CISL
STUDI E RICERCHE
5.3.1999
NOTA CONGIUNTURALE n. 3/1999
L’analisi elabora dati acquisiti fino al 4.3.1999
SINTESI DELLE TENDENZE CONGIUNTURALI ........................................................................................ 1
1.
ECONOMIA ITALIANA................................................................................................................................. 1
2. ECONOMIA INTERNAZIONALE .......................................................................................................................... 3
TENDENZE CONGIUNTURALI ITALIANE .................................................................................................. 7
PRODUZIONE INDUSTRIALE, FATTURATO, ORDINATIVI, PIL ............................................................................... 7
OCCUPAZIONE, COSTO DEL LAVORO E CASSA INTEGRAZIONE NELLE GRANDI IMPRESE ..................................... 9
PREZZI E CONSUMI: PRODUZIONE E DETTAGLIO ............................................................................................... 11
BILANCIA COMMERCIALE .................................................................................................................................. 12
MERCATI FINANZIARI E VALUTARI .................................................................................................................... 13
CONTI ECONOMICI NAZIONALI .......................................................................................................................... 13
TENDENZE CONGIUNTURALI INTERNAZIONALI ................................................................................ 15
STATI UNITI ...................................................................................................................................................... 15
GERMANIA ........................................................................................................................................................ 16
FRANCIA ........................................................................................................................................................... 17
GRAN BRETAGNA ............................................................................................................................................. 18
GIAPPONE ......................................................................................................................................................... 18
CALENDARIO 3/99 ........................................................................................................................................... 19
INDICATORI ECONOMICI E FINANZIARI A CONFRONTO ................................................................. 20
La sintesi di questa Nota congiunturale
è pubblicata su
“Conquiste del lavoro” del 5 marzo 1999
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Fonti: BANCAD’ITALIA/CENSIS/CER/CNEL/CSC/ENEL/IRS/ISAE/ISTAT/PROMETEIA/UIC/
EUROSTAT/FMI/NIELSEN/OCSE/THE ECONOMIST
SINTESI DELLE TENDENZE CONGIUNTURALI
1. Economia italiana
Le indicazioni provenienti dall’industria mostrano che l’attività produttiva va decelerando:
persino più rapidamente di un’attesa già improntata comunque al pessimismo. I dati di dicembre
dell’Istat, infatti, mostrano un rallentamento peggiore di quello preconizzato dalle stime di Irs e
CsC. Così, nei fatti, l’aumento della produzione industriale per il ‘98 scende al di sotto del già
modesto, previsto incremento del 2%: la produzione, misurata con l’indice destagionalizzato - che
meglio riflette la realtà delle cose - si riduce del 6,1% e, al netto dell’effetto calendario, raggiunge il
7,6. Il dato di dicembre risente probabilmente anche della situazione particolare caratterizzata di
bassa congiuntura che, in presenza di una curva di ordinativi discendente da diversi mesi, ha indotto
le imprese ad approfittare delle vacanze natalizie anche per “razionalizzare” la produzione. Ma, in
conclusione, il dato ufficiale sui conti pubblici del ‘98 vede la crescita annuale del Pil ridotta
all’1,4% e mette bene in evidenza come, senza la presenza di “droghe” (incentivi alla rottamazione,
forse soprattutto possibilità di svalutazione, quant’altro) e di una forte domanda estera, l’economia
del nostro paese proprio non ce la fa a risollevarsi: indicatore chiaro dell’esistenza di problemi
strutturali rilevanti.
La debolezza della fase congiunturale viene confermata da fatturato e ordinativi alle imprese. Il
primo mostra, fortunatamente, qualche segnale di risveglio ma per gli ordinativi la situazione
rimane critica: ad eccezione di pochi settori, come legno e prodotti in legno - dove, però, la
produzione in dicembre rispetto al dicembre del ’97 è, intanto, paurosamente calata -, il
ripiegamento resta generale e, allo scarso dinamismo di consumi e investimenti interni, si aggiunge
- determinante - la contrazione della domanda estera. In effetti, la riduzione dell’interscambio
commerciale per le difficoltà innescate sui flussi dalle varie crisi che si accavallano - asiatiche,
russa, dei paesi dell’America latina - ha inciso non poco sull’attività produttiva.
Un quadro, dunque, che non può certo determinare ricadute positive sull’occupazione. Anche nella
grande impresa industriale si intensificano le difficoltà: si riduce ancora il livello occupazionale e
aumenta la cassa integrazione, il tutto in un contesto che vede continuare a contrarsi il costo del
lavoro per dipendente mentre è lievemente migliore la performance delle grandi imprese dei
servizi. Ma la situazione resta pesante, specie nel settore manifatturiero ed energetico.
Pur in questo contesto, il clima di fiducia tra consumatori ed imprese rilevato dall’Isae (Istituto di
Studi e Analisi Economica: si chiama così l’istituto successore del vecchio Isco), calato fortemente
negli ultimi mesi rispetto ai livelli raggiunti nella primavera del ‘98, riporta invece in gennaio un
recupero non trascurabile. Si riscontra, intanto, una certa vivacità sulle attese di vendita di prodotti
di largo consumo: di per sé un segnale importante in un clima piuttosto cupo. E, dopo alcuni mesi di
ristagno di domanda e produzione, nell’ultima rilevazione Isae le imprese mostrano prospettive più
ottimistiche in particolare proprio per attività produttiva e ordinativi, tirati da un aumento delle
esportazioni. Migliorano anche le attese dei consumatori, grazie alle migliori prospettive di bilancio
familiare.
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Si tratta di una stima particolarmente importante: se confermata dai fatti segnalerebbe, in effetti, una
ripresa dei consumi e, quindi, dell’attività produttiva delle imprese. Il campione di imprenditori
considerato dall’Isae si spinge anche, in chiara inversione della tendenza, a prevedere un recupero
dell’occupazione, e a prezzi che resterebbero praticamente fermi. E’ gennaio che, in queste
rilevazioni di aspettativa dei consumatori e degli imprenditori, dovrebbe rappresentare nei fatti il
mese di inversione della tendenza, almeno nelle prospettive a breve.
L’interscambio commerciale complessivo (paesi dell’unione europea, cioè Ue, ed extra-Ue) per il
‘98 mostra un saldo attivo per dicembre pari a 2.777 miliardi di lire (2.822 a dicembre ‘97), mentre
considerando il saldo cumulato, il ‘98 chiude con un attivo di 46.649 miliardi contro i 52.715 del
‘97. Per i soli paesi extra-Ue, nel mese di gennaio si registra un saldo negativo di 274 miliardi, con
una variazione tendenziale in calo tanto nell’export (-13.6%) che nell’import (-14,5%). In termini
tendenziali si riscontra una riduzione delle esportazioni verso tutti i paesi e le aree geografiche, in
particolare nei confronti delle aree di crisi e con unica eccezione l’export verso gli Stati Uniti.
