Alla ricerca di un tempo interiore. Une heure n'est pas qu'une heure, c'est un vase rempli de parfums, de sons, de projets et de climats M. Proust Il tema della II edizione del Concorso “Un’opera per il Castello”, Lo spazio della memoria - La memoria dello spazio, per ammissione della vincitrice Rosy Rox è molto vicino alla sua attività. Nella formulazione del progetto Tempo interiore l’artista si è relazionata con una tematica centrale della sua produzione, la ricerca di una liberazione personale e collettiva. Il rimando al pensiero bergsoniano e all’esistenza di un tempo altro rispetto al quello lineare ed evidente della scienza è insito nel titolo stesso dell’opera. Il tempo della vita non può essere tradotto in una linea continua, interiorizzando il concetto di spazio, ma in un addensarsi di trascorsi che continuano a esistere e ad accumularsi in un processo di conservazione totale. La memoria coincide quindi con l’interezza del nostro passato, anche con quello incosciente che non si trasforma in ricordo, ma continua a seguirci in qualsiasi momento. L’artista colloca sull’orologio monumentale del Castello le tre lame (secondi, minuti e ore) che ruotano in senso orario e antiorario, rappresentando contemporaneamente il tempo della vita e il peso e “l’atrocità” di un passato che appartiene alla sfera individuale e quella sociale. Rosy Rox ha messo in luce l’aspetto più crudele del trascorso del Castello, l’ essere stato a lungo luogo di prigionia e sofferenze. L’opera è l’elemento conclusivo di un percorso nella memoria. Percorso che inizia dagli ambienti interni di Sant’Elmo, dove in passato erano accalcati prigionieri e incarcerati uomini e donne illustri come Tommaso Campanella e i rivoluzionari del 1799, spazi carichi di vissuti sovrapposti e che emotivamente continuano ad esistere. Dal buio del ventre del Castello Rosy Rox fa emergere sulla Piazza d’armi, restituendo le lancette e un meccanismo nuovo a un orologio che la storia aveva reso muto, i trascorsi e la sofferenza addensati nello spazio della memoria. L’artista, con le sue lame, evoca una sensazione di angoscia dalla quale scaturisce, secondo le modalità proustiane, la liberazione di un ricordo che rimanda nello stesso momento alla storia del Castello e alla memoria personale. L’interazione con l’altro è l’elemento imprescindibile della sua produzione che si esplicita completamente nelle azioni performative, come in Please return to You e in Mi infrangerò nella tua sentenza, entrambe del 2012, con cui l’artista attiva con il fruitore un dialogo esclusivo, fatto unicamente di sguardi e movimenti del corpo. La nudità dell’artista di fronte all’altro è un esporsi al suo giudizio, ma anche un condividere un rituale di liberazione e di lento disvelamento della propria umanità. Utilizza terribili strumenti di tortura provenienti dall’immaginario medioevale, la cicogna di storpiatura e la ruota, ridisegnati con gusto estetico contemporaneo che non è esente dalla moda, in Please return to You l’incisione sul lucchetto allude a quella souvenir Please return to tiffany & co. New York 925, così come il luccichio dei cristalli impreziosisce la ruota dell’altra opera dello stesso anno. Altri strumenti di tortura quali le fruste Whip (2005) e Whip me purly (2007), rinviano a una moderna accezione del feticismo. Da un repertorio storico provengono le armi di Flail, 2007 e Morghensterne, 2011, e da quello orientale le shuriken ninja di Dodicesimo giorno, 2011. La cronaca quotidiana ispira, invece, le pallottole di Non è tutto oro ciò che luccica (2009), facendo infatti della lucentezza del cristallo o della preziosità del colore l’elemento comune di tutti gli oggetti. Il risultato è una sovrapposizione semantica in cui lo strumento di sopraffazione dell’uomo sull’uomo, pur rimanendo tale, diviene un gioiello da ammirare come le contraddizioni dell’animo umano che nascondono la bellezza della fragilità