INTRODUZIONE La pubblicità comparativa è stata, fino all’approvazione del D.lgs. 67/2000, bandita dal nostro ordinamento poiché considerata atto di concorrenza sleale ai sensi dell’art. 2598 del c.c., in un ottica di accentuata protezione delle imprese. La direttiva 97/55 CEE ha rivalutato questo strumento di concorrenza, in considerazione dei maggiori vantaggi che è destinata a portare ai consumatori: infatti, secondo la prospettiva comunitaria, essa contribuirà a mettere in evidenza i pregi dei vari prodotti appartenenti alla stessa gamma, determinando una maggiore informazione dei consumatori e potrà inoltre stimolare la concorrenza tra le varie imprese, che, sottoposte ad un confronto diretto o indiretto, saranno “obbligate” a sviluppare profili differenziali dei propri prodotti, a tutto vantaggio dei consumatori. Il D.lgs. 67/2000, di recepimento della direttiva CEE, è andata ad integrare la disciplina già vigente in materia di pubblicità ingannevole. Per pubblicità comparativa deve intendersi qualsiasi pubblicità che attua un confronto con un prodotto di un concorrente (mettendo in luce le ragioni per cui il prodotto debba essere preferito) e che, per attuare tale confronto, “identifica in modo esplicito o implicito un concorrente o beni e servizi offerti da un concorrente” (ai sensi dell’art. 2 b bis). Tale pubblicità risulterà lecita se realizzata rispettando le condizioni stabilite nell’art. 3 bis del decreto e precisamente se: non è ingannevole ai sensi del presente decreto; confronta beni o servizi che soddisfano gli stessi bisogni o si propongono gli stessi obbiettivi; confronta oggettivamente una o più caratteristiche essenziali, pertinenti, verificabili e rappresentative, compreso eventualmente il prezzo di tali beni e servizi; non ingenera confusione sul mercato fra l’operatore pubblicitario ed un concorrente o tra i marchi, le denominazioni commerciali, altri segni distintivi, i beni o i servizi dell’operatore pubblicitario e quelli di un concorrente, -1- non causa discredito o denigrazione di marchi, denominazioni commerciali, altri segni distintivi, , beni, servizi, attività o circostanze di un concorrente; per prodotti recanti denominazione di origine, si riferisce in ogni caso a prodotti aventi la stessa denominazione; non trae indebitamente vantaggio dalla notorietà connessa al marchio, alla denominazione commerciale o a altro segno distintivo di un concorrente o alle denominazioni di origine di prodotti concorrenti; non presenta un bene o un servizio come imitazione o contraffazione di beni o servizi protetti da un marchio o da una denominazione commerciale depositati. Nel presente lavoro andremo ad analizzare i profili di tutela del consumatore che è possibile rinvenire nella disciplina dettata nel decreto in esame, la quale, ad una prima lettura, sembra privilegiare la tutela degli interessi degli imprenditori piuttosto che quella dei consumatori. Con questo esame dimostreremo come, in realtà, il legislatore (comunitario e, di riflesso, nazionale) abbia prestato particolare attenzione alla posizione dei consumatori di fronte alla pubblicità comparativa, riconoscendogli una rilevanza sotto vari aspetti. *** I PROFILI DI TUTELA DEL CONSUMATORE In primo luogo, che la tutela dei consumatori sia uno degli obiettivi della disciplina della pubblicità, anche comparativa, si evince dall’art. 1 del D.lgs. in questione, il quale individua tra le finalità dichiarate di tale decreto “tutelare…i consumatori e, in genere, gli interessi del pubblico nella fruizione di messaggi pubblicitari…”. Ciò a conferma che nell’applicare la disciplina in materia di pubblicità non si può comunque prescindere dall’interesse dei consumatori. Il secondo aspetto in cui è possibile rilevare un profilo di accentuata tutela degli interessi dei consumatori sta nella definizione di pubblicità contenuta nell’art. 2 lett. a) del D.lgs. n. 74/1992, ai sensi della quale per pubblicità deve intendersi “qualsiasi forma di messaggio che sia diffuso, in qualsiasi modo, nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale, artigianale o professionale allo scopo di promuovere la vendita di beni mobili o immobili, 2- la costituzione o il trasferimento di diritti ed obblighi su di essi oppure la prestazione di opere o di servizi”. La nozione di pubblicità è, come appena visto, ampia poiché non sono posti limiti alla forma del messaggio, che può assumere la veste di ogni tipo di comunicazione verbale, grafica, sonora; né