La Siria nella Politica Internazionale Indicatori economico-sociali Nome ufficiale: Repubblica Araba Siriana Capo di Stato: Bashar al-Assad Capo di Governo: Muhammad Naji al-Otari Membro di: tutte le principali Organizzazioni Internazionali Religione: Musulmani sunniti (74%), alawiti, drusi ed altre minoranze sciite (16%), piccole comunità ebraiche esistono nelle città di Damasco ed Aleppo Suffragio: Universale, 18 anni d’età Pil in miliardi di US $: 55,204 (2008) Popolazione: 21.226.920 Disoccupazione: 10% (stima 2008) Ordinamento dello Stato Il Consiglio dei ministri è nominato dal Capo dello Stato. Il Presidente è eletto con referendum popolare per sette anni. Il Vice-Presidente, il Primo Ministro ed il Vice-Primo Ministro sono nominati dal Capo dello Stato. Il Potere legislativo è prerogativa del Consiglio del Popolo unicamerale, Majlis al- Shaab, composto da 250 membri eletti con voto popolare per 4 anni. La Costituzione prevede che almeno la metà dei seggi venga attribuita al partito Ba’ath. Negli ultimi 35 anni solo i partiti collegati alla lista FNP sono stati legittimati a partecipare alle elezioni. L’FNP comprende: il Partito Ba’ath (Rinascita socialista araba), il Partito del Presidente Assad, il Partito democratico di Unione socialista, il Partito di Unione socialista siriano, il Partito comunista siriano, il partito socialista nazionale siriano, il Partito socialista unionista. Struttura amministrativa La Siria è divisa in 14 Governatorati, i cui Governatori sono nominati dal Ministro degli Interni e rispondono direttamente al Presidente della Repubblica. Al di sotto dei Governatorati ci sono i Distretti, le Contee ed i Villaggi, ciascuno dei quali è governato dai consigli eletti a livello locale. Non godono di alcuna autonomia politica e finanziaria e sono fortemente dipendenti dal Governo centrale. Frontiere La Siria si trova in una posizione strategica tra Europa, Asia e Africa in quanto ponte di trasmissione delle influenze culturali e degli scambi commerciali. Il territorio è occupato per la maggior parte dal deserto siriaco e faceva parte della ‘Mezzaluna fertile’. Le frontiere attuali, in gran parte artificiali, furono stabilite dal trattato di Sevres del 10 agosto 1920 che smembrò l’Impero Ottomano. V. mappa Storia Nel 1516 il Sultano Selim I occupò la Siria che per quattro secoli rimase legata all’Impero Ottomano. Anche se musulmani, gli ottomani non erano arabi e rimanevano separati dalla popolazione locale. Il turco divenne la lingua dell’amministrazione mentre l’arabo rimase la lingua del popolo. Questa è l’epoca di maggiore decadenza economica e spirituale del Paese riconducile più che all’amministrazione ottomana, al fatto che le rotte del commercio internazionale cominciavano ad abbandonare il Mediterraneo, tendenza che si invertirà solo tre secoli e mezzo dopo con l’apertura del Canale di Suez. Dopo il 1864, a seguito degli scontri tra comunità religiose che portarono al massacro di 5.000 cristiani, la Grande Siria fu divisa in tre vilayet, Aleppo, Damasco e Beirut, la provincia di Gerusalemme e la ‘mutasarrifya’, governatorato, del Monte Libano. La politica di turchizzazione forzata perseguita dal sultano Abdul Hamid II e proseguita dai Giovani Turchi accentuò l’opposizione siriana al potere ottomano. Alla fine del XIX e all’inizio del XX secolo le comunità cristiana e musulmana cominciarono ad aprirsi all’influenza occidentale, in particolare a quella francese, e parteciparono attivamente al movimento nazionalista arabo. In questo periodo, Siria ed Egitto cominciavano a porsi all’avanguardia del movimento di rinascita spirituale dell’arabismo moderno. Gli arabi siriani rivendicavano uguali diritti dei turchi ed il riconoscimento dell’arabo come lingua dell’istruzione e dell’amministrazione. Durante la prima Guerra Mondiale, l’Alto Commissario britannico in Egitto, Henry McMahon, ebbe una celebre corrispondenza con Husayn, Sceriffo della Mecca, negli anni 1915-16, per spingerlo alla lotta armata contro il Sultano, in cambio sarebbe nato un grande regno arabo indipendente, sotto sovranità hashemita, nei territori arabi soggetti ad Istanbul (Iraq, Siria, Libano, Palestina, Giordania). Fidando in queste promesse, Husayn capeggiò la rivolta del deserto guidata dal figlio Faysal e dal colonnello inglese Lawrence d’Arabia. I gruppi nazionalisti siriani combatterono aspramente fino alla liberazione della Siria e della Palestina con la celebre vittoria a Damasco il 3 ottobre 1918. Quasi contemporaneamente gli inglesi, tradendo le promesse fatte a Husayn, compivano atti incompatibili con gli impegni già presi, innanzitutto con gli accordi di Sykes-Pikot in base ai quali si spartivano segretamente con i francesi i territori arabi dell’Impero Ottomano e poi, a complicare ulteriormente la situazione, si aggiunse la Dichiarazione di Balfour che progettava la creazione di una ‘national home’ per gli ebrei in Palestina. Gli accordi di