Omelia SARAIVA

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PRESENTAZIONE DECRETO APPROVAZIONE MARTIRIO
BEATI MARTIRI DI OTRANTO
Fratelli carissimi,
sono lieto di presiedere in questa comunità diocesana, ricca del suo
bimillenario cammino di fede, la presente liturgia eucaristica. In questa celebrazione
volentieri condivido con voi il sentimento della gioia che scaturisce dall’azione eterna
di Cristo risorto, attraverso l’efficace presenza dello Spirito che umilmente
invochiamo, e il forte vincolo di fraternità che ci fa uno in Cristo, rendendoci, proprio
come comunità credente, “segno di unità per il genere umano”.
Mi sono già trovato in questa meravigliosa cattedrale, meno di due anni fa, per
ricordare solennemente il 25° anniversario della Visita Apostolica del Sommo
Pontefice Giovanni Paolo II, di felice memoria, che giunse qui ad Otranto per
venerare i Beati Martiri di Otranto nel quinto centenario del loro martirio.
Oggi, il Signore mi ridona l’opportunità di vivere questa solenne liturgia con
tutti voi e tra le numerose grazie per le quali esprimiamo la nostra lode, ricordiamo
particolarmente quella del riconoscimento della storicità del martirio, avvenuto il 6
luglio sc., da parte del Sommo Pontefice Benedetto XVI, cui va il nostro filiale e
devoto pensiero.
A ragione si può dire, ora, che non c’è solo la storia della gloriosa pagina del
martirio, ma anche la storia della venerazione ai Martiri da parte di una chiesa locale
che ha saputo e ha voluto, attraverso lo zelo dei suoi pastori, camminare con la chiesa
intera. Il mio sguardo, perciò, si rivolge verso queste due direzioni, la storia del
martirio e il culto ai Martiri da parte di questa chiesa, consapevole che entrambe le
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direzioni hanno una fortissima ricaduta nel presente, entrambe sono fondate sul
mistero di Cristo ed entrambe, infine, rivelano il mistero della Chiesa.
I. Innanzitutto l’evento del martirio.
Quella vicenda, che vide come diretti protagonisti Antonio Primaldo e circa
800 uomini al di sopra dei 15 anni, è subito raccolta da Pietro Colonna nei suoi
“Commenti sull’Apocalisse”. Egli oltre a darne una dettagliata descrizione, riconosce
che in quell’agosto del 1480 Otranto era diventata un altare dal quale saliva una
solenne dossologia da quelle persone, reclutate al momento, al temine dell’assedio
della città, ma scelte da sempre da Cristo per essere configurate a Lui attraverso il
dono irreversibile della loro vita.
Avevano ancora negli occhi il sangue di una città distrutta dall’assedio e
dall’uccisione perfino del loro pastore Pendinelli, cosicché alla proposta di un
compromesso risposero, attraverso un interprete, con la radicalità della loro fede. Il
vero ed unico interprete del loro cuore, però, era lo Spirito che, come “dolce ospite
dell’anima”, li sorreggeva in quella suprema prova, alimentando in loro una carità
eroica, una fede intrepida e una speranza viva.
“Questo vi darà occasione di rendere testimonianza” (Lc 21, 13): è la situazione già
prevista dal Signore e che l’evangelista Luca ha voluto conservare come l’altra faccia
della “buona notizia”… poiché “il discepolo non è più grande del suo maestro”.
L’eccezionalità di quell’ora, poi, si realizzò proprio quando essi iniziarono a
coniugare al plurale la professio fidei di Antonio Primaldo. Le pennellate del Galatino
sono tanto vibranti da richiamare quelle che più di 1000 anni prima avevano dipinto
gli Acta martyrum della Chiesa nascente. Da ogni suo passaggio descrittivo, come da
feritoie, passa la luce riflessa di quella comunità ecclesiale che sul Colle della
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Minerva, nell’atto del martirio, compone i colori dell’iride di una vocazione, cui il
Signore l’aveva preparata.
“E si sentì un mormorio tra di loro – dice ancora il Galatino – per lo spazio di
un’ora…”. Fu un’ora di preghiera, un’ora di comunione, un’ora di prova e, forse,
anche un’ora di tentazione. Quell’ora… così simile, in fondo, a tante nostre ore in
cui, però, per molto meno, entriamo nel crepuscolo della mediocrità, rinunciando per
sempre allo “splendore della verità”, come lo definiva Giovanni Paolo II.
Quei Martiri, poi, proprio in quell’ora, diedero visibilità alla loro comunione di
fede, prima ancora che con il martirio, attraverso un’autentica comunione fraterna.
Nel ricordo, infatti, delle parole del vangelo, per rendere più gradita l’offerta della
loro vita, sentirono il bisogno di purificare le residue scorie delle loro fragilità;
consolandosi, perciò, l’un l’altro e chiedendosi sinceramente perdono, si scambiarono
il bacio della pace.
