Diocesi di Piacenza-Bobbio Servizio Documentazione Seminario Urbano – Festa del Sacro Cuore Assemblea del Presbiterio diocesano Commento sulla relazione del Vescovo Monari alla CEI “La vita e il ministero del Presbitero” 8 Giugno 2006 Riferimento Documento file MP160506 “La vita e il ministero del Presbitero”. Mons. Luciano Monari, Vescovo, Diocesi Piacenza-Bobbio - Vice presidente CEI Premessa introduttiva Quello che cercherò di dire non è una relazione globale sullo stato della nostra Diocesi ma alcune riflessioni sulla vita del prete; e il motivo è duplice. Il primo è, come sapete, il prossimo Gennaio ci sarà la Visita Ad limina 1 dei Vescovi dell’Emilia Romagna. In occasione della visita Ad limina il vescovo è tenuto a presentare una “relazione quinquennale” (cosiddetta), sulla situazione della Diocesi; e questa relazione è quella che stanno preparando adesso diversi Uffici di Curia. Mi piacerebbe che questa relazione, quando riuscirà ad essere completata, potesse diventare un aiuto, uno stimolo, alla riflessione di un po’ tutto il Presbiterio. Allora, sarà quella la relazione diocesana al Papa, anche la relazione sulla situazione della Diocesi, fatta dicevo con la collaborazione di tutti i diversi Uffici di Curia e tutti i Vicari impegnati nella Pastorale. Il secondo motivo è, come sapete, mi è stata chiesta una relazione sulla “Vita e il ministero del Presbitero” alla CEI, allora anche questa vi viene consegnata come motivo di riflessione e anche di confronto 2. Vi dico come è costruita e le cose su cui mi sembra si possa insistere di più. “La vita e il ministero del Presbitero” Premessa C’è una piccola “Premessa”, che ha uno scopo molto semplice. Il Papa ripete, e lo diceva Giovanni Paolo II verso la fine del suo pontificato, che “il cuore del cristianesimo non è la dottrina e nemmeno l’etica, ma il rapporto personale con Gesù”. La Premessa vuole dire: attenzione, allora anche il nostro essere presbiteri dipende essenzialmente da questo; non siamo innanzi tutto delle persone che devono insegnare una dottrina (anche e ci torneremo), nemmeno delle persone che devono presentare una etica (anche e ci torneremo); ma all’origine ci sta l’esperienza dell’incontro con il Signore da trasmettere, perché è da questo incontro con il Signore che ricevono significato tutte le altre cose. Se dovessi semplicemente annunciare una dottrina, la condizione fondamentale sarebbe che io sia un teologo bravo, che ha studiato bene la dottrina e quindi la può esporre con chiarezza. Ma se il problema è invece 1 Ad limina. Abbreviazione di “Ad limina Apostolorum”, espressione latina che significa “alle soglie (delle tombe) degli apostoli”. I vescovi titolari di tutte le *diocesi del mondo devono fare la “visita ad limina” ogni cinque anni “per venerare le tombe dei beati Apostoli Pietro e Paolo” e presentarsi al Romano Pontefice (cf CIC 400), al quale portano anche una relazione sullo stato della propria diocesi. Se non possono farlo personalmente, lo fanno per mezzo di un delegato. Vanno nello stesso anno i vescovi o delegati di una stessa regione del mondo, secondo l’ordine già stabilito. 2 “La Vita e il Ministero del Presbitero”, vedasi file MP160506 emesso dal Servizio Documentazione della Diocesi. 1 trasmettere l’”esperienza di un incontro”, evidentemente diventa condizione previa il fatto che questo incontro sia reale nella mia vita; e la premessa vuole richiamare semplicemente questo. -ILa Identità del prete Poi c’è un capitolo introduttivo che vorrebbe aiutare a “fare unità nella figura e nella vita del prete”. Il prete deve fare tante cose, la sua vita è occupata da problemi e interessi e desideri diversi. Una delle esigenze che si sentono frequentemente, e che vengono presentate, è che la figura del prete possa ritrovare una unità profonda. E quella parte vuole semplicemente aiutare a fare unità, mettendo insieme tre dimensioni che sono: - II. L’umanità del prete – III. Il discepolato, IV. Il ministero del presbiterio. Essenzialmente vuole dire alcune cose molto semplici. Innanzitutto non si può essere autentici presbiteri se non si è discepoli di Gesù. Il presbitero è quello che annuncia la Parola di Dio, Celebra i Sacramenti, raccoglie la Comunità cristiana; per potere fare questo bisogna che sia un autentico discepolo. E con il termine “discepolo” intendo una persona che riconosce Gesù come l’assoluto della sua vita. Oppure detto in altri termini, che riconosce in Gesù la presenza di Dio, per cui il mio rapporto con Dio passa attraverso Gesù di Nazaret e l’incontro con Gesù di Nazaret è vera adesione a Dio. Questo è il discepolo, per questo Gesù Cristo è per il discepolo un valore assoluto, perché è il mistero di Dio fatto carne. Questo è il motivo per cui il riferimento alla “carne di Gesù Cristo” è essenziale nella vita cristiana. Questo è il motivo per cui ci sono i Sacramenti, per cui c’è la Chiesa, e per cui c’è una Ordinazione sacerdotale. Dicevo, non si può essere preti senza essere discepoli, altrimenti il presbiterato diventa un mestiere: “Faccio delle cose, le faccio anche correttamente perché sono richieste dalla società in cui vivo, fa parte del mio lavoro”. Ma questo è evidentemente un mestiere, mentre il presbiterato non è un mestiere; quindi bisogna essere discepoli. La seconda cosa è che per essere discepolo autentico bisogna vivere correttamente il dinamismo dell’uomo verso la Trascendenza e il dono di sé. Ogni uomo esiste per superare se stesso attraverso la conoscenza e l’amore. Se un discepolo vuole essere discepolo autentico, deve vivere questo dinamismo, altrimenti il rapporto con Gesù diventa un rapporto di consumo: “Cioè prendo quelle consolazioni o soddisfazioni… o quello che volete, che sono presenti in Gesù Cristo e me ne servo”. Ma questo non è discepolato, il discepolato non è e non consiste nel “consumare” le parole o il mistero di Gesù a mio vantaggio. Il discepolato consiste nel mettermi al servizio del Signore, e ci vuole questo dinamismo umano di amore, altrimenti il discepolato diventa una forma di narcisismo, di ricerca di sé, attraverso Gesù; mi servo, uso Gesù. Allora, se riuscite a mettere insieme queste tre cose – I. Il dinamismo dell’uomo che trascende se stesso verso la conoscenza e l’amore. II. Il discepolato di chi riconosce in Gesù la presenza di Dio, e quindi considera Gesù come un assoluto. III. Il presbiterato come del discepolo che segue Gesù facendo in concreto quel servizio alla sua comunità che il Signore gli chiede -, la figura del prete dovrebbe essere una figura notevolmente compatta, e almeno dal mio punto di vista affascinante. Posto questo i tre punti di riflessione riguardano: II. La dimensione umana nella vita del prete, l’esperienza di umanità che come preti viviamo; III. L’esperienza di discepolato; IV. L’esperienza di ministero, di presbiterato. 