Sykes-Picot assegnavano il controllo della Siria alla Francia. Nell’agosto 1920 fu distaccato il Grande Libano a spese della Siria, decisione che incontrò l’ostilità dei siriani che hanno sempre avuto un rapporto speciale con la regione libanese e non ne hanno riconosciuto la spartizione fino al 1991, complicando fino ad oggi la stabilità dell’area. La Palestina fu amputata ed assegnata alla Gran Bretagna. Nel 1921 la Transgiordania fu a sua volta sottratta alla Palestina e posta sotto l’Emiro Abdullah, fratello di Faysal. Nel 1919 fu creata a Damasco un’amministrazione militare guidata da Faysal, che continuava a rivendicare una completa indipendenza araba, con la proclamazione della nascita del regno indipendente della Grande Siria, comprendente anche il Libano e la Palestina. Ma alla conferenza di San Remo nell’aprile 1920 la Francia ottenne il mandato sulla Siria, che le sarà formalmente consegnato dalla Società delle Nazioni nel luglio 1922. I francesi non esitarono a ricorrere alla forza e Faysal fu sconfitto e mandato in esilio, diverrà poi sovrano dell’Iraq. Ufficialmente il mandato impegnava la Francia a provvedere la Siria di uno statuto organico e di salvaguardare le autonomie locali, le dava il controllo della politica estera ma non dello sviluppo interno, i siriani invece percepivano che la Francia stesse incorporando il Paese nei suoi possessi coloniali per questo erano determinati a mettere fine all’occupazione. Il nazionalismo siriano ebbe il supporto della quasi totalità della popolazione cristiana e musulmana, nonostante Parigi cercasse di scoraggiare lo sviluppo di una comunità nazionale siriana, eseguendo una serie di divisioni e raggruppamenti in base all’antico principio del ‘divide et impera’ tra i vari elementi etnici e religiosi della regione, in modo da aumentare le distanze tra la maggioranza araba sunnita e le diverse minoranze. L’aspirazione dei siriani all’indipendenza, rafforzatasi con quella dell’Iraq nel 1932, si scontrò fino alla seconda guerra mondiale con la determinazione della Francia a restare. Per un ventennio la Siria avrà dei governi, dei parlamenti, dei presidenti autoctoni, schemi spesso rinnovati di costituzioni, ma tutto subordinato al placet della Francia. Le aspirazioni siriane ripresero corpo con l’accordo siglato da una delegazione del Blocco Nazionalista e Leon Blum il 9 settembre del 1936 che prevedeva l’indipendenza e l’ingresso nella Società delle Nazioni di lì a tre anni, accordo che non sarà mai ratificato da Parigi dove nel frattempo era cambiato il governo e dato l’aggravarsi della situazione in Europa ogni indebolimento della Francia nel Mediterraneo orientale veniva fortemente ostacolato. Ancora una volta il conflitto tra e potenze europee avrebbe radicalmente cambiato il corso sella storia siriana. Il 21 giugno 1941 le truppe britanniche e della Francia Libera entrarono a Damasco. Il 27 settembre dello stesso anno fu proclamata l’indipendenza formale della Siria, limitata alle restrizioni dello stato di guerra. L’anno seguente fu eletto presidente della Repubblica Shukri alQuwwatli, protagonista della resistenza ai francesi. In realtà mentre l’indipendenza formalmente proclamata era sottolineata dai gesti simbolici, le restrizioni in atto la facevano considerare un gesto di mera propaganda politica. Nel 1944 Unione Sovietica e Stati Uniti riconobbero la Siria; nel febbraio 1945 la Siria dichiarò guerra alla Germania e ciò le valse l’invito a partecipare alla conferenza di fondazione dell’ONU. Il tentativo francese di mantenere il controllo politico sul territorio ne determinò la crisi definitiva. Nel maggio 1945 ci fu l’insurrezione armata di Siria e Libano contro i presidii francesi, Damasco fu bombardata, l’intervento diplomatico e militare britannico fu determinante per arrivare ad una soluzione del conflitto. Nel luglio 1945 fu concordato il graduale ritiro delle truppe che, insieme a quelle inglesi, furono completamente evacuate il 17 aprile 1946, solo in questa data la Siria ottenne la piena sovranità. La Siria indipendente nasce come repubblica parlamentare democratica, in realtà il potere era concentrato nelle mani dei proprietari terrieri e della classe commerciale, con crescente influenza dei militari. Le inefficienze governative e la debole struttura partitica non erano in grado di gestire il passaggio da una società tradizionale ad una moderna. Questi fattori aggravati dal conflitto arabo-israeliano che da allora influisce pesantemente sulla situazione interna, assorbendo enormi risorse umane ed economiche, condussero alla destabilizzazione del Paese. Le priorità date alla difesa hanno inficiato e rallentato l’avvio a soluzione dei problemi interni e dello sviluppo politico, sociale ed economico. ‘Per il Sirianoconstatava il giornalista libanese E. Saab nel 1965- la Palestina è più di una terra araba, è una parte integrante della Siria geografica che inglobava anche il Libano. la causa