Rispetto a gennaio ‘98, il valore dell’export di gennaio ’99 nei confronti dei paesi asiatici di nuova
industrializzazione, e nei confronti di Cina, Giappone, Turchia, Russia e i paesi dell’Opec è caduto
con percentuali che vanno dal 20% ad oltre il 70%.
Un dato sempre positivo proviene dai prezzi. Quelli alla produzione continuano a scendere (dello
0,3% a gennaio rispetto al mese precedente; e dlel’1,7% rispetto al gennaio del ’97), sempre e
soprattutto per la caduta del costo delle materie prime, per la sostanziale stagnazione dell’economia
ma anche per una “moderazione” salariale che resta stabile. E la dinamica dei prezzi al consumo è
scesa, a gennaio, dell’1,5% in termini tendenziali, aumentando sul mese precedente dello 0,1%.
La stagnazione dell’attività produttiva preoccupa anche per l’andamento dei conti pubblici:
provoca una riduzione delle entrate e fomenta i timori per il bilancio (ragionevoli alcuni, altri
artefatti) della Commissione europea. Di fatto, però, l’Ecofin (il Consiglio dei ministri
dell’Economia dell’Unione) ha approvato il piano di stabilità presentato da Ciampi (disavanzo
pubblico in percentuale del Pil al 2% nel ’99, all’1,5 nel 2000 e all’1% nel 2001), sottolineando
tuttavia l’esigenza di misure correttive (in parole povere, manovre) nel caso in cui la congiuntura
continui a manifestarsi sfavorevole. Un’ipotesi che - malgrado la raccomandazione sia stata
identica, di natura ugualmente scaramantico-iettatoria, ad esempio per la Francia e persino per la
magna Germania - ha generato subito accese discussioni - quali giustificate, quali strumentali… sulla finanza pubblica e gli squilibri finanziari del sistema - ma guarda un po’ - pensionistico.
Abbastanza piatta, nel mese, la performance dei mercati finanziari, intimoriti dalle incertezze sulla
deflazione in corso - anche qui: qua vera e qua piuttosto presunta - e sulle implicazioni di finanza
pubblica a breve termine e condizionati dall’evoluzione delle borse estere. Qualche sussulto - ma,
appunto, in su e in giù: azioni e reazioni a catena, ma ancora come frenate, esitanti, sui listini e sulle
strategie dei due gruppi; e le cose resteranno così finchè non sarà fatta completa chiarezza - è stato
innescato nell’ultima decade di febbraio dal lancio dell’Opa Olivetti per la Telecom.
Qui, anche la Consob ha contribuito un po’ - ma, a rigore, non poteva altrimenti - ad alimentare la
confusione: prima, dicendo di non riconoscere come vera e propria Opa il primo documento Olivetti
(era la tesi Telecom, difensiva) ma, poi, pochissimi giorni dopo, considerando congrui e
soddisfacenti i chiarimenti e gli impegni degli scalatori (ed è la tesi Olivetti&soci). Adesso, come si
dice, dovrebbe spettare al mercato decidere: ma non ci credono tutti che sarà così.
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Comunque, è sacrosanta la “pretesa” nostra - del sindacato - anzitutto di vedere le carte e la
credibilità delle carte di tutti i contendenti sul piano industriale che gli scalatori si sono impegnati a
rendere pubblico: vogliamo sapere che progetti, anzi che impegni, prendono per l’occupazione
(dopotutto, sarà pure un Opa da oltre 100 mila miliardi; ma Telecom dà anche lavoro ad oltre 100
mila occupati); e vogliamo anche capire se si vuole e come si può dar peso decisionale effettivo
nella vicenda anche all’azionariato collettivo dei lavoratori azionisti.
Più in generale, è anche giusta la tesi Telecom di vederci chiaro fino in fondo sull’Opa: sui prezzi,
le liquidità effettivamente disponibili, l’indebitamento degli scalatori, i tempi, ecc., ecc. Non è
giusta, per contro, l’altra pretesa che sembra sottostare alla difesa Telecom, o alla strategia di difesa
proposta da qualcuno contro l’Opa per Telecom, quando dice che, in nome di non si sa bene qual
interesse nazionale, sarebbe stato opportuno che il governo facesse valere il peso della sua golden
share contro i rischi del mercato… Come se le leggi sull’Opa dovessero star lì a far da sentinella
all’immutabilità dell’esistente.
2. Economia internazionale
L’attuale fase congiunturale conferma l’evoluzione delle economie occidentali che si è andata
delineando da alcuni mesi e che vede la sorprendente tenuta dei ritmi di crescita e di occupazione
dell’economia statunitense (che, in ogni caso, va rallentando) insieme alle diverse difficoltà
incontrate dalle maggiori economie europee che subiscono un arresto della ripresa, peraltro
(ancora?) modesto. Davvero problematica rimane, per contro, la situazione dell’economia
giapponese dove desta qualche particolare preoccupazione il balzo in avanti dei tassi a lungo
termine.
I mercati finanziari europei e occidentali hanno continuato a mostrarsi nervosi, con rialzi e repentini
ribassi legati alle attese sui tassi di interesse statunitensi, europei e giapponesi ma anche ai diversi
andamenti dell’economia reale ancora sostenuta negli Stati Uniti e in rallentamento in Europa. Alla
riduzione dei volumi in Europa hanno contribuito anche alcuni comportamenti speculativi e
particolari situazioni interne che hanno reso confuse le prospettive a breve termine.
Nel contesto internazionale, l’inflazione che rimane sotto controllo è forse l’unica costante che
caratterizza i maggiori paesi industrializzati. Nelle economie europee, complice anche la fase
congiunturale depressa, la dinamica dei prezzi è ormai a livelli minimi da diversi anni e sotto l’1%
in Francia e Germania, mentre notevoli progressi proseguono nelle altre economie.
Nel primo mese di vita, in gennaio, l’euro ha conquistato una bella fetta del mercato
obbligazionario internazionale: quasi il 50%, da solo, delle nuove emissioni. Ma nel suo primo
bimestre ha continuato anche ad indebolirsi sul dollaro, con cali ormai superiori al 5% rispetto al
debutto.
Il fatto è che le due valute riflettono il combinato-disposto di diversi fattori: primo, lo stato di salute
delle due economie reali e, in particolare, la percezione che ne hanno i mercati che, poi, come è
noto, conta più ancora della realtà; e, dunque, a fronte della stasi europea, cui un dollaro tornato ai
valori di inizio del ‘98 fa comodo in termini concorrenziali, la forza eccezionale di un’economia,
quella americana, cui si possono certo fare le pulci su qualità e, soprattutto, equità della crescita ma
che in ogni caso continua a crescere, senza inflazione, da anni; secondo, lo sconcerto dei mercati di
fronte alle ardite intenzioni - finora non si tratta davvero di altro - di quegli europei (in primis,
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Lafontaine, ministro dell’Economia tedesco) che insistono a dire come la Banca centrale europea
dovrebbe copiare sul serio il modello americano: fare come la Fed, cioè, e come raccomanda con
forza lo stesso Tesoro americano (lo ha detto al vertice di Bonn dei G7), sostenere con la moneta e
la politica monetaria la politica economica dei governi e anzitutto la creazione di occupazione…; e,
infine, terzo fattore - ma forse primo motivo - di indebolimento dell’euro rispetto al dollaro, lo
stacco fra un’economia unitaria come quella statunitense e la divaricazione costante e frustrante
delle economie del vecchio continente pur a fronte di una moneta ormai unica come l’euro.