2 - II L’Umanità del prete Per quello che riguarda la umanità del prete. Al centro ci metterei la capacità di entrare in relazione autentica con tutti. Con “tutti”, vuole dire: con tutte le categorie di persone! Non solo con i bambini ma anche con gli anziani, non solo con i malati ma anche con gli adulti; con tutti. Il segno di una maturità relazionale è questo. Naturalmente uno potrà trovarsi meglio con qualcuno, con le persone simpatiche… questo vale per tutti; ma è fondamentale riuscire ad aprire l’interesse e la disponibilità del cuore a tutte le persone, perché ogni rapporto interpersonale è arricchente. È arricchente il rapporto con i bambini, il rapporto con i giovani, con le persone mature, con le persone anziane, con le persone malate… con tutti. Questo però evidentemente richiede la capacità di entrare in sintonia con le persone, la empatia: “Per cui sento quello che tu sei e quello che tu vivi come qualche cosa di mio, mi ci ritrovo, ci entro dentro volentieri”. E questa accettazione dell’altro è possibile se uno ha imparato ad accettare se stesso e la realtà, quindi a riconosce quello che lui è e a essere contento di esserlo. Che non vuole dire approvare tutte le cose che io faccio, ci mancherebbe altro! Ma vuole dire: non rifiutare quella identità che è la mia, per la mia storia, per il mio carattere, per le relazioni che ho vissuto, per le esperienze che ho fatto, per gli errori che ho commesso… e tutte queste cose. Allora, relazioni con gli altri che richiede l’empatia e la accettazione di sé e della realtà. “Della realtà”, vuole dire questo: Eraclito 3 diceva che “quando sogniamo ciascuno ha il suo mondo, ma quando ci svegliamo il mondo è lo stesso per tutti”. Che vuole dire: svegliarsi nella vita significa andare oltre i propri sogni e i propri desideri e le proprie preferenze, per lasciarsi istruire dalla realtà, dalle persone, dagli avvenimenti, dalle cose che io incontro. Bisognerebbe farci qualche aggiunta, perché ciascuno poi ha il suo mondo mentale e affettivo, ecc. Però questo discorso diventa importante: la capacità di lasciarsi istruire, di non andare incontro alla realtà con tutto già pronto dentro di me, per cui la realtà non mi dice più niente; invece la realtà ci deve istruire. Questa apertura fa parte della condizione tipica dell’uomo. Quindi capacità di relazione che però richiede anche, complementare, la capacità di stare da soli. Se una persona è sufficientemente ricca dentro, riesce a portare il peso della solitudine, dei momenti di solitudine; perché la ricchezza la trova, non ha bisogno sempre di appoggi (quando ci sono gli appoggi sia benedetto il Signore non c’è problema), però uno deve essere capace di stare in mezzo agli altri e deve essere capace anche di stare un po’ da solo. Era Pascal Blaise 4 che diceva secondo lui “la maggior parte dei mali del mondo vengono dal fatto che l’’uomo mon riesce stare nella sua cella per mezz’ora senza agitarsi, perché quando non ha i problemi bisogna che li crei, e crea tutti i pasticci che ci sono nel mondo; se l’uomo fosse capace di fermarsi un attimo, di stare con se stesso, di sopportare se stesso e la vita, probabilmente il mondo sarebbe più sereno” (così diceva Pascal, la responsabilità è sua). In questo cammino di umanità c’è un ostacolo fondamentale che incontriamo nella nostra società ed è la concezione consumistica della vita. Spero di riuscire a spiegarmi. Per “concezione consumistica” intendo la vita pensata come l’opportunità di provare consumi molteplici passando dall’uno all’altro fino a che trovo quelli più soddisfacenti. Dove con il termine “consumi” non intendo solo le cose materiali, ma intendo anche le esperienze e le emozioni e le relazioni. L’uomo di oggi molto spesso vive le relazioni come esperienze di consumo: “Cioè vivo una amicizia perché 3 . Eraclito. (550-480 a.C.), filosofo greco. Spirito fiero e sdegnoso, aristocratico di nascita e di ingegno, disprezza la folla e i falsi sapienti e non risparmia i suoi strali neppure contro la grande tradizione letteraria (Omero in particolare) e contro la religione. 4 Pascal Blaise (Clermont 1623 - Parigi 1662), scienziato e filosofo francese. 3 l’amicizia mi gratifica, perché mi dà gioia e consolazione, e naturalmente la vivo fino a che mi gratifica e mi dà gioia e consolazione; quando una amicizia non me lo dà più, l’ho consumata e ne vado a cercare un'altra; quando un rapporto di amore non mi dà più quell’entusiasmo che mi dava all’inizio, vuole dire che è un rapporto consumato, vado a cercarne un altro che sia più fresco, più attraente, più affascinante…”. Capite che la dimensione del consumo riguarda tutta la nostra vita: quando la percepiamo come l’occasione per una esperienza o soddisfazione, e quando la rifiutiamo nel caso che la soddisfazione non ci sia più; questo è tipicamente consumistico. Ora la vita di un prete, dal punto di vista del consumo, si può permettere poco; quindi se impostiamo la vita nell’ottica del consumo inevitabilmente diventiamo infelici: perché la vita del prete non ce ne permette tanti di consumo, ci limitano da questo punto di vista. Bisogna riuscire a entrare invece in quella logica che è corretta, cioè la “logica creativa”: assumerci la responsabilità della nostra maturazione, e di vivere la vita come un lungo itinerario di maturazione, di santità. Allora se c’è questa prospettiva, ogni esperienza diventa significativa e profonda e preziosa, perché tutto può essere ricuperato nella maturità, nella crescita della persona. Non tutto può essere gradevole nella vita, ma tutto invece può essere occasione di maturazione; si tratta di entrare in quell’ottica. E dicevo, si tratta di assumerci noi la responsabilità di questa maturazione. Fratel Luciano Manicardi, che è uno di Bose, in un suo intervento dice: “La prima responsabilità del presbitero è di diventare uomo, e questa responsabilità è sua. Questo richiamo alla responsabilità è importante perché nessuna formazione sarà mai o mai è stata perfetta neppure minimamente. Un atteggiamento deresponsabilizzato di delega in toto ai formatori non aiuterà certo una crescita umana e l’assunzione in prima persona di quella che è la propria vita, la propria unica vita. Senza questa assunzione di responsabilità da parte del seminarista non ci si potrà in futuro nascondere dietro al lamento per i difetti della formazione ricevuta”. Tradotto vuole dire: non esistono dei percorsi di formazione che siano perfetti, che garantiscano il prodotto finito; perché il “prodotto uomo finito” è finito per la sua libertà, nasce dalla sua libertà e responsabilità. Allora è importante, che i seminaristi