alcune considerazioni

annuncio pubblicitario
INTRODUZIONE
La pubblicità comparativa è stata, fino all’approvazione del D.lgs.
67/2000,
bandita
dal
nostro
ordinamento
poiché
considerata
atto
di
concorrenza sleale ai sensi dell’art. 2598 del c.c., in un ottica di accentuata
protezione delle imprese.
La direttiva 97/55 CEE ha rivalutato questo strumento di concorrenza, in
considerazione dei maggiori vantaggi che è destinata a portare ai consumatori:
infatti, secondo la prospettiva comunitaria, essa contribuirà a mettere in
evidenza
i
pregi
dei
vari
prodotti
appartenenti
alla
stessa
gamma,
determinando una maggiore informazione dei consumatori e potrà inoltre
stimolare la concorrenza tra le varie imprese, che, sottoposte ad un confronto
diretto o indiretto, saranno “obbligate” a sviluppare profili differenziali dei
propri prodotti, a tutto vantaggio dei consumatori.
Il D.lgs. 67/2000, di recepimento della direttiva CEE, è andata ad
integrare la disciplina già vigente in materia di pubblicità ingannevole.
Per pubblicità comparativa deve intendersi qualsiasi pubblicità che attua
un confronto con un prodotto di un concorrente (mettendo in luce le ragioni
per cui il prodotto debba essere preferito) e che, per attuare tale confronto,
“identifica in modo esplicito o implicito un concorrente o beni e servizi offerti
da un concorrente” (ai sensi dell’art. 2 b bis).
Tale pubblicità risulterà lecita se realizzata rispettando le condizioni
stabilite nell’art. 3 bis del decreto e precisamente se:

non è ingannevole ai sensi del presente decreto;

confronta beni o servizi che soddisfano gli stessi bisogni o si propongono
gli stessi obbiettivi;

confronta oggettivamente una o più caratteristiche essenziali, pertinenti,
verificabili e rappresentative, compreso eventualmente il prezzo di tali
beni e servizi;

non ingenera confusione sul mercato fra l’operatore pubblicitario ed un
concorrente o tra i marchi, le denominazioni commerciali, altri segni
distintivi, i beni o i servizi dell’operatore pubblicitario e quelli di un
concorrente,
-1-

non
causa
discredito
o
denigrazione
di
marchi,
denominazioni
commerciali, altri segni distintivi, , beni, servizi, attività o circostanze di
un concorrente;

per prodotti recanti denominazione di origine, si riferisce in ogni caso a
prodotti aventi la stessa denominazione;

non trae indebitamente vantaggio dalla notorietà connessa al marchio,
alla denominazione commerciale o a altro segno distintivo di un
concorrente o alle denominazioni di origine di prodotti concorrenti;

non presenta un bene o un servizio come imitazione o contraffazione di
beni o servizi protetti da un marchio o da una denominazione
commerciale depositati.
Nel presente lavoro andremo ad analizzare i profili di tutela del
consumatore che è possibile
rinvenire nella disciplina dettata nel decreto in
esame, la quale, ad una prima lettura, sembra privilegiare la tutela degli
interessi degli imprenditori piuttosto che quella dei consumatori.
Con
questo
esame
dimostreremo
come,
in
realtà,
il
legislatore
(comunitario e, di riflesso, nazionale) abbia prestato particolare attenzione alla
posizione
dei
consumatori
di
fronte
alla
pubblicità
comparativa,
riconoscendogli una rilevanza sotto vari aspetti.
***
I PROFILI DI TUTELA DEL CONSUMATORE
In primo luogo, che la tutela dei consumatori sia uno degli obiettivi della
disciplina della pubblicità, anche comparativa, si evince dall’art. 1 del D.lgs. in
questione, il quale individua tra le finalità dichiarate di tale decreto “tutelare…i
consumatori e, in genere, gli interessi del pubblico nella fruizione di messaggi
pubblicitari…”. Ciò a conferma che nell’applicare la disciplina in materia di
pubblicità non si può comunque prescindere dall’interesse dei consumatori.
