da MARIO VEGETTI. Quindici lezioni su Platone
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2. Socrate, il maestro
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PLATONE
2. Socrate, iI maestro
I DIALOGHI DI PLATONE: LA “GRANDE SOCIETÀ” ATENIESE DELLA FINE DEL V SEC. SULLA
SCENA.
Platone cominciò a scrivere i suoi dialoghi dopo il 399 a. C., l'anno cruciale del
processo e della condanna a morte di Socrate. Ma quasi tutti i dialoghi sono ambientati
nel trentennio precedente, nel periodo della formazione giovanile del loro autore.
Vi è messa in scena la "grande società" ateniese nell'arco di tempo che va dalla morte
di Pericle (428), che ne era stato il leader e il protagonista, ai successi nella guerra del
Peloponneso, fino alla sconfitta del 404 e al colpo di stato oligarchico di Crizia.
I personaggi dei dialoghi rappresentano quella società, con i suoi intellettuali, i suoi aristocratici, i suoi generali, i suoi sacerdoti: quasi che Platone avesse voluto rivisitare i luoghi e le presenze della sua giovinezza, ridar voce alla generazione in cui si era formato,
interrogarla, per comprendere gli errori che avevano portato alla crisi della città.
L'Atene in cui sono ambientati i dialoghi era la società della quale il suo maggiore
artefice politico, Pericle, aveva potuto dire, in un discorso riferito da Tucidide: «amiamo la
bellezza ma non lo sfarzo, amiamo il sapere senza mollezza» (II, 40), e che egli aveva
dunque definito «un'impresa educativa per la Grecia intera» (II, 41).
ATENE, POLIS TYRANNOS, E SULL’ORLO DELLA GUERRA CIVILE. Ma quella Atene era anche
la città che aveva finanziato la sua prosperità, la sua bellezza, il stesso sviluppo culturale,
grazie alle risorse brutalmente prelevate dalle comunità assoggettate al suo impero, la
città che lo stesso Pericle aveva chiamato «tiranna».
L'Atene in cui si era formato il giovane Platone non era solo stretta fra la pace, la
prosperità, il fiorire della cultura all'interno e la necessità della guerra per conservare il
dominio imperiale all'esterno. Questa stessa guerra avrebbe presto mostrato come il
conflitto esterno era destinato a riverberarsi all'interno, infrangendo il patto sociale,
facendo esplodere le contraddizioni latenti fra aristocratici e popolo, fra ricchi e poveri, fino
a quella guerra civile (stasis), di cui il golpe oligarchico del 404, e - per Platone - il
processo del 399, furono gli episodi più violenti e crudeli.
Come si era giunti alla catastrofe?
Questa è l'interrogazione che Platone rivolge alla generazione degli adulti fra i quali era
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cresciuto, testimone ammirato della sua grandezza e critico inquieto dei suoi errori;
un'interrogazione rivolta a indagare i presupposti morali e intellettuali di quegli errori e di
quella catastrofe.
L’ENIGMA SOCRATE.
Al centro del grande "coro" ateniese che popola la scena dei
dialoghi sta un protagonista, Socrate, il maestro del giovane filosofo, enigmatico non solo
per noi, ma forse anche per i suoi contemporanei, e per i suoi stessi discepoli.
Questo enigma socratico ebbe, fin dall'inizio, molti aspetti.
In primo luogo, l'anomalia della collocazione sociale.
Socrate, figlio di uno scultore e di una levatrice, apparteneva a quel ceto artigianale che
costituiva la base sociale della democrazia ateniese. Agli artigiani Socrate non cessò mai
di riferirsi, sia come interlocutori diretti del suo conversare intorno ai problemi della città,
sia come esempio di una competenza tecnica, sicura e trasmissibile entro i suoi limiti, ma
che questi limiti non doveva pretendere di varcare.
In entrambi i sensi, il riferimento di Socrate all'ambiente delle tecniche suscitava l'irritazione e il disprezzo dei suoi interlocutori aristocratici.
Ma Socrate annoverava fra i suoi amici e allievi anche esponenti della grande
aristocrazia ateniese, da Crizia a giovani brillanti come Alcibiade e Platone.
SOCRATE CRITICO DELLA DEMOCRAZIA.