limiti vengono posti al mezzo di diffusione del messaggio, che può infatti essere diffuso “in qualsiasi modo”, quindi non solo attraverso i classici media (stampa, radio, televisione), ma anche avvalendosi di insegne, affissioni, distribuzione di depliants e persino etichette apposte sui prodotti. È evidente che la genericità di tale definizione va a tutto vantaggio dei consumatori dal momento che nessuna comunicazione commerciale può sfuggire all’applicazione del presente decreto e pertanto esimersi dal rispettare quanto in esso stabilito anche in materia di pubblicità comparativa. Il terzo profilo che rileva sotto l’aspetto dell’attenzione agli interessi dei consumatori è la nozione di consumatore che è possibile ricostruire dalla definizione di pubblicità ingannevole contenuta nell’art. 2 lett. b): “qualsiasi pubblicità che in qualunque modo…induca in errore o possa indurre in errore le persone fisiche o giuridiche alle quali è rivolta o che essa raggiunge…”. Il legislatore sembra essersi preoccupato di tutelare sia il target specifico della pubblicità (“persone alle quali è rivolta”) sia, più in generale, i soggetti che, data la grande diffusione del messaggio, possono comunque ricevere la comunicazione (“persone che essa raggiunge”). Può infatti accadere che la pubblicità sia realizzata come destinata a determinati consumatori tipici del bene promosso, ma poi, in concreto, il mercato di quel bene si riveli più ampio: è il caso dei prodotti di uso generico come ad es. i detersivi. In questi casi, al fine di valutare l’ingannevolezza del messaggio e, quindi, l’eventuale illiceità della pubblicità comparativa (ai sensi dell’art. 3 bis, lett. a) del decreto), nel determinare il target del prodotto si dovranno considerare non solo i soggetti a cui esso è specificatamente rivolto, ma anche tutti i potenziali destinatari del messaggio. In questo modo il parametro di riferimento non potrà mai essere un ipotetico “consumatore medio” unico e valido per tutti i giudizi, ma, volta per volta, dovrà essere individuato il consumatore del prodotto della cui pubblicità si discute, il quale potrà avere una capacità di decodificazione del messaggio maggiore o minore di quella del consumatore 3- medio. È questo il criterio usato dall’Antitrust in concreto, attraverso il quale passa una accentuata tutela del consumatore. Un caso di messaggio pubblicitario indirizzato ad un target specifico dotato di cultura elevata e particolari competenze tecniche è stato, secondo l’Antitrust, quello TOYOTA: il bene offerto e, in particolare, il suo costo non indifferente si è ritenuto che identificassero un tale target di riferimento. Infatti, nella pubblicità oggetto di esame viene messa in risalto la superiorità delle automobili giapponesi rispetto a quelle italiane soprattutto in termini di costi di manutenzione (superiorità risultata poi all’esame dell’Autorità non veritiera) e veniva fatta risultare in base ad una sorta di confronto con alcune opere pubbliche italiane i cui i costi erano appunto aumentati rispetto a quello preventivati. Altri messaggi sono invece mirati ad un target che si presenta in situazioni di disagio o di inferiorità a causa di problemi fisici o psicologici (che il bene promette di risolvere) o è condizionato da un approccio fideistico al bene o servizio pubblicizzato, per cui la capacità di decodificazione da presupporre nei consumatori sarà sicuramente inferiore a quella di u consumatore medio (e ciò in quanto questi sono condizionati da tali stati idonei a predisporli a confidare, verso taluni beni o servizi, maggior credito). Un esempio ne è il famoso caso MAESTRO DO NAISIMENTO, laddove i beni offerti e l’idoneità presunta degli stessi ad essere in grado di produrre gli effetti sperati identificano tale target di riferimento. Quando però non è possibile, per il tipo di bene offerto, isolare un target di riferimento, si ripropone il problema del parametro di consumatore da tutelare e allora le esigenze di tutela predisposte dal decreto impongono, in questi casi, di assumere a parametro di riferimento un modello di consumatore non particolarmente avveduto. Il quarto profilo di tutela del consumatore si riscontra nelle prime tre condizioni di liceità della pubblicità comparativa, di cui all’art. 3 bis, lett. a), b) e c). Infatti, la pubblicità comparativa è ammessa se non è ingannevole e per pubblicità ingannevole deve intendersi quella che “in qualunque modo, compresa la sua presentazione, induca