro, costituisce una delle poche esperienze portate avanti nella nostra città sui temi della moderna
urbanistica internazionale basata sul decentramento residenziale e produttivo e sostanzialmente esemplata sui prototipi della
"Garden City" anglosassone.
Ma se, nel caso di Montesacro, tutta una serie cospicua di trasformazioni e di stratificazioni tipologiche ne hanno nel corso
del tempo sostanzialmente stravolto sia l'assetto tipo-morfologico che l'aspetto figurativo, fortunatamente, nel caso della
Garbatella, il particolare regime della proprietà soprattutto, ne ha consentito una sostanziale e diffusa conservazione. Anzi,
si può ben dire che, fino ad oggi, nel momento in cui si affacciano potenzialità, ma anche rischi diversi, la generale
mancanza di interesse e di risorse come pure una certa marginalità rispetto ai flussi urbani ed economici prevalenti, siano
stati alla base della sua, per tanti versi eccezionale, conservazione.
Il quartiere si offre quindi oggi e ci auguriamo lo possa ancora per un lungo futuro come la straordinaria silloge
architettonica di uno dei momenti più vitali di questo secolo sia sotto il profilo della ricerca urbanistica che della
sperimentazione architettonica.
La sua specifica vicenda urbana si intreccia quindi con i destini di Roma Capitale e con il tentativo di modernizzazione di
una città ove la prevalenza di un'ipostasi storica ha fatto spesso velo al più disteso sviluppo di un'idea di modernità di
stampo internazionale. Ma tant'è, ché sarà proprio questa sua cogente ed implicita dimestichezza con la storia a farne oggi
quell'unicum cui da tante parti del mondo si guarda con sempre più evidente e spesso incredulo interesse.
Dicevamo di Roma Capitale e quindi della sua proiezione verso il Tirreno, dei tentativi, tutti abortiti, di farne una città
"moderna" anche dal punto di vista industriale, col suo porto, i suoi quartieri, i suoi opifici disseminati lungo le rive del
fiume sognato come il prolungamento dei fasti armatoriali dei nuovi padroni venuti dal Nord.
Grandi interventi, mai realizzati, ma che segneranno in profondità, disegneranno l'armatura del palinsesto urbano dei
quartieri meridionali della città. Da Testaccio a Fiumicino, dall'Ostiense a Casal Palocco, dall'EUR a Ostia, tanto per
intenderci, dove si stratificheranno nei primi settant'anni dell'unità nazionale fenomeni complessi e interconnessi che fanno
della Roma liberale, fascista, democristana, uno degli itinerari più labirintici e affascinanti della storiografia contemporanea.
La Garbatella nasce e si sviluppa all'interno di questo contesto, di questo particolarissimo groviglio finanziario, ideologico,
culturale ove agli armatori si affiancano gli archeologhi, i gerarchi e i monsignori in quell'infernale calderone "petrolifero",
in quella "Città di Dio", che forse solo Pier Paolo Pasolini ebbe la capacità di ritrarre con la grandezza e la tragicità che gli
furono proprie. Al centro di tutto questo, appunto, il nostro quartiere.
Quartiere realizzato, sostanzialmente, dal Venti al Trenta, tanto per definirne sommariamente i limiti cronologici, al cui
interno sono riconoscibili anime diverse che vanno dalle memorie ancora ottocentesce, semirurali del primo nucleo su via
delle Sette Chiese, alle fantasie ostiensi e teatrali di piazza Bartolomeo Romano, dall'ibrido borrominian-metropolitano di
piazza Eugenio Biffi, alle sperimentazioni tipo logico-linguistiche del celebrato "Lotto 24", autentico manifesto
piacentiniano; tutti luoghi ove avanguardia e vernacolo si contaminano dando luogo ad una delle più fortunate
agglomerazioni progettuali di questo secolo.
Nei dieci anni che separano le prime dalle ultime, le architetture realizzate nel contesto del nuovo quartiere testimoniano
così di un fermento e di una ricchezza culturali che ben raramente è dato di scoprire in altri contesti. Il merito va all'Ente che
realizzò per fasi successive l'impresa: lo I.C.P. (Istituto per le case Popolari) di Roma, allora diretto con straordinaria
competenza ed efficacia da Alberto Calza-Bini.