Paradossalmente, le simpatie che Socrate
riscuoteva in questo ambiente erano forse dovute a un suo atteggiamento critico nei
riguardi della democrazia, che gli derivava proprio dall'assiduo riferimento al modello
tecnico. Se si tratta di curare una malattia o di costruire un edificio
- ragionava
pubblicamente Socrate - a decidere sulla terapia e sul progetto non è una maggioranza
assembleare, ma la competenza specifica del medico e dell'architetto. Perché allora sulle
questioni di maggiore importanza per la vita collettiva, la pace, la guerra, le leggi,
decidono tutti insieme medici, architetti, fabbri, calzolai? Qual è la competenza che li
legittima a prendere queste decisioni?
Non sappiamo quali conseguenze Socrate traesse da questa critica. Ma è certo che per
gli aristocratici essa suonava come una conferma del proprio diritto a esercitare il potere
nella città, come suo tradizionale ceto di esperti del governo; e che per Platone essa
avrebbe
significato
la
necessità
di
sostituire
l'incompetenza
delle
assemblee
democratiche con il potere degli specialisti della politica, una élite che nel suo linguaggio
egli avrebbe chiamato i "filosofi-re".
LA “SAPIENZA” DI SOCRATE. Un secondo, e anche più inquietante, aspetto dell'enigma di
Socrate consisteva nella sua "sapienza".
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Era noto un responso dell'oracolo di Delfi che lo definiva come «il più sapiente» degli
Ateniesi; ma altrettanto nota era la professione socratica di non sapere nulla. In un
celebre passo del suo discorso di difesa di fronte al tribunale, che Platone rielaborò
nell’Apologia, Socrate spiegò di aver finalmente compreso il senso dell'oracolo. La sua
maggiore sapienza consisteva nella consapevolezza di non sapere, l'ignoranza altrui nel
credere di possedere un sapere in realtà vuoto e ingannevole (come nel caso dei poeti e
dei politici), oppure dotato di un suo contenuto, ma inconsapevole dei propri limiti (come
nel caso degli artigiani: Apologia, 21a-23b).
Ma questa autodifesa socratica eccedeva probabilmente, per esigenze retoriche, nel
ridurre la "sapienza" di Socrate a questa rara consapevolezza di non sapere nulla.
In realtà, essa è in parte smentita dall'autobiografia intellettuale che Platone gli
attribuisce nel Fedone.
Raccontava dunque Socrate: «da giovane fui preso da una straordinaria passione per
questa forma di sapienza che chiamano ricerca sulla natura». In questo campo, Socrate
ammetteva di aver frequentato le dottrine di vecchi sapienti come Empedocle, e,
soprattutto, di aver letto il libro sulla natura di un protagonista intellettuale dell'Atene
periclea come Anassagora. Più tardi, Socrate raccontava di esser rimasto deluso da
questa sapienza naturalistica, per la sua incapacità di dare fondamenti sicuri alle proprie
dottrine e di spiegare il senso e la ragione dei processi naturali; invece di guardare
direttamente le "cose", egli si sarebbe dunque rifugiato nei "discorsi" (lògoi),
nell'argomentazione razionale e critica intesa a mettere alla prova le teorie sulle "cose"
stesse (Fedone, 96a-100a).
Questi "discorsi" socratici consistevano in una particolare tecnica argomentativa di tipo
confutatorio.
SOCRATE NELLE NUVOLE DI ARISTOFANE.
L'autobiografia intellettuale del Fedone
conferma la prima aggressione a Socrate, quella che il grande comico Aristofane gli
aveva rivolto in una memorabile commedia, le Nuvole, rappresentata per la prima volta
nel 423. L'attacco aristofaneo conferma che già allora gli Ateniesi percepivano Socrate
come un personaggio anomalo, inquietante per la comunità cittadina.
Nella commedia, il vecchio Strepsiade, oppresso dai debiti, desidera che il figlio
Fidippide impari le arti del discorso truffaldino perché possa difenderlo dai suoi creditori.
Si fa allora introdurre al
«pensatoio delle anime sapienti. Lì abitano uomini che ti convincono che il cielo è
come un forno e che sta attorno a noi, e noi siamo carboni. Costoro insegnano se gli si da del denaro - a vincere con le parole, giusta o ingiusta che sia la tua
causa»
(Nuvole, vv. 94-99).