Sono questi gli ingredienti - oltre naturalmente alla geo-politica: cioè, a quanto si conta nel mondo,
cosa che dipende anch’essa, però, dalla divaricazione o meno delle volontà politiche - che ancora, e
sempre pongono e porranno il dollaro in posizione preponderante finchè l’Europa oltre alla moneta
non unifica queste altre sue dimensioni. E, poi, pure sull’unificazione della moneta…: bello
spettacolo quello dato, da tutti, su chi dovrebbe rappresentare l’euro nelle riunioni internazionali!
La Commissione europea ha lamentato, e reso pubblico, di esser stata tenuta fuori dalla riunione dei
G7, anche se l’accordo tra gli undici dell’euro era che la moneta unica vi fosse rappresentata
insieme da Commissione, Bce e ministro delle Finanze che presiede per turno l’“euro-11”. La verità
è che sono stati gli americani, al vertice di Bonn, a far presente quanto fosse ridicola una
rappresentanza tricefala per una moneta che si diceva unica. E avevano, certo, ragione. Nel merito
anche se non nel modo, al solito un tantino arrogante, in cui hanno fatto prevalere, al solito, il loro
punto di vista.
Insomma, si ha l’impressione - e anche qualcosa di più - che non sia soltanto la forma smagliante
dell’economia americana a ridimensionare l’euro, ma proprio il comportamento dei paesi europei
- non si può dire dell’Europa: proprio perché l’Europa ancora non c’è - che, dopo le baruffe sulla
presidenza della Banca centrale europea, si sono presentati alla recente riunione dei G7 a Bonn in
ordine sparso, con una serie di proposte contraddittorie tra loro e, dunque, al meglio silenti e non
come Unione europea. Con in più - e in ridondanza - il governatore della Bce e i singoli governatori
delle singole Banche centrali (ma a che pro? per solleticarne l’ego un po’ infranto? allora, che
l’abbiamo fatto a fare l’euro?).
Ma, finalmente, stavolta, sono stati anche gli osservatori più accademici e freddi, meno appassionati
e meno entusiasti della dimensione europea, a cogliere il buco che c’è e che si riflette dritto dritto in
un differenziale pesantemente economico, tra moneta e politica: cioè tra embrione, importante, di
un’Europa che c’è ma che - cominciano anche loro a sospettarlo - non potrà durare senza un’unione
un po’ più vera, economica ed anche politica.
Dopo la caduta inaspettata della produzione industriale a novembre, la situazione produttiva e
occupazionale appare particolarmente incerta in Germania che riporta ancora una flessione in
dicembre. Nel complesso del ‘98, l’attività dell’industria tedesca è calata (non si è ridotto
l’aumento: è stato proprio un calo) dello 0,8% quando nel ‘97 era cresciuta del 3.2%. E le
prospettive a breve termine rimangono preoccupanti, con riduzioni continue (la sesta consecutiva, a
dicembre) negli ordinativi alle imprese, in particolare per gli ordini relativi ai beni di investimento.
Particolarmente colpita rimane la parte più ricca e produttiva del paese, la regione occidentale:
perché su scala nazionale la flessione di ordini e produzione è stata limitata dalla sorprendente
vitalità delle regioni orientali.
I segnali di ripresa rimangono particolarmente deboli, quindi, e le prospettive non sembrano
favorevoli. Non hanno neanche aiutano le tensioni sul mercato del lavoro, dominato dal rinnovo dei
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contratti di diversi settori tra cui il metalmeccanico: chiuso finalmente con un arbitraggio
consensualmente voluto, ma dopo che l’associazione degli industriali aveva gonfiato pubblicamente
un po’ troppo i muscoli e, anche perciò, su valori che hanno di sicuro fatto più contento il sindacato
del padronato (la richiesta iniziale, negoziabile, da oltre il 6% che era è stata soddisfatta con un
aumento per il ‘99 del 4,2%: da noi, i metalmeccanici stanno chiedendo per il biennio ‘99-2000
complessivamente il 3%…).
Non migliora la situazione occupazionale e sembra, anzi, aggravarsi per la moderazione dei ritmi
produttivi. In gennaio, così, il numero dei disoccupati è aumentato di 258 mila unità rispetto al mese
di dicembre, portando lo stock dei senza lavoro alla cifra di 4,45 milioni: il tasso di disoccupazione
è salito nelle regioni orientali (18,9%) e in quelle occidentali (9,7%), portando il dato nazionale
all’11,5%. Su base destagionalizzata, però, il numero di disoccupati è sceso di circa 59 mila unità (4
milioni e 92mila): ma si mostra ostinatamente rachitica la domanda di lavoro nei settori
manifatturieri della Germania occidentale. La frenata della crescita e dell’occupazione inizia a
preoccupare il nuovo Cancelliere per i risvolti politici, messi in evidenza dalle prime, grosse
delusioni elettorali dopo la vittoria nazionale dell’autunno scorso.
Anche in Francia, che tra i paesi europei conta il tasso di crescita più elevato per il ‘98, la
situazione rimane caratterizzata da una riduzione dei ritmi, mentre sul governo aumentano le
pressioni per la riforma di alcuni settori del servizio pubblico (sanità e pensioni) e permangono le
tensioni legate all’applicazione della riduzione dell’orario di lavoro. Tuttavia, anche se la crescita
per l’anno in corso non dovrebbe superare il 2,2-2,4%, i dati più recenti sulla domanda interna e, in
particolare sui consumi appaiono soddisfacenti rappresentando, comunque, una garanzia per la
crescita nel corso dell’anno.
Il ciclo economico appare, invece, in particolare difficoltà in Gran Bretagna, dove più positivo era
stato finora e dove i dati sull’attività produttiva industriale restano sempre inferiori alle attese (0,6% il dato congiunturale di dicembre e -1% quello tendenziale). E sono la maggioranza gli
analisti che, sulla possibilità di un’estensione dei problemi dal settore manifatturiero agli altri settori
dell’economia, disegnano ormai scenari recessivi. A conferma della serietà del problema c’è
l’ulteriore riduzione del tasso base (sorprendente per dimensione: di ½ punto secco, al 5,5%)
operata dalle autorità monetarie. Essa, però, anche se superiore alle attese, non è ritenuta sufficiente
dai mercati che, alla luce dei dati non confortanti sull’economia e di un aumento dei prezzi che resta
moderato, continuano a formulare nuove attese di ribasso e a premere di conseguenza.
