FISCHER, J. L. Il postulato corporativo. In: FISCHER, J. L. La crisi della democrazia, 2. ed. Torino: Giulio Einaudi, 1977. p. 143-153. Pagina 143 Capitolo quarto Il postulato corporativo Dobbiamo ora analizzare gli strumenti correttivi positivi che il fascismo ha tentato di portare in vita o che per ora si limita a programmare. L’unica formazione piú o meno concretizzata che potrà aiutarci in questa analisi è l’organizzazione corporativa del fascismo italiano, che deve sostituire quella parlamentare democratica. I difetti dell’organizzazione democratica, già esposti, non potevano sfuggire ad una attenzione critica; il complemento positivo di tutte le critiche era la richiesta variamente modificata di una rappresentazione degli interessi o degli «stati» (ceti) o sindacale, insomma di una rappresentazione corporativa [Nota 1]. Le fonti e i fini di questo postulato corporativo non sono unitari. La base piú antica è evidentemente quella feudale, ma indipendentemente da essa questo postulato è insito anche nella tradizione democratica e in quella socialista. In ogni sua forma esso è però antiliberalistico, e perciò è stato ed è negato dal liberalismo in tutte le sue forme. Esso è antiliberalistico nel senso che inserisce tra il singolo e la società come elemento mediatore la corporazione, cioè varie associazioni professionali. Ma là dove il rapporto tra il singolo e la società non è piú un rapporto diretto, si fa necessariamente valere la tendenza a raggruppare gli elementi mediatori in un ordine graduato e la tendenza a fornire loro uno sfogo in una istituzione suprema che, abbracciando l’insieme di tutti i membri, comprenda contemporaneamente la totalità sociale. Pagina 144 Per quel che riguarda la forma feudale del postulato corporativo, la disuguaglianza delle corporazioni era qui anche una disuguaglianza legale, cioè l’organizzazione sociale era rappresentata da un ordine di «stati» dotati di diritti disuguali. Se non teniamo conto della reazione romantica antilluminista dell’inizio del secolo scorso, che annunciava il ritorno all’organizzazione feudade nel nome di una concezione «organica» della realtà, il postulato corporativo feudale originario viene mantenuto dal cattolicesimo politico per tutto il XIX secolo, naturalmente in forme che risentono dell’influenza del democratismo «civile». Nella vita politica del XIX secolo il postulato feudale si è manifestato solo nell’istituzione di diverse, classi di elettori (le curie), delle quali si può dire die erano graduate secondo gli «stati» solo nel senso che si riconosceva a diversi strati della popolazione una rappresentazione disuguale senza che essi stessi fossero ulteriormente organizzati corporativamente. Qui si trattava quindi piuttosto di garantire dei privilegi politici. Se ricercassimo gli inizi del corporativismo democratico, dovremmo risalire fino a Althusius (il suo scritto sulla politica esce nel 1603), uno del accesi difensori della sovranità sociale. Questa è rappresentata per lui dal corpo sociale, «corpus symbioticum», che è formato da vari tipi di associazioni (species consociationis), dove le associazioni superiori nascono sempre da quelle inferiori. Althusius divide queste associazioni da un lato in associazioni private (consociatio privata: famiglia e corporazione), dall’altro in associazioni pubbliche o politiche (consociatio publica: comune, provincia e stato). Membri dello stato non sono né i singoli né le associazioni private, bensí le associazioni politiche minori o parziali, il comune e la provincia; lo stato nasce per contratto tra loro. La sovranità qui nasce dal basso e la totalità sociale rappresenta una unità federativamente graduata. Questa concezione della democrazia che nasce dal basso è stata inglobata dalla concezione individualistica o liberalistica, ed è riemersa nuovamente nel XIX secolo. Se tentassimo di riprodurre schematicamente tutta la nuova dottrina corporativa, vedremmo che essa si muove intorno a due problemi fondamentali: come costituire la rappresentazione corporativa, e come costituire il legame tra questa e rappresentazioPagina 145 ne politica. Per solito incontriamo la richiesta di una duplice rappresentazione: l’organizzazione corporativa appare una istituzione troppo legata agli interessi perché possa esserle affidato l’esercizio della volontà politica. Gli organi corporativi allora o sono semplici organi consultivi annessi alla camera politica, o costituiscono una camera autonoma accanto a quella politica. Per la rappresentazione politica, o si accetta l’attuale organizzazione parlamentare, o si propone al suo posto una nuova camera formata dai rappresentanti delle cosiddette associazioni autonome (cioè i comuni e le province di Althusius). A