Il secondo aspetto in cui è possibile rilevare un profilo di accentuata
tutela degli interessi dei consumatori sta nella definizione di pubblicità
contenuta nell’art. 2 lett. a) del D.lgs. n. 74/1992, ai sensi della quale per
pubblicità
deve intendersi “qualsiasi forma di messaggio che sia diffuso, in
qualsiasi modo, nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale, artigianale
o professionale allo scopo di promuovere la vendita di beni mobili o immobili,
2-
la costituzione o il trasferimento di diritti ed obblighi su di essi oppure la
prestazione di opere o di servizi”.
La nozione di pubblicità è, come appena visto, ampia poiché non sono
posti limiti alla forma del messaggio, che può assumere la veste di ogni tipo di
comunicazione verbale, grafica, sonora; né limiti vengono posti al mezzo di
diffusione del messaggio, che può infatti essere diffuso “in qualsiasi modo”,
quindi non solo attraverso i classici media (stampa, radio, televisione), ma
anche avvalendosi di insegne, affissioni, distribuzione di depliants e persino
etichette apposte sui prodotti. È evidente che la genericità di tale definizione
va a tutto vantaggio dei consumatori dal momento che nessuna comunicazione
commerciale può sfuggire all’applicazione del presente decreto e pertanto
esimersi dal rispettare quanto in esso stabilito anche in materia di pubblicità
comparativa.
Il terzo profilo che rileva sotto l’aspetto dell’attenzione agli interessi dei
consumatori è la nozione di consumatore che è possibile ricostruire dalla
definizione di pubblicità ingannevole contenuta nell’art. 2 lett. b): “qualsiasi
pubblicità che in qualunque modo…induca in errore o possa indurre in errore le
persone fisiche o giuridiche alle quali è rivolta o che essa raggiunge…”.
Il legislatore sembra essersi preoccupato di tutelare sia il target
specifico della pubblicità (“persone alle quali è rivolta”) sia, più in generale, i
soggetti che, data la grande diffusione del messaggio, possono comunque
ricevere la comunicazione (“persone che essa raggiunge”). Può infatti accadere
che la pubblicità sia realizzata come destinata a determinati consumatori tipici
del bene promosso, ma poi, in concreto, il mercato di quel bene si riveli più
ampio: è il caso dei prodotti di uso generico come ad es. i detersivi. In questi
casi, al fine di valutare l’ingannevolezza del messaggio e, quindi, l’eventuale
illiceità della pubblicità comparativa (ai sensi dell’art. 3 bis, lett. a) del
decreto), nel determinare il target del prodotto si dovranno considerare non
solo i soggetti a cui esso è specificatamente rivolto, ma anche tutti i potenziali
destinatari del messaggio. In questo modo il parametro di riferimento non
potrà mai essere un ipotetico “consumatore medio” unico e valido per tutti i
giudizi, ma, volta per volta, dovrà essere individuato il consumatore del
prodotto della cui pubblicità si discute, il quale potrà avere una capacità di
decodificazione del messaggio maggiore o minore di quella del consumatore
3-
medio. È questo il criterio usato dall’Antitrust in concreto, attraverso il quale
passa una accentuata tutela del consumatore.
Un caso di messaggio pubblicitario indirizzato ad un target specifico
dotato di cultura elevata e particolari competenze tecniche è stato, secondo
l’Antitrust, quello TOYOTA: il bene offerto e, in particolare, il suo costo non
indifferente si è ritenuto che identificassero un tale target di riferimento.
Infatti, nella pubblicità oggetto di esame viene messa in risalto la
superiorità delle automobili giapponesi rispetto a quelle italiane soprattutto in
termini
di
costi
di
manutenzione
(superiorità
risultata
poi
all’esame
dell’Autorità non veritiera) e veniva fatta risultare in base ad una sorta di
confronto con alcune opere pubbliche italiane i cui i costi erano appunto
aumentati rispetto a quello preventivati.