Diversa l’evoluzione congiunturale dell’economia americana che si mostra ancora una volta più
dinamica - ma, soprattutto, più costantemente dinamica - del previsto. Tutta una lunga serie di
indicatori continua a mostrare il pieno vigore dell’economia degli Stati Uniti che tira e cresce senza
frenate da 93 mesi consecutivi. Continuano ad aumentare gli ordinativi alle imprese (+2,3% a
dicembre), in particolare per il sostenuto incremento della domanda di beni durevoli e continua ad
aumentare l’occupazione (a gennaio, 245 mila posti di lavoro in più), mentre il tasso di
disoccupazione rimane ai minimi storici (4,3%) grazie alla vivacità del settore dei servizi.
Certo. C’è il rovescio di questa medaglia, e bisogna tenerlo presente quando dovunque si sente
parlare di copiare il modello americano (che in parecchie cose, sia chiaro, ma non certo in tutte
sarebbe anche utile studiare e, magari, seguire). Lo riassume così uno studio recentissimo della
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Cornell University1.: “l’impatto di sette anni di ripresa economica sul tenore di vita dei lavoratori
in America si può correttamente riassumere così: buone notizie a partire dal 1996, con salari e
redditi che crescono e una disoccupazione che è scesa ai minimi storici; ma, nel corso dei sette
anni della ripresa, il reddito medio si riavvicina soltanto adesso al livello che aveva raggiunto al
culmine dell’altra ripresa nel 1989; e la famiglia-tipo lavora adesso sei settimane in più all’anno
solo per tenere il passo di allora”.
Ora, le statistiche sull’attività produttiva e sull’occupazione e quelle relative ai consumi, ancora
dinamici per il sostegno degli utili di borsa, hanno generato una certa pressione sulle autorità
monetarie per un rialzo dei tassi. Che, per il momento, la Banca centrale, la Fed, ed il suo presidente
Greenspan non hanno ritenuto di assecondare: per le cautele che considerano loro imposte dallo
scenario internazionale, Asia e soprattutto America latina dove, per il Brasile, l’insolvenza sembra
farsi ormai inevitabile. Le autorità di politica economica stimano, infatti, probabile, a questo punto
anzi inevitabile, una riduzione dei ritmi di crescita in corso d’anno (sempre su livelli che per noi
sarebbero soddisfacenti, sia chiaro, sul 2,5-3%) e non escludono nuove e repentine crisi
internazionali che potrebbero colpire anche, e proprio, l’economia americana.
Ma stavolta la decisione della Fed va letta alla luce delle dichiarazioni di fondo di Greenspan al
Congresso, tendenti piuttosto al cupo. L’economia - ha detto2. - si comporta in modo “ammirevole”,
ma “dopo otto anni di espansione sembra arrivata ai limiti (stretched) in diverse con considerevoli
impliciti rischi sia di overdose che di rallentamento per il futuro”.
Rischi su tre fronti. Il debito anzitutto, privato oltrechè pubblico, perché “gli americani spendono
ogni centesimo che guadagnano e anche quello che non guadagnano, indebitandosi fino a un punto
che provoca inquietudini all’estero”. Così, “prima o poi, gli stranieri che li detengono potrebbero
stancarsi di tenere in portafoglio investimenti e dollari americani e, cercando di liquidarli,
potrebbero deprimere il dollaro e far infiammare l’inflazione qui, in Usa”. Poi, un mercato del
lavoro che si va facendo un po’ troppo “teso: solo 10 milioni di adulti costituiscono oggi l’offerta,
la percentuale più scarsa di sempre a fronte di una domanda che resta alta”, anche se spesso il
lavoro poi è un tantino sui generis. Ma così, di fatto, “le imprese subiscono enormi pressioni per
alzare salari e benefici e attirare così lavoratori scarsi” e si fa forte il rischio-inflazione. Infine - ed
è la terza ragione di rischio -, la borsa: qui Greenspan è tornato a suonare una sua vecchia, reiterata
canzone: “il prezzo delle azioni è ormai tanto alto da sollevare sospetti di sopravvalutazione e resta
vulnerabile alle condizioni rapidamente mutanti dell’estero che si trasmettono, come abbiamo visto
in estate, traumaticamente e rapidamente ai mercati americani”.
Ma anche stavolta i mercati non sembrano averlo preso troppo sul serio. Ha detto un operatore
importante che la Fed ha gridato “al lupo” per troppe volte e, adesso, con queste parole ha voluto
dire soltanto che “non si muoverà finchè non succede qualcosa e che, comunque, non sa in che
direzione si muoverà”.
Critica rimane la situazione in Giappone, che nel mese di febbraio registra una certa tensione tra
Banca centrale, contraria ad intervenire sul mercato dei titoli di Stato, e ministero del Tesoro,
favorevole invece ad un intervento di riduzione dei tassi di interesse (balzati verso l’alto, ma sempre
1.
The State of Working America 1998-1999, di L. Mischel, J. Bernstein e J. Schmitt,
Economic Policy Institute, Cornell University Press, 1999.
2.
The Washington Post, 24.2.1999: deposizione alla Commissione bancaria del Senato.
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in dimensioni nipponiche, infinitesimali cioè rispetto alle nostre, per i problemi di debito pubblico).
Un problema che inizia a preoccupare gli Stati Uniti e gli altri paesi occidentali sia per gli effetti di
un più alto costo del denaro, sia per quelli sul mercato delle valute.
TENDENZE CONGIUNTURALI ITALIANE
Produzione industriale, Fatturato, Ordinativi, PIL
L’analisi della fase congiunturale è, ancora una volta, più deludente del previsto. L’attività
industriale continua a soffrire e mostra difficoltà piuttosto serie. Il dato di dicembre sulla
produzione industriale a fatto scendere l’incremento relativo al ‘98 all’1,7%, quando le stime ormai
concordavano su un 2%, già in sé deludente. Fase di vere e propria stagnazione, dunque, in
persistenza certamente più lunga e difficile di quanto previsto dalle autorità di politica economica e,
anche, dai maggiori centri di previsione.
Il dato di dicembre costituisce un record negativo e, almeno per la sua intensità, anche inaspettato:
l’indice grezzo denuncia una contrazione del 3,9% rispetto allo stesso mese del ’97 ma, misurata
con l’indice destagionalizzato che rende più correttamente l’idea, la produzione media giornaliera
crolla (non c’è altro termine che renda bene l’idea) del 6,1% sul mese precedente. Considerato
l’effetto calendario (questo dicembre si è lavorato una giornata in più rispetto al dicembre ‘97) il
dato tendenziale si fa ancora più serio: -7,6%.
L’indice di produzione si è riportato, in sintesi, a un livello inferiore a quello di inizio d’anno. E la
caduta dell’attività produttiva di dicembre è stata generalizzata: l’indice grezzo conta una
contrazione dicembre su dicembre del 5,2% per la produzione di beni intermedi, una caduta del 3%
per quella dei beni d’investimento e una flessione dell’1,3 per la produzione di beni di consumo.
