La crisi di Cuba - Italiano e storia

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1962
CRISI DI CUBA
la grande paura
Il 24 ottobre del 1962 scoppia la crisi dei missili tra Stati Uniti e
Unione Sovietica per i 42 ordigni nucleari che Kruscev ha fatto
installare a Cuba. La crisi si risolve in cinque giorni con la
decisione di Kruscev di smontare i missili e di riportarli indietro ma
il mondo fu veramente ad un passo dallo scontro definitivo
(entrambe le parti avevano apertamente minacciato di far ricorso
alle armi atomiche). La paura fu davvero grande al punto che dopo
quell'episodio vi fu un «sincero» tentativo di mettere fine ai
contrasti tra i blocchi.
TAPPE DECISIVE DELLA STORIA RECENTE DI CUBA
1952
Fidel Castro, giovane avvocato, fonda un movimento rivoluzionario
per abbattere il regime militare di Fulgencio Batista.
1953
Con 180 compagni male armati (tra cui il fratello Raùl di 5 anni più
giovane) Fidel organizza l’assalto alla caserma Moncada di
Santiago de Cuba; gli assalti falliscono ma Fidel e Raùl Castro
sono tra i superstiti.
1955
Fidel, Raùl e l’intero direttorio del 26 luglio, amnistiati nel maggio
precedente, si rifugiano in Messico per preparare la lotta al
dittatore Batista, che nel frattempo ha legalizzato il suo potere con
un nuova truffa elettorale. In Messico Fidel conosce il giovane
medico argentino Ernesto Guevara (il Che) e lo associa al suo
progetto rivoluzionario.
1956
Insieme con il Che, con Raùl e con altri 79 compagni, Fidel sbarca
fortunosamente sulla costa orientale di Cuba. Qualche settimana
dopo la prima base guerrigliera è già operante sulla Sierra Maestra,
uno dei tre sistemi montagnosi dell’isola.
1959
Il 31 dicembre, con il suo potere logorato dalla guerriglia castrista,
il dittatore Batista fugge in aereo a Santo Domingo.
1960
Il 2 gennaio i castristi entrano trionfalmente all’Avana, dove Fidel
arriva sei giorni dopo.
1961
Il 17 aprile un gruppo di anticastristi, organizzato dalla CIA, tenta di
sbarcare alla Baia dei Porci ma sono ricacciati.
1962
24 ottobre: scoppia la crisi dei missili tra Stati Uniti e Unione
Sovietica per i 42 ordigni nucleari che Kruscev ha fatto installare a
Cuba. La crisi si risolve in cinque giorni con la decisione di
Kruscev di smontare i missili e di riportarli indietro.
1965
In ottobre c'è il primo esodo in massa dei cubani. Avviene dal
porto di Camarioca in forme caotiche con il consenso di Fidel. Gli
Stati Uniti si vedono costretti a un primo accordo sull’emigrazione.
1967
In giugno si verificano i primi contrasti seri tra l’Avana e il
Cremlino per l'appoggio cubano alle guerriglie del Terzo Mondo.
L’Unione Sovietica non vuole aumentare le tensioni internazionali.
1967
8 ottobre
Che Guevara viene catturato in Bolivia e ucciso il giorno dopo. Nel
frattempo si sono acuiti i contrasti con l’Unione Sovietica. Cuba è
alle prese con le catastrofi provocate prima da un ciclone e poi
dalla siccità.
1968
Il 24 agosto Fidel Castro approva l’invasione della Cecoslovacchia
da parte delle truppe del Patto di Varsavia. La dichiarazione fa
torna il sereno con il Cremlino che firma con Cuba accordi
economici.
1975
In novembre Fidel invia i primi diecimila "volontari" in Angola a
sostenere il presidente Agostinho Neto.
1978
In marzo Fidel invia "volontari" in Etiopia a sostegno delle imprese
militari del colonnello Menghistu.
1980
In marzo 10.000 cubani si rifugiano nell’ambasciata del Perù
all’Avana. Fidel esce dalla crisi autorizzando un secondo esodo in
massa degli scontenti. Gli Stati Uniti sono costretti a un nuovo
accordo sull’emigrazione.
1986
Primi contrasti tra Castro e Gorbaciov. La rottura viene sfiorata
nell’aprile del 1989 in occasione della visita del leader sovietico
all’Avana.
1988
I sovietici tagliano le forniture di petrolio; si tratta di una pressione
politica e ideologica che indebolisce Fidel Castro e il suo regime.
1991
In dicembre scadono gli ultimi contratti di scambi privilegiati con
l’Unione Sovietica: Cuba è costretta a resistere da sola all'embargo
statunitense.
1992
A corto di dollari, L’Avana decide un taglio traumatico alle
importazioni di petrolio; comincia il razionamento elettrico e negli
uffici pubblici condizionatori e ascensori diventano inoperosi due
giorni alla settimana.
1993
Le elezioni generali riconfermano Fidel e Raùl rispettivamente
come capo e vicecapo dello Stato.
1994
Il governo castrista interviene contro il possesso illecito di beni e
introduce una politica monetaristica. Per ridurre l’inflazione e
l’eccesso di liquidità vengono aumentati i prezzi di numerosi
generi di consumo e le tariffe dei trasporti pubblici. Per la prima
volta nella sua storia, la rivoluzione adotta le imposte sul reddito.
Saranno applicate ai lavoratori autonomi e ai soci delle
cooperative.
1998
La visita di Giovanni Paolo II mette in moto il processo di
"pacificazione" tra Cuba e gli Stati Uniti.
vedi "LA ROULETTE RUSSO-AMERICANA - IL TERRORE CORRE SUL MONDO
1962 Crisi dei missili a Cuba.
"Che" Guevara, allarma il mondo.
Dopo il fallimento americano dello scorso anno alla Baia dei Porci, la politica Usa verso Cuba
divenne piu' prudente, anche perchè il 70 per cento dei cittadini statunitensi era contrario
all'invasione dell'isola. Ad allarmare erano gli stessi governativi.
"Un portavoce del dipartimento della difesa, nell'illustrare ai giornalisti i dettagli di applicazione
da parte delle forze militari americane delle disposizioni decise da Kennedy , ha avvertito "ci
troveremo di fronte a perdite, inevitabili in un'operazione dell'ampiezza di quella che viene ora
iniziata" (Comun. Ansa del 23 ottobre, ore 03.34).
C'era un embargo sulle esportazioni americane ma non un vero blocco, che avrebbe potuto
irritare molto il principale partner di Fidel Castro: cioè l'Urss.
I rivoluzionari dell'Avana pero' non erano tranquilli e nell'estate "62 chiesero a Mosca misure
preventive per la loro difesa, che Mosca concesse per ben altri motivi, non certo per aiutare solo
Castro a farsi un reame personale, nè i suoi rivoluzionari troppo sognatori.
Venne decisa così l'installazione nell'isola di missili a medio raggio diretti unicamente verso il
territorio americano. Tecnici e materiali sovietici arrivarono numerosi per tutta l'estate per
mettere a punto le rampe, e per formare i tecnici addetti, oltre al montaggio di aerei IL-28 con
equipaggiamento offensivo.
Kruscev sapeva benissimo che le operazioni sarebbero presto state scoperte, ma voleva mettere
alla prova gli Usa con un atto di forza. Certo che non credeva che gli americani, con dei missili
schierati a poche miglia dal loro territorio, come una pistola puntata alla tempia, avrebbero
accettato il fatto compiuto. La reazione presto sarebbe venuta.
(Ma sapeva anche, Krusciov, che rampe e missili americani con testate nucleari erano puntati
sull'URSS, dalle basi italiane poste in Puglia, a Gioia del Colle - vedi articolo 40 anni dopo > > )
Il 9 SETTEMBRE - "CHE" GUEVARA rientra a Cuba dall'Urss ed allarma tutto il mondo
dichiarando ai giornalisti: "L'assistenza militare concessa dall'Urss a Cuba segna "una svolta
storica" e ritengo che la potenza sovietica superi ormai quella degli Stati Uniti. Il rapporto di
forze fra est ed ovest si è rovesciato; la bilancia pende dalla parte dell'Urss. Agli Stati Uniti non
resta che inchinarsi" (Comun. Ansa del 9 settembre, ore 11,26)
(Non dimentichiamo che il 12 aprile del 1961 i russi avevano mandato il primo essere umano nello spazio
orbitale con il Vostok 1. Vedersi un russo che girava in orbita sopre le teste causò negli Stati Uniti non solo
una umiliazione tecnologica, ma scatenò angoscia. Mentre questo secondo successo (il primo era stato lo
Sputnik) inorgoglì tutti i comunisti del mondo " Cari signori tremate, noi abbiamo questo tipo di missili ! ")
In OTTOBRE gli aerei-spia americani scoprirono finalmente la presenza dei missili; iniziava così
la crisi piu' grave del secondo dopoguerra, e mai come allora il Mondo è stato così vicino
all'Olocausto planetario. (ricordiamo che lo scorso anno l'Urss aveva massicciamente
sperimentato 31 bombe nucleari, di cui una da 60 megaton: i sismografi del mondo registrarono
inequivocabilmente tutte le esplosioni dei sovietici)
"Un portavoce del dipartimento della difesa americano ha annunciato che le forze armate
americane in tutto il mondo sono state messe in stato di allarme..."Ha poi mostrato ai giornalisti
alcune fotografie prese dall'alto che mostrano i lavori di impianto a Cuba di basi fisse di missili
balistici "..... e non è pensabile che questi ordigni, della gittata di 500 chilometri, capaci di
colpire la Florida, per essere di una qualsiasi utilità, non siano muniti di testate atomiche"
(Comun. Ansa del 23 ottobre, ore 03.34)
Ora era però impossibile un intervento americano armato verso Cuba, la rappresaglia dell'Urss
sarebbe stata terribile, o avrebbe innescato la Terza Guerra Mondiale; cosi' il presidente
Kennedy si decise per un blocco navale tutt'intorno a Cuba: non ci sarebbero più stati
rifornimenti di missili sovietici.