palestinese risponde a tutte le aspirazioni pansiriane e panarabe’. I siriani sono il popolo arabo più direttamente coinvolto in Palestina e nel conflitto arabo-israeliano, anche per la loro posizione geografica. Si comprende così perchè in seno alla solidarietà panaraba, la Siria abbia assunto e mantenuto una posizione di inflessibilità e di intransigenza nella lotta contro Israele. Nelle prime elezioni generali del luglio 1947, ebbe la maggioranza il Blocco Nazionalista, eroso dalle scissioni, il cui leader Shukri al-Quwwatli riottenne la carica di presidente nell’aprile 1948. Il Partito del popolo e altre formazioni minoritarie capeggiavano l’opposizione, sfruttando il malcontento causato dalla conduzione della guerra contro Israele, costringendo il governo a dimettersi. La sconfitta araba segnò l’inizio della fine dei vecchi regimi in Siria ed Egitto. I militari tornarono umiliati accusando i politici e il vecchio sistema. I giovani ufficiali assunsero il ruolo di guardiani del prestigio del loro paese, dal 1949 a 1970 si susseguirono una serie di colpi di stato e tentativi di colpi di stato che destabilizzarono il Paese. Dalla fine del 1949 al 1954 il Partito del popolo, con al-Shishakli, governò il Paese e in politica estera assunse una posizione di neutralismo isolazionista. Nel febbraio 1955 si costituì il governo nazionalista, fu eletto presidente al-Quwwatli che diede inizio al processo di integrazione della Siria con l’Egitto dove erano saliti al potere i Liberi Ufficiali e si era imposto il Colonnello Nasser. In occasione della crisi di Suez si creò un unico comando militare siro-giordano-egiziano, furono rotti i rapporti diplomatici con Francia e Gran Bretagna e l’esercito siriano fu posto sotto il comando egiziano. L’anno seguente fu concluso un accordo di unità economica con l’Egitto e truppe egiziane sbarcarono in Siria. Il primo febbraio 1958 fu annunciata ufficialmente l’unione tra Siria ed Egitto che prese il nome di Repubblica Araba Unita (RAU) presieduta da Nasser. Emersero bene presto le difficoltà d’integrazione e la subordinazione di Damasco al Cairo. Il primo piano quinquennale varato da Nasser (1961-1965) accentuò la crisi economica, lo sviluppo degli anni precedenti aveva contato molto sull’iniziativa privata e i programmi di nazionalizzazione previsti non tenevano conto di questa peculiarità siriana. Un colpo di stato, 28 settembre 1961, mise fine alla prima unificazione della storia araba contemporanea, la Siria tornò ad essere uno stato sovrano con la stessa classe dirigente che negli anni ’50 aveva favorito i grandi proprietari terrieri. Questa situazione perdurò fino all’8 marzo 1963 quando il governo fu rovesciato da un gruppo di giovani ufficiali, impregnati di nazionalismo arabo e di idee socialiste, in gran parte bathisti. Il partito Ba’th (resurrezione) era nato come partito della resurrezione araba a Damasco nel 1947; al congresso costitutivo i delegati erano soprattutto sunniti e cristiani greco-ortodossi appartenenti alla piccola borghesia urbana e notabili delle campagne soprattutto drusi e alawiti, dal 1953 aveva assunto il nome di Partito Socialista della Resurrezione Araba. I suoi teorici e fondatori furono i siriani Aflaq e Salah al-Din al-Bitar, entrambi studenti a Parigi, alla Sorbona. Il Ba’th si considerava un partito arabo universale, prevedeva ramificazioni in tutti i Paesi arabi, in Siria fu portato al potere dai militari e da loro ricevette il sostegno per rimanervi, i giovani ufficiali erano spesso reclutati tra le minoranze religiose, spesso sensibili alla dottrina marxista. Fu fatta la riforma agraria, nazionalizzate le banche, le aziende commerciali ed industriali. Con il colpo di stato bathista le relazioni tra i gruppi sociali e religiosi mutarono radicalmente, i membri delle comunità islamiche eterodosse, alawiti e drusi, e provenienti dalle aree rurali povere si imposero e ottennero una sovra-rappresentanza nelle principali istituzioni del potere, dal 1963 la vita politica siriana sarà dominata da esponenti di classi medio-basse e da partiti politici progressisti. Dal 1966 il governo fu retto dall’ala più radicale e socialista del partito, che aveva ormai estromesso la vecchia dirigenza, si parla, infatti, di un neo-Ba’th sempre più socialista e filo-sovietico. Il contrasto all’interno del partito perdurò fino al 1970 e si sommò ai problemi in politica estera, il sistema, infatti, si trovò impreparato ad affrontare ‘la guerra dei sei giorni’ del giugno 1967, quando l’esercito israeliano riuscì ad occupare le alture del Golan. La perdita del Golan fu un disastro, molti siriani morirono negli scontri, molti altri fuggirono dai luoghi di combattimento, circa centomila vennero espulsi successivamente dagli israeliani. Le forze occupanti distrussero villaggi, interruppero gli approvvigionamenti di acqua, fu impedito il ritorno dei profughi e furono incoraggiati gli insediamenti ebraici per rendere