innanzitutto, ma s’intende anche noi perché questo è un discorso che dura tutta la vita, ci assumiamo in proprio la responsabilità della mia vita e della maturazione della mia vita, dipende da me prima di tutto. E sono io che ne porto la responsabilità di fronte a me e di fronte al Signore… se la vita è percepita come cammino di crescita, di santificazione, di perfezionamento, di completamento… o quello che volete, dopo le parole le potete mettere. E in questo credo diventi fondamentale una guida spirituale. Questa è una delle nostre povertà, il fatto che nei nostri presbiteri non sono molte le figure di riferimento per un cammino di guida spirituale, ma questa è una povertà grossa perché di questo abbiamo bisogno. E ne abbiamo bisogno, siccome non esistono delle scelte che siano garantite una volta per tutte, e se sono stato maturo ieri non vuole dire che sarò maturo anche oggi e sarò maturo domani, questo non è vero! È vero che con una esperienza lunga di maturità diventa più facile il cammino della maturità, ma non è garantito, non è garantito mai! Ogni giorno si ricomincia daccapo. Allora avere una persona con cui confrontarsi, non semplicemente con cui confessarsi, ma a cui raccontare il cammino che faccio, non solo i peccati, ma il cammino che faccio, questo mi responsabilizza, mi dà la voglia di fare esattamente della mia vita quel cammino di maturazione che dicevo. Questo per quello che riguarda l’umanità del prete. 4 - III Il Discepolato del prete Per quello che riguarda il discepolato. Come dicevo tipico del discepolo è considerare Gesù come un assoluto, tanto assoluto da: «(…) vendi tutto quello che hai, distribuiscilo ai poveri e avrai un tesoro nei cieli; poi vieni e seguimi» (Lc 18, 22). Tanto assoluto che ci sta dentro al discepolato: la possibilità della povertà come scelta, e della castità del celibato come scelta; nell’uno e nell’altro caso, non come espressione di rifiuto delle cose, dei soldi, o del rapporto affettivo con una donna, ma come proclamazione del valore assoluto del Signore e della dedizione a Lui della nostra vita in tutte le sue dimensioni: anche nella dimensione economica dell’avere, e anche nelle dimensioni affettiva dell’amare. Allora questo è il discepolo, e chiaramente essere discepolo non è semplice, non lo è mai stato semplice; perché “essere discepolo”, vuole dire: avere più fiducia nel Signore di quanto si abbia paura della morte, della vecchiaia, della solitudine, dell’Alzheimer, della malattia, del fallimento, del rifiuto degli altri, paura della mia fragilità… e così via. E questo non è mai stato facile. Quindi il discepolato è e rimane difficile. Per di più nella condizione di oggi acquista, ci sono, motivi di difficoltà ulteriori. Il primo è il contesto di pluralismo etnico e religioso in cui viviamo. Quindi siamo in un contesto dove le culture si intrecciano e dove si intrecciano le esperienze religiose. Attenzione, riuscire a “considerare Gesù Cristo un assoluto” - mentre sperimento la relatività della cultura in cui sono cresciuto, quindi della cultura occidentale, bellissima però evidentemente una delle culture; posso pensare che sia l’unica quando gli altri sono lontani, ma quando gli altri sono vicini a casa mia sono inevitabilmente costretto a misurarmi con queste -, quando sono immerso invece in una esperienza di vita essenzialmente relativa, non è facile; bisogna che uno trovi i motivi abbastanza solidi per dire che nonostante la vita dell’uomo sia sempre sottomessa ai limiti del tempo e dello spazio, quindi ogni esperienza umana sia relativa, il riferimento a Gesù è un assoluto; questa è una delle difficoltà. Insieme con questo l’altra difficoltà è quella del contesto di immagine della Chiesa nel quale noi ci muoviamo, e non solo della Chiesa. “Non solo della Chiesa”, vuole dire questo: fino a un po’ di tempo fa valeva per molti l’affermazione “Cristo sì, Chiesa no”; e questo per noi era già una difficoltà notevole, perché evidentemente siamo totalmente dedicati alla Chiesa. Il problema è che si è spostato, perché non solo è in difficoltà la Chiesa ma è il rapporto con Cristo che è andato in crisi. Per cui il cristianesimo come sorgente di fanatismo è una delle immagini che non infrequentemente viene ripresa. Quindi non abbiamo la sicurezza che se parliamo di Gesù Cristo chi ci ascolta ha un atteggiamento pregiudiziale favorevole. Perché Gesù Cristo non ha più quello status di privilegio che aveva fino a qualche anno fa nella immaginazione delle persone. Attenzione, badate che sto parlando di “immagine”, ma le immagini sono esattamente quelle che definiscono il rapporto affettivo con le cose e con le persone. Se va in crisi l’immagine di Gesù Cristo, va in crisi il rapporto affettivo con Lui. E se va in crisi il rapporto affettivo con Gesù Cristo, il cammino della fede diventa molto più difficile; non dico che non è possibile, però diventa più difficile, deve superare un ostacolo che non è facile, non è da poco. E non solo il riferimento a Gesù Cristo ma è il riferimento a Dio che è messo in discussione. Perché è il riferimento a Dio che appare per molti una turbativa dell’ordine razionale di coesistenza dell’uomo. Dove l’uomo decide la forma della sua esistenza sociale, Dio deve stare fuori, perché se entra turba i rapporti tra le persone, non diventano più rapporti fondati sulla ragione, che per definizione è universale, ma diventano rapporti fondati su una fede che per definizione è “personale”, dipende dalla scelta personale del singolo. 5 Questo discorso torna fuori frequentemente, questo è un discorso con cui ogni ragionamento cristiano è escluso dal confronto delle parti per principio, non perché nel contenuto è contestato, ma perché per principio non ha il diritto di farsi sentire nell’agorà dove si decide la forma di società che vogliamo vivere insieme: “Nel tuo sacrario della coscienza personale puoi adorare dio fin che ti pare, però quando vieni a discutere di politica di economia e di società, dio per favore lo metti da parte, altrimenti c’è un elemento che altera le relazioni, il confronto”. In questo contesto è evidentemente difficile essere discepolo, perché il discepolo gioca tutto su Gesù Cristo quindi deve giocare anche la vita economica, la politica… deve giocare tutto, altrimenti Gesù Cristo non è l’assoluto. Allora questa difficoltà è una difficoltà con cui anche noi preti inevitabilmente dobbiamo fare i conti. E le risorse che noi abbiamo sono quelle che sapete da sempre. Innanzitutto lo Spirito Santo. Abbiamo letto nei giorni scorsi quello stupendo brano del cap. 16° di Giovanni: «[8] Quando verrà il Consolatore, egli convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio. [9]Quanto al peccato, perché non