o consumatori, “e che, a causa del 4- suo possa indurre in errore” i carattere ingannevole, possa pregiudicare il loro comportamento economico…” (lett. b) dell’art. 2 del decreto). L’ingannevolezza del messaggio pubblicitario è pertanto valutata alla luce della possibilità che il messaggio tragga in errore i soggetti ai quali esso si rivolge e secondo quello che è il suo impatto sui consumatori, considerandone tutti gli elementi, di cui un elenco esemplificativo troviamo nell’art. 3, lett. a), b), c), tra i quali, ad es., disponibilità del prodotto, idoneità allo scopo, prezzo, ecc.. Punto di riferimento nella valutazione della ingannevolezza del messaggio pubblicitario è pertanto rappresentato dai consumatori. Per verificare se un messaggio sia o meno ingannevole è necessario, quindi, per l’Antitrust, confrontare se, in relazione agli elementi oggetto di esame, quanto pubblicizzato corrisponda al vero e induca o possa indurre in errore i consumatori. Non si possono insomma vantare per un prodotto caratteristiche o effetti di pura fantasia. Nel caso KALOCELL, ad esempio, il messaggio pubblicitario lasciava intendere che il prodotto fosse idoneo a combattere la cellulite mentre in realtà non emerse alcun elemento idoneo a comprovare l’efficacia anticellulite delle sostanze ivi contenute. Nell’analisi del giudizio di ingannevolezza, si ha, inoltre, riguardo non solo a quanto è nello stesso affermato con parole e immagini, ma anche alle omissioni, dalle quali possa derivare un pericolo di inganno per il consumatore. Nel caso FORD KA, ad es., il messaggio lasciava intendere che fosse possibile acquistare l’autovettura pubblicizzata al prezzo prestabilito scegliendo liberamente tra i sei colori proposti. In realtà per alcuni di tali colori era previsto un sovrapprezzo per la vernice metallizzata. Il requisito della non ingannevolezza, per la cui valutazione saranno validi gli sviluppi e orientamenti maturati in sede di applicazione della disciplina della pubblicità ingannevole, già in vigore dal 1992, è finalizzato ad assicurare la trasparenza della comunicazione commerciale, ai fini di una maggiore e corretta informazione del consumatore. Anche se la pubblicità trova la sua ragion d’essere nella finalità di promuovere beni e servizi, si deve tuttavia affermare che il diritto dell’imprenditore alla libertà di iniziativa economica incontri un limite non nel diritto del consumatore ad essere informato, bensì nel diritto dello stesso a non essere ingannato. 5- La lettera b) dell’art. 3 bis stabilisce, quale ulteriore requisito di liceità, che la pubblicità comparativa debba confrontare “beni o servizi che soddisfano gli stessi bisogni o si propongono gli stessi obbiettivi”. In sostanza, la legge richiede che la comparazione avvenga tra prodotti effettivamente in concorrenza tra di loro, in quanto sostituibili, al fine di mettere in condizione il consumatore di capire il confronto realizzato dalla pubblicità e trarne in questo modo informazioni utili. Infine, la lettera c) dell’art. suddetto, richiede che la pubblicità comparativa, per essere lecita, confronti “oggettivamente una o più caratteristiche essenziali, pertinenti, verificabili e rappresentative, compreso eventualmente il prezzo di tali beni o servizi”. Il legislatore impone quindi che la pubblicità comparativa realizzi un confronto oggettivo tra i prodotti, dovendosi ritenere viceversa bandita (per Meli e Figurelli) la pubblicità comparativa suggestiva che confronti non valori e dati effettivi, ma diversi modi di vedere le cose, mondi e stili di vita, in quanto idonea a disorientare i consumatori e di nessuna utilità per gli stessi. La ratio di questa previsione sembra essere allora quella di evitare una pubblicità comparativa priva di contenuto informativo, che pertanto non presenta i vantaggi tipici di una pubblicità comparativa informativa. Infatti, la comparazione effettuata alla stregua di quanto previsto nell’art 3 bis alla lettera c) del decreto in esame, è destinata a fornire informazioni così puntuali tali da favorire effettivamente la trasparenza a favore del consumatore; in particolare, interessante è l’espresso richiamo al prezzo che può essere oggetto di comparazione se è carattere essenziale del bene o servizio (come ad es. in materia di servizi telefonici; per altre applicazioni concrete del criterio si veda il caso STREAM/TELE +: nello spot diffuso da Telepiù nel mese di maggio 2000 da alcune emittenti televisive, tra cui la RAI, per promuovere il canale satellitare “D+”, l’attore comico Paolo Rossi, già testimonial in passato di Strema, veniva inquadrato in un ambiente domestico, seduto davanti al televisore mentre, dialogando con un soggetto fuori campo –che al termine dello spot si rivela essere un dinosauro-, diceva: “…ma lo so, facevo la pubblicità per quell’altra, ma a casa son sempre stato abbonato a D+ perché ci sono più canali, più partite, Inter, film più nuovi…”. Seguiva il pay off “Se non vedi D+ vedi di meno”. 