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SINTESI DELL’INTERVENTO
DEL PROF. MICHELE MAIO
L’immuno-oncologia, ovvero l’immunoterapia applicata al trattamento dei tumori, è una
disciplina relativamente nuova, perché solo negli ultimi 10 anni ha dimostrato la sua efficacia
grazie all’introduzione di armi terapeutiche innovative. Funziona stimolando le cellule del
sistema immunitario a combattere il cancro e persegue una strategia opposta a quella delle
terapie ‘classiche’: non colpisce direttamente le cellule tumorali, ma attiva i linfociti T del
paziente (potenti globuli bianchi capaci di eliminare o neutralizzare le cellule infette o
anormali), che diventano in grado di distruggere il tumore.
Il melanoma ha rappresentato il modello ideale per verificare l’efficacia della immunooncologia. Innanzitutto perché si tratta di un tipo di neoplasia relativamente facile da
analizzare, grazie a una biopsia cutanea. Nel corso degli anni, abbiamo studiato in modo
approfondito l’immunobiologia del melanoma, le caratteristiche immunologiche delle sue
cellule tumorali e compreso come queste ultime interagiscono con il sistema immunitario,
anche sfuggendo al suo controllo. E, proprio nel melanoma, sono stati individuati per la prima
volta gli antigeni, cioè i bersagli della risposta immunologica presenti sulle cellule tumorali.
La seconda ragione è che, fino a pochi anni fa, non esistevano terapie realmente efficaci nel
melanoma metastatico, quindi nessun trattamento poteva migliorare la sopravvivenza di
questi pazienti. Il melanoma ha svolto il ruolo di apripista nell’utilizzo dell’immunooncologia, che si sta estendendo ad altri tipi di tumore, non solo solidi (tra i quali polmone,
mesotelioma, rene, prostata, tumori cerebrali) ma anche emopoietici, in cui stiamo ottenendo
risultati interessanti, da valutare nell’ambito di sperimentazioni cliniche in corso.
L’Italia ha sempre svolto un ruolo molto importante nell’ambito degli studi di immunooncologia, anche a livello pre-clinico. La scuola di immunologia italiana è all’avanguardia a
livello internazionale. Recentemente il nostro Paese ha offerto un contributo significativo a
numerosi studi registrativi internazionali, non solo arruolando i pazienti, ma anche aiutando a
disegnare i trial clinici. L’Unità di Immunoterapia Oncologica dell’Azienda Ospedaliera
Universitaria Senese, che è parte dell’Istituto Toscano Tumori, è nata 10 anni fa con
l’obiettivo di sviluppare una forte attività di ricerca clinica, proprio nell’immunoterapia del
cancro. Un decennio fa era una scommessa lavorare in questo ambito, perché le armi attuali
non erano disponibili. Oggi possiamo dire di averla vinta, perché il centro senese è diventato
il punto di riferimento nazionale e internazionale per molte sperimentazioni. Ogni anno
promuoviamo numerosi studi, che vengono pubblicati su riviste scientifiche internazionali.
Ad esempio, a Siena è in corso lo studio indipendente di fase III (Nibit M2) che coinvolge
circa 150 pazienti con melanoma avanzato e metastasi cerebrali, che non hanno ricevuto
precedenti trattamenti. L’obiettivo è quello di paragonare l’efficacia della combinazione di
ipilimumab con la fotemustina (un farmaco chemioterapico tradizionale), rispetto alla
fotemustina utilizzata da sola. Recentemente abbiamo aggiunto un terzo braccio, costituito
dall’associazione di ipilimumab e nivolumab, che sta evidenziando risultati molto interessanti.
Lo studio, avviato nel 2013, terminerà nel 2015 ed è coordinato dal centro di Siena. Non solo.
Abbiamo avviato anche uno studio con un nuovo farmaco immuno-oncologico sul
mesotelioma pleurico, un tipo di tumore causato dall’esposizione all’amianto che ha colpito e
continua a interessare molti lavoratori. Dopo due lavori (uno fra il 2009 e il 2011, l’altro fra il
2012 e il 2013) che hanno evidenziato controllo e stabilità della malattia, si è già aperto un
terzo studio, di tipo registrativo ed internazionale, condotto a Siena su pazienti provenienti da
tutta Italia (nel mondo sono coinvolte complessivamente più di 500 persone da Stati Uniti,
Europa e Australia).