credono in me; [10]quanto alla giustizia, perché vado dal Padre e non mi vedrete più; [11]quanto al giudizio, perché il principe di questo mondo è stato giudicato» (Gv 16, 8-11). Il senso è quello: il senso è che lo Spirito Santo dentro al vostro cuore rende testimonianza a Gesù Cristo e vi dimostra che il mondo ha torto e che Gesù Cristo invece è nella verità della giustizia, dell’amore. Attenzione, bisogna che partiamo di lì, non abbiamo altre risorse così grandi: è lo Spirito Santo, e senza di quello non ce la facciamo ad affrontare quegli ostacoli che dicevo. Secondo. Il rapporto personale con Gesù Cristo. Bisogna che uno faccia una esperienza simile a quella di Paolo quando diceva che «[4]Se uno può confidare nella carne, io più di lui»; e faceva l’elenco delle cose su cui poteva confidare: «[5]circonciso l’ottavo giorno, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da Ebrei, fariseo quanto alla legge; [6]quanto a zelo, persecutore della Chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge. [7]Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. [8] Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo» (Fil 3, 5-8). Allora è un rapporto che deve diventare globale, cioè Gesù Cristo deve diventare davvero lo scopo della nostra vita, “per cui non faccio altro che correre per conquistarlo”. Mi ha conquistato, mi ha segnato, non posso immaginare la vita se non come un andare dietro a Lui. Ma questo evidentemente richiede un rapporto personale con il Signore nutrito. “Nutrito”, vuole dire: di parole di Dio, perché non c’è altro modo di conoscere Gesù Cristo se non la parola di Dio, non c’è un altro modo! E non c’è un altro modo per resistere alle immagini false di Gesù Cristo se non la parola di Dio. “Immagini false”… non c’è nemmeno bisogno di ricordare il “Codice di Vinci” o simili. E insieme con la Parola evidentemente l’Eucaristia, e l’esperienza della comunione fraterna, dell’amore che viene dal Signore. Ma queste cose ci sono dentro nella Relazione e non c’è bisogno che le riprenda nei particolari. Però portate pazienza, ridico la stessa cosa. O riusciamo ad avere un rapporto personale con il Signore che ci affascina, o non riusciamo ad opporci a quel tipo di immagine e di mentalità che il mondo in cui viviamo ci dà di Gesù Cristo, della Chiesa, di Dio stesso, e della religione stessa. Altrimenti noi assorbiamo o ingoiamo atteggiamenti che sono secolarizzati senza nemmeno 6 rendercene conto, senza renderci conto che questi comportamenti vengono da una scelta che non sono semplicemente il naturale delle cose o il naturale della società, ma sono il portati da una società dove il riferimento a Dio è per definizione escluso. - IV Il Ministero del prete E arriviamo all’ultimo aspetto, che è quello evidentemente che ci interessa più di tutti, cioè quello del “Ministero del prete”. Le cose fondamentali sarebbero tante e provo a dire quelle che mi sembrano più urgenti. La prima cosa è chiaramente il Presbiterio: cioè la percezione che un vescovo e i preti del suo presbiterio sono una cosa sola. E questo non per motivi organizzativi, perché se siamo una cosa sola facciamo meglio il Ministero, ma per motivi di identità. L’essere prete di un prete non è pensabile al di fuori del rapporto con un vescovo. E l’essere vescovo di un vescovo non è pensabile al di fuori del rapporto con un presbiterio. Ci vorrebbe anche il discorso del diaconato, ma per adesso lo mettiamo da parte. Ma mi interessa il discorso del Presbiterio in questo senso (come abbiamo ripetuto tante volte) che vescovo e preti hanno in solido: cioè ciascuno ha una sua responsabilità su tutto (come quota a parte evidentemente) per il servizio pastorale alla Chiesa particolare 5, alla Chiesa locale. Esiste una Chiesa locale che è Piacenza-Bobbio, io e voi insieme abbiamo la responsabilità di fare al meglio, per quello che possiamo, il servizio a questa Chiesa, perché i credenti di questa Chiesa possono crescere verso Gesù Cristo, perché possono vivere correttamente la loro esistenza cristiana, la loro vocazione cristiana. Questo discorso del presbiterio richiede due cose: 1) una esperienza vera di comunione, il presbiterio è una comunità; 2) una corresponsabilità nel governo pastorale. Per quello che riguarda la “Comunione”. Abbiamo a che fare tutti con la stessa realtà che è la Chiesa di Piacenza-Bobbio, e tutti abbiamo a che fare con lo stesso Vangelo che dobbiamo annunciare a questa Chiesa, e con la stessa Eucaristia che dobbiamo celebrare per questa comunità cristiana. Evidentemente se vogliamo che il Presbiterio sia una comunità di preti, bisogna che il Presbiterio condivida una serie sufficiente di giudizi e di modi di vedere la realtà; perché voglio dire: se ciascuno di noi ha un modo diverso di considerare la Chiesa, e ha un modo diverso di considerare il Vangelo, e ha un modo diverso di considerare il ministero… o tutto quello che volete, siamo allora un aggregato di persone, magari un aggregato di persone che si vogliono bene nel senso che si rispettano, che non si “lanciano contro delle frecce”, o tutte queste cose… ma un aggregato. Per diventare una comunità autentica dobbiamo riuscire a condividere (non dico a condividere tutto quello che pensiamo ci mancherebbe altro!), però a condividere una serie sufficiente di modi di vedere e soprattutto di giudizi sulla realtà in cui ci muoviamo e sul servizio che siamo chiamati a svolgere. E questa unità, chiaramente c’è una unità che per fortuna abbiamo - dal punto di vista della fede non ho la percezione che ci siano delle eresie in giro da noi, e così anche dal punto di vista della liturgia non ho l’impressione che ci siano degli abusi liturgici grossi, almeno io non ne ho la percezione. Però questo non vuole dire che siamo sufficientemente legati tra di noi, di passi da fare avanti ce ne sono tanti… che sono per esempio una Assemblea come quella di oggi. 5 Chiesa particolare (Catechismo Chiesa Cattolica). Che cosa si intende per “Chiese particolari” o diocesi. Per Chiesa particolare, che è in primo luogo la diocesi (o l’eparchia), si intende una comunità di fedeli cristiani in comunione nella fede e nei sacramenti con il loro vescovo ordinato nella successione apostolica (cf CD 11; CIC, can. 368-369) [833]. Ogni Chiesa particolare è affidata ad un Vescovo, il quale collegialmente con tutti i suoi fratelli nell’episcopato porta sollecitudine per tutte le Chiese. Ogni vescovo ha, quale vicario di Cristo, l’ufficio pastorale della Chiesa particolare che gli è stata affidata, ma nello stesso tempo porta collegialmente con tutti i fratelli nell’episcopato la sollecitudine per tutte le Chiese: “Se ogni vescovo è propriamente pastore soltanto della porzione del gregge affidata alle sue cure, la sua qualità di legittimo successore degli Apostoli, per istituzione divina, lo rende solidarmente responsabile della missione apostolica della Chiesa” (PIO XII, Enc. Fidei Donum, 11; cf LG 23; CD 4, 36-37; AG 5.6.38) [1560]. Formate ad immagine della Chiesa universale. Queste Chiese particolari sono “formate a immagine della Chiesa universale”; in esse e a partire da esse “esiste la sola e unica Chiesa cattolica” (LG 23) [833]. Vescovi. 