volte viene proposta una soluzione di compromesso che desidera un parlamento formato comunemente dai rappresentanti delle corporazioni e dai parlamentari eletti secondo la legge. In casi estremi infine la camera corporativa ingloba la camera politica e ne prende il posto. Il terzo tipo è dato dal corporativismo socialista o, piú precisamente sindacalista. Qui le organizzazioni sindacali operaie debbono essere in egual misura una formazione sindacale e politica e formare cosí il germe della futura unità amministrativa sociale. I sindacati operai accolgono oltre alle funzioni professionali non soltanto una funzione formalmente politica (come i partiti politici socialisti), ma anche costruttivamente politica, essi cioè senza tener conto dell’organizzazione politica e amministrativa esistente nelle società capitalistiche devono creare i presupposti per la nascita di una organizzazione politica e amministrativa socialista. In luogo di un partito politico che con la sua struttura rifletta quella della società capitalistica, il sindacato deve riflettere già la struttura della società socialista che dovrebbe crescere federativamente da questa base sindacalistica. Per ora il sindacalismo francese, che è diventato un movimento riformista, ha perduto il suo carattere originariamente politico e si è avvicinato al corporativismo democratico. Per poter giudicare di questi postulati corporativi, ricordiamo che l’analisi di qualsiasi funzione sociale ne rivela tre aspetti: concreto, personale e politico. L’aspetto concreto riguarda la competenza specialistica, l’aspetto personale l’interesse sindacale, l’aspetto politico infine riguarda il significato di quella data funzione per la società, deve cioè risolvere i due aspetti precedenti rispetto all’interesse generale. Pagina 146 Ora sarà chiaro dove sia il difetto fondamentale dell’organizzazione parlamentare democratica. Qui l’aspetto politico è stato semplicemente distaccato dagli altri, cosicché non era possibile né inserire appropriatamente le rimanenti funzioni nell’organizzazione politica, né fondarsi sulla indispensabile competenza specialistica, né soddisfare l’aspetto sindacale. Ma sarà ugualmente chiaro quali errori opposti comportino i singoli postulati corporativi: da un lato essi confondono pericolosamente tre aspetti, economico, sindacale e specialistico; dall’altro non stabiliscono con sufficente precisione il rapporto di essi con l’aspetto politico. L’aspetto economico riguarda le questioni collegate all’esercizio delle funzioni economiche (riguarda quindi il loro aspetto concreto). Tutti questi aspetti si incrociano riccamente, ma non coincidono. Si può dire di ogni funzione sociale che ha il suo aspetto economico, ma non per questo essa è già una funzione economica. Se quindi realizzeremo la rappresentazione delle funzioni economiche, resterà non rappesentata una serie di rimanenti funzioni. Si può dire di ogni funzione che ha un aspetto personale, e ciò vale anche per le funzioni economiche, senza che con tale aspetto personale venga necessariamente toccata la sua destinazione propria, quella economica. Quindi se realizzeremo la rappresentazione dei singoli interessi, ciò non significa ancora che abbiamo rappresentato le funzioni economiche. Si può dire di ogni funzione che il suo esercizio richiede una determinata competenza. Ma questa competenza evidentemente non ha nulla a che vedere con le varie richieste di categoria, né si esaurisce con la competenza nelle cose economiche. Non si può quindi realizzare la rappresentazione delle competenze con gli stessi criteri della rappresentazione degli interessi e di quella economica. In particolare però sta all’aspetto politico di assegnare alle funzioni un ordine, di stabilire la direzione e il fine dei compiti che devono essere risolti, e di armonizzare le richieste particolari di categoria dal punto di vista dell’ottimo sociale. Di qui le conclusioni; la camera corporativa come rapprePagina 147 sentanza unica è in ogni caso un nonsenso, perché con l’unificazione organizzativa dei singoli interessi di gruppo non si dà luogo a una volontà politica univoca, né all’organizzazione delle funzioni economiche, né all’organizzazione delle competenze specialistiche, senza tener conto del fatto che la composizione stessa di una tale camera presupporrebbe una determinata chiave politica per la rappresentazione dei singoli «stati». La camera corporativa accanto a quella politica dovrebbe essere composta in modo da tenere separate le funzioni economiche, le corporazioni di categoria e le competenze specialistiche, cioè non potrebbe essere una unica camera. Poiché poi gli interessi di categoria (come anche le competenze specialistiche) sono internamente