Il contributo di Esodo Il gruppo di Esodo, dopo i primi vent’anni dal Concilio, nutriva ancora una speranza di apertura della chiesa verso le istanze mondiali e della gente comune. Questa speranza, alimentata dall’esistenza di una pur debole dialettica interna, nonostante il palese tentativo di restaurazione posto in essere dalle gerarchie romane, era ed è fondata sull’azione dello Spirito che continua ad alimentare fermenti di vita spirituale nel “popolo di Dio”. Nello stesso episcopato cattolico si confrontavano [allora]visioni diverse. Alcune criticamente aperte verso le scelte innovative della società ed alle istanze secolari del laicato. Altre preoccupate di ripristinare la tradizione, anche nella liturgia, in una fase di profondo cambiamento dei costumi e della cultura. Se allora il nostro sguardo rivolto verso le questioni che il Concilio aveva lasciate aperte non induceva all’ottimismo, ciononostante ci sentivamo parte di una complessità che non consentiva facili scorciatoie né certezze fondate sulla tradizione. Una realtà che si esprimeva e si esprime tuttora nella frammentazione, nella perdita della solidarietà, nella caduta delle soggettività esposte al rischio dell’omologazione. Il pontificato di Giovanni Paolo II è stato decisivo in quella fase, per l’affermazione di un cattolicesimo da crociata contro l’ateismo materialista, di cui poi si sarebbe visto l’esito in termini di distacco dalla realtà e di delega verso i movimenti cosiddetti carismatici. Un cattolicesimo che ha abbandonato la vocazione di “chiesa dei poveri”, privilegiando le grandi adunate (i bagni di folla) in cui si celebrava la potenza (?) della chiesa romana. Una chiesa conservatrice, diffidente della modernità, incapace di accogliere le differenze di fede, di genere, di cultura… nei fatti più che nelle dichiarazioni. Oggi, a 50 anni dal Concilio, mentre assistiamo al prevalere di questo atteggiamento “difensivo” della chiesa verso il mondo, al tempo stesso avvertiamo tutta la contraddizione di un apparato curiale spaventato ed impreparato ad affrontare la propria crisi interna sottoponendosi al giudizio del Vangelo. Solo rompendo il diaframma che ne difende i privilegi, isolandola però dalla realtà, questa chiesa sarà in grado di affrontare una profonda riforma. Non tanto sul piano dottrinale, quanto alla ricerca della sua autentica vocazione, quella di annunciare il Regno di Dio e di essere realmente testimone di Cristo morto e risorto. La questione cruciale, ma non vale solo per la chiesa cattolica ovviamente, resta così sempre quella della gestione del potere nella presunzione di verità, anzi quella della Verità tout court. Se partire dall’extra ecclesiam nulla salus, qualsiasi sia l’ecclesia, non può portare da nessuna parte sul terreno della Verità, non può farlo nemmeno, neanche in linea di principio, su quello della ricerca comune della pace. Avvertiamo anche noi un senso di mancanza, di insicurezza e di smarrimento nella crisi globale che ha investito ogni cosa e non ha risparmiato la stessa chiesa terrena e coloro che la guidano. Ci conferma nella fede un unico punto fermo, la parola di Gesù che le forze del male non prevarranno. E stiamo guardando a questa chiesa, tanto nella sua dimensione gerarchico-clericale, quanto in quella laica, entrambe nel loro rapporto con il potere politico, con un sentimento di fallimento per aver tradito tutti le premesse del Concilio, contenute nella Lumen Gentium, il documento più solenne. “Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa è chiamata a prendere la stessa via…spogliando se stessa, (come Gesù) prendendo la natura di servo…” “Perciò il popolo messianico…, apparendo talora come un piccolo gregge, costituisce per tutta l’umanità un germe di unità, speranza e salvezza”. Da questo è inevitabile ripartire per riformarsi. Quanto all’aspetto ecumenico ci pare manchi un qualsiasi serio tentativo di risposta a una fondamentale domanda: perché cercare l'unità dei cristiani? Cosa significa lo sforzo ecumenico in un mondo che ignora l'ipotesi "Dio"? Se l'ecumenismo ignora la dimensione missionaria è funzionale a una visione autocentrata della chiesa, preoccupata di salvare se stessa e non l'umanità. Per questo crediamo e siamo coinvolti (anche attraverso la rivista) nella ricerca di una sinodalità che significhi realmente camminare insieme, dare la parola agli ultimi, essere in ascolto, lasciarsi interrogare sulla propria fede.