CAPITOLO 12 LA MEDIAZIONE COME TRADUZIONE CULTURALE

CAPITOLO 12
LA MEDIAZIONE COME TRADUZIONE CULTURALE NELLE INTERVISTE AD
IMMIGRATI AFGHANI
di Sabina Giorgi, Eleonora Dari Salisburgo e Alessandra Talamo
Nel presente articolo si introduce alla figura del mediatore culturale, figura chiave sia nei processi
di integrazione dei soggetti immigrati nel contesto ospitante che nelle ricerche interculturali. Si
cerca di darne, dapprima, una breve definizione facendo riferimento essenzialmente a due fonti:
Wikipedia e INVALSI.
In Wikipedia, risorsa del web, il mediatore culturale è definito come “una persona che gode della
fiducia della popolazione oggetto di studio sia in base alle sue caratteristiche personali che
culturali”. Il mediatore non ha, però, necessariamente la medesima cultura di appartenenza dei
soggetti in questione ma deve conoscerla molto approfonditamente per potere attuare un lavoro di
mediazione tra le due culture che vengono a trovarsi a confronto in un determinato contesto o
progetto di ricerca.
INVALSI (Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema Educativo di Istruzione e Educazione)
definisce, invece, il mediatore culturale come una figura professionale il cui intervento mirerebbe a
facilitare l’inserimento degli immigrati nel contesto ospitante favorendo la comunicazione con i
servizi pubblici. Più nello specifico, la possibilità di comunicare rende maggiormente adeguate le
risposte di tali servizi ai bisogni espressi dagli immigrati.
All’interno della psicologia culturale si utilizza, invece, il termine “garante” per riferirsi a colui che
nel ruolo di mediatore rassicura i partecipanti alla ricerca circa la buona fede di questa e dei suoi
obiettivi. Il cosiddetto garante deve, in un certo senso, guadagnarsi la fiducia dei soggetti che
partecipano alla ricerca per motivare la loro collaborazione.
Occorre dire che nel lavoro di tale figura professionale vi è l’obiettivo di promuovere l’integrazione
culturale, ma anche di sviluppare determinate risorse. Un concetto importante è, a questo proposito,
quello di defamiliarizzazione. Defamiliarizzare significa abbattere le barriere del senso comune,
abbattere i rigidi confini che definiscono le culture e che determinano l’incapacità di entrare in
contatto e comprendere il “diverso”, la cultura altra. Si configura, in questi termini, anche come un
processo di sviluppo di risorse e potenzialità come l’advocacy, l’empowerment e la possibilità di
condividere la propria “storia personale” con la particolarità e l’unicità dei vissuti che la
caratterizzano.
Il termine advocacy nel suo significato moderno rimanda ad un uso strategico di informazioni e
conoscenze al fine di cambiare lo status quo delle cose. Si tratta di conoscere e rendersi partecipi
delle politiche e delle pratiche di un paese in modo da avere l’opportunità e lo spazio per proporre
un cambiamento dando voce ai bisogni dei soggetti svantaggiati quali possono essere, in questo
caso, gli immigrati. A ciò è collegabile, dunque, anche il costrutto dell’empowerment che si
configura come un processo di attivazione di risorse e potenzialità all’interno della situazione in cui
si lavora. Potere e partecipazione sono i due concetti di base dell’empowerment. In particolare,
“potere” non inteso come superiorità rispetto ad un altro, ma “potere positivo” ovvero come potere
alimentato dalla collaborazione, dalla condivisione e dalla reciprocità di un insieme di persone al
fine di migliorare le proprie condizioni di vita. Infine, la possibilità di far emergere “storie
personali”, di favorire il racconto e la condivisione, come nel caso delle interviste narrative nella
ricerca con immigrati afghani, ha alla base l’ instaurarsi di una relazione comunicativa tra i soggetti.
A tal fine il mediatore culturale è colui che cerca di promuovere l’ascolto e la comprensione.
Geertz considera la mediazione proprio con la capacità di tradurre le categorie di una cultura nelle
categorie dell’altra ed identifica, essenzialmente, cinque categorie o dimensioni:
La distanza del potere, legato alla percezione ed alla gestione del potere all’interno di una
cultura;
-
L’individualismo in opposizione al collettivismo;
-
La mascolinità in opposizione alla femminilità;
L’evitamento dell’incertezza, inteso come la tendenza all’interno di una cultura a
programmare comportamenti, leggi e misure di sicurezza.
L’orientamento a lungo termine (perseveranza e parsimonia) e a breve termine ( rispetto per
le tradizioni, il senso del dovere verso gli obblighi sociali e cura dell’immagine pubblica).
Lo stesso Geertz adotta i due concetti “vicini all’esperienza” e “distanti dall’esperienza”, coniati da
Kohut, per descrivere due modalità diverse attraverso cui il ricercatore può conoscere.
“Vicini all’esperienza” sono coloro che “vedono, sentono, pensano, immaginano” e che, quindi, si
relazionano in modo empatico (ad es. nell’osservazione partecipante). “Distanti dall’esperienza”
sono, invece, quei ricercatori, quegli specialisti presi dalle proprie ricerche e dai propri obiettivi
scientifici conoscitivi e pratici il cui lavoro viene ad essere una mera “riflessione teorica”.
