Paradiso – Canto II - comunita` digilander

Paradiso – Canto II
O lettori, che in una piccola barca (cioè dotati di una intelligenza e di una cultura inadeguate
all’altezza di contenuto della terza cantica), desiderosi di ascoltare (il mio canto), avete seguitola
nave
del
mio
ingegno
che
cantando
si
apre
un
varco,
ritornate ai luoghi dai quali siete partiti: non arrischiatevi ad entrare in mare aperto, perché, forse,
non
avendo
la
forza
necessaria
per
seguirmi,
vi
trovereste
smarriti.
L’acqua che mi accingo a solcare non è mai stata percorsa da alcuno: Minerva (dea della sapienza)
col suo fiato gonfia le vele della mia nave, e Apollo (dio della poesia) è il mio nocchiero e le nove
Muse (protettrici delle scienze e della tecnica artistica) mi mostrano la direzione indicandomi l’Orsa
Maggiore
e
l’Orsa
Minore.
(Invece) voi pochi che fin da giovani rivolgeste la mente alla scienza delle cose divine, della quale
sulla terra ci si può nutrire ma senza potersi mai saziare (come, invece, avviene in cielo ),
voi sì potete spingere per il mare profondo il naviglio (della vostra intelligenza), seguendo la scia
(sollevata
dalla
mia
nave)
prima
che
l’acqua
torni
ad
appianarsi.
Gli Argonauti che varcarono il mare per recarsi nella Colchide non si meravigliarono, quando videro
Giasone trasformarsi in contadino, nella misura in cui vi meraviglierete voi (di fronte alle mirabili
cose che io vi esporrò).
Dopo l'invocazione ad Apollo e alle Muse nel primo canto (versi 13-18) nella quale l'orgoglio per la
complessità della materia trattata si accompagnava alla trepidazione e alla umiltà per la coscienza
delle proprie forze limitate - l'ammonimento ai lettorì, nell'esordío del secondo canto, riporta con
decisa fermezza l'accento sul carattere trascendentale dell'argomento (un vasto pelago) e
dell'ispirazione (essa cantando varca un'acqua che già mai non si corse), nonché sulla sublime
solitudine nella quale si trova il Poeta, che apre per primo il solco in mare aperto (e il latinismo
dell'espressione alto sale ribadisce il carattere aristocratico della poesia della terza cantica). A
questo "senza dubbio orgoglio dei proprìo « ingegno » di poeta, ma anche esaltazione di credente
che ha la messianica certezza di essere il vate designato da Dio a illuminare i piccoli mortali. L'arduo
cimento a cui egli ora si accinge richiama l'immagine dei navigare che, già apparsa all'inizio del
Purgatorio (I, 1-3), qui attínge la sua più alta forza espressiva, dando drammatica consistenza
all'ideale ardimento per cui il Poeta si lancia con la fantasia là dove si sente vertiginosamente solo
tra
gli
uomini..."
(Grabher).
Questa rotta ideale verso il cielo potrà essere seguita solo da un picco, lo stuolo di accompagnatori,
perché essa presuppone il possesso della scienza teologica, del pan delli angeli (l'espressione è
biblica: cfr. Salmo LXXVIII, 25; Sapienza XVI, 20), alla quale bisogna drizzare per tempo la mente.
Infatti "tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere... Veramente da questa nobilissima
perfezione molti sono privati per diverse cagioni... Oh beati quelli pochi che seggiono a quella mensa
dove lo pane de li angeli si manuca [si mangia]! e miseri quelli che con le pecore hanno comune
cibo!" (Convivio I, I, 1-7). Per la seconda volta (cfr. anche canto I, versi 5-9), quindi, Dante richiama
l'attenzione dei lettori sul fatto che la poesia del Paradiso è una poesia per « iniziati », per i pochi,
cioè, che per dottrina e spiritualità sapranno vedere in essa l'espressione dell'ineffabile.
A concludere questo nuovo proemio, che non a torto il Sanesi definisce "trionfale", "si presenta a
Dante, spontaneo, non come fredda reminiscenza erudita, ma come rinnovellamento quasi
necessario di un fatto eroico rivìssuto dal Poeta con intirno fervore e con accesa passione" (Sanesi),
il famoso mito degli Argonauti. Essi, per conquistare il favoloso vello d'oro, si diressero dalla Grecia
verso la CoIchide. Qui giunti, videro il loro capo. Giasone, trasformarsi, per portare a buon termine
l'impresa, in contadino, arando un campo con buoi spiranti fiamme e seminandovi poi denti di
serpente, dai quali nascevano uomini armati (Ovidio - Metamorfosí VII, 100 sgg.).