Il 22 Kennedy apparve in televisione e spiegò al Mondo (dichiarazione trasmessa in 30 lingue, in
102 Paesi) la gravissima situazione: "Non correremo prematuramente il rischio di una guerra
mondiale nella quale i frutti della vittoria sarebbero cenere nella nostra bocca, però non ci
tireremo indietro di fronte a questo grave rischio in qualsiasi momento sarà necessario
affrontarlo". Voleva dire insomma che se uno sparava un colpo l'altro rispondeva. Inizia dunque
un braccio di ferro.
Infatti, rispose poche ore dopo Kruscev lanciando anche lui un appello a tutti i popoli: "A tutti i
governi e a tutti i popoli, gli Stati Uniti d'America mettendo in pratica le misure contro Cuba si
assumono una pesante responsabilità per quanto riguarda i destini del mondo. I popoli di tutti i
Paesi devono comprendere chiaramente che, lasciandosi andare ad una tale avventura, gli Usa
compiono un passo sulla via dello scatenamento di una guerra mondiale termonucleare"
(Comun. Ansa del 23 ottobre, ore 14,23).
"Il blocco navale è insensato, attaccare navi straniere costituirebbe da parte degli Stati Uniti "un
atto di pirateria" (ib. ore 15.00)
Le foto scattate dagli U2 fecero il giro del globo dimostrando che potenzialmente i missili erano
delle mire aggressive russo-cubane, rivolte contro gli Stati Uniti.
"La commissione della Camera ha votato oggi all'unanimità il richiamo alle armi di 150 mila
riservisti" (Comun. Ansa del 14 ottobre, ore 17,52)
I sovietici furono colti di sorpresa dalla reazione Usa, così che Kruscev (anch'egli perfettamente
cosciente della gravità del pericolo atomico) accolse favorevolmente la mediazione offerta dal
segretario generale dell'Onu Thant. Quest'ultimo proponeva la cessazione contemporanea
dell'invio dei missili e del blocco. Gli americani però non potevano accettare, rimaneva infatti
irrisolta la questione riguardante i missili già installati sull'isola.
Iniziò cosi un nutrito scambio di missive tra Kennedy e Kruscev.
Il 26 ottobre il leader del Cremlino offriva lo smantellamento dei missili in cambio dell'impegno
americano a non invadere Cuba. La proposta fu accolta da Kennedy, ma poi i russi cambiarono
la proposta...gli Usa dovevano anche smantellare le loro basi in Turchia e in Italia. E questo per
gli americani era inaccettabile. Non potevano cedere a questo ricatto senza rischiare di perdere
credibilità all'interno della Nato e dimostrarsi deboli di fronte al mondo. In gioco c'era tutto il
prestigio dell'America.
(ma nessuna notizia in Italia parlò delle condizioni
imposte da Krusciov a Kennedy:
cioè di smantellare i missili in Italia, in Puglia, rivolti verso l'URSS - vedi > )
La tensione fu fortissima, perchè la soluzione era in entrambi i casi molto critica. In una o
nell'altra soluzione c'era il "non ritorno".
Gli Usa comunque fecero il gesto distensivo di far arrivare a Mosca un documento in cui
venivano accettate le proposte russe del 26 insieme all'intenzione di intavolare negoziati
bilaterali Nato-Patto di Varsavia per la riduzione degli armamenti. Il 28 il Mondo veniva a
conoscenza che la crisi si era conclusa: i sovietici accettavano la controproposta statunitense.
Non sapremo mai quali impegni presero le due parti. (ma ora a distanza di 45 anni, lo sappiamo,
vedi il link sopra) Certamente molto più vincolanti di quelli presi alla fine della Seconda Guerra
Mondiale, perchè allora erano alleati, mentre qui ora era in atto una sfida di chi era il più forte;
ma la sfida fu poi blanda alla fine, anche se entrambi uscirono dalla crisi senza perdere la
faccia.
Infatti il diretto interessato, Castro, accusò l'Urss di non essere mai stato consultato nelle
decisioni prese con Kennedy, e che se si voleva la sua collaborazione dovevano essere
accettate anche le sue condizioni. Ma fu zittito subito, e lui non poteva far altro che arrendersi
alle decisioni già prese il 19 novembre. In pratica fu lasciato al suo destino, con una protezione
russa più formale che sostanziale.
I missili cominciarono ad essere smantellati sotto la supervisione di commisari Onu.
Kennedy ottenne un (virtuale) risultato di immagine, ma anche Kruscev convinto di aver
sbagliato a puntare troppo su una blanda reazione Usa, ne venne fuori come uomo di pace,
comprensivo nel non insistere troppo, ma si avviò (e forse proprio per questo) a concludere nel
suo Paese la parabola al vertice del potere sovietico...e pochi mesi dopo, nel 1964 uscirà (o lo
faranno uscire) di scena.
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Una pagina di I. Principe
IGOR PRINCIPE
Il mese di ottobre del 1962 sarà per sempre ricordato come quello del grande incubo.
I sonni del pianeta furono infatti disturbati dall'altissima tensione che si creò tra gli
Stati Uniti e l'Unione Sovietica in seguito all'installazione - da parte di quest'ultima - di
missili a testata nucleare sull'isola di Cuba, dal '58 governata dal regime
rivoluzionario di Fidel Castro.
Era il 16 ottobre quando John Kennedy fu informato dal comando delle Forze Armate
che vi erano tutte le certezze dell'installazione di missili nucleari sull'isola caraibica.
Jfk, quindi, reagì lanciando un ultimatum a Nikita Kruscev: o il ritiro dei missili o
l'invasione di Cuba da parte degli Usa. Il braccio di ferro durò tredici giorni e si
concluse nel migliore dei modi il 28 ottobre, allorché‚ il capo di stato sovietico cedette
alle richieste di Kennedy.
Da quel momento prese il via il vero processo di distensione tra le due superpotenze,
che culminò con l'accordo di Mosca del 25 luglio 1963, siglato anche dalla Gran
Bretagna, che sancì la fine degli esperimenti nucleari nell'atmosfera, nello spazio
cosmico e in quello sottomarino.
Certo, non fu l'atto finale della guerra fredda, che si ebbe a metà degli anni Ottanta e
che ebbe come protagonisti Ronald Reagan e Michail Gorbaciov; tuttavia, è un dato
inattaccabile che il mondo, allora, tirò un forte sospiro di sollievo, salvo ripiombare in
un cupo pessimismo a mezzogiorno e trenta del 22 novembre del 1963. Il quel
preciso istante, a Dallas, il presidente Kennedy fu ferito a morte da tre colpi di fucile,
esplosi dall'ultimo piano di un palazzo della città, da Lee Harvey Oswald. La
distensione, la "nuova frontiera" e il cammino verso un mondo più sereno conobbero
il loro momento più difficile. Vittorio Foa e nel suo commento su Kennedy (in una sua
storia "Questo '900") e sulla crisi con l'Urss, scrive: "In quei primi anni Sessanta ci
sono altri personaggi-simbolo di cambiamenti positivi. Naturalmente penso al
presidente degli Stati Uniti, John F. Kennedy. La sua breve esperienza di governo si
presentò ai fautori del cambiamento carica di possibilità. (...) Nei momenti in cui
Kennedy dovette affrontare acute tensioni, come nell'agosto 1961 durante la
costruzione del muro di Berlino o un anno dopo con la crisi dei missili cubani e la
minaccia americana di un blocco navale, l'impressione era che non si trattasse di
passi verso la guerra bensì di ostacoli che i nostalgici stalinisti ponevano a un
processo di distensione".
In queste parole si legge un ridimensionamento del timore generale che coinvolse il
mondo di allora; ma, ad ogni modo, non si può negare che gli anni a cavallo del 1960
furono quelli di un travaglio politico importante e sul piano internazionale e su quello
nazionale. Riguardo al primo, Foa mette in evidenza due episodi fondamentali:
l'elezione del generale De Gaulle alla presidenza della Francia (1958), "su un'ondata
colonialista che poi invece, al principio del decennio successivo (1962, ndr)
riconobbe l'indipendenza dell'Algeria e anche quella delle ex colonie a sud del
Sahara"; e la rivoluzione castrista a Cuba, che - a giudizio dello storico - "offriva
ancora un'immagine democratica e insieme di orgogliosa difesa della propria
indipendenza diventando subito un modello per l'America Latina umiliata tra
sfruttamento neocoloniale e tirannie indigene".