Lo stesso I.C.P. realizzerà, soprattutto negli anni tra le due guerre, una mole impressionante di architetture, una più
interessante dell'altra, garantendo in diversi punti nodali della città la presenza di una serie di edifici che, nel tempo,
confermeranno la loro intrinseca qualità attraverso non tanto e non solo la capacità di resistere alle mode ma anche di porsi
quali elementi determinati nella definizione e nella riconoscibilità del suo affascinante volto contemporaneo.
I tecnici che affiancarono più da vicino Calza-Bini, tra i tanti, Innocenzo Costantini e Innocenzo Sabbatini, seppero così, in
pochissimi anni e con una dotazione di mezzi, sia tecnici che finanziari, sicuramente contratta, realizzare alcune delle
pagine più significative dell' architettura contemporanea, non solo romana.
Se si analizzano poi le diverse parti del quartiere ci troviamo di fronte ad un campionario estesissimo di esperienze, tutte di
grande interesse che meritano di essere approfondite ciascuna di per sé, rappresentandosi ognuna come il compimento e il
sintomo di un fenomeno complesso le cui articolazioni nel loro insieme determinano la vitalità dell'intero organismo
urbano.
Nei lotti I°, II°, III° e IVO che definiscono il primo gruppo di edifici realizzati nel perimetro individuato da via della
Garbatella, via delle Sette Chiese e via Cialdi, ci troviamo così di fronte alla messa a punto di un prototipo insediativo ove i
caratteri ancora palesemente rurali e un po' acerbi del nuovo quartiere estensivo si aggregano attorno alla singolare
emergenza edilizia ed urbana di piazza Brin.
I caratteri edilizi del complesso oscillano tra il minimalismo delle abitazioni sparse, i cui caratteri antiurbani restano in
evidenza e il relativo predominio dell'edificio centrale e l'unico ad ospitare sia pur embrionali attività commerciali che, con
il suo arco centrale in asse con la scalinata che digrada verso l'Ostiense, si pone come il baricentro dell'intera composizione.
Molto affine per caratteri linguistici e figurativi alle realizzazioni dell'ICP. nelle zone del Trionfale e dell' Aniene,
soprattutto questo edificio rinvia attraverso Giovannoni e il primissimo Piacentini a più estese lezioni boitiane e di là fino a
Viollet- le-Duc.
Il lavoro di Costantini, di Marconi, di Nori, di Palmerini e specialmente di Sabbatini risente così ancora di schietti e stretti
legami con la cultura del secolo precedente, ne recupera i legami con le tradizioni locali attraverso l'uso dei materiali e nel
lessico decorativo e si impegna in una dimensione ove l'attenzione antropologica e sociale verso le classi recentemente
inurbate si costituisce come una delle componenti determinanti del progetto. Precoci attitudini "neorealiste" della cultura
romana si innestano così nella tradizione dell' architettura "minore" recuperandone soggettività artigianali e sensibilità
tecniche ed espressive essenziali.
Negli edifici che si affacciano su piazza Bartolomeo Romano, la presenza e la personalità di Innocenzo Sabbatini si fanno
più esplicite, come pure più evidente risulta il suo tentativo di raccordo con gli argomenti della modernità metropolitana, da
un lato, e la ricerca di un recupero in chiave progressiva dell' eredità classica, dall'altro.
Siamo qui di fronte all'esercizio disteso, ma mai compiaciuto di una divaricazione metodologica ed espressiva subita e
difficilmente conciliabile che ricerca le sue ragioni nella forte dimensione urbana di una decisiva presenza edilizia: due
grandi "case" le cui caratteristiche sono segnate intimamente dalle specifiche funzioni rispettivamente ospitate.
Oltre alle abitazioni i due edifici contengono infatti, l'uno, un grande Cinema-teatro e, l'altro, i Bagni pubblici in dotazione
all'intero quartiere.
Due presenze contraddittorie che ci dimostrano nella loro compresenza, da un lato, la già rilevante funzione di aggregazione
sociale e di massa del moderno cinematografo allora agli albori del sonoro e, dall' altro, la contemporanea obiettiva
"povertà" di servizi di cui soffriva quella medesima società.
Una grande quinta teatrale a far da sfondo alla convessità estroflessa della sala ove vengono insieme evocati i fantasmi di
Petrolini e di Lang si affaccia sulle memorie termali e ostiensi di quel "diurno" di periferia che si richiamava alle
ricostruzioni coeve di Gismondi e di Calza per la casa "romana", antica. Il "Bagno" e il "Cinema", quindi come strutture
centrali del vivere associato che iniziano ai temi della modernità chi affronta le nuove dimensioni "igieniche" e "politicoculturali" della città di massa.