Il desiderio innato è incessante dell’Empireo, il cielo che riceve la sua forma da Dio, ci portava (in
alto) veloci quasi come vedete (girare veloce) il cielo stellato (nel suo moto intorno alla terra).
Beatrice fissava lo sguardo in alto, ed io fissavo il mio in lei; e forse nel tempo in cui una freccia è
posta sulla corda dell’arco e vola dopo essersi staccata dall’osso della balestra,
mi vidi giunto dove una cosa meravigliosa attrasse a se i miei occhi; e perciò Beatrice, alla quale
nessun
mio
pensiero
poteva
rimanere
nascosto,
voltasi verso di me, con espressione tanto lieta quanto bella, mi disse: “ Innalza con riconoscenza la
tua
mente
a
Dio,
che
ci
ha
fatto
giungere
al
cielo
della
Luna”.
Mi sembrava che fossimo avvolti da una nube luminosa, densa, compatta e liscia, simile a diamante
colpito
dalla
luce
del
sole.
Quella gemma incorruttibile ci accolse dentro di se, come l’acqua riceve, senza che la sua superficie
si
rompa,
un
raggio
di
luce.
Dante e Beatrice giungono nel primo dei nove cieli fisici che costituiscono con il decimo, l'Empireo,
cielo solo spirituale, la cosmologia paradisiaca. Ogni cielo, formato da uno strato di materia diafana,
. contiene un pianeta o, come l'ottavo, stelle fisse, che si presentano come materia lucida, spessa,
solida e pulita (cfr. verso 32). Allorché Dante afferma di passare da un cielo all'altro, egli intende
riferirsi al passaggio da un pianeta all'altro, in un ritmo ascensionale continuo che scandirà il suo
progressivo avvicinarsi a Dio. Sarà proprio la luminosità dei cieli, oltre che il sorriso e la bellezza
sempre più splendenti di Beatrice e delle anime beate, a segnare questa spirituale progressione che,
di luce in luce, porterà Dante al lume in forma di rívera fluvido di fulgore (Paradiso canto XXX, versi
61-62),
il
quale
aprirà
al
Poeta
la
visione
totale
dell'Empireo.
Poiché io ero un corpo, e poiché sulla terra non è pensabile che una materia estesa possa
compenetrarsi con un’altra (senza spezzarne la compattezza), il che avviene di necessità se un corpo
penetra
in
un
altro,
(questo prodigio) dovrebbe maggiormente accendere in noi il desiderio di contemplare (in cielo)
l’essenza di Cristo, nella quale si vede come la natura umana si sia compenetrata con la natura
divina.
In cielo vedremo quei misteri che ora accettiamo per fede, ma saranno noti per la loro evidenza
immediata, non perché dimostrati razionalmente, come i principi fondamentali che l’uomo crede ( per
intuizione,
senza
poterli
dimostrare
)
.
Io risposi: “ Madonna, con la maggior devozione possibile, ringrazio Dio che mi ha allontanato dal
mondo
mortale
Ma ditemi: che cosa sono le macchie scure della superficie lunare, le quali laggiù sulla terra fanno
credere
agli
uomini
che
si
tratti
di
Caino?
Con un'arida formula di passaggio, che sembra allontanare la prima parte del canto, sorretta da un
fortissimo slancio spirituale, dalla seconda, che si offre, all'inizio, come momento di pausa narrativodidascalica (ma ditemi: che son...), è introdotta una lunga disquisizione sulla causa delle macchie
lunari. Il Poeta presenta dapprima l'opinione comunemente diffusa tra il popolo, che vede in quelle
macchie la figura di Caino, il quale, dopo l'uccisione di Abele, sarebbe stato trascinato da un vento
impetuoso sulla Luna, e condannato a trasportare sulle spalle per tutta l'eternità un fascio di spine
(cfr. Inferno canto XX, verso 126). Ma Beatrice neppure si preoccupa di confutare questa posizione:
le basta, pur sottolineando la validità della conoscenza razionale quando esamina ed elabora il dato
fornito dall'esperienza, rilevare i limiti dell'umana ragione, anche quando essa si mantiene
nell'ambíto della scienza naturale. Respinta la credenza popolare, Dante avanza la prima spiegazione
scientifica, ampliando contemporaneamente il problema: le zone di diversa luminosità che appaiono
nella materia lucida e compatta dei corpi di qua su dipendono dalla diversa rarità e densità delle
sfere celesti (versi 59-60). Questa teoria, dal Poeta accettata nel Convivio (II, XIII, 9), era stata esposta
da
Averroè
nel
De
substantia
orbis.