Altri messaggi sono invece mirati ad un target che si presenta in
situazioni di disagio o di inferiorità a causa di problemi fisici o psicologici (che il
bene promette di risolvere) o è condizionato da un approccio fideistico al bene
o servizio pubblicizzato, per cui la capacità di decodificazione da presupporre
nei consumatori sarà sicuramente inferiore a quella di u consumatore medio (e
ciò in quanto questi sono condizionati da tali stati idonei a predisporli a
confidare, verso taluni beni o servizi, maggior credito).
Un esempio ne è il famoso caso MAESTRO DO NAISIMENTO, laddove i
beni offerti e l’idoneità presunta degli stessi ad essere in grado di produrre gli
effetti sperati identificano tale target di riferimento.
Quando però non è possibile, per il tipo di bene offerto, isolare un target
di riferimento, si ripropone il problema del parametro di consumatore da
tutelare e allora le esigenze di tutela predisposte dal decreto impongono, in
questi casi, di assumere a parametro di riferimento un modello di consumatore
non particolarmente avveduto.
Il quarto profilo di tutela del consumatore si riscontra nelle prime tre
condizioni di liceità della pubblicità comparativa, di cui all’art. 3 bis, lett. a), b)
e c).
Infatti, la pubblicità comparativa è ammessa se non è ingannevole e per
pubblicità ingannevole deve intendersi quella che “in qualunque modo,
compresa la sua presentazione, induca o
consumatori,
“e
che,
a
causa
del
4-
suo
possa indurre in errore” i
carattere
ingannevole,
possa
pregiudicare il loro comportamento economico…” (lett. b) dell’art. 2 del
decreto).
L’ingannevolezza del messaggio pubblicitario è pertanto valutata alla
luce della possibilità che il messaggio tragga in errore i soggetti ai quali esso si
rivolge e secondo quello che è il suo impatto sui consumatori, considerandone
tutti gli elementi, di cui un elenco esemplificativo troviamo nell’art. 3, lett. a),
b), c), tra i quali, ad es., disponibilità del prodotto, idoneità allo scopo, prezzo,
ecc..
Punto
di
riferimento
nella
valutazione
della
ingannevolezza
del
messaggio pubblicitario è pertanto rappresentato dai consumatori.
Per verificare se un messaggio sia o meno ingannevole è necessario,
quindi, per l’Antitrust, confrontare se, in relazione agli elementi oggetto di
esame, quanto pubblicizzato corrisponda al vero e induca o possa indurre in
errore i consumatori. Non si possono insomma vantare per un prodotto
caratteristiche o effetti di pura fantasia. Nel caso KALOCELL, ad esempio, il
messaggio pubblicitario lasciava intendere
che il prodotto fosse idoneo a
combattere la cellulite mentre in realtà non emerse alcun elemento idoneo a
comprovare l’efficacia anticellulite delle sostanze ivi contenute.
Nell’analisi del giudizio di ingannevolezza, si ha, inoltre, riguardo non
solo a quanto è nello stesso affermato con parole e immagini, ma anche alle
omissioni, dalle quali possa derivare un pericolo di inganno per il consumatore.
Nel caso FORD KA, ad es., il messaggio lasciava intendere che fosse possibile
acquistare
l’autovettura
pubblicizzata
al
prezzo
prestabilito
scegliendo
liberamente tra i sei colori proposti. In realtà per alcuni di tali colori era
previsto un sovrapprezzo per la vernice metallizzata.
Il requisito della non ingannevolezza, per la cui valutazione saranno
validi gli sviluppi e orientamenti maturati in sede di applicazione della
disciplina della pubblicità ingannevole, già in vigore dal 1992, è finalizzato ad
assicurare la trasparenza della comunicazione commerciale, ai fini di una
maggiore e corretta informazione del consumatore.
Anche se la pubblicità trova la sua ragion d’essere nella finalità di
promuovere
beni
e
servizi,
si
deve
tuttavia
affermare
che
il
diritto
dell’imprenditore alla libertà di iniziativa economica incontri un limite non nel
diritto del consumatore ad essere informato, bensì nel diritto dello stesso a
non essere ingannato.