6- In questo caso l’Antitrust ha ritenuto che fosse stata rispettata la condizione indicata dall’art. 3 bis, lett. C, in quanto il confronto era incentrato su elementi pertinenti e rappresentativi della qualità dei servizi offerti dalle due emittenti televisive, quali il numero di canali disponibili, il numero di squadre di calcio le cui partite sono trasmesse dalle due emittenti, la maggiore quantità di film nuovi inseriti nel palinsesto di Telepiù. Tali elementi erano, altresì, fattori essenziali, dal punto di vista degli utenti, per una corretta valutazione dei servizi pubblicizzati. Il confronto era, infine, obbiettivo e verificabile, in quanto interamente fondato su dati numerici –il maggior numero di canali e film disponibili- e su dati di fatto –la disponibilità di un maggior numero di partite di calcio e, in particolare, dell’Inter- che sono, in quanto tali, suscettibili di dimostrazione ai sensi dell’art. 3 bis, comma II). È opportuno però segnalare che non sempre è agevole individuare l’essenzialità di una caratteristica di un bene o servizio, potendo essere rilevanti anche esigenze soggettive del consumatore cui tali informazioni sono dirette; parimenti, è difficile stabilire sempre con sicurezza cosa è rappresentativo di un prodotto e che cosa non lo è, soprattutto rispetto a prodotti per i quali la concorrenza si svolge per lo più ricollegandovi un’immagine o uno stile di vita (vedi le bibite analcoliche). È certo, comunque, che solo una pubblicità comparativa che rispetta i requisiti di verificabilità, oggettività, completezza, correttezza ed essenzialità dell’informazione, è veramente in grado di aumentare il numero di informazioni trasmesse ai consumatori. La pubblicità comparativa trova infatti il suo fondamento nel confronto tra le offerte: se questo confronto è falsato o privo di solide basi, essa viene a perdere il suo significato, la sua ragion d’essere. Un altro profilo da cui emerge, senza dubbio, la tutela del consumatore è rintracciabile nell’ambito della procedura delineata dall’art 7 del decreto: i consumatori e loro associazioni hanno infatti la legittimazione ad adire l’Antitrust al fine di proporre l’azione inibitoria per ottenere la sospensione della pubblicità comparativa illecita. Questa previsione, originariamente prevista per la pubblicità ingannevole ed oggi estesa anche alla pubblicità comparativa, si ricollega alla finalità di tutela del consumatore dichiarata, tra le altre, all’art. 1 del decreto 7- ed è significativa perché attribuisce al consumatore, come singolo o come gruppo, una posizione giuridicamente rilevante rispetto ai messaggi pubblicitari e tutelabile nelle forme procedurali più celeri previste innanzi all’Antitrust. È interessante notare come, correttamente, la dottrina (Meli e Borruso) abbia precisato che nella nozione di consumatore non rientrino i soli soggetti che hanno acquistato un prodotto o fruito di un servizio pubblicizzato. Non assume anzi alcun rilievo tale acquisto, ai fini della nozione in esame, nell’ambito di una disciplina che intende apprestare una tutela contro le lesioni che possono derivare dall’acquisto stesso di taluni beni e che, come si può facilmente constatare, ha senso solo in quanto operi in una fase precedente alla realizzazione della decisione di acquisto. All’Autorità non è stato, infatti, attribuito il potere di concedere risarcimenti ma solo il potere inibitorio che, per sua natura, si giustifica in quanto la lesione derivante dall’illecito non si sia ancora prodotta, ovvero non abbia ancora cessato di prodursi. E ciò in quanto ci sono soggetti che non hanno ancora subito, ma rischiano di subire, le conseguenze decettive della pubblicità illecita. Consumatori sono allora anche quanti, potenzialmente, possono acquistare il bene. Si intuisce così come, escluso che per essere consumatori si debba necessariamente aver compiuto un atto di acquisto, divenga inevitabile considerare consumatore qualunque membro della