differenziati, cioè non hanno carattere generale, la loro comune associazione in corpi rappresentativi unici diventa un nonsenso. Riflessioni di questo genere hanno suggerito soluzioni mediatrici, secondo cui la rappresentanza politica ricorre a organi consultivi che rappresentano gli interessi di categoria e le competenze specialistiche (professionali, tecniche). Trascurando per ora la questione delle funzioni economiche, anche questa soluzione presuppone come le precedenti una organizzazione delle corporazioni di categoria e professionali, perché possano essere consultate nelle questioni che le riguardano e perché possano svolgere i compiti per cui sono competenti. La complicazione maggiore è data però dal problema dell’inserimento sociale e dell’organizzazione delle funzioni economiche. Qui infatti l’aspetto concreto e quello personale sono strettamente uniti, per quanto dura la libera disponibilità dei mezzi di guadagno. Ebbene, finché dura, gli strati economici rappresentano nei confronti della società il proprio interesse di categoria, cioè difendono nei suoi confronti il proprio optimum economico o ne richiedono la difesa. La società qui non è incaricata di dirigere il processo economico, bensí soltanto gli interessi di categoria, i quali sono necessariamente contraddittori, e dominati poi dalla opposizione degli interessi degli imprenditori e dei lavoratori. Supponiamo per ora che questo conflito sia risolvibile. Resta sempre un’altra questione che riguarda la struttura stessa delle funzioni economiche nel capitalismo. Pagina 148 Di questa struttura abbiamo detto che è caratterizzata dall’autonomia degli asppetti economici, e che essa era diventata la causa principale della odierna crisi, che può essere superata solo con una regolamentazione del processo economico. Questa non riguarderebbe piú soltanto gli interessi di categoria, ma interverrebbe nel processo concretamente, sarebbe una regolamentazione economica, e non già dei soli interessi. Se analizziamo le possibili forme di tale regolatnentailone, se ne offrono tre: o sarebbe affidata agli strati economici direttamente, e allora abbiamo una autoregolamentazione economica; oppure, fermo restando che le funzioni economiche restano nelle mani di quegli strati, la regolamentazione sarebbe eseguita sotto un controllo sociale; poiché però una parte notevole di tale controllo ricadrebbe nuovamente nelle mani di quegli strati, definiamo questa seconda possibilità come autoregolamentazione controllata; o infine la disponibilità dei mezzi di guadagno passerebbe alla società come totalità politicamente organizzata, e in questo caso la regolamentazione sarebbe eseguita dalla società; perciò la definiamo, e questa è la terza possibilità, come regolamentazione sociale. Qualsiasi regolamentazione presuppone l’esistenza di determinati legami superiori che vincolano le relative unità inferiori. Ciò vale anche per la regolamentazione delle funzioni economiche. Se poi essa deve abbracciare la totalità del processo economico, presuppone l’esistenza di un centro unico e unitario. E tale centro è indispensabile se si deve raggiungere una qualsiasi efficace regolamentazione economica, anche se le singole funzioni economiche saranno regolate in modi diversi. Si possono certo fare degli interventi regolativi parziali sul processo economico, ma lo si può dominare soltanto se lo si sottopone a un piano unitario. Ogni economia pianificata deve poi soddisfare tre condizioni, che W. Sombart ha classicamente definito come totalità [Nota 1], unità e diversità. Abbiamo appena esposto le prime due: l’economia pianificata è possibile solo la dove la pianificazione riguarda la totalità dei processi economici; la pianificazione inoltre deve procedere da un solo centro. Secondo Sombart, tale Pagina 149 istanza centrale può essere soltanto l’unita nazionale, espressa nello stato. (Di qui anche la sua conclusione, errata, che la pianificazione porta necessariamente all’autarchia). La terza richiesta, la diversità, significa che l’economia pianificata non può essere uniforme per tutte le società nazionali. Sombart pone l’accento principale sulla diversità delle forme economiche sorte durante il precedente sviluppo. La sua società pianificata abbraccia in misura uguale l’economia privata, l’economia di cooperativa, comunale e statale, nega quindi l’antitesi tra economia privata e collettiva e la sostituisce con la richiesta di una economia privata e collettiva. Con queste distinzioni, il nostro problema della rappresentazione corporativa si è complicato sino all’inverosimile. Una cosa è forse chiara, che la regolamentazione economica non coincide con la rappresentazione degli interessi di categoria né con la rappresentazione