Testo Angela Tecce(application/msword

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Il pathos e la forma sono i due termini entro cui si muove la ricerca di Rosy Rox , vincitrice
dell’edizione 2012 del concorso Un’opera per il castello. La realizzazione del suo progetto prevede
l’installazione di tre lame di coltelli, in acciaio, di dimensioni monumentali, in sostituzione delle
lancette perdute del grande orologio bianco posto sul corpo di fabbrica, che funge da quinta
scenografica dell’immensa Piazza d’Armi.
Chi conosce il lavoro, ormai più che decennale, della giovane artista napoletana può inizialmente
restare spiazzato di fronte alla politezza di questi elementi, che in modo ambiguo rappresentano
l’idea di ‘tagliare’ il tempo: il tempo della memoria storica del monumento e di coloro, personaggi
noti o umili soldati e persone sconosciute, che ne hanno popolato per secoli gli spazi.
Era infatti La memoria dello spazio. Lo spazio della memoria il tema proposto per il concorso
attorno al quale gli artisti che quest’anno sono intervenuti hanno lavorato con fervore, con
passione e con ricchezza di spunti e di invenzioni. L’elemento che più emerge dai lavori presentati
è proprio la voluta vastità del tema che ha permesso un ampiezza di riferimenti interpretativi e
che, se ha reso difficile la selezione di un numero limitato di artisti da segnalare da parte della
commissione, ha tuttavia ribadito la vitalità del panorama dell’arte giovane e rafforzato il giudizio
positivo sull’opportunità la dell’iniziativa.
Numerosissimi sono stati i partecipanti e tanti i progetti meritevoli, anche più di quelli che è stato
possibile ammettere nella ristretta rosa dei dieci finalisti; è emerso in modo netto, nei progetti
presentati, l’urgenza di collegare l’austera bellezza del monumento alla vita dell’oggi, urgenza che
conferma la vocazione del Castello a guardare senza pregiudizi la città e, attraverso di essa, il
mondo. Da questa perspicuità di punto di osservazione discendono però punti di vista diversi: la
memoria storica, le suggestioni provenienti dalla città, dalla vita dei suoi abitanti, il desiderio di un
rapporto con l’esterno, con gli oggetti, con la materia del Castello come metafora della ‘materia’
del mondo. Valga per tutte l’istallazione progettata da Valentina Lapolla, Nuvole rosse - che ha
ottenuto la menzione speciale della giuria – nella quale l’artista ha inteso evocare la storia recente
della dismissione dell’Italsider attraverso i suoni della sirena della fabbrica, insieme ai suoni che
‘restano’ della storia degli operai e a quelli attuali, della natura, nell’area di Bagnoli.
Ha prevalso, nella scelta compiuta dalla giuria, l’orientamento verso un’immagine ‘forte’ che, nel
giudizio dei giurati, possa condensare nella sua icasticità la complessità della relazione dell’artista
col mondo. Immagine che coglie ‘lo spirito del luogo’ - parafrasando un tema pertinente alla
formazione dell’artista e sul quale ebbe già modo di riflettere durante la partecipazione nel 2000
al corso superiore di arti visive Public Project or the spirit of a place presso la Fondazione Ratti di
Como. Visiting Professor era quell’anno Ilya Kabakov, l’artista ucraino, oggi naturalizzato negli Stati
Uniti, che da sempre con la moglie Emilia lavora sulla possibilità di creare relazioni tra la
quotidianità degli oggetti della storia e l’ordine concettuale delle cose.
La forma delle lame di Rosy Rox a una prima lettura allude al concetto di mimesis, termine che in
Platone non designa soltanto la riproduzione di un oggetto, quindi la simulazione del reale, ma
anche l’aspirazione, il desiderio di aderire alla verità, alla sua idea trascendente: l’immagine è
dunque il risultato di questo desiderio e non può non aspirare alla bellezza. Belle sono infatti le tre
lame ideate da Rosy Rox, ciascuna differente dalle altre - come accade negli utensili che usiamo
quotidianamente - l’una più sottile e acuminata, l’altra seghettata, l’altra ancora più potente e
appuntita; scintillano al riflesso della luce, catturano nel loro movimento a ritroso per tagliare il
tempo. E’ sul piacere dell’immagine che si fonda appunto l’estetica occidentale e su questo
piacere si innesta un altro desiderio, quello di guardare oltre, di scorgere il senso delle cose stesse,
senso che nei sogni, come nell’arte, ne contiene la verità profonda. In questa dialettica,
caratteristica del lavoro di Rosy Rox, entrano in gioco l’emozione, il sentimento, il pathos.
L’artista ha sempre dichiarato che il suo punto di partenza costante è il proprio corpo; le
perfomance agiscono senza mediazione: il suo immaginario, la sua compassione per la violenza, la
costrizione, la tortura dei corpi, ne distillano emozioni che partono da contenuti individuali per
attingere ad una universalità più distaccata. L’immagine del suo corpo si espone all’altro per
sondare le proprie visioni più recondite e per coinvolgere il riguardante, non più semplice
spettatore, a una condivisione che la trasforma in esperienza vissuta, in ‘erlebnis’.
Come nella performance entrano in gioco sentimenti ed erotismo, che poi vengono come lasciati
andare, dissipati o meglio condensati nella bellezza dell’immagine finale, così nelle opere che ne
derivano, l’artista coglie l’essenza nella forma che essa assume di volta in volta. Valgano gli esempi
delle sue fruste – forse le sue opere più note - di fogge e dimensioni diverse, realizzate con cristalli
Swarovski; della grande ruota realizzata nella chiesa di santa Sofia, a Salerno nel 2009, strumento
di una performance tutta giocata sulla memoria delle torture dell’Inquisizione. La ruota, ormai
‘neutralizzata’ dall’assenza del corpo, per la cui sofferenza era stata creata, è stata lasciata come
installazione in cui si leggono il partito decorativo, fatto ad imitazione del rosone ornamentale
traforato tipico delle facciate delle chiese gotiche, e ancora i cristalli e i loro riverberi luminosi
sotto l’effetto della luce.
Nel progetto per Castel Sant’Elmo la monumentalità del sito e l’enorme spazio di riferimento
aggiungono echi ulteriori alla lettura dell’opera: la percezione dell’artista coglie e trasmette
un’eredità di sofferenza che connota la vita stessa del Castello - fortezza usata prevalentemente
come carcere - dalla sua rifondazione, avvenuta nella Napoli vicereale cinquecentesca, fin quasi ai
nostri giorni.
L’immagine creata con le tre lame, e il loro movimento, ha l’ambizione di porsi come un
risarcimento, in termini di qualità visiva e anche di ripristino di una funzione temporale
attualizzata del luogo stesso: le lancette girano verso il passato ma scandiscono il tempo dell’oggi.
E’ la vocazione del Castello a stare nel presente, è riaffermata anche attraverso questo concorso,
le cui motivazioni si legano con la presenza del Museo del ‘900 e le tante manifestazioni artistiche,
musicali e di spettacolo che vi si svolgono. Sant’Elmo ha, con il suo potenzialmente inesauribile
sguardo sulla città, come un cannocchiale onnisciente, la vocazione a guardare ‘dentro’ e a
guardare ‘oltre’. Dentro la cultura, la storia del nostro passato e oltre, verso nuove e sempre
diverse condivisioni con le componenti vitali della nostra città e del mondo, grazie a una
lungimiranza che solo l’immaginazione, l’arte, i giovani possono avere.
Angela Tecce
Direttore Castel Sant’Elmo
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