7 Questa è una Assemblea che dovrebbe aiutarci a confrontarci, a vedere le cose, a prendere qualche direzione insieme… e tutte queste cose. Ci serve il “Giovedì Santo” e molto. Ci servono tutti gli incontri tra preti. Ci servono i ritiri spirituali mensili. Ci servono i corsi di aggiornamento; al di là di quello che è il contenuto del corso di aggiornamento è il nostro fatto di trovarci insieme e di ascoltare insieme una parola che riguarda il ministero, e confrontarci insieme su convinzioni che riguardano il ministero. Sono queste cose che edificano pian piano una comunione, una condivisione. E ci vuole pazienza non ci si arriva di colpo. E credo che non ci si arriva per decreto, non basta che il vescovo faccia il decreto per dire: “dovete pensare così”. Credo che al Vescovo tocchi chiarire evidentemente il cammino che come Chiesa diocesana facciamo insieme, ma a partire da un confronto e un ascolto reciproco il più profondo e anche possibile; da una esperienza di fraternità più profonda e anche possibile. Quindi serve a questo anche quelle forme di comunità di vita dei preti. Ci sono alcune parrocchie dove ci sono tre o quattro preti che vivono insieme e questo è una gioia. Ci sono evidentemente forme diverse di vita di comunione: si può mettere insieme anche solo il pasto, o si può mettere insieme anche la preghiera, si possono mettere insieme tante cose… Lì le regole non esistono rigide, però esiste il bisogno l’impulso a creare quanto più è possibile dei legami che siano effettivamente dei legami di comunione. E in questo, portate pazienza è l’unica critica, l’unica osservazione che faccio, dopo la dimenticate, perché l’ottica è un’altra. Bisogna che stiamo quanto più è possibile in sintonia anche nelle scelte pastorali ed etiche, perché mi incontro con situazioni di questo genere. Da parte c’è chi ammette tranquillamente la comunione a coppie di persone che convivono. Dall’altra c’è qualcuno che mi esclude dalla comunione le persone separate. Sono pasticci tutti e due. Il fatto di essere separati non toglie dalla comunione della Chiesa. Quello che crea un problema è la convivenza. D’altra parte l’essere conviventi pone in una condizione irregolare e quindi rende l’accostamento ai Sacramenti non possibile. La difficoltà da dove viene? Non solo dal fatto che diamo l’impressione di essere l’”armata brancaleone” in cui ciascuno va avanti per conto suo e alla fine non c’è una intesa… Non è tanto questo. Ma è il fatto che ci rimette da una parte la Chiesa e la gente e poi ci rimettiamo anche noi. Ci rimette la Chiesa; in che senso? Nel senso che se una mia opinione può fare scuola, vuole dire che il cammino della Chiesa è la raccolta delle diverse opinioni delle persone umane; ma se la Chiesa è questa è un pasticcio, la Chiesa non è questo. La Chiesa tenta di cogliere la volontà di Dio e di presentare la volontà di Dio, non la volontà del signor papa in quanto cittadino privato o teologo o del signor vescovo o del signor prete o cose di questo genere. Il pasticcio che viene dall’andare ciascuno per conto suo, è che viene alterata la figura e l’immagine della Chiesa, che perde quella figura di Chiesa come espressione della volontà di Dio, e diventa Chiesa evidentemente come società religiosa di un certo numero di persone che si mettono insieme; questa è la prima difficoltà. La seconda difficoltà, è che creiamo delle illusioni alle persone, come se fossero in comunione perfetta, mentre c’è qualche cosa che non funziona, o viceversa. Terza difficoltà. Uno può anche andare per questa strada, però poco la volta un prete perde la sua percezione di fare parte della Chiesa. La perde dal punto di vista affettivo, perché se io vado per conto mio, va bene una volta non è un grande problema, ma se vado per conto mio una volta e due volte e dieci volte… posso anche dal punto di vista intellettuale non cambiare niente, ma dal punto di vista profondo mi sento in qualche modo al di fuori della Chiesa: “dopo mi lamento perché la Chiesa non mi accoglie, perché mi sento rifiutato”, e cose del genere. Ma dietro a volte c’è questo: c’è un cammino troppo individualista che evidentemente dopo fa sentire non esattamente in sintonia con la Chiesa. 8 Allora concludo, rifletteteci sopra. Certamente ne conto, dopo se capiterà l’occasione ci torneremo. Ma questa è l’unica difficoltà che mi sembra di potere esprimere. Per il resto, dal punto di vista della comunione, sono molto contento. Io sono contento di avere una Chiesa e un clero dove la dimensione della fede è comune e la liturgia è fatta bene… certamente dobbiamo anche migliorare, però sono contento. Per il governo pastorale idem. “Governo pastorale”, vuole dire: quel senso di corresponsabilità per cui arriviamo insieme, alla fine la decisione la prenderà il vescovo, ma ci arriviamo insieme a collocarci di fronte alle scelte che riguardano la cura pastorale della nostra Chiesa. Quindi questo richiede senso di corresponsabilità, che vuole dire: il parroco della parrocchia “x” della Val d’Aveto si senta però responsabile di tutta la cura pastorale della Chiesa piacentinobobbiese, anche se dalla Val d’Aveto a Piacenza ci sono “chissà quante curve” soprattutto; ecco questo senso di corresponsabilità: come interesse e il contributo che si dà, possibilmente datelo responsabile i contributi. “Responsabile” vuole dire questo: io riesco facilmente a sapere cosa bisognerebbe fare in una parrocchia, e riesco più difficilmente a sapere che cosa è possibile fare in una parrocchia. Perché se io ragiono idealmente riuscirei in pochi giorni a fare la Chiesa di Piacenza-Bobbio perfetta… in testa ci riesco, un po’ come il Concilio, un po’ con la Parola di Dio ce la cavo. Il problema è che poi devo fare i conti con quello che sono io, con quello che siete voi, con quello che è la gente, con quelle che sono le Scritture… e cose di questo genere. Nella parrocchia “x” ci andrebbe un prete così. C’è? E in caso che ci sia, se lo metto lì, faccio un buco da un’altra parte. Allora in altri termini: aiutatemi con dei suggerimenti che siano di risoluzione dei problemi… perché vedere i problemi… fatemi anche vedere i problemi s’intende… ci riesco, ma sono le soluzioni realistiche che diventano difficili. E di questo fa parte evidentemente il lavoro del