collettività dei consociati. Inoltre, il decreto in esame non tutela i consumatori nell’ambito delle sole relazioni commerciali ma in quanto utenti della comunicazione pubblicitaria e si pone quindi su di un livello precedente. Nel definire i soggetti cui commisurare la decettività della pubblicità, il legislatore si riferisce, infatti, alle persone fisiche o giuridiche alle quali la pubblicità stessa è rivolta o che essa raggiunge. Vi è da chiedersi, però, in quale veste agisca il consumatore che ricorre all’Autorità nei confronti di una pubblicità da lui ritenuta illecita, cioè se sia portatore di un interesse collettivo o diffuso che trascende la sua persona, per identificarsi con quello della collettività. Al riguardo non si può non partire dalla considerazione che le conseguenze previste dal decreto per la violazione dei divieti disposti dalla 8- norma non hanno funzione risarcitoria, ma mirano alla inibizione della pubblicità illecita e sono quindi inidonee a soddisfare qualunque tipo di interesse individuale del consumatore che abbia attivato il procedimento dinanzi all’Autorità. L’iniziativa del consumatore ha quindi come unico effetto di impedire che altri consumatori, in futuro, possano subire effetti decettivi. Anche la scelta del legislatore, rimessagli dalla normativa comunitaria, di affidare alla competenza esclusiva dell’Antitrust, anziché a quella dell’autorità giudiziaria ordinaria, l’applicazione del decreto in esame, risponde all’obbiettivo di rafforzare la posizione dei consumatori rispetto a certi strumenti commerciali, assicurando loro la possibilità di ottenere una tutela in tempi rapidi. Il sovraccarico di lavoro e la conseguente lentezza dei procedimenti promossi davanti soddisfazione di alla quelle Autorità giudiziaria esigenze di non celerità garantivano che devono infatti la presiedere all’organizzazione di un sistema di controllo della pubblicità. L’Antitrust appare, invece, dotata di una struttura capace di decidere con quella celerità necessaria per bloccare tempestivamente le campagne pubblicitarie illecite. A tal riguardo si segnala la previsione contenuta nell’art. 5 del Dpr. n. 284/03 (recante norme sulle procedure istruttorie dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato in materia di pubblicità ingannevole e comparativa), ai sensi della quale il procedimento deve concludersi entro 75 gg dalla data di ricevimento della richiesta di intervento ed è prorogabile una sola volta di 90 gg in presenza di determinate circostanze individuate dallo stesso articolo. Il limite di una tale scelta resta il fatto che di fronte a una tale autorità amministrativa al consumatore è preclusa la possibilità di chiedere ed ottenere il risarcimento del danno che dimostri di aver subito per effetto di una pubblicità comparativa illecita. Nemmeno nell’ambito della giurisdizione ordinaria il consumatore ha tale possibilità, dal momento che la pubblicità comparativa illecita, come anche quella ingannevole, vengono ricondotte tra gli atti di concorrenza sleale di cui all’art. 2598 del codice civile, fattispecie azionabile solo nei rapporti tra imprese e quindi dagli operatori economici. 9- Altro aspetto interessante nell’ottica di una marcata attenzione all’interesse dei consumatori, è la possibilità di intervenire anche sulla pubblicità non ancora portata a conoscenza del pubblico. Il decreto stabilisce, infatti, all’art. 7, VI comma, che l’Autorità garante, se ritiene (la pubblicità ingannevole o ) il messaggio di pubblicità comparativa illecita, e quindi accoglibile il ricorso, può vietare, oltre la continuazione di quella già iniziata, anche la pubblicità non ancora portata a conoscenza del pubblico. Ratio della norma è che l’ordinamento si deve preoccupare non solo di reprimere, ma anche di prevenire ogni forma di pubblicità comparativa illecita. Il problema consite però nella circostanza che, perché si possa parlare di pubblicità ai sensi dell’art.2 a), occorre che il messaggio sia stato diffuso. Si aggiunga, inoltre, che, alla luce del fatto che l’Autorità non la possibilità di agire ex officio ma solo previa presentazione di denuncia da parte dei soggetti legittimati, sarà ben difficile che si possa verificare il caso di una pubblicità comparativa che si scopre illecita prima ancora di essere diffusa. È infatti assai improbabile che i consumatori, i concorrenti o una pubblica amministrazione, quali soggetti legittimati, abbiano conoscenza di una iniziativa pubblicitaria