5-
La lettera b) dell’art. 3 bis stabilisce, quale ulteriore requisito di liceità,
che la pubblicità comparativa debba confrontare “beni o servizi che soddisfano
gli stessi bisogni o si propongono gli stessi obbiettivi”.
In sostanza, la legge richiede che la comparazione avvenga tra prodotti
effettivamente in concorrenza tra di loro, in quanto sostituibili, al fine di
mettere in condizione il consumatore di capire il confronto realizzato dalla
pubblicità e trarne in questo modo informazioni utili.
Infine, la lettera c) dell’art. suddetto, richiede che la pubblicità
comparativa,
per
essere
lecita,
confronti
“oggettivamente
una
o
più
caratteristiche essenziali, pertinenti, verificabili e rappresentative, compreso
eventualmente il prezzo di tali beni o servizi”.
Il legislatore impone quindi che la pubblicità comparativa realizzi un
confronto oggettivo tra i prodotti, dovendosi ritenere viceversa bandita (per
Meli e Figurelli) la pubblicità comparativa suggestiva che confronti non valori e
dati effettivi, ma diversi modi di vedere le cose, mondi e stili di vita, in quanto
idonea a disorientare i consumatori e di nessuna utilità per gli stessi.
La ratio di questa previsione sembra essere allora quella di evitare una
pubblicità comparativa priva di contenuto informativo, che pertanto non
presenta i vantaggi tipici di una pubblicità comparativa informativa.
Infatti, la comparazione effettuata alla stregua di quanto previsto
nell’art 3 bis alla lettera c) del decreto in esame, è destinata a fornire
informazioni così puntuali tali da favorire effettivamente la trasparenza a
favore del consumatore; in particolare, interessante è l’espresso richiamo al
prezzo che può essere oggetto di comparazione se è carattere essenziale del
bene o servizio (come ad es. in materia di servizi telefonici; per altre
applicazioni concrete del criterio si veda il caso STREAM/TELE +: nello spot
diffuso da Telepiù nel mese di maggio 2000 da alcune emittenti televisive, tra
cui la RAI, per promuovere il canale satellitare “D+”, l’attore comico Paolo
Rossi, già testimonial in passato di Strema, veniva inquadrato in un ambiente
domestico, seduto davanti al televisore mentre, dialogando con un soggetto
fuori campo –che al termine dello spot si rivela essere un dinosauro-, diceva:
“…ma lo so, facevo la pubblicità per quell’altra, ma a casa son sempre stato
abbonato a D+ perché ci sono più canali, più partite, Inter, film più nuovi…”.
Seguiva il pay off “Se non vedi D+ vedi di meno”.
6-
In questo caso l’Antitrust ha ritenuto che fosse stata rispettata la
condizione indicata dall’art. 3 bis, lett. C, in quanto il confronto era incentrato
su elementi pertinenti e rappresentativi della qualità dei servizi offerti dalle
due emittenti televisive, quali il numero di canali disponibili, il numero di
squadre di calcio le cui partite sono trasmesse dalle due emittenti, la maggiore
quantità di film nuovi inseriti nel palinsesto di Telepiù. Tali elementi erano,
altresì, fattori essenziali, dal punto di vista degli utenti, per una corretta
valutazione dei servizi pubblicizzati.
Il confronto era, infine, obbiettivo e verificabile, in quanto interamente
fondato su dati numerici –il maggior numero di canali e film disponibili- e su
dati di fatto –la disponibilità di un maggior numero di partite di calcio e, in
particolare, dell’Inter- che sono, in quanto tali, suscettibili di dimostrazione ai
sensi dell’art. 3 bis, comma II).
È opportuno però segnalare che non sempre è agevole individuare
l’essenzialità di una caratteristica di un bene o servizio, potendo essere
rilevanti anche esigenze soggettive del consumatore cui tali informazioni sono
dirette;
parimenti,
è
difficile
stabilire
sempre
con
sicurezza
cosa
è
rappresentativo di un prodotto e che cosa non lo è, soprattutto rispetto a
prodotti per i quali la concorrenza si svolge per lo più ricollegandovi
un’immagine o uno stile di vita (vedi le bibite analcoliche).