Analizziamo ora la situazione di quegli anni in Italia.
Il quadro politico italiano era caratterizzato da evidenti segnali di dialogo tra la
Democrazia Cristiana e il Partito Socialista Italiano, allontanatosi dall'area del Pcus e
del Pci in seguito ai fatti di Budapest del 1956. Oltre a questa scissione, contribuì ad
alimentare il dialogo tra i due partiti l'ascesa al soglio pontificio - già ricordata
anch'essa - del cardinale Angelo Roncalli, ossia Giovanni XXIII. La cui opera
principale fu quella di convocare, nel '62, un Concilio Vaticano che lasciò di stucco
l'opinione pubblica, in quanto giungeva a distanza relativamente breve dal primo
Concilio, indetto da Pio IX nel 1869. La Chiesa, secondo Giovanni XXIII, non poteva
stare alla finestra mentre il mondo laico viveva cambiamenti così importanti: si rese
necessario, quindi, un aggiornamento del pensiero ecclesiastico alle nuove tendenze
emergenti nella società civile. La politica ecclesiastica mutò così indirizzo, passando
dalle posizioni anticomuniste del predecessore di Roncalli - PioXII - a quelle più duttili
del "Papa buono", che però non vide la fine del Concilio perché morì nel 1963; a
terminare i lavori dell'assemblea vescovile provvide Paolo VI.
In questo nuovo scenario prese corpo l'ipotesi di un governo di centrosinistra,
formato dalla coalizione Dc-Psi. E l'ipotesi si fece realtà nel 1963 con la designazione
del democristiano Aldo Moro alla presidenza del consiglio. Vittorio Foa, ponendosi
una semplice domanda, analizza le conseguenze della formazione del centrosinistra
nei rapporti tra i due grandi partiti della gauche italiana, il Psi e il Pci. "Il centrosinistra
divise veramente socialisti e comunisti? Col passare degli anni i dubbi crescono. I
socialisti sostennero, senza entrarvi ma concordando il programma, il governo
Fanfani del 1962 e poi entrarono in forze nei governi diretti da Moro: i comunisti
votarono contro. Ma è difficile cogliere una vera opposizione comunista. A partire dai
primi anni Sessanta e per tutto il decennio furono i socialisti a guidare la sinistra
italiana e i comunisti non fecero che adattarsi, seppure sempre in difficoltà e in
ritardo". Guardando a quel periodo con maggiore attenzione si scorge, però, un
paradosso da non poco. Le due grandi riforme che caratterizzarono quegli anni - detti
della "programmazione economica", intesa come vasto programma di intervento
dello Stato nel settore economico della società civile - si ebbero ad opera del
governo Fanfani nel 1962: l'innalzamento dell’obbligo scolastico ai quattordici anni di
età e la nazionalizzazione dell'industria elettrica mediante la costituzione di un
monopolio di Stato facente capo all'Enel.
I socialisti non occupavano - in quel momento - le poltrone di alcun ministero. Nel
momento in cui riuscirono a entrare in una compagine governativa, la
programmazione rallentò sensibilmente sino ad arrestarsi definitivamente con l'inizio
degli anni Sessanta. Le ragioni sono di ordine politico ed economico. "Il proposito di
una programmazione dell'intervento pubblico preoccupava il mondo dell'industria scrive Foa nel suo libro -. Da tempo, diciamo pure dalla grande guerra, l'industria
aveva accettato, nonostante la sua insistenza sull'ideologia liberista, l'intervento
statale nell'economia, ma quello che essa poteva accettare era un intervento aperto
alle sue esigenze, non un intervento pubblico autonomo, deciso in base a condizioni
politiche di utilità generale".
Questo per quanto riguarda le ragione politiche; vediamo adesso quelle economiche:
"Nel terzo trimestre del 1963 cominciò una flessione nella produzione industriale. La
recessione era stata alimentata da una drastica politica monetaria deflattiva già
avviata dalla Banca d'Italia da alcuni mesi". Gli effetti non tardarono ad arrivare: "Nel
1964 -prosegue l’autore - gli investimenti caddero di oltre il 20 per cento e di un altro
20 per cento nel 1965". Ma è il 1967 l'anno cruciale per il governo di centrosinistra.
Ecco come ce lo racconta Vittorio Foa: (ma che vedremo nei singoli passi nei
prossimi anni. Ndr.) "Il colpo più duro, anzi decisivo, al centrosinistra come alleanza
politica per le riforme non arrivò sul terreno economico ma su quello strettamente
politico, sul delicato terreno dei rapporti fra la politica e i "corpi separati", militari o dei
servizi segreti. (...) Un colpo non solo al centrosinistra, ma anche all'autorità dello
Stato italiano, al suo sentirsi Stato, ai suoi rapporti coi cittadini, e anche alla sua
immagine nel mondo esterno". "Con effetti gravi sugli sviluppi successivi della politica
italiana. I fatti sono fin troppo noti. Secondo una inchiesta pubblicata nel 1967 su
"l'Espresso", a cura di Eugenio Scalfari e Lino Jannuzzi, il generale Giovanni De
Lorenzo, capo dell'Arma dei carabinieri e del Sifar, aveva convocato tre generali capi
di divisione territoriale dei carabinieri per informarli del cosiddetto "Piano Solo" in
base al quale, naturalmente quando fossero loro giunti ordini operativi, dovevano
essere occupate le sedi centrali e periferiche dell'ordinamento statale, e dovevano
essere arrestati diversi esponenti politici".
I fatti si riferiscono al 1964 (vedi) precisamente ai giorni che seguirono le dimissioni
di Aldo Moro da capo di un governo di centrosinistra (25 giugno - vedi). La
formazione di una nuova compagine appariva ardua, per lo più ostacolata dall'allora
presidente della Repubblica Antonio Segni, il quale leggeva nel probabile restauro di
una coalizione tra Dc e Psi un grave rischio di destabilizzazione per il Paese. Quindi,
egli convocò al Quirinale il generale De Lorenzo per rendergli note le prospettive di
attuazione del "Piano Solo ". Stando così le cose, è facile individuare il principale
imputato nel capo dello Stato; tuttavia Foa sposta l'indice accusatorio anche su Aldo
Moro.
"Il presidente Segni fu subito dopo (agosto 1964) colpito dal male che lo tolse
definitivamente dalla scena politica(un ictus che ne fece un invalido, ndr). Ma sotto
ogni altro aspetto, politico, costituzionale e morale, la responsabilità di avere
introdotto o lasciato introdurre un corpo estraneo nella formazione della volontà
democratica spetta al presidente del consiglio in carica, cioè a Moro". Quello che si
chiama senso dello Stato, la responsabilità cioè del dirigente politico verso la
collettività, ne uscì umiliato. Sono convinto che oggi più che mai - continua, severo,
Foa -, quando lamentiamo la perdita di senso dello Stato nel nostro Paese dobbiamo
riferirci a quel passaggio".
In seguito l’autore - pur ridimensionando la portata dei fatti - si sofferma sulla gravità
delle conseguenze. "Sotto un profilo strettamente tecnico si può dire che non ci fu un
tentativo di colpo di Stato - scrive Foa -. Ma quella vicenda aprì la fase di quella che
poi fu chiamata la strategia della tensione, ovvero l'intervento dei servizi segreti nella
politica violando le più elementari regole della democrazia. (...) Io non so se il
generale De Lorenzo si è mosso, con suo ‘Piano Solo’, per iniziativa del presidente
della Repubblica o di non so chi altro. Il puntoimportante è che qualcuno l'ha lasciato
fare e anzi l'ha usato per interessi di partito". Con il "Piano Solo", quindi, calò la
"notte della Repubblica". L'affaire De Lorenzo può considerarsi, secondo
l'interpretazione che ce ne fornisce Vittorio Foa, l'accensione della miccia di una
bomba che non tardò ad esplodere. Questa bomba è da tutti ricordata con il nome di
Sessantotto, identificato non solo con il movimento di protesta studentesca, che
aveva dato segni di vita già nel 1966 con lo scandalo - risolto in un'aula di tribunale provocato da "la Zanzara", giornalino del liceo ginnasio Parini di Milano sul quale si
chiedeva maggior dialogo con i professori e maggior libertà sessuale. La definizione
di Sessantotto viene data a quel decennio - compreso appunto tra il 1968 e il 1978 durante il quale l'Italia fu attraversata da un malessere generale che sovente deflagrò
sotto forma di attentati, rapimenti e atti di terrorismo. Al riguardo, Foa mette subito le
cose in chiaro: "Il Sessantotto non è stato l'invenzione di leader geniali, che pur vi
sono stati e con molte pretese. E' stato invece l'esplosione di tensioni incomprese
oppure represse in diverse sfere della vita".
Prima di affrontare, seppur per sommi capi, gli avvenimenti che segnarono la storia
d'Italia di quegli anni, gettiamo uno sguardo al contesto internazionale, non meno
turbolento di quello di casa nostra. Partiamo dal 1967: gli Stati Uniti entrano
direttamente nel conflitto in Vietnam; in Cina si compie la rivoluzione culturale ad
opera di Mao Tse Tung; in Cecoslovacchia prende il via la "primavera di Praga", la
trasformazione in senso democratico del comunismo poi repressa dai carri armati
sovietici nel 1968.