emotiva. Durante la performance Stark Rot (2005) l’artista è immersa in atmosfera morbosa composta dal rosso delle luci e dello spazio, dai cristalli e dai bicchieri rotti sul pavimento, tra i cui pericolosi frammenti lei è distesa. Sul suo corpo i segni rossi alludono a graffi provocati da una recente colluttazione, da un gusto per il masochismo o dagli sguardi e giudizi degli altri che come superfici affilate feriscono il corpo nudo, ma di fatto l’anima stessa dell’artista. Le ferite inferte o auto inferte sono il risultato di una ricerca di emancipazione dalle costrizioni sociali e dalla morale comune e allo stesso tempo un’ affermazione dell’essere femminile. Nel 2012 realizza le Robe, azione in cui è resa più esplicita la tematica dell’affrancamento dai travestimenti che gli uomini indossano o sono costretti a indossare, e che, da semplici maschere, vengono interiorizzati così nel profondo da diventare una seconda pelle. La performance è sempre la riproposizione del faticoso e sofferto svelamento. L’altra pelle, non a caso di lattice bianco, materiale asettico e freddo, è così coincidente con la vera, che solo dopo un faticoso momento catartico Rosy Rox riesce a liberarsene. La coincidenza tra lo sforzo fisico, che produce il vero e proprio strappo nella pelle artificiale, e quello emotivo, ovvero l’esposizione al pubblico della nudità fisica e dell’anima senza le convenzionali protezioni, rende possibile un ritorno all’umanità nei suoi valori più autentici. Partendo dalla propria corporeità Rosy Rox affronta i temi legati alla femminilità: se in Stark Rot descrive una donna alla ricerca di sé stessa che, senza rinunciare alla trasgressione, urta ferendosi contro gli stereotipi del suo essere femminile, in le Robe le contraddizioni dell’essere donna nella contemporaneità esplodono, lasciando sul pavimento, alla fine della performance, sotto forma di seconda pelle, le costrizioni sociali e maschiliste. Lotus flower (2009) è la vera e propria liberazione dell’essenza femminile. L’artista ripercorre la vita del fiore di loto, nel mondo orientale simbolo della crescita interiore della coscienza dell'individuo verso un livello superiore, che attecchisce nel fango dal quale trae nutrimento, per elevarsi senza macchia a simbolo di purezza e verità. Il risultato è una nuova consapevolezza della contraddizione vissuta dalle donne nel mondo occidentale, divise tra l’apparire e l’essere, costrette a fare i conti con la propria femminilità per non incorrere nel pericolo di essere considerate esclusivamente oggetto di desiderio. L’opera, traccia residuale e manifesto conclusivo di questa esperienza, è Terza posizione, che rimanda alla danza della performance. L’interesse per le esperienze umane non si limita solo alla questione femminile, ma si estende anche ai temi dell’infanzia e della senilità. Rosy Rox conduce azioni performative con i bambini della scuola elementare e con gli anziani affetti dalla sindrome dell’alzheimer. Durante questi momenti ancora una volta centrali sono i temi della memoria e della sofferenza. Viene chiesto ad ognuno di condividere un oggetto, un pensiero o un ricordo che vorrebbero cambiare e che durante l’azione performativa diviene il dono. L’opera si concretizza in oggetto artistico solido, sottoforma di un cubo di cemento, che sancisce la liberazione interiore attraverso una trasposizione del pensiero al di fuori di sé. Quello di Rosy Rox sembra essere un processo creativo complesso e stratificato, che rifiuta le interpretazioni sensazionalistiche e scandalose spesso legate alle performance e alle opere di forte impatto emotivo; esso è invece connotato dalla costante consapevolezza che “l’intuizione estetica è una liberazione, sia pure temporanea, dal dominio della volontà. In quel momento ci è possibile raggiungere quella pace che sempre cerchiamo e che sempre la volontà c’impedisce di raggiungere” (A. Schopenhauer) Claudia Borrelli