È certo, comunque, che solo una pubblicità comparativa che rispetta i
requisiti di verificabilità, oggettività, completezza, correttezza ed essenzialità
dell’informazione,
è
veramente
in
grado
di
aumentare
il
numero
di
informazioni trasmesse ai consumatori.
La pubblicità comparativa trova infatti il suo fondamento nel confronto
tra le offerte: se questo confronto è falsato o privo di solide basi, essa viene a
perdere il suo significato, la sua ragion d’essere.
Un altro profilo da cui emerge, senza dubbio, la tutela del consumatore
è rintracciabile nell’ambito della procedura delineata dall’art 7 del decreto: i
consumatori e loro associazioni hanno infatti la legittimazione ad adire
l’Antitrust al fine di proporre l’azione inibitoria per ottenere la sospensione
della pubblicità comparativa illecita.
Questa
previsione,
originariamente
prevista
per
la
pubblicità
ingannevole ed oggi estesa anche alla pubblicità comparativa, si ricollega alla
finalità di tutela del consumatore dichiarata, tra le altre, all’art. 1 del decreto
7-
ed è significativa perché attribuisce al consumatore, come singolo o come
gruppo,
una
posizione
giuridicamente
rilevante
rispetto
ai
messaggi
pubblicitari e tutelabile nelle forme procedurali più celeri previste innanzi
all’Antitrust.
È interessante notare come, correttamente, la dottrina (Meli e Borruso)
abbia precisato che nella nozione di consumatore non rientrino i soli soggetti
che hanno acquistato un prodotto o fruito di un servizio pubblicizzato. Non
assume anzi alcun rilievo tale acquisto, ai fini della nozione in esame,
nell’ambito di una disciplina che intende apprestare una tutela contro le lesioni
che possono derivare dall’acquisto stesso di taluni beni e che, come si può
facilmente constatare, ha senso solo in quanto operi in una fase precedente
alla realizzazione della decisione di acquisto.
All’Autorità non è stato, infatti, attribuito il potere di concedere
risarcimenti ma solo il potere inibitorio che, per sua natura, si giustifica in
quanto la lesione derivante dall’illecito non si sia ancora prodotta, ovvero non
abbia ancora cessato di prodursi.
E ciò in quanto ci sono soggetti che non hanno ancora subito, ma
rischiano di subire, le conseguenze decettive della pubblicità illecita.
Consumatori
sono
allora
anche
quanti,
potenzialmente,
possono
acquistare il bene.
Si intuisce così come, escluso che per essere consumatori si debba
necessariamente aver compiuto un atto di acquisto, divenga inevitabile
considerare consumatore qualunque membro della collettività dei consociati.
Inoltre, il decreto in esame non tutela i consumatori nell’ambito delle
sole
relazioni
commerciali
ma
in
quanto
utenti
della
comunicazione
pubblicitaria e si pone quindi su di un livello precedente. Nel definire i soggetti
cui commisurare la decettività della pubblicità, il legislatore si riferisce, infatti,
alle persone fisiche o giuridiche alle quali la pubblicità stessa è rivolta o che
essa raggiunge.
Vi è da chiedersi, però, in quale veste agisca il consumatore che ricorre
all’Autorità nei confronti di una pubblicità da lui ritenuta illecita, cioè se sia
portatore di un interesse collettivo o diffuso che trascende la sua persona, per
identificarsi con quello della collettività.
Al riguardo non si può non partire dalla considerazione che le
conseguenze previste dal decreto per la violazione dei divieti disposti dalla
8-
norma non hanno funzione risarcitoria, ma mirano alla inibizione della
pubblicità illecita e sono quindi inidonee a soddisfare qualunque tipo di
interesse individuale del consumatore che abbia attivato il procedimento
dinanzi all’Autorità. L’iniziativa del consumatore ha quindi come unico effetto
di impedire che altri consumatori, in futuro, possano subire effetti decettivi.