Inoltre Siena è l’unico centro italiano coinvolto in uno studio che ha sperimentato ipilimumab
nel tumore della prostata, pubblicato su Lancet Oncology.
Il NIBIT, Network Italiano per la Bioterapia dei Tumori, è stato costituito nel 2004 con la
finalità di riunire in rete le più importanti strutture italiane che si occupano di bioterapia dei
tumori. Attualmente partecipano al NIBIT più di 50 centri italiani. Gli obiettivi principali del
network sono: mettere a punto e condurre studi clinici di bioterapia dei tumori; promuovere la
cultura dell’immunoterapia nella cura delle neoplasie; informare (cioè sviluppare iniziative
tese ad indirizzare e far conoscere ai pazienti oncologici i protocolli clinici sostenuti dal
network); promuovere la ricerca pre-clinica, quindi l’interazione fra professionisti coinvolti
nella bioterapia dei tumori. Ci siamo resi conto che la promozione degli studi clinici
sull’immunoterapia del cancro, uno degli obiettivi del NIBIT, richiede tempi molto lunghi e
stabilità organizzativa. Da questa esigenza è nata la Fondazione NIBIT, che ha ottenuto il
riconoscimento come struttura nazionale alla fine del 2012. Il primo obiettivo della
Fondazione è lo sviluppo di sperimentazioni cliniche con nuove molecole, soprattutto con
terapie in grado di stimolare il sistema immunitario, non solo nel melanoma ma anche in molti
altri tipi di tumore. L’attività della Fondazione è complementare a quella del NIBIT.
MICHELE MAIO
DIRETTORE UOC IMMUNOTERAPIA ONCOLOGICA DELL’AZIENDA
OSPEDALIERA UNIVERSITARIA SENESE, PRESIDENTE NIBIT E FONDAZIONE
NIBIT
SINTESI DELL’INTERVENTO
DEL PROF. FILIPPO DE BRAUD
I farmaci immuno-oncologici, in particolare gli inibitori del checkpoint immunitario, agiscono
sulla base di un presupposto fondamentale: la capacità dell’organismo di contrastare, tramite
cellule endogene, la crescita del tumore. Questo meccanismo di difesa, in qualche modo
bloccato dalle cellule neoplastiche, rappresenta un processo fisiologico, che può essere
riattivato grazie a questi farmaci. Le differenze di funzionamento rispetto alla chemioterapia
sono nette. Quest’ultima infatti agisce direttamente sulle cellule tumorali attraverso un agente
esterno, esogeno. In questo senso, il principio d’azione dei trattamenti chemioterapici è
assimilabile a quello delle cosiddette terapie mirate (target therapy): entrambi interagiscono
con i meccanismi di crescita neoplastica. Anche la chemioterapia infatti ha un target specifico,
costituito dalla replicazione cellulare.
Le differenze emergono anche nelle risposte cliniche. Nella immuno-oncologia possono
manifestarsi anche alcuni mesi dopo l’inizio della somministrazione della terapia, ma in
genere durano più a lungo. In particolare ipilimumab, l’unico farmaco immuno-oncologico
oggi commercialmente disponibile nel mondo, ha evidenziato caratteristiche rilevanti nei
tempi di risposta. È un anticorpo monoclonale interamente umano, che si lega all’antigene dei
linfociti T citotossici (CTLA-4) e lo inibisce selettivamente. Ipilimumab è stato approvato
negli Stati Uniti, nel 2011 dalla Food and Drug Administration (FDA), per il trattamento dei
pazienti con melanoma non operabile o metastatico. L’Agenzia Europea, nel novembre 2013,
ha espresso parere favorevole per il suo utilizzo in prima linea nel melanoma avanzato.