Questo lo scenario nel quale si inseriscono le proposte rivoluzionarie degli studenti,
che grazie alle loro rivendicazioni possono ormai "riconoscersi come generazione,
come soggetto di diritti, per giunta in un quadro internazionale". Infatti, le proteste dei
giovani si ebbero un po' ovunque, dalla California a Parigi. E proprio nella capitale
francese si assistette, nel maggio del '68, ad una lotta unificata di studenti e operai
che mise in serio pericolo la presidenza di Charles De Gaulle. Tutto si concluse con
una consultazione elettorale che riconfermò il generale all'Eliseo. In poco meno di
due mesi, la Francia visse un'esperienza che invece durò in Italia per molto più
tempo.
E veniamo, quindi, al nostro paese. Come abbiamo detto poco sopra, l'accensione
della miccia si ebbe nel '67 con la rivelazione del "Piano Solo". Ma l'esplosione non è
facilmente individuabile; piuttosto, si può parlare di una serie di esplosioni che via via
si fecero sempre più gravi. Si cominciò con le occupazioni di alcune università
italiane (Pisa, Torino, Milano, Roma, Napoli, Trento) nel 1967; quindi seguirono gli
scontri di Valle Giulia, a Roma, tra studenti e polizia (1 marzo 1968). Agli studenti si
unirono, come in Francia, gli operai, fautori di una acerrima lotta sindacale nel
cosiddetto "autunno caldo" del 1969. Foa giudica positivamente la commistione tra
studenti e lavoratori: nel suo libro si legge che "per gli operai di orientamento politico
più estremo, l'accordo con gli studenti, soprattutto quando si costituivano in gruppi, fu
molto positivo. Ma una domanda rimane senza risposta: perché gli studenti aiutarono
il lavoro ma non vi entrarono? Perché, nel loro entusiasmo, non cercarono nuovi
modelli di vita? (...) La risposta che mi si è sempre data è che il lavoro è faticoso. Ma
non è una risposta convincente".
Il clima di cambiamento, che dal '67 al suddetto "autunno caldo" del '69 fu
caratterizzato da una continua instabilità, volse al peggio il 12 dicembre dello stesso
anno. Quel giorno, a Milano, una bomba esplose all'interno di una filiale della Banca
Nazionale dell'Agricoltura in Piazza Fontana, a pochi passi dal Duomo. Morirono
sedici persone. Fu l'inizio degli "anni di piombo", anni segnati dalla violenza politica
dei gruppi dell'estrema destra e sinistra cui fece da controcanto quel compromesso
storico pensato da Aldo Moro e Enrico Berlinguer (segretari di Dc e Pci), attraverso il
quale si voleva portare - per la prima volta nella storia della Repubblica - il Partito
comunista al governo del paese. E su questo punto - per insuperabili ragioni di
spazio - concentreremo la nostra attenzione, rinviando l'analisi a tutto tondo del
decennio '68-'78 (che occuperebbe veri e propri tomi di storia) al prossimo numero
della nostra rivista.
Riguardo al compromesso storico, Foa ne individua la genesi fuori d'Italia,
precisamente nel colpo di stato militare che, l'11 settembre del 1973, rovesciò il
governo socialista di Salvador Allende e portò al comando il generale Pinochet.
"Allende - scrive Foa, era stato eletto tre anni prima da una coalizione di sinistra. Era
un caso raro nel continente sudamericano, tutto retto da governi reazionari infeudati
agli Stati Uniti in un impasto di grandi interessi, di arrogante diplomazia e di intrighi
dei servizi segreti (...) Washington non si diede pace e quando Allende nazionalizzò
le miniere di rame fu rovesciato dai militari e ucciso. La vicenda fece enorme
impressione in Italia. Il segretario comunista Berlinguer prese spunto dal Cile per un
ripensamento profondo: con un voto di maggioranza la sinistra non sarebbe stata in
condizione di tenerlo in vita. Si dovevano fare, per partecipare al governo, accordi col
centro o con la destra. In Italia la ricerca di un governo di sinistra significava
condannarsi a una opposizione eterna. Per andare al governo ci si doveva alleare
con la democrazia cristiana". E l'alleanza giunse a un passo dal realizzarsi negli anni
a cavallo tra il '76 e il '78: con le elezioni politiche del giugno 1976 il Pci sfiorò il
sorpasso ai danni della Dc (34,4% contro 38,7); quest'ultima si confermò il primo
partito, ma l'ampio consenso raccolto dai comunisti rappresentò chiaro segnale da
parte dell'elettorato, desideroso di radicali cambiamenti. I quali, però, non arrivarono
mai.
Il compromesso storico naufragò il 16 marzo1978, quando un commando della
Brigate Rosse - estremisti di sinistra che, tra i vari programmi rivoluzionari perseguiti
con la lotta armata, osteggiavano l'entrata del Pci nella "stanza dei bottoni" sequestrò il segretario della Dc e, dopo 55 giorni di prigionia, lo uccise.
Proprio il 16 marzo, Giulio Andreotti avrebbe presentato alle Camere il un governo di
"unità nazionale", al quale - pur senza ministri - partecipava il Pci. Il rapimento di
Moro fu, politicamente, l'atto più grave di quegli anni; eppure, è universalmente
identificato con la fine del periodo più buio e instabile della Repubblica. Ci furono
ancora degli scossoni, l'ultimo dei quali nel 1984 con la bomba del 23 dicembre sul
rapido Napoli-Milano (16 morti). Ma il peggio era ormai finito. Gli anni Ottanta furono,
in Italia, quelli della rinascita dei socialisti, emarginati dalla scena politica quando
primi attori erano la Dc e il Pci, e ritornati prepotentemente alla ribalta dopo il
fallimento del compromesso.
Dall'83 all'87 fu presidente del Consiglio Bettino Craxi, segretario del Psi. Furono,
quelli, gli anni di una rinascita economica del paese che si scoprì, in seguito, essere
fondata su basi non propriamente legali. Ma non anticipiamo, e fermiamoci invece a
leggere le pagine di "Questo Novecento" dedicate a un fatto di portata ben superiore
che coinvolse, e coinvolge tuttora, i destini del pianeta: la caduta dei regimi
comunisti. Motore della vicenda, come tutti sanno, fu l'elezione di Michail Gorbaciov
alla presidenza dell'Urss (1985). Da allora, la politica di Mosca mutò radicalmente:
basandosi sui concetti di glasnost e perestrojka (trasparenza e mercato), Gorbaciov
cominciò ad allontanarsi dai dogmi sovietici del socialismo reale e si avvicinò a
posizioni più liberali, incontrando ovviamente il favore degli Stati Uniti, governati a
quel tempo da Ronald Reagan.
Prese il via così l'atto finale della guerra fredda, che significò non solo
un'accelerazione verso il disarmo nucleare, ma l'inizio della dissoluzione della
galassia sovietica. Pian piano, gli stati legati dal patto di Varsavia si resero
indipendenti: cominciò "la Polonia - scrive Foa - già prima dell'arrivo di Gorbaciov e in
modo da imporre un serio ripensamento alla sinistra occidentale: i comunisti furono
pacificamente battuti da un movimento cattolico organizzato in un sindacato operaio
(Solidarnosc) diretto da un operaio elettricista (Walesa) e col cauto ma sostanziale
appoggio della Chiesa di Roma e del papa Karol Wojtyla (Giovanni Paolo II, salito al
soglio pontificio nel 1978, ndr), polacco e già arcivescovo di Cracovia".
L'anno cruciale, però fu il 1989. Nell'arco di pochi mesi - a partire da novembre,
quando a Berlino furono aperti i passaggi da Est a Ovest abbattendo a colpi di
piccone il famigerato Muro - tutti i paesi legati a Mosca si staccarono. La stessa
Unione Sovietica cessò di esistere, e gli Stati che la costituivano conquistarono
l'indipendenza.
Non fu un processo indolore, ma certamente fu meno tragico di tutte le rivoluzioni
che la storia ricordi. "La fine dell'Unione sovietica non era solo la fine di un impero
potentemente armato che aveva avuto una immensa influenza a livello planetario:
era anche la fine del comunismo, che era stato per lungo tempo (...) l'unica
alternativa pensabile al capitalismo. (...) La domanda è: quale è stato l'effetto di
questo sconvolgimento sulla politica italiana (...)? Il dopo comunismo è ancora tutto
da studiare".
Ottobre 1962, terrore sul mondo
L'Urss invia missili a Cuba, secco "no" Usa. Braccio di ferro, si rischia la guerra nucleare
LA ROULETTE RUSSO AMERICANA
di PAOLO DEOTTO
Ammesso (e non concesso) che qualche uomo di Stato abbia mai potuto credere ai
disinteressati aiuti nella politica internazionale, alle azioni dettate dalla fratellanza tra i popoli, et
similia, di sicuro uno dei più delusi sarà stato l'avvocato Fidel Castro, primo ministro di Cuba. Il
quale, nell'autunno del 1962, si trovò al centro di una partita a scacchi e si accorse di rivestire
solo l'umile ruolo della pedina, perché i due veri giocatori erano troppo importanti e ingombranti
per lasciare spazio ad altri. Si trattava dei signori John Fitzgerald Kennedy, presidente degli Stati
Uniti, e Nikita Sergejevic Kruscev, primo segretario del partito comunista sovietico e presidente
del consiglio dei ministri dell'URSS. Eppure il centro della partita era proprio l'isola di Cuba,
stato sovrano dove quindi, almeno in teoria, avrebbe dovuto comandare solo il governo cubano.