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Nel pensatoio troneggia Socrate, issato in alto in una cesta per poter osservare più da
vicino i fenomeni celesti. Da Strepsiade Socrate esige innanzitutto una professione di
fede: «a nessun altro dio crederai tranne che ai nostri: questo Caos e le Nuvole e la
Lingua, questa trinità qui» (vv. 413-14). Nella trinità "socratica" primeggiano le Nuvole: si
tratta di una condensazione beffarda del pensiero cosmologico e meteorologico dei
"sapienti" (sophistài) naturalisti presocratici (Empedocle e di Anassagora) al pensiero dei
quali il Socrate del Fedone ammetteva di essersi interessato nella sua età giovanile. Ma
che cosa c'entra la Lingua?
Al versante cosmologico si aggiunge quello retorico e sofistico, l'arte della persuasione,
della confutazione e del raggiro, proprio quella che Strepsiade desiderava fosse
insegnata da Socrate a Fidippide (questa è la divina Lingua, che in qualche modo
adombra i "discorsi" ai quali il Socrate del Fedone diceva di essersi rivolto dopo
l'abbandono della speculazione naturalistica):
«Fa che impari quei due discorsi, quello migliore, qualunque sia, e quello peggiore,
che sostenendo cose ingiuste abbatte quello migliore, o se no, insegnagli almeno,
con ogni mezzo, quello ingiusto!»
(vv. 882-85).
Aristofane fa dunque di Socrate il prototipo comico dell'intellettuale di nuovo tipo che
turbava l'opinione pubblica tradizionalistica ateniese:
- naturalista ateo da un lato, in quanto cultore di figure cosmologiche destinate a
sostituire le divinità della religione della città,
- retore e sofista dall'altro, capace, con le nuovissime tecniche del discorso, di
rovesciare il sistema dei valori condivisi, di convincere individui e comunità a perseguire
l'"ingiustizia" invece della "giustizia" che quel sistema rappresentava.
Ci sono, nel Socrate aristofaneo, tanto Anassagora quanto Gorgia e Protagora; ma il
fatto che tutte queste figure vengano condensate sotto il nome di Socrate testimonia
quanto egli sia risultato perturbante per il pubblico del teatro comico - cioè per la città nel
suo insieme: a questo pubblico la figura di Socrate doveva risultare riconoscibile dietro il
personaggio comico.
L’ACCUSA E IL PROCESSO CONTRO SOCRATE DEL 399 A. C.
In effetti, l'aggressione comica
poteva essere considerata abbastanza pertinente da fornire la base delle accuse
esplicitamente formulate contro Socrate nel processo intentategli nel 399 da Anito e
Meleto: quella di aver introdotto nuove divinità in luogo degli dèi della tradizione olimpica,
e quella di aver "corrotto" i giovani con la sua pratica dei discorsi.
Ancora una volta, dunque, un Socrate naturalista e ateo, e un Socrate sofista. Della
continuità fra il ritratto comico di Aristofane e le accuse processuali Socrate si mostra del
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resto perfettamente consapevole nell'Apologia
Si tratta delle accuse esplicite; quelle implicite, più pericolose e più convincenti per la
giuria democratica, avevano certo a che fare con la critica di "incompetenza" rivolta da
Socrate alle maggioranze assembleari, e alla sua frequentazione di personaggi ostili al regime democratico come Crizia, Carmide e Alcibiade.
SOCRATE, FILOSOFO SENZA SCRITTURA. Ma certamente, il Socrate di Aristofane e dei suoi
accusatori non ha nulla a che fare con l'immagine che Platone gli fa delineare nel suo
discorso di difesa, e con quella che ne ebbero i suoi discepoli.
Chi era, allora, il vero Socrate ?
E quali le ragioni della forte impressione che egli suscitò, nel bene e nel male, nella vita
culturale di Atene, in cui non mancavano certo personaggi di spicco?
E’ molto difficile tentare di rispondere a queste domande indicando i contenuti del
pensiero e dell'insegnamento di Socrate: su di essi siamo troppo e troppo poco informati.
Troppo poco, naturalmente, perché Socrate non scrisse nulla.
Aveva almeno due buone ragioni per farlo.