Sensibile, tra i settori dei beni d’investimento, il calo nei mezzi di trasporto (-5,4%) e nelle
macchine ed apparecchi (-4,9%); caduta non compensata dall’incremento registrato negli “altri beni
d’investimento” (+7%). Tra i beni di consumo, la variazione negativa più forte - e più preoccupante
per il futuro - è nella produzione di beni durevoli (-6,2%), mentre più contenuta è la flessione di
produzione di beni semidurevoli (-0,2%) coi beni non durevoli che riscontrano un lievissimo
incremento (+0,1%).
In termini tendenziali i settori sono tutti in rosso ad eccezione (ma ci si riferisce al dato grezzo)
delle industrie petrolifere (+1,7%). Veri e propri crolli sono riportati dal settore del legno (-13,4%);
da metalli e macchine e apparecchiature elettriche e ottiche (-9,4%). Ma anche chimica, meccanica,
tessile-abbigliamento, mezzi di trasporto riportano tutti una contrazione della produzione tra il 6% e
il 7,5%.
La destinazione economica dell’incremento del ’98, quello scarno +1,7%, si è ripartita in una
crescita del 2,6% della produzione di beni intermedi; dello 0,5% per i beni di consumo e dello 0,1%
per i beni d’investimento: bilancio più che modesto per un anno che, negli ultimi mesi del ‘97, era
stato indicato quasi all’unanimità come quello della ripresa economica. I segnali negativi hanno
origini diverse e ormai note: venir meno degli impulsi dati dal drogaggio dagli incentivi alla
rottamazione, con effetti negativi che erano stati sottostimati; forte e, anche qui, sottostimata
contrazione della domanda estera dovuta alla crisi internazionale, prima fra tutte la crisi asiatica che
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ha ridimensionato il commercio mondiale; modesto andamento, per cambiare sottovalutato, delle
componenti interne della domanda.
Questi fattori stanno assumendo, questo poi è il punto, un carattere strutturale. Di fatto non si
capisce bene perché la ripresa debba essere essenzialmente “drogata” da incentivi che gonfiano a
breve l’attività produttiva di settori particolari e di un po’ di indotto per poi sgonfiarsi a fine
incentivo senza aver prodotto - e qui casca l’asino - alcuna conseguenza di rilievo e duratura sia
sull’attività produttiva che sull’occupazione. Non si capisce come sia stato possibile a modelli tanto
sofisticati e a esperti tanto preclari sottovalutare tanto quanto avrebbe inciso la crisi asiatica
sull’economia italiana: da noi, la quota percentuale sul Pil del valore delle esportazioni di merci
verso i paesi più coinvolti dalla crisi (Cina, paesi asiatici e Giappone) si è ridotta, tra ‘97 e ’98,
dall’1,4% all’1% mentre è aumentata la quota di importazioni in valore nello stesso periodo,
dall’1% all’1,2%.
La verità è che noi da lì importiamo materie prime di cui comunque non possiamo fare a meno e
loro, da noi, più beni di consumo che altro, dei quali - costretti - si possono privare più
agevolmente. Ecco - brutalmente schematizzando, sicuro: ma qualche volta è utile farlo per
spiegarsi bene - perché la loro crisi ha pesato tanto di più su di noi che su economie come quella
francese e tedesca che esportano in proporzione più beni di investimento che di consumo e che,
comunque, pur subendo anch’esse una contrazione dell’attività produttiva, presentano tassi di
crescita dell’economia ben più sostenuti dei nostri.
Pur tenendo conto che il crollo dell’attività produttiva è intervenuto in un mese tanto particolare
come dicembre, rimane il fatto che le imprese hanno ridotto al minimo l’attività per il crollo di
ordinativi che da diversi mesi caratterizza il loro portafoglio-ordini. Elementi piuttosto noti - sia la
peculiarità produttiva del mese che la frenata degli ordinativi - ma che non sono bastati né alle
indagini Irs né a quelle del CsC per prevedere una simile contrazione.
Al di là dei commenti del singolo mese, rimane pesante l’effetto trascinamento del dato sull’anno in
corso che rischia, sin dall’inizio, di ridimensionare le già ridimensionate previsioni del tasso di
crescita del ‘99. C’è tra i commentatori chi fa notare come ciò sia, in definitiva, improbabile dato
che la contrazione usuale dell’attività produttiva nell’ultimo mese dell’anno è relativa proprio alla
precisa volontà delle imprese di utilizzare le festività natalizie per chiudere gli impianti, a fronte di
una domanda piuttosto debole. Ma il tasso medio della produzione industriale relativo al quarto
trimestre del ’98, in flessione rispetto al tasso medio del trimestre precedente dell’1,2%, dovrebbe
provocare comunque un effetto negativo sul ‘99 di circa un punto percentuale.
Tuttavia, ciò che davvero preoccupa sono le caratteristiche di struttura dell’attuale fase produttiva.
Di struttura, cioè in quanto tali dotate di una certa persistenza: il bisogno di incentivi continui per
alimentare la ripresa e la caduta di competitività di molti prodotti italiani. E’ in questo quadro che
vanno valutate le attese degli imprenditori che, malgrado le prime stime Irs su gennaio e febbraio
mostrino un lievissimo recupero, rimangono quantomeno caute su ordini e produzione.. Per i
prossimi mesi, a questo punto, la cautela è d’obbligo. Stime e previsioni dovranno fare i conti con
uno scenario ricco di comportamenti inerziali che tenderanno a mantenere caute le aspettative di
ripresa degli imprenditori.
Insomma, la ripresa difficilmente potrà irrobustirsi prima dei mesi estivi. Il che preoccupa per una
serie considerevole di motivi, non da ultimo quello relativo ai conti pubblici che, a causa di
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stagnazione e relativo mancato gettito, iniziano a presentare profili diversi da quelli programmati. I
nuovi dati sull’attività produttiva e l’analisi delle attese hanno indotto molti analisti a considerare
con cautela anche gli obiettivi di crescita (già ridimensionati da molti, all’1,8-1,9%) e, almeno
parzialmente, hanno smentito previsioni e stime più favorevoli, formulate recentemente dal Centro
studi di Confindustria e da parecchi consiglieri economici del governo.
Qualche buona notizia arriva dai dati sul fatturato mentre rimane critica la situazione sugli
ordinativi del mese di novembre. L’Istat rileva un incremento tendenziale del fatturato in questo
mese pari all’1,4%, dovuto ad un aumento delle vendite sul mercato interno (+1,9%) e sui mercati
esteri (+0,3%): dati modesti, che seguono però due mesi di contrazioni anche rilevanti (quella
relativa ad ottobre è stata del -5,3%). L’indice relativo agli ordinativi dell’industria per lo stesso
mese, conta ancora una contrazione tendenziale pari al 3,0% (con diminuzione degli ordini interni
dell’1,2% e caduta di quelli provenienti dall’estero pari al 5,7%), dato negativo che segue,
leggermente inferiore, alla forte contrazione del mese precedente (-6,8%).