Ma erano gli anni della Guerra Fredda e le questioni politiche erano affari delle due
Superpotenze, ognuna delle quali aveva da tutelare il proprio dominio, alias area
d'influenza. Mai come in quei giorni il mondo trattenne il fiato, chiedendosi se si stesse
scivolando verso l'abisso del terzo conflitto mondiale: la televisione, ormai diffusa in
tutte le case, consentì a tutti di vivere quasi in diretta la Grande Paura. Se poi tutto si
concluse con la vittoria del buon senso, ciò fu dovuto a molti fattori.
Forse ora, a distanza di trentasette anni, col panorama politico mondiale radicalmente
cambiato, con le passioni ideologiche sopite, è possibile cercare di capire meglio cosa
accadde, e perché accadde. I fatti a cui ci riferiamo occuparono le cronache per un breve
periodo, precisamente da sabato 20 ottobre a domenica 28 ottobre 1962; ma le radici
erano ben più profonde. Quando si vive la paura che possa accadere un fatto
estremamente grave, è naturale difesa dell'animo umano l'aggrapparsi fino all'ultimo
alla speranza che giunga qualcosa che finalmente dissipi le nubi e consenta di
riacquistare la serenità.
Già dal 31 agosto di quel 1962 uno dei principali avversari dell'amministrazione
Kennedy, il senatore dello Stato di New York, Kenneth Keating, aveva annunciato in
una conferenza stampa di aver le prove della presenza a Cuba di installazioni
missilistiche e di personale militare sovietico; non era una gran novità, ma servì a
rinfocolare gli animi su una situazione che era comunque carica di tensioni.
La risposta di Kennedy, il 4 settembre, era tesa a ristabilire la calma: su Cuba c'erano
solo armi difensive, affermava il presidente, non esistevano quindi minacce per la
nazione americana e per i suoi vicini. Keating ribatté accusando il governo di tenere
atteggiamenti troppo morbidi contro il pericolo comunista, che stava rinforzando la sua
"base avanzata" nell'isola di Cuba. Non era forse vero che da quando, nel gennaio di
quell'anno, Cuba era stata espulsa dall' OSA (Organizzazione degli Stati Americani), i
sovietici avevano iniziato a dare al regime di Castro anche aiuti militari, oltre a quelli
economici che già fornivano? Cosa aspettava quindi il signor Presidente per risolvere la
questione di Cuba? O voleva tentare in gran segreto - di Pulcinella, magari - un'altra
fallimentare azione come quella che, il 17 aprile dell'anno precedente (1961) aveva visto
lo sbarco di qualche migliaio di esuli cubani nella Baia dei Porci ?
Quest'ultimo riferimento, in particolare, era il più sgradevole che il senatore
repubblicano potesse fare al presidente democratico. Ma era anche assolutamente vero:
infatti l'anno precedente, avendo la CIA assicurato che il popolo cubano si sarebbe
sollevato contro il regime castrista se dall'esterno fosse giunto un primo aiuto, Kennedy
aveva autorizzato un'operazione che si concluse con un disastroso fallimento. Gli esuli
anticastristi, addestrati da tempo in Florida e in Guatemala, non trovarono alcun
appoggio nella popolazione cubana e in tre giorni l'esercito poté sbaragliare gli invasori,
che erano sbarcati in una località di Cuba denominata Bahia de Cochinos (Baia dei
Porci).
La figuraccia costò il posto al capo della CIA, Allen Dulles, e diede a Fidel Castro
l'occasione di far bella figura, offrendo la restituzione dei prigionieri in cambio di viveri,
medicinali e trattori. Naturalmente questo episodio non fece che rafforzare i legami di
Cuba con l'Unione Sovietica, tanto da giustificare lo slogan di Fidel Castro: "Cuba no
està sola"; e da allora fu un crescendo di tensione, con il governo castrista che
accentuava sempre più le sue posizioni violentemente antiamericane, con l'isolamento
economico dell'isola decretato dagli Stati Uniti, con la già ricordata espulsione di Cuba
dall'OSA, con l'inizio degli aiuti militari sovietici, con le dichiarazioni di Kruscev, che
aveva facile gioco nel porsi a paladino dei diritti degli stati sovrani (l'invasione
dell'Ungheria era un ricordo ormai lontano... ).
In questo gioco di malafede reciproca, una sola cosa era chiara: nel cuore del continente
americano si era installato il comunismo. La goffaggine della CIA e del governo
americano lo avevano di fatto rafforzato. Cuba avrebbe rappresentato un episodio
isolato o si apprestava a diventare l'avamposto per esportare il comunismo nel resto del
continente che, piacesse o no, era area di influenza degli Stati Uniti? Dicevamo prima
che quando si vive la paura che possa accadere un fatto grave, è naturale difesa
dell'animo umano l'aggrapparsi fino all'ultimo alla speranza che giunga qualcosa che
finalmente restituisca la tranquillità.
Sabato 20 ottobre 1962, alle ore 19 di Washington, l'America, e il mondo intero,
ricevettero invece il pugno nello stomaco che in molti sapevano probabilissimo, ma che
tutti speravano non arrivasse mai. Il presidente Kennedy apparve in televisione per
annunciare che: "Questo governo ha mantenuto, come promesso, la più stretta
sorveglianza sul dispositivo sovietico nell'isola di Cuba. Nella settimana scorsa, in base a
prove irrefutabili, è stato accertato il fatto che una serie di basi militari a carattere
offensivo si stava allestendo in quell'isola. Scopo di queste basi non può essere altro che
quello di fornire la capacità di disporre di una forza di urto nucleare contro l'emisfero
occidentale... ".
Kennedy proseguì precisando che le basi missilistiche individuate tramite le foto scattate
dagli aerei U-2 erano probabilmente di due tipi, il primo per il lancio di missili balistici
in grado di colpire Washington, Panama, i centri del Messico e qualsiasi punto nel
settore sud-ovest degli Stati Uniti, mentre il secondo tipo poteva effettuare il lancio di
missili in grado di colpire la maggior parte delle città dell'emisfero occidentale, dalla
baia di Hudson in Canada, fino a Lima in Perù.
Dopo un riassunto delle più recenti vicende della crisi, il Presidente americano annunciò
in dettaglio le misure iniziali da lui decise. Era decretato l'embargo su tutto
l'equipaggiamento militare offensivo spedito via mare a Cuba: tutte le navi, di qualsiasi
nazionalità, dirette a Cuba sarebbero state oggetto di ispezione da parte degli americani
e, se trovate con a bordo carichi di armi offensive, rimandate indietro. Inoltre Kennedy
comunicava di aver dato disposizione alle forze armate di essere pronte ad ogni
eventualità qualora i preparativi militari cubani, continuando e accrescendo così la
minaccia all'emisfero, avessero giustificato altre azioni. La terza decisione era la più
drastica:
"Sarà politica della nostra nazione di considerare ogni missile nucleare lanciato da Cuba
contro qualsiasi nazione dell'emisfero occidentale come un attacco dell'Unione Sovietica
contro gli Stati Uniti, attaccò che comporterà una piena rappresaglia contro l'Unione
Sovietica."
Infine, veniva richiesta la convocazione del Consiglio di Sicurezza dell'ONU e
l'immediato smantellamento e il ritiro di tutte le armi offensive da Cuba, sotto il
controllo di osservatori dell'ONU; questa era la condizione per togliere l'embargo. In
seguito al suo discorso Kennedy ottenne quasi cinquantamila telegrammi di
congratulazioni dal mondo intero, ma iniziò anche a serpeggiare la paura: cosa sarebbe
accaduto se una nave sovietica fosse venuta a contatto con le forze americane addette al
blocco? Avrebbe accettato l'ispezione? Avrebbe reagito con le armi? E se il blocco fosse
stato forzato, il Presidente avrebbe ordinato di usare le armi? Avrebbe anche ordinato
un'invasione di Cuba, peraltro richiesta esplicitamente da non pochi rappresentanti
americani al Congresso?
I più pessimisti si convinsero che lo scoppio della terza guerra mondiale era questione di
giorni, se non di ore. Kennedy, nell'annunciare le misure adottate, aveva messo
completamente fuori del gioco Fidel Castro, chiarendo in modo molto esplicito che la
partita si giocava tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Tra l'altro, il messaggio
presidenziale comprendeva in chiusura proprio un appello a Kruscev e una
dichiarazione al popolo cubano, nella quale si manifestava il disappunto
dell'amministrazione americana per "il tradimento della vostra rivoluzione
nazionalista... i vostri capi non sono più capi cubani ispirati da ideali cubani, ma fantocci
e agenti di una congiura internazionale che ha spinto Cuba contro i suoi vicini e amici
delle Americhe...