Il compito del mediatore culturale, all’interno di un progetto di ricerca, è di mettere in contatto le
due parti, di favorire una connessione tra “vicino all’esperienza” e “distante dall’esperienza” e,
dunque, di favorire la comprensione dei vissuti dei soggetti da parte del ricercatore e, viceversa, il
lavoro del ricercatore da parte dei partecipanti alla ricerca. Il mediatore culturale è anche un
mediatore linguistico avendo conoscenza di entrambe le lingue e potendo favorire, così, lo scambio
comunicativo che si configura come il punto di partenza di un vero e proprio scambio culturale.
Sintesi di EMANUELA GRIMALDI
CAPITOLO 13
LAVORARE IN UNA COOPERATIVASOCIALE: ATTEGGIAMENTI DEGLI OPERATORI
VERSO GLI IMMIGRATI ED EFFETTI“IROCINI” DEL SOSTEGNO ISTITUZIONALE.
Vezzali e Giovannini.
Il fenomeno dell'immigrazione è rilevante per lo sviluppo economico e sociale del nostro paese ed è
quindi necessario favorire i processi di integrazione attraverso la riduzione del pregiudizio.
La ricerca analizzata in questo capitolo si è quindi posta l'obiettivo di esaminare atteggiamenti
impliciti ed espliciti nei confronti degli immigrati da parte di lavoratori italiani di una cooperativa
sociale che eroga servizi per gli immigrati. Questo perché gli atteggiamenti di coloro che operano in
queste cooperative dovrebbero essere improntati alla tolleranza,ma non sempre vi è corrispondenza
fra valutazioni consapevoli e inconsapevoli. Spesso infatti i giudizi positivi sono dovuti alla
desiderabilità sociale e alla presentazione di un'immagine di sé positiva, mentre in realtà esprimono
in maniera implicita atteggiamenti negativi. Gli atteggiamenti impliciti, rilevati con tecniche
indirette, sono attivati dalla mera presenza dell'oggetto di atteggiamento, sono automatici e meno
influenzati da bias di autopresentazione.
Lo studio è stato svolto nell'ambito di una cooperativa sociale di Reggio Emilia che si occupa di
servizi sociali rivolti agli immigrati favorendo l'inserimento di quest'ultimi nella comunità
territoriale in una prospettiva di reciproca integrazione. Essa promuove e gestisce servizi relativi a
bisogni primari quali vitto, pernottamento o primo alloggio,accoglienza ai minori e inserimento
scolastico. In tale contesto atteggiamenti negativi o ambivalenti verso gli immigrati potrebbero
pregiudicare non solo la qualità del servizio offerto ma anche le opinioni degli immigrati rispetto
agli atteggiamenti italiani nei loro confronti.
Si è partiti dall'ipotesi che il contatto cooperativo positivo ed amichevole riduca sia il pregiudizio
implicito che quello esplicito solo quando il sostengo istituzionale percepito è moderato e che tali
effetti siano mediati dall'ansia intergruppi. Sono stati coinvolti nella ricerca tutti i 44 lavoratori tra
cui 33 italiani e 11 stranieri di età compresa tra i 20 e i 45anni circa.
Per la rilevazione degli atteggiamenti impliciti i partecipanti hanno completato individualmente alla
presenza di un ricercatore l' Implicit Association Test (IAT)e poi rispondevano ad un questionario
che includeva misure di contatto cooperativo, sostegno istituzionale, ansia intergruppi e ingroup
bias esplicito. L’Implicit Association Test è uno strumento che è stato sviluppato da Tony
Greenwald e dai suoi collaboratori (Greenwald, McGhee e Schwartz, 1998) per studiare la forza dei
legami associativi tra concetti rappresentati in memoria.Lo IAT viene somministrato attraverso il
computer. Consiste in una serie di prove di categorizzazione: in ciascuna di queste prove, al centro
del monitor compare uno stimolo e al partecipante viene chiesto di classificarlo, il più velocemente
ed accuratamente possibile. Gli stimoli sono generalmente parole oppure immagini e appartengono
a quattro diverse categorie. Due di queste categorie rappresentano dei concetti, mentre le altre due
rappresentano due attributi opposti bipolari. Ogni volta che uno stimolo appare sul monitor, il
rispondente lo deve ricondurre alla categoria di riferimento. Un aspetto fondamentale dello IAT
consiste nel fatto che il partecipante ha a disposizione due soli tasti di risposta. Le prove dello IAT
sono suddivise in cinque blocchi. Tre di questi blocchi hanno una funzione di permettere al
rispondente di apprendere le modalità di risposta, mentre i restanti due sono critici per l’indagine
delle associazioni d’interesse.
Dai risultati si può evincere, come ipotizzato, che il contatto è risultato associato a minore
ingroupbias esplicito ed implicito e a ridotta ansia quando il sostegno normativo percepito era
moderato ma non quando era alto. Questo aspetto “ironico” è dovuto al fatto che dove viene
promossa in maniera forte l'uguaglianza sociale i soggetti sono maggiormente posti a pressioni di
desiderabilità sociale. Questo però non vuol dire che non sia opportuno promuovere norme di
uguaglianza ma che questo non deve avvenire in forma elevata in quanto se fosse così un elevato
livello di identificazione ai valori della cooperazione così come un'elevata motivazione alla
desiderabilità sociale inibisce gli effetti del contatto.
Possiamo concludere affermando quindi che il contatto riduce il pregiudizio implicito per quelli che
percepiscono moderato sostegno normativo perché limita l'ansi provata verso gli immigrati.
IVANA VASTOLA N65/431