prima ancora che essa venga portata a conoscenza del pubblico, dato che la pubblicità in generale rappresenta oggi uno dei più importanti strumenti di marketing delle aziende, come tale da custodire in maniera riservata. A conferma di quanto appena sostenuto, si fa presente che alla data odierna non si ha notizia di alcun provvedimento dell’Antitrust che abbia vietato ipotesi di pubblicità comparative illecite non ancora diffuse. *** DA INSERIRE i casi INTEROUTE TELECOMUNICAZIONI ITALIA, STREAM dai quali emerge l’attenzione dell’Antitrust agli interessi dei consumatori ad una corretta informazione, a scapito dell’interesse delle imprese, preoccupate per lo più a conservare le loro posizioni di mercato. ALCUNE CONSIDERAZIONI È un dato di fatto, percepibile da tutti, che la pubblicità comparativa oggi sia ancora poco diffusa. Ciò è stato peraltro riconosciuto dalla stessa 10- Autorità garante nella relazione annuale per il 2003, nella quale afferma che questo tipo di pubblicità “…continua ad essere poco diffusa, probabilmente anche in ragione degli stringenti vincoli di liceità che la contraddistinguono e che difficilmente si conciliano con le tecniche della comunicazione e con il veloce modificarsi delle offerte sui mercati. La prassi decisionale dell’Autorità evidenzia, comunque, un orientamento favorevole al ricorso da parte delle imprese alla pubblicità comparativa, che rappresenta un efficace strumento di confronto concorrenziale tra gli operatori sul mercato…”. Quindi il potenziale insito in questo strumento di concorrenza non è ancora pienamente sfruttato. Il beneficio che i consumatori possono trarre dalla pubblicità comparativa è duplice: da un lato essa accresce il numero di informazioni fornite agli stessi, favorendone così una fruizione più razionale del messaggio pubblicitario; dall’altro lato, l’uso della comparazione risulta un valido strumento per rivitalizzare la competizione tra le imprese in termini di innovazione e diversificazione qualitativa dei prodotti, a tutto vantaggio, ancora una volta, dei consumatori. È chiaro, però, che affinchè tale beneficio si concretizzi è opportuno disciplinare, come è stato fatto, la pubblicità comparativa, ponendo delle condizioni minime di liceità che mirano a garantire l’effettivo soddisfacimento di quella funzione di informazione del consumatore, che a tale pubblicità viene associata. La disciplina della pubblicità comparativa presenta tuttavia dei punti deboli. Innanzitutto, l’Autorità non ha la possibilità di agire d’ufficio e questo, a mio avviso, rappresenta un limite alla repressione delle forme illecite di pubblicità comparativa. In secondo luogo, le sanzioni previste dal legislatore in caso di inottemperanza ai provvedimenti dell’Autorità, come è stato correttamente osservato, non hanno adeguata forza deterrente. Infatti, il comma IX dell’art. 7 del decreto, dispone che “l’operatore pubblicitario che non ottempera ai provvedimenti d’urgenza o a quelli inibitori o di rimozione degli effetti adottati con la decisione che definisce il ricorso è punito con l’arresto fino a tre mesi e con l’ammenda fino a € 2.582”. 11- L’importo dell’ammenda potrebbe addirittura essere preventivato tra i costi della campagna pubblicitaria! Per conferire al sistema una maggiore capacità deterrente sarebbero quindi necessarie sanzioni più consistenti, proporzionate tra l’altro alla rilevanza degli interessi. In terzo luogo, si segnala l’attuale impossibilità per i consumatori come tali di ottenere un risarcimento del danno subito a causa della pubblicità comparativa illecita. Tale possibilità è infatti consentita solo alle imprese concorrenti nell’ambito degli atti di concorrenza sleale di cui all’art. 2598 del c.c. Infine, si riscontra come difficilmente il consumatore venga a conoscenza dei provvedimenti dichiarativi della illiceità della pubblicità in generale. Ci sembra allora auspicabile che in futuro questi provvedimenti siano portati a conoscenza dei consumatori, quali destinatari a suo tempo dei messaggi sanzionati, almeno nelle stesse forme con le quali quei messaggi sono stati precedentemente diffusi. Ciò al fine di consapevolizzare il consumatore, nella prospettiva ancora una volta di una maggiore informazione dello stesso. Sarebbe infatti interessante vedere come tale tipo di informazione potrebbe influire sui comportamenti economici dei consumatori, posti in essere magari proprio in conseguenza di quella pubblicità poi rivelatasi illecita. 12-