Shaftesbury, Soliloquio, ovvero consigli a un autore (1710)
Il mio intento consiste nel considerare questa questione come un caso di CHIRURGIA. E’ la
pratica, tutti lo ammettiamo, che fa la mano. “Ma su chi, in questa occasione si eserciterà? Chi di
buon grado sarà il primo a sperimentare la nostra mano e a fornirci l’esperienza necessaria? Qui sta
la difficoltà. Supponendo in effetti di avere ospedali per questo tipo di chirurgia e di avere sempre a
disposizione ceri pazienti docili pronti a subire incisioni di ogni genere e disposti ad essere
esaminati e medicati a nostro piacere, questa pratica presenterebbe senza alcun dubbio un vantaggio
considerevole. Una certa perspicacia si deve necessariamente ottenere. E alla lunga si otterrebbe
anche una manualità; ma in tutta probabilità una manualità molto grezza, che non potrebbe in alcun
modo servire ai fini di questo tipo di chirurgia. Qui infatti, il principale requisito è la delicatezza
della mano. Nessun chirurgo sarà chiamato che non abbia sentimento e compassione. E dove
reperire un soggetto in cui chi opera possa conservare la più fine delicatezza, e non di meno agire
con la massima fermezza e audacia, è certamente una questione di non lieve importanza.
Sono consapevole che in tutti i progetti considerevoli, al primo impatto, vi sia una certa aria di
chimerica fantasia e presunzione, suscettibile di esporre in una certa misura al ridicolo coloro che li
progettano. Io vorrei perciò premunire il mio lettore contro questo pregiudizio, assicurandolo che
nell’operazione proposta non c’è nulla che gli possa suscitare il riso; o se così fosse, il riso potrebbe
forse ritorcerglisi contro con il suo proprio consenso e con la sua propria complicità, il che è un
esempio di quella stessa arte o scienza che ci apprestiamo ad illustrare.
Di conseguenza, se si obietta contro la pratica e l’arte della chirurgia sopra menzionate, “che non
possiamo noi in alcun luogo trovare un paziente così docile con cui possiamo in realtà procedere
con decisione, e verso il quale ciononostante siamo certi di conservare la massima delicatezza e il
massimo riguardo., affermo il contrario; e dico, per esempio, che ciascuno di noi ha se stesso su cui
esercitarsi. “Semplice arguzia”! direte voi; “perché chi può così riprodursi in due persone ed essere
il suo proprio soggetto? Chi può propriamente ridere di se stesso o scoprire nel proprio cuore di
essere allegro o serio in tale circostanza?”. Rivolgetevi ai poeti ed essi vi offriranno molti esempi.
Niente è più comune per loro, che questo tipo di Soliloquio. A una persona particolarmente, o forse
di normali capacità, capita in certe circostanze di commettere un errore. E’ turbata per ciò. Sale da
sola sulla scena; si guarda attorno per vedere se c’è qualcuno vicino; poi si mette alla prova, senza
risparmiarsi minimamente. Voi sareste meravigliati di sentire come stringa le questioni e come
conduca a fondo la pratica dell’autodissezione. In virtù di questo soliloquio diviene due persone
distinte. E’ discepolo e precettore. Insegna e apprende. E molto seriamente, non avessi altro da
perorare in favore della morale dei nostri moderni poeti drammatici, li difenderei tuttavia contro i
loro accusatori in nome di questa stessa pratica, che essi hanno avuto cura di mantenere viva in tutta
la sua forza.
Parte I, sezione II
…Tale era, presso gli antichi, la celebre iscrizione di Delfi; Conosci te stesso; il che equivale a dire,
dividi te stesso, o sii due. Perché se la divisione era fatta correttamente, tutto il mondo interiore di
conseguenza, essi ritenevano, sarebbe stato correttamente compreso e gestito con prudenza. Tale era
la fiducia che avevano in questo dialetto privato del Soliloquio. Perché si riteneva tipico dei filosofi
e sapienti essere capaci di intrattenersi in conversazione con se stessi. Ed essi si vantavano in
proposito “che non erano mai meno soli che quando erano con se stessi”
PARTE I
Gli specchi magici
Noi potremmo qui, perciò, scoprire noi stessi come in uno specchio, e vedere i nostri tratti più
minuziosi ben delineati e adatti alla nostra personale capacità di comprensione e conoscenza.
Nessuno che sia mai stato anche solo per un attimo un osservatore attento, potrebbe mancare di
venire a conoscenza del proprio cuore. E, cosa che era degna di particolare nota in questi specchi
magici, si verifica che, attraverso un’ispezione costante e prolungata, le persone abituate a questo
esercizio acquisivano una disposizione speculativa particolare, come se di fatto portassero con sé
una specie di specchietto tascabile, sempre a portata di mano e in uso. In esso c’erano due facce che
si presentavano naturalmente alla nostra vista: una di esse, come il genio dominante, la guida e il
capo menzionato sopra; l’altra come quella creatura grossolana, indisciplinata e ostinata alla quale
noi stessi nella nostra veste naturale più propriamente assomigliamo.
Qualsiasi cosa noi facciamo, qualsiasi cosa intraprendiamo, se abbiamo acquisito una volta
l’abitudine di questo specchio dovremmo, in virtù della doppia riflessione, distinguere noi stessi in
due diverse persone. E con questo metodo drammatico, il lavoro dell’autoanalisi procederebbe con
ammirevole successo.
La scrittura specchio
Il dialogo