professionale. Ma d’altra parte ad essa si collegano diverse questione che riguardano sia tali interessi che l’aspetto professionale, e ugualmente chiaro e che questi rapporti reciproci saranno diversi a seconda del tipo di regolamentazione economica. Se la regolamentazione abbraccia l’intero processo economico, appunto essa ne determinerà la direzione. Qui allora ci sono due possibilità fondamentali: o nella regolamentazione vale il principio dell’autonomia econonica, o vale un principio eteronomo, cioè personale, sociale, eventualmente culturale. Nel primo caso si intende l’optimun economico, nel secondo caso un qualsiasi altro optimum qualitativo. La realizzazione della prima possibilità comporterebbe necessariamente il comportamento asociale della regolamentazione, in quanto tra l’optimum economico e l’optimum sociale c’è una distanza tanto maggiore quanto piú autonomo è il primo. Poiché con ogni intervento regolativo asservito all’optimum economico la sua autonomia cresce, l’intensità della autoregolamentazione economica sarebbe in rapporto inverso con l’optimum sociale. C’è allora una sola possibilità di far fronte a queste conseguenze, che si intenda con l’autoregolamentazione economica non l’optimun economico ma il minimun economico assicurato. L’ordine economico dinamico capitalistico dovrebbe mutarsi in un ordine economico statico, che sostituisca la concorrenza (illimitata) con una regolamentazione (chiusa), Pagina 150 graduata rispetto agli «stati». In questo caso l’attenzione per l’economia verrebbe a fondersi con quella per gli interessi di categoria, con la precisazione che tale fusione sarebbe differenziata secondo il posto che le singole componenti occupano nel processo economico. Concretamente ciò significa che l’interesse economico degli imprenditori coinciderebbe col loro interesse di categoria e che sarebbe da essi autonomamente risolto in questo suo duplice aspetto; e inoltre che l’interesse economico dei lavoratori coinciderebbe con il loro interesse di categoria, il quale non sorpasserebbe i limiti della loro posizione salariata, e che sarebbe da loro risolto entro tali limiti insieme agli imprenditori ecc. In altre parole: sarebbero (economicamente) assicurati i singoli ceti sociali, ciascuno al posto che gli compete nella società, il che significa tanto piú autonomamente quanto piú economicamente independenti. Poiché poi presupposto della indipendenza economica è la libera disponibilità di capitale, gli strati capitalistici sarebbero i piú autonomi politicamente. Tale dunque sarebbe la struttura reale dello stato corporativo, che è il fine piú o meno chiaro della reazione dei ceti medi: i singoli ceti amministrano i propri affari, e cosí anche il ceto economico. In una forma primitiva, questa ideologia pressuppone che con l’autoamministrazione corporativa siano risolte non solo le questioni relative agli interessi di categoria, nelle quali devono rientrare anche le questioni economiche, ma anche le questioni professionali e soprattutto quelle politiche. La rappresentazione corporativa, che muove dalla rappresentazione degli interessi, sarebbe anche una rappresentazione professionale e politica. Ma allora otterremmo una sola camera corporativa nella quale culminerebbe la serie dei consigli corporativi comunali, provinciali ecc., cioè una formazione di cui abbiamo detto che è un nonsenso. Anche se volessimo supporre che si creino le condizioni per un ordine economico e sociale statico, nel quale l’aspetto concreto del processo economico coincide con gli interessi, e che la rappresentazione corporativa sia già un equivalente sufficiente di quella professionale (mentre lo è solo parzialmente), resta valida l’obiezione che l’ordine gerarchico delle corporazioni e la delimitazione del loro diritti (e quindi della loro rappresentanza) non è ancora dato col principio corporativo, ma presuppone invece un principio politico, genePagina 151 rale, che equilibri gli interessi particolari rappresentati dalle singole corporazioni. Se si rimprovera al sistema parlamentare democratico di aver politicizzato le questioni sociali, e se si offre alternativa il principio corporativo che depoliticizza queste questioni, si tratta di un equivoco increscioso e pericoloso. Il sistema corporativo non fa che accrescere questo difetto; non conoscendo altri aspetti oltre quelli corporativi, sostituisce con essi aspetti puramente politici. In questo senso il postulato corporativo costituisce il culmine del’odierna degenerazione politica, essendo paradossalmente anche un tentativo di negarla. Infatti questo mezzo proposto per «depoliticizzare» le questioni sociali è essenzialmente politico, naturalmente nel senso delle esigenze dei ceti medi. Esso intende