permanente la presenza israeliana. Il governo siriano adottò una politica molto ferma di rifiuto di ogni compromesso con Israele e di cooperazione con gli ‘stati reazionari’, o ‘paesi arabi moderati’ detto all’occidentale, come l’Arabia Saudita. Nel novembre del 1967 rigettò la risoluzione n.242 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che chiedeva il ritiro degli israeliani dai territori occupati, Sinai, Cisgiordania, Golan, Gerusalemme Est, e la fine dello stato di belligeranza tra gli stati arabi ed Israele. La Siria puntava ad una Palestina indipendente. Nel marzo del 1972, la Siria compì un passo molto importante accettando la risoluzione che 5 anni prima aveva rigettato, risoluzione che però continuò ad essere ignorata da Israele. Nel settembre del 1970, noto come settembre nero, il re Husayn di Giordania cercò di schiacciare le organizzazioni palestinesi presenti nel proprio Paese, questo creò la crisi più grave nel partito Ba’th siriano, tra i sostenitori dell’appoggio armato alla resistenza palestinese, che fu decimata dall’esercito giordano, e quelli che mantenevano una posizione neutrale, tra cui Hafiz al-Assad allora ministro della Difesa e futuro leader del Paese. Questi avvenimenti portarono ad un colpo di stato che rese Assad il primo presidente alawita, il suo ruolo nella breve storia dello stato siriano sarà centrale, manterrà il potere fino al 2000 e sotto di lui la Siria, da stato debole compresso tra le pressioni interne ed internazionali, si è trasformata in uno dei maggiori attori della regione. Per una coincidenza della storia, il più grande leader arabo moderno Nasser morì (28 settembre 1970) poco prima della salita al potere di Assad (13 novembre). Il nuovo presidente conquistò un ruolo dominante in Siria, ma ebbe scarso seguito popolare al di fuori della regione siro-libanese. Per far uscire il Paese dallo stato di endemica crisi, diede impulso al movimento di risanamento appoggiandosi all’esercito ed ai servizi di sicurezza, dove gli alawiti occupavano i posti più delicati. Il sistema bathista era forte e saldo al potere, ma doveva costantemente correggere, anche brutalmente, gli eccessi e le deviazioni della classe politica, reprimere gli oppositori, in primo luogo i Fratelli Musulmani, neutralizzando le rivalità. Assad, nonostante le ombre di un sistema autoritario ed il persistere delle difficoltà economiche, per trenta anni mantenne una relativa stabilità interna. Vi riuscì grazie alla istituzionalizzazione del sistema politico i cui pilastri erano l’esercito, il partito Ba’th e lo stato; nel febbraio 1971 fece approvare un emendamento alla costituzione che autorizzava l’elezione a suffragio universale del presidente per sette anni, questo mandato gli verrà riconfermato fino al suo decesso. Nel marzo 1972 fu stipulata una ‘Carta nazionale’, ovvero l’istituzionalizzazione della coalizione tra il Ba’th ed alcuni piccoli partiti di ispirazione socialista. Il partito dei Fratelli Musulmani, che pure aveva seguito nella popolazione siriana, fu messo al bando e duramente represso. Nel 1973 fu promulgata una nuova Costituzione, fatta su misura per assicurare il potere ad Assad ed al partito Ba’th. In base ad essa il Parlamento viene eletto ogni 4 anni e condivide la funzione legislativa con il Presidente; alle elezione sono ammessi solo i partiti del FNP, quelli della Carta nazionale, e gli indipendenti; al Ba’th è assicurata la maggioranza assoluta dei seggi; ogni emendamento costituzionale necessita dell’approvazione del presidente. Assad avrebbe voluto separare più nettamente lo stato dalla religione, togliendo la clausola che il presidente doveva essere di fede musulmana e l’aderenza dello stato all’Islam, ma vi dovette rinunciare, riuscì ad ottenere che la sharìa non fosse fonte esclusiva della legislazione ma una delle principali. Assad percepiva il rischio per gli alawiti di essere tacciati come eretici e apostati, da parte di chi – Arabia Saudita da un lato e Iran da quello opposto – si professava il vero custode delle parole del Profeta. Con un calcolo più politico che spirituale, quindi, riuscì, e ancora oggi il figlio vi riesce, a mantenere il proprio status scismatico sotto silenzio, senza che diventi oggetto di polemica e minaccia per la rete di relazioni diplomatiche. Non si professava né sunnita, né sciita, ma accettava di farsi classificare un po’ come entrambi in una visione volutamente confusa del panorama islamico. Al tempo stesso, resta prerogativa del presidente siriano la nomina del Gran muftì sunnita di Siria. Diede grande impulso ai servizi segreti e alla polizia politica tanto che le spese per la sicurezza assorbivano un terzo delle spese militari, ed ebbero anche un forte contributo dall’Unione sovietica, vale a dire da quel governo che più si avvicinava alla dottrina Ba’th, ma che soprattutto desiderava fare il suo massiccio ingresso nella politica mediorientale per contrastare il rivale