Nel periodo gennaio-novembre ‘98, il fatturato dell’industria conta un aumento del 2,2% sullo
stesso periodo dell’anno precedente, con il mercato interno riflesso in aumento per l’1,6% e le
vendite all’estero che crescono, nel periodo considerato, del 3,6%. Segno + anche per gli ordinativi
nei primi undici mesi dell’anno, con +2,4% sullo stesso periodo del ‘97 (+1% per gli ordini
provenienti dall’interno e +4,3% per quelli dall’estero).
Il dato sugli ordinativi di novembre, mostra segni positivi per i settori dei mobili (+10%) e del legno
e prodotti del legno (+8,2%), mentre forti riduzioni si riscontrano nell’industria conciaria e dei
prodotti in cuoio e pelle (-17,4%) e nella fabbricazione di macchine elettriche (-7,5%). I dati sugli
ordini continuano a confermare, quindi, le attese delle imprese formulate alcuni mesi fa in relazione
sia all’andamento del mercato interno che a quello del mercato estero. Ma le più recenti (e in
qualche modo nuove) indagini messe a punto dall’Isae per i consumatori e le imprese, mostrano buona rondine che, speriamo proprio, faccia, sì, primavera - al contrario un’inversione netta di
tendenza delle aspettative di consumo, ordini e produzione a partire dal mese di gennaio. Attese che
tendono al meglio, mostrando sensibili miglioramenti per i prossimi mesi e che, appunto, se
venissero confermate come fatti, si tradurrebbero in un aumento dei consumi e della produzione
industriale sin dai prossimi mesi.
Un segnale positivo al riguardo, non più soltanto un’aspettativa, sembra provenire finalmente
proprio dalle spese per i consumi. Le vendite dei prodotti di largo consumo sono aumentate nel ‘98
(secondo la Nielsen) dell’1,7% in termini tendenziali. Non basta sicuramente, ma è già un fatto
apprezzabile. In particolare, il volume delle vendite ha mostrato un ritmo più vivace nel secondo
semestre passando da un aumento medio dell’1,1% del primo semestre al 2,3% del secondo.
Occupazione, Costo del lavoro e Cassa integrazione nelle Grandi Imprese
Il dato di novembre relativo all’indagine dell’Istat su posti di lavoro e retribuzioni delle grandi
imprese dell’industria conferma che il recupero di occupazione che, pur con dinamica lentissima,
si era avviato a inizio ’98 è ormai bloccato, anzi in perdita ulteriore. Nella grande industria, la
variazione congiunturale (rispetto ad ottobre, cioè) dell’occupazione mostra in novembre una
flessione dello 0,2%: ma, calcolato senza tener conto della cassa integrazione guadagni, il calo in un
mese è addirittura moltiplicato per cinque, dell’1,1%. E’ in realtà da settembre, da quando si è
interrotto il lento recupero di cui si diceva, che l’arretramento occupazionale sembra, in altre parole,
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intensificarsi: al netto Cig, le flessioni congiunturali di occupazione nelle imprese industriali con
più di 500 addetti sono state dello 0,1% a settembre, dello 0,8 ad ottobre e, appunto dell’1,1% a
novembre.
E la variazione tendenziale, col dato di novembre comparato dunque a quello del novembre ’97,
raggiunge il -2% (17 mila posti di lavoro in meno: qui, nel tendenziale, dopo la decelerazione delle
variazioni negative che aveva permesso nella prima parte dell’anno di contenere le perdite all’1,6%,
da settembre si riscontra un’accelerazione della flessione che passa all’1,7%, poi all’1,9 ad ottobre e
al 2% adesso, a novembre. E, anche qui, calcolata al netto Cig la perdita è ancora più secca: il 3% di
posti di lavoro in meno.
La riduzione dell’occupazione coinvolge pressochè tutti i settori del manifatturiero (-1,7%, nel
complesso), con forti flessioni nei comparti della fabbricazione dei mezzi di trasporto e nel settore
dell’energia, gas e acqua (entrambi, -3,7%), del tessile-abbigliamento (-3,4%) e della gomma e
materie plastiche (-2,7%).
Dice Confindustria, in proposito, che non c’è niente da preoccuparsi: “calo fisiologico”, risultato
per lo più dell’out-sourcing, cioè della cessione a piccole imprese della produzione delle grandi
imprese. Insomma, i posti di lavoro ceduti dalle grandi industrie sarebbero compensati da quelli
nuovi nella piccola… Ma, a parte la “qualità”, diversa, di questi posti da quelli, dove stanno poi, nei
fatti e neon nei miti, questi posti nuovi?
Osserva, infatti, la Cisl che invece c’è proprio da preoccuparsi, perché questo dato e lo stallo
occupazionale anche nelle imprese più piccole è il risultato d’una mancata crescita. E, per questo,
testardamente, insiste sull’applicazione del Patto di Natale: integrale e tempestiva, coi due
qualificativi che marciano insieme, perché su di essi e sulla loro unità tutti - governo, imprese e
anche il sindacato - saranno giudicati.
Stato dell’occupazione lievemente migliore nelle imprese dei servizi con più di 500 addetti, dove il
dato congiunturale non mostra variazioni mentre il tendenziale (sia al netto che al lordo Cig) conta
una flessione dello 0,3% (minore, però, sia dello 0,6% di settembre che dello 0,4% di ottobre).
La riduzione dei livelli occupazionali dell’industria avviene in un contesto di continua riduzione
tanto dei ritmi quanto del costo del lavoro vero e proprio per dipendente. In novembre, è aumentato
in termini tendenziali dello 0,7% e nel periodo gennaio-novembre risulta diminuito dell’1,1%, in
particolare per l’introduzione dell’Irap che ha consentito, come è noto, l’abolizione di diversi
contributi a carico delle imprese. La retribuzione lorda media è aumentata in novembre (sullo stesso
mese dello scorso anno) del 4,7%, mentre nei primi undici mesi l’aumento è stato del 2,7%. Anche
nelle imprese di servizi il costo del lavoro per dipendente conta una flessione tendenziale che
raggiunge il 4,2% (e -2,5% nei primi undici mesi del ‘98). La variazione tendenziale di novembre
per le retribuzioni medie è stata qui del -0,1%, mentre quella media dei primi undici mesi rispetto al
corrispondente periodo del ‘97 è risultata di +1.9%.
Pur in questo scenario di riduzione dei costi, aumentano le difficoltà occupazionali. E non solo nei
livelli, ma anche nel ricorso alla cassa integrazione che, a novembre, in termini tendenziali,
aumenta per le grandi imprese industriali del 106,2% - più del doppio, dunque, che nel novembre
‘97 - e del 6,9% per le imprese dei servizi. Diminuisce anche l’incidenza delle ore di straordinario:
dal 5,6% del novembre ‘97 al 4,5% del novembre ‘98.