La prima di esse è di ordine sociale: ancora nella seconda metà del V sec., il ricorso alla
scrittura non era “normale” per i cittadini ateniesi. Scrivevano, certo, intellettuali
professionisti - di norma non ateniesi - come i medici, i maestri di retorica, gli architetti,
nella forma della manualistica tecnica; scrivevano gli storici, come Erodoto e Tucidide, per
fissare nella scrittura i loro racconti dopo averli probabilmente esposti al pubblico nella
forma della performance orale; gli autori di teatro mettevano per iscritto i loro copioni,
destinati alle compagnie che dovevano recitarli. Non scrivevano, invece, i politici della
città e i suoi cittadini eminenti; la scrittura era insomma considerata come propria di attività professionali remunerate, apprezzate, ma socialmente non valorizzate e per questo
spesso affidate a stranieri.
La seconda ragione è di ordine intellettuale. Socrate intendeva differenziarsi da un altro
gruppo di autori di opere scritte: i sapienti non ateniesi della tradizione arcaica, come
Eraclito, Parmenide, Empedocle, lo stesso Anassagora, che avevano redatto in versi o in
prosa le loro opere sulla natura, il cosmo, la verità. Ma, a differenza di questi sapienti, che
pure secondo iI Fedone avevano suscitato il suo giovanile interesse, e contro la satira
aristofanea, Socrate sosteneva di non avere alcuna sapienza da trasmettere, di non
possedere alcuna verità da proclamare - se non un atteggiamento critico, un richiamo alla
riflessione, che potevano solo assumere la forma del dialogo diretto, della comunicazione
orale immediata da uomo a uomo. Nulla di tutto questo poteva venire scritto e dunque
tramandato alle generazioni successive.
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L’ECCESSO DI INFORMAZIONE SU SOCRATE. D'altra parte siamo anche troppo informati sul
magistero di Socrate.
Per la cerchia dei suoi compagni e discepoli, il processo e la morte ne fecero una figura
emblematica, una sorta di "martire" della filosofia ai suoi esordi; la sua immagine divenne
presto la posta in palio contesa fra le diverse "scuole" in cui i socratici si divisero,
chiamata a legittimare le loro opzioni filosofiche rivali. Nacque cosi un vero e proprio
genere letterario, le "conversazioni socratiche" (lògoi sokratikòi), che intendevano
perpetuare nella memoria la viva voce del maestro e naturalmente offrirne
l'interpretazione che si pretendeva autentica.
I maggiori autori di questi dialoghi socratici messi per iscritto sono Platone e Senofonte,
ma ce ne furono molti altri, i cui testi ci sono noti solo in forma frammentaria, come
Eschine, Euclide di Megara, Antistene, Aristippo.
Per noi, però, proprio questa abbondanza di informazioni e di interpretazioni, in primo
luogo quelle, divergenti, - offerte da Platone e da Senofonte, ma poi anche quelle
attestate nelle tradizioni cinica, stoica, scettica - rappresenta un ostacolo insuperabile per
la ricostruzione storica del pensiero socratico. E’ probabile che almeno i dialoghi
"giovanili" di Platone, quelli più vicini alla morte del maestro, contengano qualche tratto
che si possa attribuire alla sua personalità storica, ma non bisogna in ogni caso
dimenticare che il Socrate platonico è pur sempre un personaggio dialogico e non un ritratto biografico.
IL DIALÉGHESTHAI SOCRATICO.
Ma che cosa faceva Socrate? quali furono le ragioni
dell'immenso impatto intellettuale e anche emotivo che egli destò, in positivo o in
negativo, nell'ambiente sociale e culturale ateniese?
Socrate, soprattutto, discuteva: «acquattato in un angolino con tre o quattro giovanotti»
(Gorgia, 485d); o sugli spalti del teatro di Dioniso; nei luoghi di incontro della città, la
piazza e il mercato (Apologia, 17c), dove egli incontrava in pubblico i politici, i poeti, gli
artigiani (21c-22d); infine, nei ritrovi degli intellettuali e della gioventù colta, come i ginnasi
o le case dei ricchi ateniesi.
E di che cosa discuteva Socrate, in questo suo assiduo sforzo di incontrare l'intera città
in un dialogo con i suoi membri più eminenti o con i suoi giovani più promettenti?