Consiglio Presbiterale. L’ho detto tante volte, lì io credo di dovere imparare… cioè non sono molto contento del modo in cui operiamo nel Consiglio Presbiterale… Capisco che dovrebbe essere una attività più significativa per noi, aiutatemi anche in questo, perché io sono convinto teoricamente che il Consiglio Presbiterale sia davvero l’organo di consultazione del presbiterio e di governo della Diocesi, è il “Senato”. Faccio il Vescovo con il Consiglio Presbiterale, e questo è il motivo per cui ho chiesto, e stiamo tentando di fare, che attraverso il Consiglio Presbiterale passino uno dopo l’altro tutti gli ambiti della pastorale diocesana: passi l’Ufficio Catechistico, l’Ufficio della Famiglia, l’Ufficio Caritas… Però se vi devo dire la verità non sono ancora contento, cioè secondo me non riusciamo ancora a utilizzarlo nel modo corretto. Però questa è la prima cosa che mi sta a cuore, il senso del Presbiterio. Una seconda cosa riguarda il numero dei preti, che evidentemente cala e per altri quindici/vent’anni calerà, non c’è nulla da fare, questo è inevitabile da noi oggi. Ma adesso non mi interessa il numero dei preti come numero assoluto, perché non esiste un modello ideale che dica: nella Diocesi di Piacenza-Bobbio ci devono essere x preti; devono essere cinquecento, duecento, centoventi… è difficile dirlo. Il problema è invece molto concreto e riguarda le conseguenze del calo del numero di preti sul Presbiterio in quanto tale, e di conseguenza sono: 1) L’innalzamento dell’età media, questo è pacifico. Ma anche qui quello che mi interessa è il fatto che innalzamento dell’età media vuole dire inevitabilmente diminuzione di creatività, e vuole dire un certo peso di stanchezza. È vero che esistono delle persone come il Card. Tonini che a novant’anni può avere l’energia di un ventenne, ma normalmente questo non avviene. Normalmente gli anni pesano sul nostro modo di camminare e anche sul nostro modo di immaginare e di sognare; 9 quindi dobbiamo fare i conti con questo: non possiamo sognare un Presbiterio perfettamente creativo e che sa trasformare tutto, quando la realtà evidentemente è quella della nostra età, che non è giovanile e giovanile, quindi dobbiamo farci i conti. 2) Questo richiede inevitabilmente una mobilità dei preti, perché dovendo rispondere a esigenze più ampie la mobilità diventa inevitabile. Se riusciamo ad accettarla non come una forma di precariato, ma come una forma di servizio alla Diocesi nel modo più profondo possibile, credo che forse abbiamo le opportunità per rispondere alle crisi della condizione attuale, non siamo in una condizione impossibile, al contrario. Bisogna però riuscire a trovare le forme di una presenza sul territorio che rimanga anche con il calo di numero di preti. E qui viene fuori innanzitutto il discorso del Diaconato. Don Alberto Altana 6, che del Diaconato è stato il pioniere in Italia, lo ha sempre immaginato così il Diaconato: come presenza del Ministro Ordinato sul territorio in modo che il rapporto della Chiesa con le persone arrivasse fino a livello interpersonale. Il Diacono è sul territorio il segno della presenza visibile della Chiesa che sta vicina alle persone. Il prete non può più stare vicino a tutti, perché le parrocchie o il territorio che il prete serve incominciano a diventare ampie e le persone numerose. Allora bisogna moltiplicare i diaconi, ne abbiamo bisogno! E la presenza capillare dei diaconi è una risposta positiva e bella a questa trasformazione di rapporti tra il Presbiterio e il tessuto diocesano. Chiaramente il discorso riguarda i diaconi, però non necessariamente i diaconi, perché fare i diaconi richiede anche una fatica notevole: ci vuole una vocazione ci vogliono delle capacità e delle disponibilità, ecc. Però vorrei arrivare (questo l’ho già detto ma lo ripeto) a che in ciascuna parrocchia, dove non esiste il prete residente ci fosse una persona, che faccia da riferimento, incaricata esplicitamente per questo; cioè con il conferimento di un mandato, non sarà un ministero, ma un mandato. E legherei questo con il discorso delle Unità Pastorali. Le U.P. diventano una necessità sempre più evidente. Torno a dire: non le abbiamo inventate noi, sono venute fuori dal Sinodo Diocesano. Nel Sinodo Diocesano la scelta delle Unità Pastorali era già stata fatta e con lucidità. “Con lucidità”, vuole dire: la definizione di Unità Pastorale che c’è nel nostro Sinodo è una delle più belle ed è una delle più complete 7; allora abbiamo bisogno di questo. Io vorrei riprendere la Visita delle Unità Pastorali una per una. Ho interrotto quella che avevo incominciato perché non ne ero soddisfatto: perché mi pareva che alla fine venisse fuori poco. Voglio riprenderla, ma in questa ottica: vorrei visitare le diverse U.P. una per una, ma poi in ciascuna U.P. definire i referenti delle parrocchie dove il prete non è più residente; oppure incaricati per quartieri dove il prete non può essere sempre presente; cioè avere delle persone che rendono capillare la presenza della nostra Chiesa. Perché il pasticcio non è la diminuzione dei preti, il pasticcio è se la diminuzione dei preti comporta una minore presenza sul territorio, allora sì, allora è un pasticcio, è una perdita. Ma se riusciamo a trovare altre forme di presenza sul territorio attraverso diaconi o ministeri o mandati, la diminuzione dei preti non è un problema enorme ma si gestisce bene; però bisogna dobbiamo andare in quella direzione con decisione. La ulteriore conseguenza è questa, che con il calo del numero dei preti c’è il rischio di una burocratizzazione sempre più grande. In realtà è la vita dell’uomo d’oggi che diventa più burocratizzata; perché mentre una volta uno poteva tranquillamente pagare le tasse facendo lui la dichiarazione, se non aveva dei problemi particolari, oggi se io non vado da un commercialista le tasse non riesco a pagarle. E più andiamo avanti e più i regolamenti e sottoregolamenti e codicilli… rendono la convivenza più difficile. Arriveremo come in Brasile che ci vuole un “despasan” che 6 7 Don Alberto Altana,di Reggio Emilia, responsabile nazionale della Comunità del Diaconato in Italia nel 1978. Unità Pastorale. Sino Diocesano. N. 261-264, 472, 486, 605. 