Beatrice sorrise alquanto. e poi mi disse: “ Se la conoscenza dei mortali sbaglia là dove i sensi non
offrono
la
chiave
capace
di
aprire
(la
porta
alle
verità
soprasensibili
),
ormai non dovrebbero davvero più pungerti gli strali della meraviglia, dal momento che vedi come la
ragione
seguendo
i
sensi
può
compiere
solo
un
breve
cammino
.
Ma dimmi quello che pensi per conto tuo di queste macchie”. Ed io: “ Ciò che a noi (sulla terra)
appare variamente luminoso nelle sfere celesti, credo dipenda dalla diversa rarità o densità della
materia
di
questi
corpi
“
Ed ella: “ Senza’ dubbio riconoscerai che la tua opinione è profondamente erronea, se ascolterai
attentamente
la
dimostrazione
che
farò
contro
di
essa.
L’ottavo cielo (quello delle stelle fisse) vi presenta molti astri, che per la qualità e quantità della loro
luce
mostrano
aspetti
diversi.
Se soltanto la rarefazione e la densità della materia causassero tale diversità, in tutte le stelle vi
sarebbe una sola virtù, distribuita in quantità maggiore o minore o uguale.
Ora virtù diverse devono necessariamente derivare da principi formali diversi, e questi principi,
eccetto
uno,
verrebbero
ad
essere
distrutti
secondo
il
tuo
ragionamento.
Beatrice dimostra la non validità della posizione averroistica con un ragionamerito proprio del
metodo scolastico: alla confutazione della teoria erronea (versi 64-105) seguirà l'esposizione della
tesi valida (versi 112-148), nella quale, sulla scorta di San Tommaso e di altre scuole dell'epoca,
respinge la spiegazione di Averroè per accettare quella offerta da un altro pensatore arabo,
Avicenna. Per dimostrare che solo una diversa natura specifica può spiegare la presenza del chiaro e
dello scuro nei corpi celesti, Beatrice porta l'esempio delle stelle fisse del cielo ottavo, che si
presentano differenti le une dalle altre per quantità e qualità di luce. Ora, se si ammette, come vuole
Averroè, che i corpi celesti hanno una stessa natura specifica, e che le diversità che si notano sulle
loro superfici dipendono solo dalla maggiore o minore densità di tali corpi, anche le stelle fisse
dovrebbero avere tutte una medesima natura specifica, sia pure distribuita in modo
quantitativamente diverso (verso 69). Invece, poiché da ciascuna stella fissa deriva una influenza
diversa nel cielo sottostante all'ottavo, ed è verità di immediata evidenza che virtù (o influenze)
diverse non possono derivare che da principi formali diversi, non è possibile ridurre i principi formali
delle stelle fisse ad uno solo. Dunque la diversa luminosità dei corpi, celesti dipende dalla diversa,
natura
specifica
di
ciascuno.
Inoltre se la rarità della materia fosse la causa di quelle macchie di cui tu chiedi spiegazione, (ne
deriverebbe che) o in qualche punto sarebbe privo della sua materia fino alla parte opposta
(presentando,
cioè,
dei
buchi)
questo pianeta, oppure come un corpo animale alterna parti grasse e parti magre, allo stesso modo il
corpo lunare nei suoi strati cambierebbe come i fogli (più o meno sottili di un libro).
Se fosse vera la prima ipotesi, essa si renderebbe manifesta durante l’eclissi di sole, perché si
vedrebbe per trasparenza la luce solare come quando essa è introdotta in qualsiasi altro corpo di
materia
rarefatta.
Ma questo non succede: perciò è da discutere l’altra ipotesi; e se accadrà che io confuti anch’essa,
la
tua
opinione
(sulla
causa
delle
macchie
lunari)
sarà
dimostrata
falsa.
Se avviene che questa rarefazione non passa da parte a parte, deve esserci un punto al di là del
quale
la
densità
della
materia
non
lascia
più
passare
la
luce;
e da questo punto il raggio solare viene riflesso come un’immagine con i suoi colori è riflessa dal
vetro che nasconde dietro di se una lamina di piombo ( cioè dallo specchio).