statunitense. In politica economica abbandonò l’intransigenza socialista dei primi governi bathisti, adottando alcune misure di liberalizzazione pur mantenendo il controllo pubblico sullo sviluppo economico. Assad avviò nuovi orientamenti anche in politica estera, mantenne buoni rapporti con il blocco socialista, ma fece aperture all’Occidente, ai Paesi arabi conservatori e soprattutto all’Egitto, rafforzò i controlli sulle organizzazioni palestinesi presenti sul territorio. Nella guerra del 1973, Egitto e Siria sferrarono un attacco militare coordinato contro Israele per la liberazione dei territori occupati nella guerra del 1967, il conflitto non diede una vittoria militare ma fu considerato una vittoria politica degli stati arabi, come riscatto delle capacità militari arabe e per l’abilità a coordinare azione militare e pressioni economiche, con l’imposizione dell’embargo petrolifero contro gli alleati di Israele. Nel 1974 la Siria riottenne Quneitra e parte delle alture del Golan. Nel 1980, i Fratelli musulmani cercarono di assassinare il Presidente, in seguito all’abrogazione dalla Costituzione dell’articolo per cui l’Islam era la religione di Stato in Siria e per cui il Presidente della Repubblica doveva essere musulmano. Nel 1982, Assad rispose inviando le sue truppe contro la roccaforte sunnita di Hama, provocando la morte di oltre ventimila persone ed eliminando quasi totalmente i simpatizzanti dei Fratelli Musulmani. Ed è pur vero che, dopo il “massacro di Hama”, la Siria non ha più manifestato forme violente di opposizione al regime. L’operato di Assad in questo frangente fu sostanzialmente condiviso dalla popolazione, anche tra molti sunniti che lapidariamente sentenziarono: ‘Meglio un mese di Hama che quattordici anni di guerra civile come in Libano’. Negli anni ottanta una profonda crisi economica, aggravata dalle forti spese militari aveva messo in discussione il sistema bathista e la sua legittimità. La scarsità di divise straniere causò la scarsità di materie prime per l’industria, la corruzione e la pessima gestione dei settori dell’industria pubblica e dell’agricoltura aggravarono la situazione, il Trattato di amicizia con l’URSS (1980) provocò effetti negativi sugli aiuti da parte degli Stati Uniti e dell’Comunità Economica Europea, ciò nonostante la Siria ha potuto contare sul supporto anche economico di numerose organizzazioni arabe. La situazione economica migliorò nella seconda metà degli anni novanta, sia grazie alle riforme liberalizzatrici, che all’aumento della produzione di greggio. Il settore della difesa continuava ad assorbire oltre il 40% del bilancio dello stato. Nel contesto del mondo arabo, la Siria aveva rotto le relazioni con l’Egitto dopo la pace separata con Israele (Camp David 1978), ma già alla fine del 1987 cominciò a cambiare atteggiamento, al vertice di Casablanca del 1989 non pose il veto per la reintegrazione dell’Egitto in seno alla Lega Araba e poco dopo ristabilì le relazioni diplomatiche con Il Cairo. La piena normalizzazione fu raggiunta nel 1991 quando la Siria partecipò al processo di pace arabo-israeliano. Con la dissoluzione dell’URSS Damasco fu indotta a migliorare le relazioni con l’Europa Occidentale e con gli Stati Uniti. La partecipazione alla guerra del Golfo del 1990-1991 aumentò l’accesso siriano agli aiuti statunitensi, europei e dei ‘Paesi arabi moderati’. L’egemonia siriana in Libano fu tacitamente accettata a livello internazionale, riconoscendo alla Siria il rango di stato chiave per una soluzione pacifica della questione mediorientale. Nei primi anni novanta l’alleanza della Siria con i movimenti radicali islamici nel mondo arabo, i libanesi Hizbullah, i palestinesi di Hamas, e i Fratelli Musulmani giordani, indebolì l’influenza dei Fratelli Musulmani siriani all’interno e nei paesi limitrofi. Nel 10 giugno 2000 Hafiz al-Assad fu stroncato da un attacco al cuore, era la fine di un’epoca. I funerali si svolsero il 13 giugno e mostrarono che il passaggio di poteri avveniva nella stabilità e che il figlio Bashar, dopo la morte accidentale del fratello Basil, erede designato, aveva il controllo del Paese. Le cronache del giugno 2000 descrivono il nuovo presidente come una figura incolore, dal carattere mite e lontano dalla politica. Laureato in oftalmologia a Damasco, ma specializzato a Londra, l’allora 35enne Bashar venne catapultato nell’agone politico per volontà degli eventi. Furono in molti a sminuirlo e a giudicarlo inadatto al comando. All’interno della famiglia al-Assad, lo zio Rifaat – autoproclamandosi invano nuovo Presidente della Siria – meditò di usurpargli il potere, mentre la madre e la sorella ambirono a farsi “donne ombra”. Ma proprio il rischio di regolamenti di conti costrinse gli apparati di potere a legittimarne l’ascesa, onde evitare che la Siria tornasse a vivere il turbinio di colpi di Stato del passato. Il Parlamento, quindi, fu costretto a modificare la Costituzione