"Fidel Castro non veniva mai nominato. Stranamente, il governo sovietico ci mise ben
tre giorni per elaborare la sua reazione ai provvedimenti americani; lo fece infatti con
una nota della Tass, agenzia ufficiale di informazioni del Governo Sovietico, che in data
23 ottobre affermava:
"... i circoli imperialisti americani non si fermano davanti a nulla nei loro tentativi di
sopprimere uno stato sovrano, un membro delle Nazioni Unite. Pur di ottenere questo
scopo essi sono pronti a gettare il mondo nell'abisso di una guerra catastrofica... Irridendo
cinicamente alle norme internazionali di condotta degli stati e ai principi della carta delle
Nazioni Unite, gli Stati Uniti hanno usurpato il diritto e proclamano di attaccare navi di
altri stati in alto mare, di intraprendere atti di pirateria. I circoli imperialisti degli Stati
Uniti cercano di imporre a Cuba quale politica essa deve seguire, quale ordine interno deve
essere stabilito, quali armi essa deve avere per la sua difesa... I dirigenti degli Stati Uniti
devono comprendere che i tempi sono del tutto mutati. Soltanto dei pazzi insistono su una
politica da posizioni di forza e ritengono che questa politica avrà successo... ".
La durezza dell'attacco sferrato alla politica di Kennedy era scontata. Peraltro la nota
della Tass, proseguendo nei suoi toni abbastanza apocalittici, faceva solo un cenno molto
rapido alla materia del contendere, ossia ai missili:
"... Le armi nucleari, che sono state create dal popolo sovietico e sono nelle mani del
popolo, ma non saranno mai usate a scopo aggressivo... " .
In altre parole, non si negava l'esistenza di queste armi, ma parve a diversi osservatori
che un primo spiraglio di speranza potesse essere rappresentato proprio da questa frase
che, in un contesto di estrema violenza verbale, poteva sembrare una rassicurazione,
nonché dal fatto che l'URSS, dopo tre giorni, non aveva in fondo fatto altro che una
reazione verbale, su toni che, come dicevamo, nessuno si aspettava dolci e concilianti, ma
che comunque potevano definirsi di repertorio.
La situazione però era tutt'altro che risolta. Le prime navi sovietiche in navigazione
verso Cuba avrebbero potuto incappare nel blocco navale, fissato da Kennedy a 500
miglia da Cuba, verso il mezzogiorno del giorno seguente, 24 ottobre. A quel momento,
cosa sarebbe accaduto? Mentre da Cuba Fidel Castro, in un chilometrico discorso, si
scagliava con i peggiori epiteti contro gli Stati Uniti, l'azione si era spostata all'ONU,
dove i delegati americano, Stevenson, e sovietico, Zorin, ebbero un violento alterco, nel
corso del quale Zorin si rifiutò di rispondere a Stevenson, che aveva portato con sé le
foto eseguite dagli aerei spia e chiedeva al delegato sovietico se questi negasse o
confermasse la presenza su Cuba di installazioni per armi offensive.
Il "tono da pubblico accusatore" usato dall'americano aveva infastidito il sovietico, che
"si trovava al suo posto all'ONU e non in un processo davanti a un tribunale americano..."
Il segretario generale dell'ONU, il birmano U Thant, cercò di intervenire nella crisi,
proponendo alle parti semplicemente una tregua di una settimana nelle rispettive azioni,
in modo tale da consentire un più approfondito contatto e una discussione. Ma la sua
proposta cadde nel vuoto.
Nel frattempo il mondo continuava a vivere l'altalena fra la speranza e la paura: nel
pomeriggio del 24 giunse la buona notizia che alcune navi sovietiche si erano fermate
prima della zona del blocco, mentre altre avevano addirittura invertito la rotta. Una sola
nave non si era fermata, la petroliera Bucarest, ma da Washington era giunta
l'autorizzazione al passaggio dopo che la ricognizione aerea aveva stabilito che a bordo
non vi era che petrolio. Il temuto contatto tra navi sovietiche e statunitensi era quindi, al
momento, evitato, ma restava un altro grave problema: la sorveglianza su Cuba aveva
accertato che i lavori sull'isola non solo non si erano fermati, ma addirittura erano in
accelerazione. La minaccia quindi continuava ad esistere, né Kennedy poteva far marcia
indietro sulle richieste formulate col messaggio del 20 ottobre, che diceva chiaramente
che lo smantellamento delle postazioni missilistiche di Cuba era condizione per la fine
del blocco navale.
Se a Cuba i lavori di allestimento erano in accelerazione, negli USA aumentava la
popolarità della proposta dei falchi, particolarmente sostenuta dall'ex segretario di Stato
Dean Acheson, di attaccare dall'aria l'isola e procedere poi all'invasione terrestre, per
distruggere le basi che ormai erano, a quel punto, quasi completate.
Il blocco navale aveva avuto successo, questa era la tesi dei falchi, ma non era
sufficiente, perché comunque da Cuba potevano già partire i temuti missili nucleari. Le
colombe, che avevano nel segretario alla Difesa, McNamara e nel fratello del Presidente,
Robert, i loro più illustri rappresentanti, replicavano che invece bisognava resistere sul
blocco, che aveva già causato i primi cedimenti da parte sovietica, mentre un'invasione
di Cuba avrebbe di fatto costretto l'URSS a intervenire direttamente; e un evento di
questo tipo avrebbe avuto un solo nome: Terza Guerra Mondiale.
Si era così giunti al mattino di giovedì 26 ottobre 1962. Lo scontro navale sovietico americano era ormai definitivamente scongiurato; due navi avevano superato il blocco
col consenso degli americani (si trattava di una nave passeggeri proveniente dalla
Germania Est e di una nave da carico libanese che per conto dei sovietici trasportava
materiale non bellico, come poterono accertare i militari americani, ai quali il capitano
della nave consentì l'ispezione a bordo), e Kruscev comunicò al segretario dell'ONU U
Thant: "Ho dato ordine ai comandanti delle navi in navigazione verso Cuba, ma non
ancora giunte nell'area delle attività piratesche delle unità da guerra americane, di tenersi
al di fuori dell'area di intercettazione".
Il capo del Cremlino manteneva i toni aspri, e voleva presentarsi come l'uomo di pace;
ma la sostanza era comunque una sola: la determinazione dell'amministrazione
Kennedy aveva avuto i suoi effetti, quantomeno bloccando gli ulteriori rifornimenti
militari a Cuba. Si dice, e si disse, che allora il mondo e il governo americano vissero ore
drammatiche.
Diviso tra le opinioni dei falchi e delle colombe, il Presidente Kennedy rischiava
pericolosamente di propendere per le proposte di invasione di Cuba, perché le
ricognizioni aeree confermavano che comunque sull'isola le potenzialità aggressive
erano giunte al massimo e il successo del blocco navale poteva quindi servire solo a
limitare l'autonomia di queste potenzialità. Tuttavia quando si gioca con le armi
nucleari, ne bastano ben poche per scatenare una catastrofe.
Ma vorremmo ora guardare la situazione anche dal punto di vista di Kruscev. Il
premier sovietico aveva veramente in mano il pallino a quel punto, con tutto il relativo
carico di angoscia che ciò comportava. I servizi informativi sovietici, rinomati per la loro
efficienza, avevano stabilito che l'attacco americano all'isola sarebbe scattato lunedì 29
ottobre, o al più tardi il giorno successivo. Kruscev, capo di quella strana monarchia
assoluta non dinastica che era il potere sovietico, non aveva, a differenza di Kennedy,
un'opinione pubblica a cui rispondere, ma in compenso aveva una opinione interna al
Cremlino, ben più pericolosa e infida, che non avrebbe certo consentito di non dare
risposta ad un'invasione americana di Cuba. Ma anche Kruscev non ignorava che quella
era una strada senza ritorno.
Non vogliamo certo dare del capo sovietico un'immagine da cherubino; se fosse stato
tale non avrebbe saputo scalare il potere a Mosca, non avrebbe saputo reprimere con
assoluto cinismo la rivolta ungherese. Ma l'Ungheria era un campicello privato
dell'URSS (e infatti il mondo occidentale si sdegnò tanto, ma non mosse un dito in aiuto
degli insorti di Budapest... ). Qui si trattava invece di decidere se far scoppiare o no una
guerra con gli Stati Uniti, ossia una guerra mondiale.
Di fatto era l'URSS che poteva ancora salvare la situazione; gli americani erano in un
vicolo cieco, perché il mancato smantellamento delle basi cubane li obbligava ad andare
fino in fondo.E, per fortuna dell'umanità, Kruscev seppe decidere con buon senso.
Nella sera del 26 ottobre, mentre era riunito il comitato di consiglieri di Kennedy, giunse
a quest'ultimo una missiva riservata del leader sovietico, con la quale Kruscev,
abbandonati i toni aggressivi abituali, ammetteva la presenza dei missili a Cuba e si
dichiarava disposto al ritiro di tutte le armi offensive se gli Stati Uniti avessero tolto il
blocco e avessero garantito di rinunciare ad aggredire l'isola. Era un lettera scritta
chiaramente sotto la spinta dei sentimenti e piena di accorati appelli perché venisse
scongiurata la guerra.