10 sbrighi tutte le pratiche, perché se uno si mette a sbrigare le pratiche non ha più il tempo per lavorare, non ha più il tempo per la sua famiglia… o cose del genere. Ma questo per il prete richiede alcune scelte, e le scelte sono: il Consiglio per gli Affari Economici, che funziona, che abbia davvero la responsabilità degli affari economici. Non senza il prete, ma il prete ci sta non perché è un esperto di economia, ma per fare in modo che le decisioni economiche non impediscano, anzi favoriscano il servizio pastorale. Ma per il resto vale la pena che ci siano dei laici, che lo faccia e che se ne assume la responsabilità, perché sono troppo complicate le questioni economiche perché uno ne possa seguire tutte. Quindi il Consiglio per gli Affari Economici. Così come gli strumenti diocesani che possono servire per tutte le questioni di tipo amministrativo, edilizio, di restauro… e cose di questo genere. Vorrei che le parrocchie, però lì con la massima libertà, riuscissero a sfruttare quelle piccole strutture che abbiamo in Diocesi per seguire lavori o progettare lavori… o cose di questo genere. Perché noi l’energia e il tempo non ce l’abbiamo, e non l’avremo più. Quindi l’Ufficio Tecnico di Curia cerchiamo di potenziarlo, però diventa prezioso mi piacerebbe che lo sentiste come un aiuto al servizio anche vostro. Inoltre la Pastorale vocazionale. Questo è per noi una risposta fondamentale, quindi vorrei dirvi solo questo, perché il discorso diventerebbe molto lungo. Ma se vogliamo che vengano fuori dei preti, dobbiamo innanzitutto mettere nel cuore dei ragazzi il desiderio di fare della loro vita un cammino di amore. Dobbiamo riuscire a fare capire che l’uomo è fatto per quello, ogni uomo è fatto per quello! Che l’uomo può anche dimenticarsene, ma dentro al suo cuore ha sempre l’impulso fondamentale ad amare; e che la sua vita è realizzata non quando ha molti soldi, non quando è diventato famoso (perché la “Maria Filippi mi ha insegnata la strada”), ma quando è riuscito a uscire dal suo egoismo per amare gli altri. Perché se viene meno questo, è difficile che ha uno venga la voglia di fare il prete. La seconda cosa è di riuscire ad innamorare i ragazzi di Gesù Cristo. Bisogna che Gesù Cristo abbia il fascino di coinvolgere tutta la vita di una persona; questo fascino Gesù ce l’ha, però bisogna che sia annunciato bene, che sia annunciato con gioia, con entusiasmo. Ecco questi sono dei presupposti, perché se non ci sono questi il lavoro vocazionale non funziona. Dopo cercherò di fare capire a uno che fare il prete è un modo straordinario di vivere la sequela del Signore. Ma se non ha voglia di seguire il Signore, e se non ha voglia di trasformare la sua vita in amore, è difficile che capisca e goda la vocazione. IV. 3. Una nuova percezione del valore del ministero Salto alcune cose, “il valore del ministero nella percezione della gente del prete” (questa è stata direi l’unica parte che è stata…). Se volete ci date un’occhiata e dite che cosa pensate voi. La parte in questione è la n. 3: la percezione del valore del ministero nel prete e nell’uomo di oggi. Sulla pastorale l’ho già detto: per la Visita e l’Unità Pastorale, ecc., non ci sono altre cose particolari, ma salto anche questo. Invece mi fermo un momento sulla affettività, il celibato, e la regola di vita dei preti. 11 IV. 5 La questione affettiva e il celibato Sul valore degli affetti non c’è problema. Dico tre cose nella relazione. Un primo elemento riguarda molto semplicemente “lo stile dei rapporti con gli altri”. Noi per una tradizione che abbiamo alle spalle viviamo generalmente uno stile di rapporti un po’ ingessato, un po’ formale; che ha delle sue motivazioni, ha avuto anche dei vantaggi significativi, però rischia di impedire alla gente di vedere il nostro cuore, e la gente deve potere vedere dentro, deve potere vedere dove ci sono i nostri desideri e dove ci sono le nostre paure, i nostri sogni e i nostri ideali. Vale quello che il Card. Newman ha messo nel suo motto episcopale, Cor ad cor loquitur”, e vuole dire: se vuoi arrivare al cuore della gente devi parlare con il cuore, bisogna che le tue parole vangano fuori dal cuore, allora arrivano al cuore, altrimenti no. E in questo dobbiamo fare un po’ di sforzo, cioè bisogna che la gente senta lo spessore umano che c’è nelle nostre parole e nei nostri gesti. Sono rimasto anche un po’ sorpreso… di un libro su Giovanni Paolo II con questo titolo “Un Papa rimasto uomo”, cioè uno che diventando Papa è rimasto uomo. E io dico: dovrebbe essere evidente che uno se diventa Papa non perde la sua umanità, che se uno diventa prete non perde la sua umanità. Però che lo mettono nel titolo vuole dire che è proprio sorprendente, che invece l’immagine che la gente ha è quella che se uno diventa prete o vescovo o papa mette una specie di vestito addosso che è la forma rigida dove l’umanità non si vede più. E qui invece credo che in questo un po’ di fatica, ma dobbiamo cambiare. Una seconda cosa riguarda “i sentimenti rimossi”, ma su questo non mi ci fermo. La terza invece riguarda la “sessualità del prete”. E qui leggo molto brevemente quanto c’è scritto. Dunque, che sia difficile e un problema questo è fuori discussione, perché non è un problema solo per i preti ma lo è per l’uomo di oggi. La umanizzazione della sessualità è una impresa difficile, tanto che molti ci rinunciano ritenendola impossibile e fonte solo di frustrazioni o di ipocrisie. Per “umanizzazione della sessualità” intendo l'inserimento di sentimenti e decisioni e azioni che coinvolgono il sesso dentro al cammino libero di autocoscienza della persona. Insomma, intendo vivere la sessualità all'interno della crescita di libertà e di amore della persona. Per molti questo sembra un traguardo impossibile, perché la sessualità è considerata una forza irresistibile; pretendere di controllarla e di dirigerla sarebbe illusione, e peggio diventerebbe una ipocrisia. In un contesto simile, il celibato appare a molti una scelta incomprensibile e questa rende la vita del celibe molto più difficile. Siamo tornati un tantino “pagani”: nella concezione pagana l’Eros è una divinità, e alla divinità non si può resistere. “Quando Eros scaglia la sua freccia” ai bel da dire o da fare… ma sei schiavo, sei diventato strumento dell’Eros; siamo tornati a questa concezione dell’Eros. D’altra parte nel celibato è presente un valore che per noi è fondamentale, cioè quello che dicevo prima: “l’assoluto del Regno”; siamo celibi perché il Regno, cioè in concreto Gesù Cristo, ha fatto irruzione nella nostra vita e ha occupato anche gli spazi affettivi della nostra vita: il tempo, i progetti, i desideri… tutto. Così è stato per Gesù, Gesù ha vissuto il Regno in questo modo, così è stato per molti nella storia della Chiesa, e così è per noi. Ma questo chiaramente richiede una percezione della presenza di Dio in Gesù che sia viva e che occupi tempo, sentimenti, pensieri, desideri e immaginazioni; anche la immaginazione deve essere coinvolta. D’altra parte è vero che il celibato anche se apparentemente rifiutato rimane sempre una provocazione al pensiero laico: un invito a scrutare da dove mai venga fuori una forza così grande che si confronta vittoriosamente con l’impulso sessuale. E a volte in quei discorsi che alcuni laici fanno contro il celibato dei preti si vede abbastanza bene che il desiderio, o quello che ci sta dietro, è la volontà di ricondurre la vita dell’uomo tutta a livello della Terra, a escludere il fatto che ci sia un riferimento o un valore trascendente possibile. 