e ad abbassare l’età presidenziale da 40 a 35 anni. Il passaggio di consegne tra padre e figlio non fu tanto dissimile da quanto era avvenuto in Giordania nel 1999, al momento della morte di re Husayn e dell’ascesa al trono di Abdallah II. In entrambi i casi, l’erede designato rischiò l’esclusione per mano di un fratello del leader defunto: Hanas per la monarchia hashemita, Rifaat in Siria. Di segno totalmente opposto, furono le speranze delle opposizioni. Quello che si auspicava era l’avvento della democrazia e delle riforme economiche, sulla scia di quanto promesso dallo stesso Bashar nel suo discorso di insediamento. Ciononostante, anche in questo caso, le circostanze confutarono scenari e progetti. Ciascuno con il suo peso, gli eventi che si susseguirono dalla seconda metà del 2000 influenzarono il Medio Oriente, nella maggior parte dei casi contribuendo alla sua destabilizzazione. Basti pensare all’insorgenza della seconda Intifada, all’attentato dell’11 settembre 2001 alle Torri Gemelle, all’offensiva ideologica degli USA contro gli “Stati canaglia” e alla guerra in Iraq. Nell’arco di questi ultimi anni, la Siria ha dovuto fronteggiare un quasi totale isolamento sul fronte internazionale. La sequenza incalzante degli accadimenti recise la transizione lunga e “dolce” di Bashar e costrinse quest’ultimo a diventare il leader di un Paese coinvolto in prima linea in tutte le crisi dell’area. Questa posizione fu confermata dalle presidenziali di maggio 2007. In occasione della cerimonia di reinsediamento – il 6 luglio – Bashar pronunciò un discorso ricco di buone intenzioni e progettualità. “Il tasso di sviluppo della Siria è cresciuto del 6%, rispetto al 2006”, disse. “Sulla base del fatto che il nostro Paese vanta il minor debito al mondo, il sistema dell’economia di mercato sarà adottato come base del sistema politico del nostro Paese nel futuro”. Nello specifico del processo democratico, rese nota l’intenzione di “allargare la partecipazione politica, grazie a una nuova legge per i partiti e all’istituzione di un Consiglio Consultivo”. Ma queste promesse e garanzie ottennero più perplessità che approvazione. Da una parte, l’opposizione al regime non riteneva possibile la realizzazione di un simile progetto, se al potere resterà il partito Baath. Dall’altra, le frange più oltranziste di quest’ultimo agitavano lo stendardo del nazionalismo e della sicurezza, opponendosi a qualsiasi forma di apertura. Se il sistema di potere degli Assad si presenta evidentemente complesso, altrettanto si può dire delle opposizioni al regime. Le correnti interne alla struttura di potere e contrastanti con la politica di apertura intrapresa dal presidente sono più che mai forti. In questo senso, bisogna sottolineare una differenza tra contrapposizione e opposizione. Della prima farebbero parte alti esponenti del governo in carica, quindi vicini al presidente, i quali non sono d’accordo con gli atteggiamenti riformatori di quest’ultimo. Si tratta di un gruppo che farebbe capo al vicepresidente al-Shara, noto per il suo conservatorismo. La cosiddetta “Vecchia guardia”, invece, reduce del regime di Hafiz el-Assad, può essere classificata come una vera forma di opposizione al regime. Gli esponenti più importanti di questa fazione sono ormai esclusi dalla dirigenza: alcuni per ragioni di età, altri perché estromessi dal presidente Bashar el-Assad. Questo non significa però che siano stati messi effettivamente a tacere. Anzi, alcuni ex-bathisti, proprio perché allontanati dal potere, hanno scelto di fare una vera e propria opposizione. Sono andati a cercare il contatto con i Fratelli Musulmani, oppure con altri partiti politici, schierandosi contro un regime – a loro dire – autoritario e oppressivo. Di pari passo, non possono essere sottovalutati i partiti politici che non fanno capo alla coalizione governativa del Fronte Nazionale Progressista (FNP). Per quanto quello siriano sia classificato come un regime autoritario, le voci contrarie al governo di Damasco sono più che mai accese – all’estero come in patria – e soprattutto vengono ascoltate. Il terzo ramo di questo albero è quello delle minoranze religiose ed etniche che compongono il panorama sociale della Siria. Cristiani, drusi, una minuscola comunità ebraica, ma anche armeni e curdi sono i cittadini siriani “non siriani a tutti gli effetti”. In realtà, ogni collettività occupa una propria posizione nei confronti di Bashar. Al punto che si può parlare solo di opposizioni “ibride” e disomogenee, che difficilmente riuscirebbero a dar luogo a un’azione anti-governativa congiunta, nonostante tentativi in questo senso vi siano stati. Infine, non si può dimenticare che il governo siriano – espressamente laico, con un passato socialista e ora vicino al mondo sciita – è un soggetto a rischio di attacco terroristico da parte di al-Qaeda. Gli osservatori internazionali sono soliti supporre della presenza di una fronda interna al