Cosa vuol dire allora, oggi, riconoscere la storicità del martirio? Non
certamente la riaffermazione storicistica dell’eccidio, quanto la verità della lettura di
fede di esso come l’unica possibile. Non solo l’attendibilità di quell’episodio, ma
anche e soprattutto il suo spessore semantico; non solo la definizione dei contorni di
una tragedia, ma anche e soprattutto le dinamiche di una testimonianza.
In altri termini, una lettura in controluce di quella pagina storica ci permette di
cogliere in essa la filigrana della presenza del primo protagonista: Gesù Cristo. Quei
martiri hanno fatto derivare la comprensione della verità di quel momento del tutto
imprevisto e il bisogno di conservare la loro autenticità interiore, così fortemente
compromessa, dalla confidenza in Lui e hanno sorretto la loro fedeltà cristiana con la
sicurezza di essere inseparabilmente “presso di Lui nell’amore” (Sap 3, 9). Anche
Teresa del Bambin Gesù, sia pur senza la prova estrema del martirio, giungerà più
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tardi a questa stessa meravigliosa sintesi racchiusa in due parole semplici, ma d’oro:
le confiance e l’amour.
Oltre a tutto ciò, i martiri hanno riconsegnato all’umanità quel prezioso
patrimonio che da 2000 anni fa luce sulla vita ordinaria dei credenti: “una speranza
piena di immortalità” (Sap 3, 4). Questi Martiri di Otranto, i martiri di tutti i tempi
hanno già il volto della “Chiesa della speranza”, così come l’ha brillantemente
definita la Nota pastorale dopo il IV Convegno Ecclesiale Nazionale di Verona
dell’ottobre scorso. E guardando i martiri, oggi, senza difficoltà faccio eco delle
splendide parole di questa Nota pastorale, secondo la quale: “la Chiesa comunica la
speranza, che è Cristo, soprattutto attraverso il suo modo di essere e di vivere nel
mondo” (n. 20).
Quei cristiani di 5 secoli fa hanno dato a questa Chiesa locale la più bella lezione di
speranza!
II. A questo punto vorrei curvare lo sguardo sulla storia della venerazione che questa
Chiesa locale da sempre ha reso ai suoi 800 Martiri. Sento il bisogno, infatti, di fare
riferimento alla vostra devozione ai beati, perché non ceda mai alla tentazione di uno
sterile devozionalismo o di una orgogliosa apologia auto-celebrativa.
Il nostro attuale impegno è, piuttosto, quello di individuare nella paradossalità
della loro risposta i motivi di ragionevolezza interna, quella ratio che scongiura la
possibilità di vederli come inconsapevoli sia pur eroiche vittime e ci induce con
certezza a riconoscerli quali convinti e liberi protagonisti. Il nostro vivo desiderio è
quello di cogliere nella loro vita la forte affermazione di uno dei segreti più
importanti per la vita di ogni cristiano: “Con la vostra perseveranza salverete le vostre
anime” (Lc 21, 19).
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L’evento salvifico di Cristo ha reso nitido l’orizzonte dialettico in cui si trova
l’umanità: da una parte infatti “la rinnovazione del mondo è irrevocabilmente
acquisita e in un certo modo reale anticipata” (LG 48) nei tanti segni presenti nella
Chiesa e al di fuori di essa, dall’altra proprio la Chiesa “porta la figura fugace di
questo mondo…, vive tra le creature, le quali ancora gemono, sono nel travaglio del
parto e sospirano la manifestazione dei figli di Dio (Rom 8, 19-22)” (LG 48). Sarebbe
parziale, però, limitare gli effetti della Pasqua nel “qui” ed “ora” dell’orizzonte
storico, non considerando la comunità dei salvati, che già gode della luce del Risorto
e sarebbe errato non cogliere quella comunione che ininterrottamente persiste tra la
comunità celeste e quella terrestre che è espressione dell’unica unione con Cristo, sia
pur vissuta a livelli diversi.
In altri termini, tutto il mistero della storia della salvezza e, in esso, il bene
prezioso della devozione ai santi è finalizzato alla comunione di tutto il genere umano
con Dio, con il “Christus totus”, di cui fa menzione S. Agostino. Solo dalla
comunione dei Santi con Dio, infatti, scaturisce, come un getto di fonte che prorompe
irrefrenabile dalla roccia, la forza della loro mediazione.
Una preziosa mediazione che, attraverso la parresia (la testimonianza forte), la
kauchesis (la fierezza della propria fede) e l’orientamento all’escathon (al senso
ultimo della vita), comunica ancora oggi l’inalterabile novità cristiana, di cui abbiamo
urgente bisogno per una rinnovata visione dell’uomo.
Con la parresia, innanzitutto, essi rivelano una dignità umana tutt’altro che
frammentata, la statura di persone che sono in piedi, …che muoiono in piedi, proprio
come Antonio Primaldo, e che dicono a faccia alta, apertamente, con libertà “se un
tuo fratello ti chiede di fare un miglio, tu fanne con lui due e se ti toglie il mantello, tu
dagli anche la tunica”. La parresia permette loro di modulare la forza della verità con
la coerenza di un amore fedele e senza condizioni… accettando di scendere anche
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l’abisso della chenosi, consapevoli che quanto più è fredda la notte, tanto più vicina è
l’alba.