Ora tu obietterai che il raggio appare più oscuro nel punto di maggiore rarefazione che nelle altre
parti,
perché
lì
è
riflesso
da
uno
strato
più
interno
del
corpo
lunare.
Da questa obiezione può liberarti un esperimento, se qualche volta vorrai farlo, uno di quelli che
costituiscono il fondamento delle varie parti in cui si dividono le scienze umane.
Prendi tre specchi; e disponi due di essi alla stessa distanza da te, e il terzo, posto più lontano,
incontri
i
tuoi
occhi
in
mezzo
ai
primi
due.
Dopo esserti rivolto verso di essi, fa in modo che dietro le tue spalle sia posta una luce che illumini i
tre
specchi
e
ritorni
a
te
riflessa
dai
medesimi.
Benché l’immagine riflessa dallo specchio più lontano non sia estesa in grandezza come quella degli
altri due, vedrai come, pur da una maggior distanza, risplenda necessariamente di una luminosità
qualitativamente
uguale
a
quella
delle
altre
due.
Il secondo argomento opposto da Beatrice alla dottrina averroistica delle macchie lunari (versi 73105) è desunto dall'esperienza. Se le, macchie provenissero da una rarefazione della materia, si
presenterebbero due casi: o la luna sarebbe bucata da parte a parte. o sarebbe costituita da strati
densi e radi, come avviene in un corpo animale.. "Nel primo caso, ciò sarebbe manifesto nell'eclissi
del sole; poiché la luna trovandosi fra esso e la terra, i raggi solari dovrebbero attraversarne quei
buchi e rendere luminose le macchie. Nel secondo caso, la parte densa, benché più indietro,
dovrebbe ugualmente riflettere la luce del sole, come si può provare ponendo dinanzi a noi due
specchi ugualmente vicini ed un terzo un poco più lontano." (Nardi) Infatti l'immagine riflessa dal
terzo specchio non sarà uguale, in grandezza, a quelle riflesse dagli altri due, tuttavia presenterà la
stessa
qualità
di
luce,
senza
macchie.
Ora come sotto i colpi dei caldi raggi solari la materia prima della neve (cioè l’acqua) rimane priva
(nudo)
e
del
colore
bianco
e
del
freddo
di
cui
prima
era
costituita,
allo stesso modo la tua mente è rimasta (sgombra delle erronee opinioni di prima) e voglio infondervi
una nuova forma mediante una verità così luminosa, che nel suo rivelarsi scintillerà davanti a te
come
luce
di
stelle.
Esaurita la critica dell'opinione averroistica, Beatrice si appresta a dimostrare la tesi, già accennata
in quella critica, che le macchie lunari sono dovute a una proprietà risultante, dal principio formale.
ossia a una qualità ìntrinseca ed essenziale della luna. Tuttavia, per svolgere questa dimostrazione,
ha bisogno di prendere le mosse dall'alto, enunciando la dottrina fondamentale intorno all'ordine dei
cieli e alle loro influenze. Il canto secondo, perciò, a partire dal verso 112, continua la solenne lezione
sull'universo iniziata nel canto primo, rivelando così che la sottile e arida disquisizione scientifica
sulle macchie lunari, altro non era che un pretesto per passare ad un tema ben più importante, per
svolgere il quale il Poeta saprà ritrovare il tono alto e commosso delle prime terzine del canto.
Entro l’Empireo, il cielo immobile , ruota un cielo nella cui potenza attiva prende fondamento la vita
di
tutto
ciò
che
e
contenuto
nel
suo
giro.
Dentro l'Empireo, il cielo immobile che è sede di Dio (cfr. Paradiso canto I, verso 122), inizia il suo
movimento la nona sfera celeste (Primo Mobile o Cielo Cristallino), la cui azione, o potenza
informatrice (virtute), regge tutta la vita del cosmo: senza di esso "non sarebbe qua giù generazione
né vita d'animale o di piante: notte non sarebbe né die, né settimana né mese né anno, ma tutto
l'universo sarebbe disordinato, e lo movimento de li altri [cieli] sarebbe indarno" (Convivio Il, XIV,
17).
In questa ultima parte del canto è evidente in Dante l'influsso, sia pure attraverso l'elaborazione degli
Scolastici, di dottrine neoplatoniche, giunte al Medioevo attraverso le pagine di alcuni scrittori della
letteratura
cristiana
antica
e
soprattutto
attraverso
le
opere
di
Avicenna.