regime. In supporto a questa ipotesi, si fa riferimento all’attentato del 14 febbraio 2005, a Beirut, che è costato la vita al politico libanese, Rafiq Hariri. Fin da subito si è avanzata l’ipotesi che dietro l’omicidio eccellente ci fosse il governo siriano, intenzionato a bloccare le trattative per il ritiro delle sue truppe dal Libano. La stessa commissione Mehlis delle Nazioni Unite ha avanzato questi sospetti. Tuttavia, Damasco ha sempre negato e respinto le accuse. Il caso ha comportato un risveglio delle considerazioni più crude nei confronti del regime. Gli USA sono tornati a parlare della Siria come di uno “Stato canaglia”. E le buone intenzioni di Bashar sono state immediatamente dimenticate. Quello siriano è un autoritarismo “morbido”. I metodi violenti e repressivi sono stati accantonati ed è stata introdotta la possibilità di schierarsi contro Bashar al-Assad. Quest’ultimo, per quanto auspichi il raggiungimento di un maggiore livello di modernità politica, non ha ancora rinunciato ad escamotage di ogni tipo per evitare che il suo potere venga messo in discussione. Da un punto di vista strettamente normativo, non si può dimenticare che in Siria è in vigore la legge d’emergenza nazionale dal 1963, la quale prevede che qualunque decreto possa essere sospeso per motivi di sicurezza. A questa si aggiunge la “Legge n. 14” del 14 febbraio 1969, che concede ai servizi di sicurezza il diritto di ricorrere alla tortura, e la Legge speciale del 1989 per i tribunali militari che posso mettere in stato d’accusa anche i civili. Infine la “Legge n. 49” sancisce la pena di morte senza processo per gli appartenenti alla Fratellanza. Nello specifico della pena capitale, si è fatta notare la mobilitazione contro la pena di morte, tuttora in vigore, nell’ambito della quale molti intellettuali ed esponenti del mondo politico – tra cui lo stesso Ministro della Giustizia – hanno potuto esprimere il proprio dissenso. Le ultime elezioni sono state la dimostrazione più recente di come il regime permetta sì ad altri partiti e candidati di competere con il Baath, ma entro determinati binari, che sappiano garantire comunque una vittoria blindata per l’FNP. Per quanto riguarda i dieci partiti minori che compongono quest’ultima, bisogna sottolineare che la leadership del Baath non permette loro una larga autonomia. Tra questi bisogna segnalare: il Movimento socialista arabo, l’Unione socialista araba, ma anche il Partito comunista siriano. Come si può notare già dai loro nomi, il filo conduttore della coalizione è essenzialmente laico-socialista e richiama alla memoria l’era di Hafiz. Oggi, quando Bashar parla di riforme, si fa riferimento proprio allo snellimento dell’apparato burocratico e dell’elemento ideologico che hanno caratterizzato il regime paterno. Al dirigismo e allo statalismo, il presidente siriano – forte della sua educazione universitaria in Gran Bretagna – vuole sostituire un’economia privata. Ma l’obiettivo, come sottolinea il governo, può essere raggiunto solo con passaggi graduali. Quello che spera Bashar è che anche la Siria venga coinvolta nel lento ma concreto processo di diversificazione economica che molti Paesi mediorientali stanno vivendo. Oltre alle grosse partecipazioni statali e agli investimenti nel settore petrolifero, si intende creare un libero mercato di merci e servizi anche in Medio Oriente, che sappia agganciarsi al sistema globale. E mentre il fattore socialistico-dirigista è venuto meno, è sopravvissuta l’ispirazione laica. Come in passato, infatti, Damasco vanta un regime che dialoga con il rappresentanti delle comunità religiose locali, non permettendo però a quest’ultime un’ingerenza eccessiva. Si tratta di un atteggiamento che Hafiz Assad ha voluto mantenere sempre costante. La Costituzione siriana prevede che il presidente sia musulmano, senza specificare a quale confessione dovrebbe appartenere. Questo risulta, al tempo stesso, un gesto di apertura, ma anche un compromesso verso il mondo religioso, oltre che risultato di notevole astuzia che permette alla minoranza alawita di guidare un Paese comunque a maggioranza sunnita. Di fronte a questo quadro ancora ibrido e dalle prospettive incerte, si registra un’intensa attività di opposizione da parte dei partiti classificati dagli osservatori internazionali come “clandestini”. Si tratta di realtà molto differenti fra loro. Alcune, come il Partito socialdemocratico arabo e il Partito repubblicano siriano, si richiamano a dottrine politiche di natura occidentale. Bisogna poi ricordare la Fratellanza Musulmana, espressione dell’impegno politico da parte delle frange islamiche più conservatrici del mondo sunnita. Su questa linea si posiziona il Fronte islamico unito. Il Partito curdo-democratico di Siria, infine, rappresenta la minoranza etnica dei curdi nel Paese. In realtà, il regime vieta l’attività politica solo ai movimenti classificati come estremisti religiosi, primi fra tutti