12 Chiaramente diventa importante una convinzione profonda del valore del celibato, e questa convinzione può venire solo da un rapporto costante e amicale con Gesù. Non esistono altri motivi che possano sostenere la rinuncia ad un affetto esclusivo, se non la consapevolezza che nel rapporto con il Signore gioco tutto, sono legato con tutto me stesso. Poi chiaramente è necessaria una educazione seria al controllo di sé, perché le provocazioni che il contesto culturale produce oggi sono infinite e seducenti. C’è addirittura una ideologia della seduzione, che è affermata pacificamente a livello di massa per cui sembra impossibile, innaturale, concepire una relazione con la donna che non vada apertamente o surrettiziamente nella logica della seduzione. Per non essere afferrati da questa logica ci vuole una serena capacità di rinuncia motivata e consapevole, tanto più che i modi che la comunicazione di massa ha inventato per favorire la fruizione del sesso sono infiniti e ingegnosi e facilmente accessibili: dalla televisione, a internet, alla telefonia… tutto quello che la tecnica inventa e che l’avidità sfrutta. Bisogna che un prete sia proprio motivato per riuscire a rimanere immune da questa pressione apparentemente irresistibile. E bisogna che interiorizzi una disciplina di vita e di comportamento. Se si vuole vivere il celibato serenamente è inevitabile rinunciare a molte cose, altrimenti sarà difficile essere felici, e sarà difficile essere sempre disponibili per guidare altre persone nel cammino della loro vocazione alla santità. Il fatto che un prete deve essere sempre pronto… attenzione sempre… mattina e sera e anche di notte… a parlare di Dio e di Gesù Cristo se uno bussa alla sua porta, evidentemente richiede, se vogliamo vivere con felicità, che uno Gesù Cristo ce l’abbia sempre nel cuore e sempre vivo. Altrimenti non ci riusciamo ad accogliere una persona che viene a confessarsi e a dire la parola giusta; o diciamo la “parola standard”, questa ci riusciamo sempre, un po’ si trovano le parole che possono andare bene in ogni situazione. Ma la parola viva viene fuori solo se il rapporto con il Signore rimane vivo. IV. 6 L’esigenza di darsi una regola di vita L’ultima cosa riguardava la “Regola di vita”, che vuole dire questo. Fino a cinquant’anni fa i ritmi della vita di un prete erano definiti in modo chiarissimo: si cominciava al mattino sei o sei e mezzo con il Breviario e la Messa e la meditazione, poi c’era il ministero, poi c’erano Le Ore, poi c’era il Vespro, poi c’era la Compieta, e si andava a letto presto; questi ritmi sono saltati. E non vale la pena nemmeno pretendere che ritornino, ci mancherebbe altro. Però non si riesce a vivere senza una regola di vita, senza una regola che custodisca i ritmi. La vita dell’uomo è ritmo: c’è il tempo del dormire e quello dell’essere sveglio, c’è il tempo del lavorare e c’è il tempo del riposare, c’è il tempo del servizio e c’è il tempo della preghiera, c’è il tempo dello stare con gli altri e il tempo dello stare da solo, c’è il tempo dello studiare e c’è quello del divertirsi… Cioè la vita dell’uomo è armonica quando le diverse dimensioni sono collegate tra loro in modo vivo, collegate. “Collegate” vuole dire: una aiuta l’altra: se uno dorme bene di giorno è sveglio, ma se uno dorme male dorme di giorno, e se dorme di giorno va a finire che non riesce addormentarsi alla sera; se uno prega fa il servizio bene, perché se fa il servizio male fa fatica a pregare bene. Cioè i ritmi si aiutano a vicenda. Allora, io qui metto qualche cosa di molto terra a terra, come l’andare a letto presto la sera per alzarsi presto al mattino, e non dico che sia un comandamento. Però uno deve prendere in mano la sua vita e dire: come sto vivendo? Come sto parlando? Come sto riempiendo il tempo? Ogni cosa ha davvero lo spazio che merita? Io dico di andare presto a letto la sera e di alzarsi presto al mattino perché sono convinto che le ore del mattino sono le migliori per la preghiera, e che se uno vuole fare un po’ di Vespri e un po’ di meditazione lo fa al mattino, dopo non ci riesce più. Ma questa naturalmente è una mia convinzione, perché uno può anche dire: “no, la mia esperienza è che invece 13 io al pomeriggio dalle due alle tre riesco a fare la lectio divina tranquillo e tranquillo, nessuno mi disturba, ecc.”. E qui mi arrendo… non è la ricetta in quanto tale. Però il discorso del dire: non puoi vivere una esistenza da prete senza preghiera o senza orazione mentale, e poi pensare di potere essere felice, non ci riesci: o l’uno o l’altro. Senza i tempi di riposo e i tempi di preghiera uno diventa stressato, non c’è altro da fare. Però torno a dire: non esiste una regola, un orario che io debbo… perché credo anche che il vescovo abbia degli orari diversi da quelli di un parroco, come preoccupazioni e come cose da fare, ecc. Però che uno si dia la sua regola, è fondamentale, perché se viviamo semplicemente secondo lo stimolo immediato, che è il modo normale di vivere dei giovani di oggi, non siamo contenti e non viene fuori una bella vita, una vita della quale possiamo essere contenti. Mi fermo qui, perché le altre cose… c’è anche qualche cosa sulle condizioni economiche di vita, ma diventerebbe lungo e non… Allora qual è lo scopo di questa riflessione? Molto semplice: bisogna tra le tante cose che riusciamo a riflettere tra di noi sulla esperienza di vita presbiterale; non la teologia del presbiterato, questa la do per scontata ed è un’altra questione; ma il modo concreto in cui io riesco a vivere il mio presbiterato: le difficoltà che incontro, le opportunità che sto sfruttando, le cose che mi danno gioia, quelle che mi stressano, ecc. Tenendo presente tutte quelle dimensioni che la mia esistenza di uomo è chiamato a trascendere, la mia esistenza di discepolo che segue il Signore, la mia esistenza di prete che segue il Signore servendo la Chiesa, il suo gregge. Su questo molte diocesi stanno lavorando, stanno chiedendo riflessioni ai preti, esperienze, ecc. E credo che forse anche per noi potrebbe essere una occasione buona: di rifletterci e di aiutarci a vicenda a trovare dei punti di riferimento e degli stimoli che siano positivi, che ci aiutino ad essere contenti della nostra vita. * Cv. Documento rilevato come amanuense dal registratore, scritto in uno stile parlato e in una forma didattica e con riferimenti biblici, ma non rivisto dall’autore. 14