Per rispondere a questo interrogativo, ci possiamo ragionevolmente fidare delle parole
che Platone gli fa dire nel suo discorso di difesa di fronte al tribunale di Atene: Socrate
spiega di aver sottoposto i suoi concittadini a un esame critico, per verificare e confutare
(élenchos) le loro pretese di possedere conoscenze sicure (Apologia, 23a-c).
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Egli metteva dunque in discussione i luoghi comuni, i pregiudizi socialmente accettati, le
infondate presunzioni di sapienza. Era instancabile, e anche provocatorio, nel mostrare
agli Ateniesi, umili o illustri che fossero, che essi agivano sulla base di opinioni recepite e
ripetute in modo acritico, di cui non comprendevano né le ragioni né il senso né le
conseguenze. Questo assiduo lavoro di Socrate prendeva la forma di una tecnica di
discussione, appunto l'élenchos, difficile da distinguere rispetto alla controversia "eristica"
dei sofisti, come i suoi interlocutori solevano lamentare.
L'interrogazione socratica partiva dalla domanda "che cosa intendi
quando parli di
giustizia, o di coraggio, o di religiosità, o di virtù?" L'interlocutore veniva cosi costretto a
formulare in modo esplicito un'opinione, per lo più un pregiudizio, che egli aveva fino ad
allora condiviso inconsapevolmente. Socrate allora mostrava come, sviluppando
coerentemente questa opinione, ne derivassero conseguenze contraddittorie e inaccettabili per il suo interlocutore, oppure parziali e inadeguate. Occorreva allora riformulare il
punto di partenza, che veniva sottoposto a una nuova indagine critica. Per esempio, se
alla domanda "che cosa intendi per 'giusto'", l'interlocutore rispondeva "restituire le cose
avute in deposito", Socrate osservava che sarebbe allora giusto restituire un'arma avuta
in deposito a un amico che, impazzito, volesse servirsene per compiere una strage
(Repubblica, I). Oppure, se alla domanda "che cosa intendi per 'bello'", si rispondeva "una
bella ragazza", Socrate obiettava che una bella ragazza può invecchiare e diventare
brutta, e che è comunque brutta rispetto a una dea (Ippia maggiore). Lo scopo della
confutazione socratica veniva paragonato all'arte della levatrice, la maieutica: far nascere
nella mente dell'interlocutore idee nuove e più adeguate, invitare i cittadini all'esercizio
dello spirito critico, della libera riflessione, alla conquista di una più matura
consapevolezza di giudizio.
La confutazione, per distinguersi dall'eristica, presupponeva un rapporto di fraterna
amicizia fra i due dialoganti e mirava al raggiungimento dell'accordo, del consenso fra di
loro: ma qui Socrate andava spesso incontro a uno scacco, quasi non si rendesse conto
che il dissenso contrapponeva spesso ideologie rivali, forme di vita radicalmente
contrapposte, conflitti di fondo che la semplice conversazione critica non poteva in alcun
modo ricomporre. E’ proprio questo che accade in alcuni dei più memorabili scontri di
Socrate con i suoi rivali "sofisti" rappresentati nei dialoghi platonici, come quelli con
Callicle nel Gorgia e con Trasimaco nella Repubblica.
L’IO-ANIMA E IL NOI-CITTÀ.
La pratica socratica dell'esame e della confutazione non si
esauriva comunque nella dimensione critico-concettuale: questa immagine ci rende solo
la metà di Socrate, provocatoria, irritante, certo intellettualmente feconda, ma non la più
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originale in rapporto al suo ambiente culturale. L'altra metà consisteva in una radicale
contrapposizione fra due ordini di valori che per la prima volta, forse, Socrate faceva
divergere nella città.
Socrate contrapponeva i valori riconosciuti e condivisi dalla tradizione della città
-
ricchezza, fama, potere - a una nuova polarità, che veniva ora distaccandosi da quei
valori: l'interiorità dell'anima, il "vero io" che non coincideva più con il soggetto "esterno",
socialmente riconoscibile.
E’ certo che Socrate in questo modo importava nella cultura della città il pensiero che
della priorità dell'anima rispetto alla dimensione "esteriore" del corpo e dei rapporti sociali:
un pensiero derivato probabilmente dalla tradizione orfico-pitagorica, senza peraltro che
Socrate ne mutuasse con certezza la convinzione di una immortalità dell'anima.