Ma l'opera più significativa realizzata da Innocenzo Sabbatini nel contesto del quartiere è costituito senz' altro dal
complesso dei nuovi edifici incernierati sul sistema delle tre piazze attigue alla circonvallazione Ostiense: piazza Eugenio
Biffi, piazza Giovanni da Lucca e piazza M. da Carbonara. Si tratta di un sistema di edifici sostanzialmente articolati su
corpi ad Y e per lo più noti con il nome di "Alberghi rossi". Edifici progettati come alloggi provvisori per gli sfrattati dalle
zone recentemente demolite in virtù della politica del diradamento attuata in larghi settori del centro storico romano, perciò
“Alberghi" e che costituiscono una vera e propria svolta nella cultura architettonica romana. Frutto di un autentico colpo di
mano estivo del giovane progettista, rimasto solo a lavorare nella calura di agosto del 1927, e della fretta con la quale i
medesimi edifici dovevano essere allestiti per l'inaugurazione nei primi mesi dell' anno successivo, essi sono la
testimonianza più efficace delle aporie e della complessità di quel clima culturale ravvivato dalla polemica razionalista e
così denso di contaminazioni nell'ultimo scorcio degli Anni Venti.
Specie di moderno, romanesco e un po' babelico falansterio, il complesso si offre all'attenzione dei contemporanei per
l'esibita esuberanza della sua articolazione volumetrica che rinvia alle profonde contaminazioni metodologiche e
linguistiche in atto in quegli anni cruciali appena a ridosso della famosa esposizione parigina del 1925 dedicata alle Arti
Decorative e dell' altrettanto determinante Esposizione del Werkbund di Stoccarda; richiamando Borromini e la Secessione,
le memorie futuriste e quelle classiche, insieme.
La facciata concava che prospetta verso il centro e le mura della città antica, l'intelaiatura della cupola in cemento armato a
lacunari finestrati, la semplificazione all'estremo dell'ordine e del partito decorativo, l'uso un po' sfrontato delle potenzialità
delle nuove tecnologie e quello diffuso della pietra artificiale, lo straordinario vano dei ballatoi, delle scale interne e di
quelle esterne, sono tra gli altri, tutti elementi che rinviano alle contemporanee e divaricate elaborazioni su temi analoghi di
Giovanni Battista Milani e di Adalberto Libera e per vie diverse di Mario De Renzi e di Domenico Filippone, come pure
alle riflessioni degli studiosi, specialmente mitteleuropei, sul barocco romano, da un lato, e sulle decantazioni
razionalespressionistiche del Werkbund tedesco, dall'altro.
Necessariamente connessa alle vicende di certo internazionalismo razionalista, di cui in quegli anni da alcuni veniva
sottolineata la relativa schematicità espressiva, l'esperienza del cosiddetto "Lotto 24" la cui impostazione risente
esplicitamente della lezione di Marcello Piacentini. Siamo qui di fronte ad una serie di dodici edifici sperimentali, realizzati
in occasione del XII° Congresso Internazionale delle Abitazioni e dei Piani Regolatori, da cinque importanti imprese
romane, Federici, C.E.S.A.R., Tudini e Talenti, Gra e Rosa che affidarono la progettazione ad alcuni tra i più promettenti
architetti della nuova generazione: Aschieri, Cancellotti, De Renzi, Marchi, Vietti; a Plinio Marconi che firmò anche lo
studio urbanistico del lotto, fu affidata, fuori concorso, la realizzazione di un tredicesimo edificio, quello di testata,
all'incrocio fra via Borri e via De Jacobis.
Tra i vari edifici spiccano, per la loro qualità, quelli di Mario De Renzi e tra questi, in particolare, la piccola
casa bifamiliare all' angolo di via delle Sette Chiese, che conclude il lotto, la quale, oltre ad imporsi come una delle più
significative e sofisticate realizzazioni del giovane architetto romano, costituisce un punto di riferimento essenziale per
comprendere la straordinaria vitalità della cultura romana sul finire degli anni Venti.
G.M.
In “Invito alla Garbatella, percorsi d’arte nella città-giardino”
a cura dell’Associazione Culturale Futuro,
Palombi Editore, Roma 1998.
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