Questo farmaco viene somministrato per quattro cicli, uno ogni 3 settimane. Dopo i primi 2
mesi, in genere non si evidenziano risposte. Talvolta, anzi, è possibile osservare apparenti
progressioni. La risposta avviene dopo 3-4 mesi, più tardi rispetto alle terapie tradizionali, a
un secondo controllo. Ma quelle che inizialmente possono apparire progressioni, cioè lesioni
più grandi non presenti inizialmente, in realtà sono “ammassi” di linfociti T, che contrastano
cellule tumorali non rilevabili con gli esami radiologici. Questo farmaco quindi richiede
tempo, ma è molto efficace. Siamo di fronte a un nuovo modo di valutare la terapia nei
pazienti trattati. Nella chemioterapia tradizionale, invece, le risposte cliniche compaiono
rapidamente (entro poche settimane) e l’eventuale sviluppo di una nuova lesione tumorale
viene considerato come progressione della malattia che determina l’interruzione del
trattamento in corso. Oggi si stanno affacciando altre armi, come nivolumab. I dati più recenti
evidenziano come la combinazione di due anticorpi monoclonali immunomodulanti
(ipilimumab e nivolumab) sia in grado di garantire risposte in termini relativamente brevi
(compresi fra 3 e 5 settimane dall’inizio del trattamento). Queste associazioni costituiscono
vere e proprie “bombe”, armi potenti in grado di attivare una efficace risposta antitumorale.
Va sottolineato che alcuni tumori sono più sensibili al meccanismo di immuno-modulazione,
altri meno perché, talvolta, le cellule linfocitarie possono svolgere anche un ruolo negativo.
L’Istituto Nazionale Tumori di Milano svolge un ruolo di primo piano nelle sperimentazioni
in ambito immuno-oncologico, in particolare relativamente ai modulatori di checkpoint
immunitario. Negli ultimi 5 anni abbiamo condotto più di 20 studi su questi farmaci. I trial in
corso riguardano diverse patologie, che spaziano dal melanoma al cancro del polmone (in
particolare quello a cellule squamose, che risponde poco alla chemioterapia), del rene, dello
stomaco, della testa collo, fino alle neoplasie rare.
Negli ultimi dieci anni, abbiamo assistito a un radicale cambiamento nella immunoterapia
applicata al cancro. Infatti l’approccio immunoterapico tradizionale, sviluppato a partire dagli
anni Sessanta del secolo scorso, si basava sui vaccini: l’obiettivo era stimolare una reazione
immunitaria, sensibilizzando i linfociti del paziente colpito da tumore per contrastare la
crescita della malattia. Il tentativo svolto finora in questo filone di ricerca tradizionale è stato
quello di vaccinare le persone contro il cancro iniettando antigeni specifici, come un tempo
contro i virus. Lo scopo era attivare il sistema immunitario perché riconoscesse il tumore
come nemico.
La nuova immunoterapia, sviluppata nell’ultimo decennio, muove dal presupposto che questa
attivazione sia già avvenuta, ma sia in qualche modo stata bloccata dalle cellule tumorali,
utilizzando particolari ‘vie’, dette checkpoint immunitari. Grazie a questo nuovo approccio, è
possibile realizzare anche una più attenta selezione dei pazienti da trattare, con evidenti
vantaggi in termini di razionalizzazione dei costi e di risparmio di risorse. Si è infatti visto
che, nei tumori che presentano un infiltrato linfocitario (una reazione di difesa contro la
malattia da parte di cellule del sistema immunitario), è più facile riattivare la reazione
immune. La presenza di questo infiltrato, anche se al momento “spento” dal tumore,
costituisce quindi un criterio di selezione dei pazienti e ha un significato favorevole da un
punto di vista prognostico. La sua riattivazione può portare a risultati positivi ed è l’obiettivo
dei farmaci modulatori del checkpoint immunitario.
FILIPPO DE BRAUD
DIRETTORE DEL DIPARTIMENTO DI ONCOLOGIA MEDICA E DIRETTORE
DELLA STRUTTURA COMPLESSA MEDICINA ONCOLOGICA 1 DELLA
FONDAZIONE IRCCS ISTITUTO NAZIONALE DEI TUMORI DI MILANO
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