Il cielo successivo, che si adorna di tante stelle visibili, distribuisce quella vita (ricevuta dal Primo
Mobile)
alle
diverse
stelle,
da
esso
distinte
e
in
esso
contenute.
Il cielo ottavo, che presenta nelle sue stelle (vedute) una diversità materiale derivante da una
diversità di principi formali (cfr. versi 70-72), opera una prima differenziazione in questa influenza
indistinta ricevuta dal Primo Mobile: dalla "natura dell'orbe ottavo e delle stelle fisse traggono... le
piante e gli animali che sono in terra, le loro diverse proprietà e differenze specifiche" (Nardi).
Gli altri sette cieli dispongono in maniera differente le essenze distinte che hanno in se in modo che
esse
conseguano
i
loro
effetti
e
attuino
i
loro
influssi.
Perché la virtute del Primo Mobile sia pienamente adatta ad agire sulla materia del mondo
infralunare, creata informe da Dio, occorre che gli altri sette cieli, dopo aver ricevuto, attraverso il
cielo ottavo, questa influenza, la sottopongano a ulteriori differenziazioni (corrispondenti alla diversa
natura
di
ciascuno),
moltiplicandone
gli
effetti.
I cieli, questi organi dell'universo, operano cosi, come ormai tu comprendi, di gradino in gradino, in
modo che ciascuno riceve l’influenza del cielo superiore e trasmette la sua influenza a quello
inferiore.
Ora osserva bene come io per mezzo di questo ragionamento giungo alla verità che desideri
conoscere, affinché tu poi da solo sappia compiere il passaggio (che conduce alla soluzione del tuo
problema).
Il movimento e l’influenza delle sfere celesti, come l’azione del martello deriva dal fabbro che lo usa,
devono
derivare
dalle
intelligenze
angeliche
che
le
muovono;
Nell'ultima parte della sua argomentazione Beatrice rivela che il moto e le influenze degli organi del
mondo hanno origine dalle intelligenze angeliche. Il rapporto fra azione dei cieli e azione degli angeli
è spiegato con l'esemplificazione del verso 128: come l'arte del martello dipende dal labbro che lo
adopera, così i cieli sono soltanto lo strumento delle Influenze che da loro derivano e che, in ultima
analisi,
dipendono
solo
dalle
intelligenze
motrici
dei
nove
cori
angelici.
e il cielo che è abbellito da tante stelle (cioè l’ottava sfera), riceve l’impronta dall’alta intelligenza
angelica che lo fa muovere e la imprime come suggello (nei cieli sottostanti).
E come l’anima dentro il vostro corpo corruttibile dispiega la sua virtù in membra diverse e ordinate
alle
diverse
facoltà
sensitive,
così l’intelligenza angelica (che muove il Cielo Stellato) svolge la sua azione nelle stelle
manifestandola in molteplici modi, continuando il suo movimento nella propria sostanziale unità.
Le diversità che appaiono nel Cielo Stellato non sono altro che il riflesso o image delle idee presenti
nella mente degli angeli, (qui, in particolare, i Cherubini) che muovono questo cielo.
La diversa influenza angelica si unisce variamente nelle sfere sottostanti con la materia incorruttibile
del cielo che essa anima, nella quale si trasfonde, cosi come la vita si trasfonde in voi uomini.
Per la natura beata (degli spiriti motori) dai quali deriva, l’influenza angelica, unitasi al corpo celeste,
risplende nelle diverse parti di esso, come la gioia dell’animo risplende attraverso la vivacità della
pupilla.
Da questa influenza, non dalla densità e rarefazione della materia, deriva la differente luminosità tra
stella
e
stella:
questa
influenza
è
il
principio
attivo
che
produce,
secondo
la
sua
diversa
potenza,
l’oscurità
e
la
luminosità”.
Dalle intelligenze angeliche, aventi come attributo principale la letizia, che proviene loro direttamente
da Dio, si deve desumere la causa delle diversità che si scorgono nei corpi celesti. "La letizia, delle
intelligenze si esprime dunque negli astri come luce, e a una maggiore o minore intensità di letizia
corrisponde nella stella, o nelle sue parti, un maggiore o minor grado di luminosità. Che poi queste
diversità si accumulino e diventino più evidenti nella faccia inferiore, e a noi visibile della luna, ciò
dipenderà dal fatto che, essendo la luna il più basso dei pianeti, in essa vengono a trovarsi
congregate tutte le virtù dei cieli superiori, chiamate ad operare direttamete sulla materia terrena."
(Sapegno)