Ma ci fu ancora un brusco colpo di scena: il mattino del giorno successivo, mentre la
Casa Bianca elaborava la risposta da dare a Kruscev, questi fece pervenire una seconda
lettera, assolutamente diversa. Mosca proponeva infatti uno scambio: lo smantellamento
delle basi a Cuba a fronte di un analogo smantellamento delle basi americane in
Turchia. Era la ripresa di una proposta formulata due giorni prima dal giornalista
Walter Lippman sul Washington Post, che a sua volta aveva ripreso un'analoga idea che
Stevenson, delegato americano all'ONU, aveva già suggerito in privato a Kennedy, che
peraltro l'aveva bocciata. Era una doccia fredda inaspettata, ma con tutta probabilità
Kruscev si era scontrato con quella che definivamo opinione privata al Cremlino, che lo
obbligava a mostrare i muscoli.
Di nuovo la situazione tornava sull'orlo dell'abisso, con i falchi americani che
riprendevano vigore e chiedevano un'adeguata risposta militare ai falchi del Cremlino.
Fu Robert Kennedy, che si mostrò come sempre il più fedele e assennato collaboratore
del Presidente, a trovare la quadratura del cerchio suggerendo, molto semplicemente, di
ignorare la seconda lettera di Kruscev ed affrettarsi a rispondere positivamente alla
prima. E fu ciò che fece il Presidente americano:
"Egregio Signor Primo Segretario... gli elementi chiave delle sue proposte, che sembrano
in linea generale accettabili così come io le ho capite, sono i seguenti: ella accetterebbe di
eliminare questi apparati bellici da Cuba sotto un controllo e una supervisione appropriata
delle Nazioni Unite, e si impegnerebbe, con convenienti salvaguardie, a sospendere
l'ulteriore introduzione a Cuba di simili apparati bellici. Noi da parte nostra accetteremmo,
una volta fissati adeguati accordi tramite le Nazioni Unite diretti ad assicurare
l'applicazione e la continuazione di detti impegni, di sospendere prontamente le misure di
blocco ora in vigore e di dare garanzie contro una invasione di Cuba".
Il messaggio in chiusura enfatizzava dovutamente le responsabilità che incombevano su
Kruscev, al quale la Storia dava la possibilità di essere l'uomo che avrebbe salvato la
pace mondiale. E si giunse così a Washington alla sera di quel sabato 27 ottobre 1962.
Riuscirono a dormire gli uomini di governo americani? Questo la storia non ce lo dice,
ma di sicuro ognuno di loro viveva un'ansiosa attesa. Ricordiamoli un attimo: essi erano
Dean Rusk, segretario di Stato, Robert Kennedy, ministro della giustizia e soprattutto,
di fatto, ascoltato consigliere del presidente, Robert McNamara, ministro della difesa,
Maxwell Taylor, comandante generale delle forze armate, Lyndon Johnson,
vicepresidente, John McCone, direttore della CIA, Adlai Stevenson, delegato americano
all'ONU, Dean Acheson, ex segretario di Stato e consigliere per gli affari internazionali.
Questi uomini sapevano di aver ributtato in mano al Cremlino la patata bollente, né
potevano fare altrimenti: ora potevano solo aspettare con trepidazione la risposta di
Kruscev, chiedendosi se questi avrebbe potuto tener testa al partito, interno al
Cremlino, di quanti ormai propendevano anche a Mosca per lo scontro frontale. Se
Kruscev fosse ritornato sulle proposte formulate nella seconda lettera (lo
smantellamento delle basi americane in Turchia), volutamente ignorata dal governo
americano, non c'era altra via che dar fuoco alle polveri.
Ma il mattino di domenica 28 ottobre 1962 il mondo poté finalmente tirare il fiato. Dal
Cremlino arrivò il messaggio del leader sovietico, che aveva colto al volo l'opportunità di
salvare la faccia, tirandosi fuori da una situazione che stava precipitando. Kruscev era
stato al gioco: gli americani ignoravano la sua seconda lettera, e lui si scordava di averla
scritta. Il suo messaggio era conciliante e risolutivo:
"Egregio Signor Presidente, esprimo la mia soddisfazione e la mia riconoscenza per il
senso della misura e la comprensione da Lei mostrati per la responsabilità che incombe su
di me attualmente ai fini del mantenimento della pace in tutto il mondo... Io considero con
rispetto e fiducia la sua dichiarazione contenuta nel suo messaggio del 27 ottobre, secondo
cui nessun attacco sarà lanciato contro Cuba e non vi sarà invasione...In considerazione di
ciò, non sussistono più i motivi che ci avevano indotto a fornire aiuti di questa natura a Cuba...".
Infine, la comunicazione più importante: "... abbiamo dato istruzioni ai nostri ufficiali (questi
mezzi, come Ella sa, si trovano nelle mani di ufficiali sovietici) di arrestare la costruzione delle
installazioni sopra indicate, per smantellarle e rispedirle in Unione Sovietica. Noi siamo pronti ad
accordarci con Lei affinché i rappresentanti dell'ONU possano verificare quanto sopra... "
Era finita; ma gli ultimi bastoni fra le ruote li mise un inviperito Fidel Castro, che fece tutto
quanto era possibile per rendere impossibile la vita a U Thant, che si era recato a Cuba il 30
ottobre per iniziare le verifiche sugli adempimenti previsti dagli accordi Kennedy - Kruscev. Il
leader cubano, estromesso dal gioco, ignorato dagli americani e trattato come un vassallo dai
sovietici, cercò la sua rivincita impedendo di fatto al segretario generale dell'ONU di effettuare le
ispezioni. Toccò allora al vice presidente del Consiglio sovietico, Anastasij Mikoyan, di iniziare
una lunga spola con Cuba, per ricordare all'iracondo Castro alcune elementari verità: Mosca
assicurava l'assorbimento della produzione agricola di Cuba, stretta dal blocco economico
decretato dagli Stati Uniti, al quale si erano associati molti altri paesi occidentali.
Mosca pagava, e quindi a Mosca bisognava obbedire. E Fidel Castro dovette ingoiare l'amaro
boccone, anche se riuscì fino all'ultimo a rendere difficoltosa l'ispezione internazionale, tant'è
che i sovietici, per adempiere comunque agli accordi, accettarono che le loro navi da carico, che
ora facevano la spola inversa a quella fatta mesi prima, mostrassero il materiale agli elicotteri
americani, scoprendo i teloni quando venivano sorvolate a bassa quota. Restò ai cubani la
vendetta verbale; e dopo aver definito strip-tease sovietico la procedura di ispezione dall'alto
che descrivevamo sopra, coniarono anche uno slogan che recitava: "Nikita mariquita, lo que se
da no se quita", cioè "Nikita, vigliacco, ciò che si dà non si toglie".
Peraltro la fine ingloriosa del riarmo cubano non impedì a Fidel Castro di effettuare, nell'aprile
1963, la già programmata visita a Mosca. Il vassallo poteva essere riottoso, indisciplinato fino a
un certo punto, ma non poteva scordare l'indirizzo del Re. Resta da chiedersi perché i sovietici
dettero i missili a Cuba, apparendo un po' debole la versione del Cremlino, che qualche
settimana dopo la conclusione della crisi dichiarò che quegli armamenti erano stati chiesti dagli
stessi cubani. Ma se molte cose si potevano e si possono rimproverare a Castro, di sicuro egli
non è uno stupido; di sicuro non pensava di poter, dalla sua isoletta, mettersi in guerra con gli
Stati Uniti.
L'imponenza degli impianti che si stavano allestendo a Cuba, e il loro carattere
indubbiamente offensivo, rende più credibile la versione del leader dell'Avana, che
dichiarò che i cubani avevano accettato di ricevere i missili sul loro territorio su
richiesta dei sovietici. Aldilà della giustificazione ufficiale di questa richiesta (fatta in
nome del socialismo internazionale) appare infatti più credibile che il governo sovietico,
dopo la figuraccia rimediata dall'amministrazione Kennedy con l'impresa della Baia dei
Porci, avesse pensato che era giunto il momento per fissare un avamposto nel mondo
capitalista.
Probabilmente non un avamposto per azioni belliche, ma di certo un ottimo strumento
di pressione per i futuri rapporti internazionali e una dimostrazione di forza notevole.
Sbagliarono i conti, né seppero prevedere la determinazione di Kennedy. Ma se oggi
possiamo scrivere queste note, se il mondo non precipitò nella catastrofe nucleare,
bisogna riconoscere ai dirigenti sovietici dell'epoca, in tante altre occasioni cinici e
brutali, di aver saputo anche riconoscere il proprio errore e di aver saputo far marcia
indietro prima che fosse troppo tardi, pur se indubbiamente favoriti dall'atteggiamento
americano che, come ricordavamo sopra, aprì lo spiraglio a Kruscev per salvare la
faccia.
Nessuno di fatto voleva la guerra tra i due imperi, perché a tutti era chiaro che una
guerra nucleare avrebbe voluto dire lo sterminio dell'umanità; e forse proprio l'esser
giunti a un passo dall'orrore aiutò gi uomini di Stato dell'epoca a capire le terribili
potenzialità che avevano tra le mani, perché dopo la crisi dei missili di Cuba iniziò la
politica della coesistenza pacifica, ossia, per dirla brutalmente, ognuno si faccia i fatti
propri, a casa propria, senza però mettere in pericolo l'esistenza stessa del genere
umano.