Ma, indipendentemente dalla questione dell'immortalità, la contrapposizione socratica
dell'interiorità dell'anima individuale alla dimensione pubblica doveva apparire dirompente.
La virtù non appariva più ora, come lo era sempre stata, la capacità di offrire prestazioni
eccellenti in grado di conseguire il riconoscimento sociale, l'orgoglio e l'onore; piuttosto,
essa consisteva in una certezza interiore della giustizia della propria condotta, in un'armonia, in una pace con se stesso, che garantiva una felicità personale del tutto indipendente
dall'approvazione pubblica. Questa autonoma serenità del saggio era certo anche la
condizione per una condotta pubblica ispirata a equità e giustizia, ma lo affrancava dalla
dipendenza dagli altri, lo metteva in condizione di criticare i valori condivisi, ne faceva un
"individuo" separato, ed eventualmente alternativo, rispetto allo spazio collettivo.
"Io", anima e virtù venivano cosi a costituire, nell'esame e nella confutazione cui Socrate
sottoponeva i suoi concittadini, una polarità diversa rispetto al "noi" della città e della sua
tradizione. I valori competitivi, agonali, che da sempre l'avevano innervata, venivano ora
messi in discussione.
Virtù non è più, secondo Socrate, successo ed eccellenza prestazionale ma
"conoscenza" di ciò che è davvero bene e davvero male per l'io interiore, per l'anima.
Dunque, è meglio subire ingiustizia che commetterla, perché nel secondo caso ciò che
viene danneggiato è la nostra anima, nel primo solo il nostro corpo, la nostra esteriorità.
Ancora, sosteneva Socrate, nessuno fa il male volontariamente, perché ognuno desidera
in realtà ciò che è buono, ciò che giova alla nostra anima, quindi alla nostra felicità
interiore; il malvagio è solo colui che non sa comprendere, per un errore intellettuale, ciò
che è davvero "buono" per l'anima, la giustizia, foriera di felicità privata e anche collettiva.
SOCRATE, UOMO DELLA POLIS. Eppure, nonostante questi suoi paradossi morali che potevano apparire scandalosi, o suscitare l'irrisione e l'accusa di mancanza della virilità
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propria del "vero uomo", capace di rendere colpo su colpo, di "giovare agli amici e punire i
nemici", - nonostante tutto questo, Socrate restava un uomo della polis: la comunità dei
cittadini, la legge che la governa, continuava a essere per lui un orizzonte intrascendibile.
Quando, nel Critone platonico, gli amici gli propongono di organizzare un'evasione dal
carcere dove attende la sua esecuzione, in modo da salvare se stesso e proteggere la
sua famiglia, Socrate risponde immaginando che gli si presentino, personificate, le Leggi
stesse della città in cui è sempre vissuto. Esse sostengono di essere più importanti, per
ogni cittadino, del padre e della madre: consentono la nascita, l'educazione, la
sopravvivenza di ognuno (50d-51b). Se poi a qualcuno non piacciono, egli ha due
alternative: o convincere la città a cambiarle «secondo giustizia», o abbandonare la città
stessa per un'altra dalle leggi migliori. Ma Socrate non ha fatto né l'una né l'altra cosa:
come può allora trasgredire alle leggi che aveva accettato, proprio lui che ha trascorso
l'intera vita sostenendo che le cose di maggior valore sono «la virtù e la giustizia e ciò che
è legittimo e le leggi»?. Socrate si convinceva perciò ad accettare il verdetto della città,
perfettamente legale, che lo condannava a morte.
L'anima e la virtù da un lato, la città e la legge dall'altro formavano dunque l'orizzonte
non superabile entro il quale si svolgeva l'esperienza socratica, con quel suo esito tragico
che poteva apparire come un destino.