unificare tutta la società ad immagine dello stile di vita e di pensiero del ceti medi. La apoliticità o non politicità del principio corporativo è dunque solo apparente. Perché esso possa essere realizzato, dovrebbe fondarsi su un potere politico che abbia prima usurpato il monopolio politico. Quanto siano giuste queste conclusioni lo mostra l’esempio della Germania, dove la rinascita del sistema corporativo è portata dal movimento socialista-nazionale, totalmente politico. D’altra parte, non rispetteremmo i teorici dello stato corporativo, e soprattutto influente di loro, O. Spann, se rimproverassimo loro di aver trascurato gli aspetti politici, il che spesso è vero per i difensori del principio corporativo. Appunto Spann si è reso conto con chiarezza della necessità di una nuova sintesi di pensiero, e ha tentato una sintesi neofeudale di tono fortemente organicistico (egli dice universalistico) e ancor piú nazionalistico. Lo «stato», il ceto, è per lui prima di tutto una comunità spirituale inserita in una totalità spirituale e i singoli «stati» occupano in questa totalità il posto che compete al loro grado di spiritualità. L’insieme degli «stati» organizzati crea lo Stato (nazionale) e poiché l’ordine gerarchico dei singoli «stati» è relativo al loro «valore», con ciò è stabilito anche il loro posto, nello Stato e la loro gerarchia politica. Il governo è definito come validità (valore) spirituale e per il suo esercizio vale il principio della mediazione: esso può discendere per gradi e mediatamente dall’alto in basso, ma non direttamente dal grado piú alto al piú basso. Dall’insieme dei collegi corporativi Pagina 152 autonomi, gerarchicamente graduati, nasce il parlamento corporativo come istituzione non politica. La rappresentazione naturalmente non è diretta, ma segue il criterio del «valore» dei singoli ceti. Il governo stesso non nasce poi per elezione ma è stabilito dall’alto e esercitato da uno «stato» specifico di governanti. Perciò nello stato corporativo non v’è necessità di una seconda camera politica e di partiti politici. Spann non soltanto conserva la funzione politica, ma la pone perfettamente al di sopra degli interessi corporativi; nulla è piú tipico per la «politicità» di Spann (e anche della media intelligenza tedesca) quanto il fatto di non riconoscere la necessità dei partiti. Il governo è per lui, in accordo con la tradizione prussiana, questione di una casta privilegiata governante. La dottrina di Spann è interessante per noi anche da un altro punto di vista: il modo in cui vi si motiva il postulato corporativo e soprattutto l’autonomia economica conferma la nostra tesi che una simile soluzione sia possibile solo a condizione che si torni al modo precapitalistico della conduzione economica. La proprietà ad esempio, come formulerà la stessa idea il fascismo italiano, ha una funzione sociale e perciò è sottoposta a vincoli sociali. In Spann questi vincoli sono intesi come vincoli corporativi. Ricapitoliamo: siamo partiti nell’analisi del postulato corporativo dalla prima possibilità di economia regolata, l’autoregolamentazione. Abbiamo visto dapprima che questa soluzione resta illusoria finché dura l’autonomia degli aspetti economici, in quanto il processo economico regolato nel senso dell’optimum autonomo economico sarebbe tanto piú asociale quanto piú intensa fosse tale regolamentazione. Abbiamo visto poi che sarebbe realizzabile solo a condizione che l’ordine capitalistico dinamico fosse sostituito da un ordine statico, che rimanderebbe in qualche modo a modelli precapitalistici. Quando abbiamo seguito come si svolgerebbe l’autoregolamentazione economica in questo caso, siamo giunti alla conclusione che essa è pensabile solo nell’ambito di un sistema sociale corporativo; ma poi essa cessa di essere autoregolamentazione nel senso proprio della parola e passa in autoregolamentazione controllata, cioè nella seconda possibilità di economia regolata. Questa regolamentazione sarebbe compito di consigli autonomi economici e corporativi, e ad essa Pagina 153 soggiacerebbero anche le altre funzioni sociali, organizzate e rappresentate secondo gli interessi di categoria. La rappresentazione centrale di tutti avverrebbe nella rappresentanza corporativa. Di questa abbiamo dedotto che in sé e per sé non potrebbe assolvere funzioni politiche, sicché restano due possibilità: o essa sarebbe un semplice esponente di quel gruppo politico che ha usurpato il monopolio del potere o, come pensa Spann, la funzione politica sarebbe riservata a una casta specifica con uguale posizione monopolistica. Prima di riflettere sulla realizzabilità di uno stato corporativo cosí inteso, continuiamo nella analisi dell’economia autoregolata controllata.