Che poi il concetto di casa propria fosse un po' largo (qualche anno dopo la
Cecoslovacchia se ne sarebbe accorta... ) faceva parte dell'immoralità di fondo di un
sistema che vedeva due blocchi imperiali contrapposti, consci della possibilità di
convivere, facendosi al massimo i dispetti, ma soprattutto con la preoccupazione di
tenere a bada ciascuno i propri vassalli.
Ora viviamo in un mondo che non ha più blocchi contrapposti; il potere comunista si è
sgretolato da solo e la Casa Bianca gode di una potenza a livello planetario, che le ha
consentito "umanissime" avventure come le guerre contro la Serbia e l'Irak. Chi scrive
non ha mai nutrito simpatie per il sistema comunista. Ma una domanda sorge
spontanea: è davvero migliorata la situazione nel mondo?
di PAOLO DEOTTO
Quando ci fu la "Crisi di Cuba" lo smantellamento in Italia delle rampe di missili rivolte verso
l'URSS,
fu il (segreto) prezzo pagato da Kennedy a Krusciov.
di Marco Brando
Palazzo Chigi, 44 anni fa, scelse di mantenere un terribile segreto: sui cinquanta megatoni
ospitati nel Tacco d'Italia. La prova? « It clearly makes no sense to continue to classify the
existence of the Jupiters and their locations, but the Italian Government seem to want it that way
for political reasons » .
Lo scrisse il 18 settembre 1961 Alan G. James, funzionario dell'Ufficio per gli Affari europei del
Dipartimento di Stato Usa, in un rapporto finora inedito.
Traduzione: « Non ha evidentemente senso continuare a mantenere segreta l'esistenza degli
Jupiter e il loro dislocamento, ma il governo italiano sembra volere questo per motivi politici » .
Cinquanta megatoni sono, nelle scala della guerra nucleare, equivalenti a 50 milioni di tonnellate
di tritolo; e alla potenza di 3.500 bombe atomiche uguali a quella che nel 1945 distrusse
Hiroshima, in Giappone, uccidendo 127.000 persone. Quei megatoni, all'inizio degli anni ' 60,
costituivano la potenza di trenta missili statunitensi Jupiter dislocati in Puglia. Pronti ad essere
lanciati verso l'Urss e i Paesi del blocco sovietico. Da dieci siti, nel raggio di 45 chilometri
dall'aeroporto militare di Gioia del Colle.
Quel rapporto, custodito dagli archivi statunitensi del NSA ( National Security Archive) e ora
desegretato, racconta la storia dei missili allineati da Nord Ovest a Sud Est, tra Spinazzola,
Gravina, Acquaviva delle Fonti, Altamura, Irsina, Matera, Laterza, Mottola.
Circostanza di cui s'era a conoscenza ufficiosamente, ma sempre coperta dal segreto di Stato e
con contorni poco nitidi.
Nel 1999, sulla Gazzetta del Mezzogiorno, ne scrisse Giorgio Nebbia, professore emerito di
Merceologia a Bari e padre dell'ecologismo italiano:
« La storia è stata raccontata con grandi dettagli, ricavati dai documenti segreti militari, resi
accessibili grazie ad una speciale legge americana sulla " Libertà di accesso alle informazioni" »
.
Di recente è tornato sull'argomento il professor Nicola Pedde, direttore di Global Research :
«Dall'archivio Usa esce un interessante documento storico nel quale per la prima volta si parla, e
si descrive nel dettaglio, della gestione dei missili Jupiter dislocati in Puglia » .
Siamo riusciti a ritrovare le copie fotostatiche del documento partendo da una traccia lasciata
nel sito di Peacelink ( http:// italy. peacelink. org), in una nota all'articolo di Nebbia; siamo quindi
risaliti alsito www. gwu. edu/~ nsarchiv/ nsa/ NC/ nuchis. html ( Nuclear History at the National
Security Archive ) della George Washington University.
Il rapporto di James ( intitolato « Note del mio viaggio presso i siti italiani degli Jupiter » ) spiega
tutto nei dettagli, compresa la contrarietà del terzo Governo Fanfani con ministro della Difesa
Giulio Andreotti a divulgare il segreto.
Era il 1960 quando i missili iniziarono a giungere in Puglia, dagli Stati Uniti, nella distrazione
generale. La storia racconta Nebbia « era cominciata nel settembre 1958, quando gli americani,
allora era presidente Eisenhower, insistettero presso il governo italiano perché accettasse
testate nucleari in grado di colpire l'Urss e paesi satelliti come Albania, Romania, Bulgaria » . « I
militari americani spiega erano meno di quattrocento » .
Poi, all'inizio del 1961, a Eisenhower successe Kennedy, con una politica di distensione nei
confronti dei sovietici. Nell'ottobre 1962 gli americani scoprirono che una nave russa stava
portando missili nucleari a Cuba. Nebbia: « Kennedy minacciò la guerra contro l'Urss. Ci furono
frenetici contatti fra Kennedy e Krusciov. Intervenne anche Papa Giovanni XXIII: alla fine i missili
sovietici tornarono indietro e l'America si impegnò a ritirare gli Jupiter da Puglia e Turchia » .
«Curiosamente aggiunge il professor Pedde l'aver mantenuto i missili costantemente armati ed
averne condiviso le procedure di lancio con gli italiani, costituiva una violazione dell'Atomic
Energy Act, così come esplicitamente ricordato dallo stesso autore del documento
recentemente declassificato » .
Nel rapporto James riferiva dunque la storia del modo in cui furono piazzati gli Jupiter IRBM
presso la 36 ° Aerobrigata d'Interdizione strategica. L'addestramento degli italiani fu svolto nella
base Usa di Lackland. I missili furono portati in Puglia con dieci voli dagli Stati Uniti, tra l' 1
aprile e il 10 giugno 1960. « Gioia scrisse il funzionario è il centro di controllo. A Gioia c'è un
precedente piccolo aeroporto Nato, comandato da un brigadiere generale italiano e da un
colonnello dell'Us Air Force » .
Raccontò che il personale americano è di stanza per lo più a Taranto, a « 50 minuti d'auto da
Gioia». In caso di emergenza, i militari Usa hanno a disposizione alloggi in sede.
I missili erano entro il raggio di 10/ 30 miglia da Gioia, in dieci siti che ospitavano, ciascuno, tre
ordigni: « Alcuni sulle colline, altri nei campi deserti, uno molto vicino alla linea ferroviaria e
visibile dalla strada » . « I carabinieri perlustrano sporadicamente i boschi e i campi intorno alla
basi, ma di solito non c'è perlustrazione fuori dalla doppia recinzione » . « Nessun testata
nucleare è attualmente immagazzinata a Gioia; sono tutte sui trenta missili » .
A Gioia, James vide « la costruzione destinata a custodire le testate » : « una struttura in
cemento armato quadrata, situata a non più di cento yarde ( 90 metri, ndr ) dalla pista di
atterraggio... Penso che per sicurezza potrebbe essere posta più lontano dalla pista » .
Ogni installazione era custodita da due ufficiali Usa e da due aviatori italiani. Con turni di 48 ore.
Per il funzionario, i turni degli italiani non erano gestiti in maniera efficiente. Comunque « tutte le
posizioni possono ricevere simultaneamente le istruzioni » .
James descriveva la procedura di lancio, delegata a due ufficiali uno italiano e uno americano
attraverso chiavi separate. « Ma per il supporto tecnico gli italiani sono pesantemente dipendenti
da noi » , scriveva. Insomma, non erano in grado di lanciare i missili autonomamente. Anche se i
nostri ufficiali erano considerati competenti sul piano teorico, « alcuni a livello di quelli
americani » .
James era però preoccupato per quel sarebbe potuto succedere in caso di situazioni
d'emergenza o di un incidente: anche perché la gente comune ufficialmente non doveva sapere
nulla dei missili, a causa delle scelte del Governo italiano: « Naturalmente è una situazione
anomala, perché gli italiani sanno chiaramente che ci sono: emerge quando i mezzi si muovono,
in occasione di imprevisti e durante l'esercitazioni per prevenire incidenti nucleari » .
E c'erano rischi: « sebbene la custodia da parte italiana sia ben effettuata » , i missili «
rimangono vulnerabili al sabotaggio » . James ipotizzava una più intensa vigilanza da parte dei
carabinieri nelle zone adiacenti: « Un sabotatore potrebbe colpire i missili anche con un colpo di
fucile... Un piccolo aereo veloce potrebbe penetrare e colpirne uno o due. E nelle vicinanze non
c'è alcuna difesa antiaerea » .
« Non ho idea di quali siano le probabilità che questo possa accadere » , scrisse il funzionario.
Con un finale agghiacciante: « Riassumento, i nostri soldati e gli italiani stanno correndo dei
rischi, visto dove sono poste le basi; ma è un rischio calcolato e non può essere così serio da
mettere in discussione l'essenziale utilità degli Jupiter » . Firmato: Alan G. James ( segret).
Per fortuna, finita la crisi cubana con l'Urss, nel giro di poco tempo i poligoni pugliesi furono
smantellati. Alla fine di giugno 1963 non rimasero che i ruderi. E restò pure, nella coscienza di
tanti che conoscevano il segreto ( italiani e americani), la consapevolezza del rischio terribile e
dell'apocalittico ordigno « ospitato » in Puglia.
Marco Brando
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