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Prezzi e Consumi: Produzione e Dettaglio
Continua il processo di decelerazione dei prezzi alla produzione: dicembre è stato l’ottavo mese
consecutivo di discesa dei prezzi. Così che, nell’arco di tutto il ’98, l’incremento dei prezzi alla
produzione sul ‘97 è stato di un insignificante 0,1%: variazione nulla, cioè, la più bassa in assoluto
riscontrata dall’indice di questi prezzi. In termini congiunturali, il dato di dicembre mostra una
flessione dello 0,2% sul mese di novembre. Il dato tendenziale che ad inizio d’anno era pari
all’1,3%, si è ribaltato nell’ultimo mese dell’anno raggiungendo -1.3% e contribuendo in maniera
sensibile al raffreddamento dei prezzi al consumo.
Dopo l’aumento del 7,8% del ‘95 e la discesa fortissima, all’1,9%, nell’anno successivo, i prezzi
alla produzione hanno registrato nel ’97 un aumento contenuto all’1% e sono giunti nel ’98 alla
variazione impercettibile di cui abbiamo detto. Il 1999, considerata la persistente tendenza ribassista
delle quotazioni delle materie prime sui mercati internazionali (tendenza che sta drammaticamente
peggiorando il loro tenore di vita - o, meglio, quello della stragrande maggioranza delle loro
popolazioni - sotto un livello che per loro, ma anche per noi in questo mondo dove ormai tutto si
tiene, è pericolosamente già basso) si apre a gennaio coi prezzi alla produzione dei prodotti
industriali che scendono su dicembre ancora dello 0,3% e di un consistente 1,7% rispetto al gennaio
del ’98. Dunque, con pronostici positivi anche per i nostri prezzi al consumo.
Ma diversi analisti vanno sottolineando, invece, le potenzialità contraddittoriamente rialziste dei
prezzi al consumo, legate all’andamento degli utili in diversi comparti industriali sottoposti, nella e
dalla globalizzazione avanzante, neri mercati internazionali ad una competizione indubbiamente più
dura. Dimenticano, però, o fanno finta di dimenticare che un allarme-utili non sembra - non è molto giustificato in presenza di una flessione costante sia del costo del lavoro che dei tassi di
interesse.
Il dato di dicembre conferma anche il contributo che la riduzione dei prezzi alla produzione ha dato
ad abbassare i prezzi dei beni intermedi: su novembre, -0,4% e, su base annua, -3,6%. E a gennaio
il trend viene confermato, rispettivamente con -0,5 e -4,1%. E il peso dei beni intermedi sull’indice
generale dei prezzi alla produzione è preponderante (circa il 56%), con petrolio e materie prime
quali principali fattori che hanno generato questa discesa.
A dicembre aumenta del 2,7% sul dicembre del ’97 il valore delle vendite del commercio fisso al
dettaglio. Aumenta a scalare: nella grande distribuzione in media del 4,1% (in quella con almeno
20 addetti è +5,5%, da 10 a 19 addetti +3,6, da 6 a 9 addetti + 2%); nella media distribuzione (da 3
a 5 addetti), +1% e nei negozi fino a 2 addetti, +2,4%. Sono aumentate, nel periodo, soprattutto le
vendite di carta, editoria, giornali e riviste, giochi, giocattoli, sport e campeggio, mobili,
arredamenti ed elettrodomestici. La crescita più contenuta è stata nei casalinghi. Solo nel Sud le
vendite di alimentari sono aumentate più di quelle di prodotti non alimentari e, nell’arco di tutto il
’98, i consumi sono aumentati di più nel Nord-est (3.1%), seguito dal Centro (2,9%) e dal Sud e
isole (2,7%).
Sempre in dicembre non si registrano variazioni dei prezzi al consumo e di investimento. In
termini annuali, i primi contano comunque un aumento dell’1,3% e i secondi raggiungono l’1,8%.
Tra i due mesi comparati di fine ‘97 e fine ‘98 si sono verificate sensibili riduzioni soprattutto nei
settori del coke e nei prodotti petroliferi (-6,5%), nei minerali (-5,6%) e nel comparto elettricità,
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acqua e gas (-4,0%): quelli, come si vede, che maggiormente riflettono il ribasso di costo delle
materie prime.
Come è stato accennato nella Nota del mese scorso, ora i dati sull’inflazione saranno definitivi per
gennaio e febbraio solo il 19 marzo. Dipende dall’armonizzazione in corso con una nuova struttura
di ponderazione degli indici tra i paesi dell’Unione europea, non ancora portata a termine perché
solo in questi giorni si stanno aggiornando tutti i conti economici nazionali secondo il nuovo
sistema europeo.
Per ora, dunque, i dati riportati di seguito, per gennaio, dell’indice armonizzato per i paesi
dell’Unione europea (base 1996=100) dei prezzi al consumo in Italia, sono provvisori (utilizzano
già le innovazioni programmate ma non sempre, ancora, le strutture di ponderazione previste).
Prosegue anche nel primo mese del ‘99 il controllo della dinamica dei prezzi. Il dato di gennaio
mostra un incremento dei prezzi al consumo dello 0,1%. Il tasso tendenziale d’inflazione scende,
così, dall’1,7 all’1,5% (a gennaio dell’anno scorso, l’incremento ammontava all’1,9%). I maggiori
incrementi sul mese precedente si sono verificati nei servizi sanitari e spese per la salute (+1,2%),
alimentazione e pubblici esercizi (entrambi con un +0,4%). In forte riduzione, invece, il costo delle
comunicazioni (-1,1%), di abitazioni e acqua, elettricità e combustibili (-0,5%). Su base annua le
tensioni maggiori sul livello dei prezzi sono registrate da bevande alcoliche e tabacco (+4,5%), dai
servizi sanitari (+3,4%) e dall’abbigliamento e calzature (+2,3%). La variazione media degli ultimi
dodici mesi rispetto a quella dello stesso periodo dell’anno precedente conta ancora forti incrementi
nelle bevande alcoliche e tabacco (+4,6%) e nei servizi sanitari (+6,1%).
Bilancia commerciale
I dati sull’interscambio commerciale relativi al mese di dicembre (con i paesi Ue) e al mese di
gennaio (con i paesi extra-Ue) mostrano saldi negativi più contenuti, relativamente a quelli ottenuti
lo scorso anno. Nei confronti dei paesi extra-Ue, il saldo a gennaio è in rosso per 274 miliardi ma
era a -448 miliardi nello stesso mese del ’98. La variazione in termini tendenziali è però negativa, e
da ben cinque mesi, un po’ più per le esportazioni (ci chiedono meno prodotti: la crisi…) che per le
importazioni. Nel mese di dicembre il saldo negativo coi paesi della Comunità europea ammonta a 1.039 miliardi di lire, quando nello stesso mese dell’anno precedente era a -1.424 miliardi. Ma, nei
confronti dei paesi Ue, meno colpiti questi dalle crisi finanziarie a catena, sia import che export
presentano una crescita tendenziale positiva.
Il dato di dicembre ci permette, naturalmente, di chiudere una valutazione dell’interscambio
complessivo per il ‘98: col saldo attivo a dicembre pari a 2.777 miliardi di lire (2.822 nel dicembre
‘97), il ‘98 chiude in attivo per 46.649 miliardi contro i 52.715 del ‘97. In calo, sicuro. Ma l’attivo è
ancora tra quelli maggiori al mondo.