Anche la scelta del legislatore, rimessagli dalla normativa comunitaria,
di
affidare
alla
competenza
esclusiva
dell’Antitrust,
anziché
a
quella
dell’autorità giudiziaria ordinaria, l’applicazione del decreto in esame, risponde
all’obbiettivo di rafforzare la posizione dei consumatori rispetto a certi
strumenti commerciali, assicurando loro la possibilità di ottenere una tutela in
tempi rapidi.
Il sovraccarico di lavoro e la conseguente lentezza dei procedimenti
promossi
davanti
soddisfazione
di
alla
quelle
Autorità
giudiziaria
esigenze
di
non
celerità
garantivano
che
devono
infatti
la
presiedere
all’organizzazione di un sistema di controllo della pubblicità.
L’Antitrust appare, invece, dotata di una struttura capace di decidere
con quella celerità necessaria per bloccare tempestivamente le campagne
pubblicitarie illecite. A tal riguardo si segnala la previsione contenuta nell’art. 5
del Dpr. n. 284/03 (recante norme sulle procedure istruttorie dell’Autorità
garante della concorrenza e del mercato in materia di pubblicità ingannevole e
comparativa), ai sensi della quale il procedimento deve concludersi entro 75
gg dalla data di ricevimento della richiesta di intervento ed è prorogabile una
sola volta di 90 gg in presenza di determinate circostanze individuate dallo
stesso articolo.
Il limite di una tale scelta resta il fatto che di fronte a una tale autorità
amministrativa al consumatore è preclusa la possibilità di chiedere ed ottenere
il risarcimento del danno che dimostri di aver subito per effetto di una
pubblicità comparativa illecita.
Nemmeno nell’ambito della giurisdizione ordinaria il consumatore ha
tale possibilità, dal momento che la pubblicità comparativa illecita, come anche
quella ingannevole, vengono ricondotte tra gli atti di concorrenza sleale di cui
all’art. 2598 del codice civile, fattispecie azionabile solo nei rapporti tra
imprese e quindi dagli operatori economici.
9-
Altro
aspetto
interessante
nell’ottica
di
una
marcata
attenzione
all’interesse dei consumatori, è la possibilità di intervenire anche sulla
pubblicità non ancora portata a conoscenza del pubblico.
Il decreto stabilisce, infatti, all’art. 7, VI comma, che l’Autorità garante,
se ritiene (la pubblicità ingannevole o ) il messaggio di pubblicità comparativa
illecita, e quindi accoglibile il ricorso, può vietare, oltre la continuazione di
quella già iniziata, anche la pubblicità non ancora portata a conoscenza del
pubblico. Ratio della norma è che l’ordinamento si deve preoccupare non solo
di reprimere, ma anche di prevenire ogni forma di pubblicità comparativa
illecita.
Il problema consite però nella circostanza che, perché si possa parlare
di pubblicità ai sensi dell’art.2 a), occorre che il messaggio sia stato diffuso.
Si aggiunga, inoltre, che, alla luce del fatto che l’Autorità non la
possibilità di agire ex officio ma solo previa presentazione di denuncia da parte
dei soggetti legittimati, sarà ben difficile che si possa verificare il caso di una
pubblicità comparativa che si scopre illecita prima ancora di essere diffusa.
È infatti assai improbabile che i consumatori, i concorrenti o una
pubblica amministrazione, quali soggetti legittimati, abbiano conoscenza di
una iniziativa pubblicitaria prima ancora che essa venga portata a conoscenza
del pubblico, dato che la pubblicità in generale rappresenta oggi uno dei più
importanti strumenti di marketing delle aziende, come tale da custodire in
maniera riservata.
A conferma di quanto appena sostenuto, si fa presente che alla data
odierna non si ha notizia di alcun provvedimento dell’Antitrust che abbia
vietato ipotesi di pubblicità comparative illecite non ancora diffuse.
***
DA INSERIRE i casi INTEROUTE TELECOMUNICAZIONI ITALIA, STREAM
dai quali emerge l’attenzione dell’Antitrust agli interessi dei consumatori ad
una corretta informazione, a scapito dell’interesse delle imprese, preoccupate
per lo più a conservare le loro posizioni di mercato.