Con la kauchesis, poi, essi esprimono la volontà di gloriarsi della fede in Gesù
Cristo, avendo fatto di essa e solo di essa il fondamento delle loro scelte esistenziali.
Anche noi, nel corso dei secoli, nell’ufficialità del rito del Battesimo, dopo la
professione di fede, che sovente conserva il gusto diretto della dialogicità,
affermiamo: “Questa è la nostra fede, questa è la fede della Chiesa e noi ci gloriamo
di professarlo in Gesù nostro Signore!”. Sul tappeto, allora, del nostro vivere
quotidiano, così spesso pieno di delusioni e così vuoto di speranze, non possiamo
porre una fede che si accontenta di risposte ovvie e pacificanti. La vera fede,
seguendo la via del Maestro, ci chiede di passare attraverso il “caso serio” della
croce, quale occasione concreta per un amore superiore.
Con lo sguardo rivolto verso l’escathon, infine, essi incarnano la logica delle
beatitudini evangeliche e costituiscono l’anticipazione del rovesciamento radicale
dell’attuale condizione umana. Il loro martirio è un inequivocabile rimando al destino
ultimo dell’uomo, che, insieme alla sua origine, è un bene indeducibile. Essi ci
dicono che se Cristo non fosse “l’Alfa e l’Omega”, la vita sarebbe priva di senso e, in
più, che solo accogliendo l’origine e il destino ultimo di ogni uomo come il più
grande dono scaturito dal cuore di Dio si riesce ad orientare la propria vita in una
sincera e totale pro-esistenza.
III. Il martirio del 1480 racchiude tutto ciò e il Santo Padre, come successore
di Pietro, riconoscendolo nella sua autenticità, rilancia l’attualità di questo
straordinario patrimonio spirituale a questa comunità di Otranto e alla Chiesa intera.
Chiede, inoltre, che il culto verso i Martiri non perda il suo originario vigore, lo
stesso che ha fatto di quell’evento un momento di non ritorno per questa diocesi,
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quello che già nei giorni successivi al martirio fece fiorire nel cuore dei sopravvissuti
il desiderio di rivolgersi a loro non con la preghiera per i defunti, ma con la preghiera
riservata ai martiri, cosicché giustamente annota il Decreto del Sommo Pontefice “ab
inizio quotannis die 14 mensis Augusti ab Ecclesia Hydruntina eorum memoria pie
celebrata est”, il vigore, infine, che ha alimentato la sollecitudine dei Vescovi
otrantini, fino ad arrivare con Mons. Negro a questo ulteriore fondamentale tappa
verso la canonizzazione.
Tale culto possa abilitarci a procedere con un passo spedito sul sentiero
impervio della vita, che, come i sentieri più faticosi di montagna, è già segnato dal
sangue di Cristo e da quello di questi “Christi nobiles atletae” e, nello stesso tempo,
ci orienti verso il non facile stile dell’attesa di quella promessa che per primo Dio
rivolse ad Abramo, invitandolo a guardare in ogni stella un figlio della sua
discendenza, e che ora in Cristo è giunta davvero ormai “fino ai confini del mondo”.
Tenere il martirio davanti agli occhi significa per la chiesa di oggi assumere
l’atteggiamento giusto di fronte al mondo: né quello della resa accomodante, né
quello della provocazione auto-compiaciuta. L’atteggiamento, appunto, dei martiri di
tutti i tempi, i quali hanno saputo trovare nella promessa la luce sufficiente per
camminare incontro al Signore che viene, sopportando la tribolazione e senza mai
spegnere la speranza.
Sta qui il senso profondo dell’espressione lucana, “io vi darò lingua e
sapienza” (Lc 9, 15): riuscire a leggere e a ‘giustificare’, nel significato paolino del
termine, ogni circostanza, anche la più difficile, a partire dall’evento della croce.
Giovanni Paolo II affermava nella Evangelium Vitae: “La croce di Gesù si rivela
come il centro, il senso e il fine di tutta la storia e di ogni vita umana”.
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Venerare i martiri di Otranto, perciò, significa – usando di nuovo le parole di
Benedetto XVI a Verona – riconoscerli come «testimoni del grande “sì” di Dio
all’uomo» e nello stesso tempo come coloro che, proprio nella loro massima fragilità
umana, hanno reso visibile il grande “sì” della fede.
È proprio vero quello che diceva Tertulliano, richiamando la
straordinaria fertilità apostolica del martirio: “Diventiamo più numerosi, tutte le volte
che veniamo uccisi; il sangue dei martiri è un seme” (Apologeticus, 50, PL 1, 534).
Che la fecondità spirituale e pastorale di questa Chiesa idruntina e della chiesa intera
sia il segno più credibile della sua devozione ai Martiri!
Otranto, 31 luglio 2007
José Card. SARAIVA MARTINS
Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi
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