SOCRATE E PLATONE. L'incontro giovanile di Platone con Socrate rappresentò certamente innanzitutto un'esperienza destinata a lasciare una traccia indelebile sulla sua vita
prima ancora che sul suo pensiero: l'esperienza di una vera e propria "conversione", che
staccò per sempre il giovane aristocratico dal profilo di vita preformato dalla sua
appartenenza sociale, dal suo ambiente intellettuale, e ne fece un "filosofo" (la parola
"philosophìa" era stata riqualificata nell'ambiente socratico nel suo valore di "amore per il
sapere", quindi di ricerca aperta, in contrapposizione alla sophìa, alla pretesa di una
sapienza posseduta una volta per tutte).
SOCRATE, UN PROBLEMA PER PLATONE.
Ma, in questo cammino verso la filosofia,
Socrate diventò anche per Platone un problema.
Il socratismo dovette apparirgli come una fase minorenne della filosofia, che bisognava
far crescere, avviare all'età adulta. Sono avvertibili nei dialoghi i segni di un distacco
critico del discepolo verso il maestro, di un suo atteggiamento ironico, persino di una crescente irritazione che si manifesta spesso nelle frequenti "autocritiche" fatte pronunciare
dallo stesso personaggio "Socrate".
Accanto ad essi, vi sono poi le critiche esplicite, sul cui bersaglio i fruitori dei dialoghi
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2. Socrate, il maestro
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non potevano certamente equivocare: esse colpiscono la solitudine e l'impotenza socratica, l'inconcludenza e persino la pericolosità di una pratica della confutazione senza sbocchi positivi, insomma l'incompiutezza di un'esperienza tanto cruciale quanto immatura.
Il tentativo esperito da Socrate di cambiare la città da solo, inducendo uno a uno i suoi
cittadini, nel dialogo per le strade e le piazze, a convertirsi alla virtù, somigliava, secondo
Platone, all'ingenuità tragica di chi,
«senza alleati con i quali accorrere in difesa della giustizia e col cui appoggio
salvarsi», si trovasse «come un uomo imbattutosi in un branco di fiere che non
vuole condividerne l'ingiustizia né può da solo resistere a tutte le belve», e
corresse quindi «il rischio di perire, risultando inutile a sé e agli altri, prima ancora
di aver giovato in qualcosa alla città e agli amici» (Repubblica, VI, 490c-d).
Il linguaggio di Platone è qui inequivocabilmente politico-militare: gli "amici" e gli "alleati"
(symmakòi) richiamano l'immagine delle "eterie" oligarchiche (le associazioni-"partito"
delle quali l'Accademia platonica sarebbe stata in un certo senso l'erede "filosofica"). Le
leggi della città non vanno accettate, con la rassegnazione socratica del Critone, ma
cambiate secondo giustizia
La forza era dunque il primo supplemento che Platone riteneva necessario apportare
alla solitudine e all'impotenza socratiche.
Il secondo era il sapere.
Il carattere negativo della confutazione socratica, che lasciava l'interlocutore solo con le
proprie incertezze, appariva intellettualmente inconcludente e moralmente pericoloso. E’
come se - diceva Platone con una metafora efficace - a un ragazzo cresciuto nel rispetto
dei genitori, qualcuno rivelasse di essere in realtà un figlio adottivo, senza poi indicargli la
sua vera famiglia: persa la fiducia nei genitori, egli si lascerebbe trascinare dalle cattive
compagnie, senza sapere più né chi è né chi potrebbe essere (Rep., VII, 538a-c).
In altri termini, la critica delle certezze socialmente condivise, dei valori tradizionali, se
non è capace di sostituire le une e gli altri con un sistema di credenze meglio fondate,
risulta moralmente irresponsabile, aprendo la via a un "nichilismo" di stampo sofistico.
In termini più tecnici, la "confutazione" dialettica va condotta, per Platone, «non secondo
l'opinione (dòxa), ma secondo l'essenza (ousìa)» (534c): non chiedendo cioè, come alla
maniera di Socrate, "che cosa intendi per x" (una richiesta di esplicitare l'opinione
dell'interlocutore), ma "che cosa è x" (la richiesta è ora relativa alla natura oggettiva della
cosa indagata).
Platone fu in qualche modo il primo a riprocessare Socrate, assolvendolo certo per la
rettitudine delle intenzioni morali - «l'uomo più giusto fra quelli di allora» - e per il ruolo di
fondatore almeno dell'atteggiamento filosofico di fronte alla vita, se non davvero ancora
della filosofia nella sua maturità intellettualmente ed eticamente responsabile.