Monastero di Bose - Quell`atto di libertà chiamato martirio

Quell'atto di libertà chiamato martirio
La Repubblica 7 settembre 2016
di ENZO BIANCHI
Martire è da sempre un termine dai molteplici significati. Nella storia dell’umanità ci sono stati e ci sono molti paradigmi di
martirio, anche se di fatto la chiesa ha elaborato un «canone» per il discernimento del martirio e di chi lo ha vissuto. La
forma originaria del martirio cristiano è quella che ci giunge dai primi tre secoli della nostra era,attraverso gli Acta
martyrum: forma ispirata da Stefano nel Nuovo Testamento e poi da Policarpo di Smirne, Ignazio di Antiochia e i martiri
vittime dell'impero romano. Essa presenta il cristiano che, come miles Christi, «soldato di Cristo», muore per il suo
Signore, condividendone la passione di fronte al potere politico e alla polis pagana, fornendo una professione di fede
pubblica, restando saldo e paziente durante l'esecuzione capitale e arrivando a perdonare i persecutori.
Eppure ben presto a questi martiri uccisi “in odium fidei”, per odio della fede da loro professata, vennero accostati coloro
che erano perseguitati e uccisi per il semplice fatto di essere cristiani, senza dare loro nemmeno la possibilità di
rinnegare o meno il loro credo. Nella storia del cristianesimo questo “martirio” collettivo è avvenuto raramente
nell’antichità, mentre a partire dal genocidio degli armeni sono attestati con frequenza massacri, esecuzioni di gruppi di
cristiani, uomini donne e bambini uccisi per il solo fatto di essere una minoranza diversa per fede rispetto alla religione
dominante: in India, in Nigeria, in Mediorienmte, in Vietnam, in Sudan… È quello che papa Francesco – con riferimento
ai cristiani, non gli unici ma oggi i più numerosi tra le vittime – chiama l’ecumenismo del sangue, perché la persecuzione
in questi casi non fa distinzione tra cattolici, ortodossi o protestanti, ma colpisce famiglie, villaggi, intere regioni solo
perché i loro abitanti sono cristiani.
Nell’epoca delle guerre di religione in Europa abbiamo tragicamente avuto come “martiri” dei cristiani uccisi da altri
cristiani in nome della diversa confessione di appartenenza. Questo scandaloso paradosso si è ripetuto nel secolo
scorso ed è vivo ancora oggi in alcune aree del mondo con una variante “etica”: cristiani uccisi a motivo della loro
condotta in nome del vangelo. Si pensi a molti difensori dei poveri e degli oppressi, come il vescovo Oscar Romero in
Salvador, a resistenti contro i tiranni, come Dietrich Bonhoeffer nella Germania nazista, o a vittime della mafia, come don
Pino Puglisi. In questo senso il il martire non sceglie la morte, ma un modo di vivere, quello di Gesù”, sceglie un
comportamento ispirato al Vangelo, una faticosa ricerca della sequela cristiana, una difesa dei poveri e degli oppressi,
un’opposizione ai potenti di questo mondo, non certo un’eclatante affermazione di sé.
Vi sono poi persone che affrontano quello che viene chiamato “martirio” in modalità non sempre conciliabili con la
definizione cristiana: è definito, per esempio, “martire della libertà” o “della giustizia” anche chi è caduto in
combattimento, magari dopo aver inferto la morte ad alcuni avversari, oppure persone che si sono date volontariamente
la morte, senza però infliggerla agli altri, in nome di un ideale o come forma estrema di protesta: il giovane Ian Palach
che si diede fuoco in piazza durante la repressione sovietica della “primavera di Praga”, il repubblicano irlandese Bobby
Sanders che spinge il suo sciopero della fame fino a morirne per ottenere dal governo britannico la qualifica di detenuti
politici e non di delinquenti comuni per sé e per i suoi compagni di lotta, o ancora i monaci tibetani che affidano al loro
corpo in fiamme l’ultimo grido contro l’annientamento del loro popolo, della loro cultura e della loro religione ad opera del
potere americano in Vietnam e, più recentemente, di quello cinese in Tibet.
Ma “martire” – della carità o della generosità o della solidarietà – viene definito anche chi si offre di morire per fermare
una carneficina ancora più cruenta o al posto di persone altrettanto innocenti: si pensi al carabiniere Salvo D’Acquisto di
fronte all’indiscriminata repressione nazista o al francescano Massimiliano Kolbe che nel lager di Auschwitz cerca di
salvare un padre di famiglia rimpiazzandolo nel bunker della fame.
Infine c’è l’accezione, oggi così frequente, che ha più pesantemente pervertito il senso della parola “martire”: quella
usata da un certo integralismo religioso presente nel mondo islamico per definire gli attentatori suicidi, quelli che fanno
della propria morte lo strumento dell’uccisione di anonimi innocenti e di nemici o presunti tali. Persone e gesti che, anche
concettualmente, sono agli antipodi del “martire”: se questi è qualcuno che dimostra come solo chi ha una ragione per
morire può anche avere una ragione per vivere, il “kamikaze” – come oggi viene definito l’attentatore suicida,
impropriamente perché nella tradizione giapponese indica altro – sovente è una persona che non ha ragioni per vivere e
alla quale l’ideologia folle fondamentalista e qualcuno ha inculcato una ragione per morire, soprattutto uccidendo altri
avvinto in una spirale di odio che sa solo seminare violenza.
Non possiamo dimenticare il monito di Benedetto XVI a Ratisbona, quando richiamò il messaggio della tradizione
cristiana: la fede deve sempre essere ottemperata dalla ragione umana, altrimenti degenera in fanatismo e violenza o in
superstizione e magia. Nessuna fede può chiedere ciò che è umanamente contro la ragione: la morte di innocenti in
nome di Dio.
Il discepolo di Gesù di Nazareth invece ama la vita e non la disprezza, non cerca il martirio come autoimmolazione e
nemmeno come perseguimento di una santità eroica – sarebbe orgoglio diabolico! – ma di fronte all’esplicita richiesta di
rinnegare la propria fede con le parole o con azioni contrarie alle esigenze del vangelo, può giungere ad accettare di
essere perseguitato e a consegnare la sua vita fino a morire. Il martire cristiano non è un “uomo contro” bensì un “uomo
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per”, una persona che scegliwe di accettare la mrote in nome dell’amore più grande che quotidianamente vive. A volte le
circostanze della persecuzione sono particolarmente aberranti, altre volte il silenzio, l’oblio, la “normalità” avvolgono
sofferenze e morte inflitte a motivo della propria fede, ma l’atteggiamento del martire cristiano non muta: chiamato ad
amare i nemici, a perdonare i persecutori, sull’esempio di Gesù, fa della morte violenta inflittagli un gesto di vita e di
amore, l’unico atto che può spezzare la catena delle vendette. Un gesto di cui magari pochi o nessuno verrà a
conoscenza, parole di perdono che non sempre qualcuno saprà ascoltare o tramandare, momenti di angoscia e di dolore
lacerante che nessuno saprà lenire, ma anche attimi di grandezza umana e spirituale, raggi di luce nel buio della
disumanità. In questo senso il martire non sceglie la morte, non desidera la gloria del martirio, ma decide di vivere fino
all’estremo la vita e ciò che dà senso alla vita: l’amore per gli altri.
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