i Fratelli Musulmani. Nel marzo dello stesso, si è registrata una massiccia operazione congiunta da parte di 274 intellettuali siriani e altrettanti libanesi che hanno inviato un appello a Bashar – la cosiddetta “Dichiarazione Damasco-Beirut – in cui veniva chiesto il ritiro del contingente di sicurezza siriano presente in Libano. Successivamente Damasco smobilitò i suoi 15mila uomini dal Libano. Ma sarebbe più corretto attribuire questa decisione alla necessità, da parte siriana, di sottostare alla risoluzione ONU 1559, piuttosto che alle istanze della Dichiarazione. Quello che conta rilevare è l’assoluta libertà con cui è stata avanzata la richiesta. Nessuna polizia politica ha cercato di contrastarla. Un fatto dovuto a due fattori: da una parte l’evidente alleggerimento dei lacci autoritari, dall’altra l’elevatissimo grado di burocratizzazione e corruzione del sistema. Sembra che il manifesto sia giunto a Bashar divincolandosi tra gli scogli di un apparato statale ormai vetusto. In pratica, l’opposizione ha saputo sfruttare in proprio favore i gangli che il regime gli aveva parato contro. Ma dall’evento non si può trarre la conclusione che il Ba’th abbia abbandonato la presa. Bashar, infatti, ha solo alleggerito alcuni vincoli, ma continua a tenere sotto controllo le manifestazioni a lui avverse. In generale, un cavallo di battaglia dell’opposizione è rappresentato dalla richiesta di una legge sulla libertà di stampa, che garantisca il pluralismo e l’indipendenza dei mezzi di informazione. Su questo fronte alcuni passi avanti si sono effettivamente fatti. Da quattro anni a questa parte si è assistito alla fondazione di alcuni giornali ed emittenti radio-tv che, pur senza esprimere un’aperta opposizione, sembrano godere di una relativa autonomia. Il caso più eclatante sembra quello del quotidiano privato al-Watan. È un luogo comune del mondo occidentale pensare che, in qualità di “Stato canaglia”, la Siria possa dirsi immune dal terrorismo di matrice islamica. Tuttavia, per quanto parlare di al-Qaeda presente sul territorio sia altrettanto azzardato, non si può dimenticare che la campagna jihadista promossa da Osama bin Laden si rivolge non solo contro l’Occidente, ma combatte anche quei governi arabi che, agli occhi dell’estremismo islamico, costituiscono una degenerazione politica, rispetto ai precetti del Corano. È il caso dell’Egitto, dell’Arabia Saudita, oppure della Giordania. Ma dalla lista non vanno escluse realtà come la Siria. Negli ultimi anni, sono stati segnalati solo sporadici episodi di questo fenomeno, ma che non possono essere sottovalutati. Nell’episodio principale, ma non unico, il 28 aprile 2004 un commando mai identificato ha attaccato Mazze, il quartiere diplomatico e residenziale della capitale. Lo scontro a fuoco ha provocato la morte di quattro persone, tra cui due degli attentatori. Era dagli anni Novanta che il Paese non cadeva vittima di attacchi di questo tipo (nel 1997, un’esplosione allora attribuita a Israele provocò la morte di undici persone). Il quotidiano Yediot Ahoronoth ha avanzato l’ipotesi che si sia trattato di un avvertimento da parte proprio di al-Qaeda verso il Baath. Damasco infatti non ha assunto una posizione espressamente contraria all’Occidente, sebbene l’abbia più volte criticato. E sarebbe proprio questa ambiguità, unitamente al laicismo del regime, uno dei motivi scatenanti dell’intervento di al-Qaeda contro la Siria. Secondo il quotidiano di Tel Aviv, il permesso di transito attraverso i suoi confini in direzione irachena, che Damasco avrebbe concesso ai guerriglieri dall’inizio della guerra in Iraq, non può sposarsi né con i segnali di apertura che la sua diplomazia lancia verso Israele e gli USA, né con le informazioni in merito ad al-Qaeda che l’intelligence siriana fornirebbe a questi ultimi. A questo proposito, nei giorni immediatamente successivi all’attacco del 2004, il ministro siriano del Turismo, Saadalah Agha al-Qalaa, aveva sottolineato il fatto che si fosse trattato di un atto isolato. L’obiettivo di al-Qalaa era quello di tranquillizzare l’Occidente ed evitare che il settore di sua competenza venisse intaccato dalla paura di attentati, com’è successo invece in Egitto. Effettivamente proprio nel 2004, il numero di visitatori stranieri ha toccato il numero record di oltre 3 milioni di presenze complessive, per poi cominciare a decrescere. Inoltre, risale all’inizio di settembre dell’anno successivo l’uccisione di cinque membri del gruppo estremista Jund al-Sham (Soldati del Levante), nella provincia centrale di Hama. Infine, bisogna tornare sulle minacce di morte a firma di al-Qaeda ricevute da Bashar alla vigilia delle scorse presidenziali. Del resto, Damasco ha aderito ufficialmente dal 2005 a un programma congiunto con altri Paesi del Medio Oriente per l’estradizione di sospetti terroristi verso le proprie nazioni di origine. Una posizione che offre ulteriormente il fianco ad al-Qaeda.