ALCUNE CONSIDERAZIONI
È un dato di fatto, percepibile da tutti, che la pubblicità comparativa
oggi sia ancora poco diffusa. Ciò è stato peraltro riconosciuto dalla stessa
10-
Autorità garante nella relazione annuale per il 2003, nella quale afferma che
questo tipo di pubblicità “…continua ad essere poco diffusa, probabilmente
anche in ragione degli stringenti vincoli di liceità che la contraddistinguono e
che difficilmente si conciliano con le tecniche della comunicazione e con il
veloce modificarsi delle offerte sui mercati. La prassi decisionale dell’Autorità
evidenzia, comunque, un orientamento favorevole al ricorso da parte delle
imprese alla pubblicità comparativa, che rappresenta un efficace strumento di
confronto concorrenziale tra gli operatori sul mercato…”.
Quindi il potenziale insito in questo strumento di concorrenza non è
ancora pienamente sfruttato.
Il
beneficio
che
i
consumatori
possono
trarre
dalla
pubblicità
comparativa è duplice: da un lato essa accresce il numero di informazioni
fornite agli stessi, favorendone così una fruizione più razionale del messaggio
pubblicitario; dall’altro lato, l’uso della comparazione risulta un valido
strumento per rivitalizzare la competizione tra le imprese in termini di
innovazione e diversificazione qualitativa dei prodotti, a tutto vantaggio,
ancora una volta, dei consumatori.
È chiaro, però, che affinchè tale beneficio si concretizzi è opportuno
disciplinare, come è stato fatto, la pubblicità comparativa, ponendo delle
condizioni minime di liceità che mirano a garantire l’effettivo soddisfacimento
di quella funzione di informazione del consumatore, che a tale pubblicità viene
associata.
La disciplina della pubblicità comparativa presenta tuttavia dei punti
deboli.
Innanzitutto, l’Autorità non ha la possibilità di agire d’ufficio e questo, a
mio avviso, rappresenta un limite alla repressione delle forme illecite di
pubblicità comparativa.
In secondo luogo, le sanzioni previste dal legislatore in caso di
inottemperanza ai provvedimenti dell’Autorità, come è stato correttamente
osservato, non hanno adeguata forza deterrente. Infatti, il comma IX dell’art.
7 del decreto, dispone che “l’operatore pubblicitario che non ottempera ai
provvedimenti d’urgenza o a quelli inibitori o di rimozione degli effetti adottati
con la decisione che definisce il ricorso è punito con l’arresto fino a tre mesi e
con l’ammenda fino a € 2.582”.
11-
L’importo dell’ammenda potrebbe addirittura essere preventivato tra i
costi della campagna pubblicitaria!
Per conferire al sistema una maggiore capacità deterrente sarebbero
quindi necessarie sanzioni più consistenti, proporzionate tra l’altro alla
rilevanza degli interessi.
In terzo luogo, si segnala l’attuale impossibilità per i consumatori come
tali di ottenere un risarcimento del danno subito a causa della pubblicità
comparativa illecita. Tale possibilità è infatti consentita solo alle imprese
concorrenti nell’ambito degli atti di concorrenza sleale di cui all’art. 2598 del
c.c.
Infine,
si
riscontra
come
difficilmente
il
consumatore
venga
a
conoscenza dei provvedimenti dichiarativi della illiceità della pubblicità in
generale. Ci sembra allora auspicabile che in futuro questi provvedimenti siano
portati a conoscenza dei consumatori, quali destinatari a suo tempo dei
messaggi sanzionati, almeno nelle stesse forme con le quali quei messaggi
sono stati precedentemente diffusi. Ciò al fine di consapevolizzare
il
consumatore, nella prospettiva ancora una volta di una maggiore informazione
dello stesso. Sarebbe infatti interessante vedere come tale tipo di informazione
potrebbe
influire sui comportamenti economici dei consumatori, posti in
essere magari proprio in conseguenza di quella pubblicità poi rivelatasi illecita.
12-
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