Riguardo ai paesi extra-Ue, nel mese di gennaio, in termini tendenziali si riscontra - ad eccezione
degli Stati Uniti: +9,2% - una riduzione delle esportazioni verso tutti i paesi e tutte le aree
geografiche. Si dimostrano particolarmente rilevanti, come del resto è ovvio, le flessioni nei
confronti delle aree di crisi. Così, rispetto al gennaio ‘98, il valore dell’export nei confronti dei
paesi asiatici di nuova industrializzazione è caduto di oltre il 20%, nei confronti del Giappone, del
19%, con la Cina la caduta va oltre il 18% mentre per la Russia raggiunge il picco di -76,6% e per
la Turchia del 51,7% (e non si tratta degli effetti del caso Ocalan: il deficit del nostro export si è
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andato accumulando per tutto l’anno…). Rilevante anche la contrazione dell’export italiano nei
confronti dei paesi Opec: -20,5%.
Sull’interscambio complessivo del ‘98, è opportuno notare come le esportazioni riportino
incrementi tendenziali positivi per tutte le categorie merceologiche ad eccezione dei prodotti
energetici e dei prodotti tessili e dell’abbigliamento. E come le importazioni registrino variazioni
negative per i prodotti energetici e quelli dell’agricoltura, silvicoltura e pesca.
Mercati finanziari e valutari
La performance della Borsa italiana nelle ultime settimane non ha entusiasmato: non ha saputo o
potuto mantenere il passo con gli altri mercati europei. Le opinioni dei maggiori analisti in
proposito non sono confortanti: anche per il resto dell’anno, prevedono una dinamica inferiore a
quella degli ultimi mesi.
La cautela è correlata direttamente al mutare dello scenario macroeconomico, col perdurare della
stagnazione dell’attività produttiva - non soltanto in Italia, ma qui da noi più che altrove in
economie analoghe alla nostra - e con le potenziali tensioni che possono innescarsi sui mercati
internazionali per l’evoluzione della crisi economica e finanziaria brasiliana (il bau-bau di domani)
o della svalutazione cinese (l’inenarrabile incertezza del dopodomani). Inoltre è mutata la
prospettiva di bilancio, che molti non considerano più sufficiente senza ulteriori manovre a
raggiungere gli obiettivi programmati.
A questo proposito, le prospettive potrebbero chiarirsi nei prossimi mesi, proprio con l’inizio di
definizione del prossimo Dpef e - forse, chi sa, malgrado le reiterate smentite - della nuova manovra
finanziaria e, naturalmente, con l’evoluzione della congiuntura. Ma è sicuro che un possibile,
probabile anzi se le cose continuassero a marciare a rilento, sostegno ai corsi azionari - e non solo
italiani - potrebbe darlo l’allentamento monetario e il taglio dei tassi da parte della Banca centrale
europea.
In definitiva, la borsa italiana condivide con quelle europee una fase di “stanca”: perché,
soprattutto, si ormai praticamente annullata la riduzione dei tassi di interesse che più di ogni altro
fattore, forse, l’aveva alimentata. E le prospettive di un aumento dei tassi, se sono assai remote in
Europa, non sembrano adesso per niente escluse negli Stati Uniti: complicherebbero le cose a Wall
Street ma le conseguenze si risentirebbero subito sulle borse europee e a Piazza Affari.
Il problema è comunque anche di natura congiunturale. La mancata ripresa dell’economia non
produce buone prospettive sugli utili aziendali e contribuisce a prolungare una certa instabilità di
opinioni e comportamenti.
E’ in questo quadro che la borsa italiana ha mantenuto una certa prudenza, con qualche spunto
particolare ancorato alle vicende Comit-Banca di Roma. Poi è arrivato - ma tutti restano ancora
assai cauti, per il momento, a guardare - il lancio dell’Opa per la Telecom da parte della Olivetti di
cui abbiamo ampiamente trattato nella parte di Sintesi.
Conti economici nazionali
L’Istat, ai fini degli indicatori di convergenza previsti dal trattato di Maastricht e dal patto di
stabilità che gli è stato connesso, ha diffuso ad inizio marzo le stime sul Pil, sull’indebitamento
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delle amministrazioni pubbliche nel ’98 e sui principali aggregati del conto economico. Sono quelle
riportate di seguito. In particolare:
- valore del Pil, ricalcolato secondo le nuove definizioni europee standard, è stato nel ’98 di 2
milioni 24 mila e 105 miliardi di lire (2.024.105.000.000.000): sul ’97, +1,4%; le importazioni sono
aumentate del 6,1% (nel ’97 erano aumentate del 9,9%); e le risorse complessive sono aumentate
così del 2,3% (+3% nel ’97).
- domanda interna: consumi delle famiglie, +1,9% (’97: +2,6); consumi collettivi, +1,4% (’97: 0,8); beni di investimento, +3,5% (’97: +0,8); variazione delle scorte (resa conveniente dal calo del
prezzo delle materie prime) +0,5% (’97: +0,7).
- ragione di scambio con l’estero in netto miglioramento: +0,9% dei nostri prezzi all’esportazione
e -1,7% dei prezzi dei beni importati.
- finanza pubblica: 1998, deficit/Pil: al 2,7%, cioè 54.330 miliardi contro il 2,7 del ’97 a 52.266
miliardi di lire; saldo primario (al netto della spesa per interessi) ancora in attivo, al 4,9% del Pil
con le attività di parte corrente che, per la prima volta da molti anni, hanno generato un risparmio di
oltre 10 mila miliardi, lo 0,5% del Pil (nel ’97, era stato un disavanzo di 3 mila miliardi); il debito
pubblico è calato, dal 122,4% del Pil del ’97 al 118,7% del ’98.
- pressione fiscale: ridotta nel ’98 di 1,2 punti percentuali (dal 44,8% del ’97 al 43,6) con struttura
del prelievo modificata dall’Irap, dalla soppressione dei contributi sociali sanitari e di alcuni tributi.
Nel ’98 le imposte indirette sono significativamente cresciute, rappresentando il 35,3% delle entrate
e il 15,4% del Pil (nel ’97, rispettivamente 28,1 e 12,6%), con le imposte dirette scese dal 16 al
14,4% del Pil e i contributi sociali dal 15,5% al 13,4%. E le imposte in conto capitale, come
l’eurotassa che, nel ’97, aveva inciso non poco nel processo di rientro dal deficit, sono scese nel ’98
dallo 0,7 allo 0,4% del Pil.
- entrate complessive, però, ancora in aumento dell’1,2%: ma assai meno anche qui, che nel ’97
quando fecero il grande balzo in avanti dell’8,7% per consentirci di rientrare nei parametri famosi.
Ora sono attestate al 47% del Pil.
- uscite correnti in flessione, dal 47,7% al 45,9% nel ’98: risultato di una spesa per interessi sul
debito diminuita del 14,9% e di una crescita del 4% di spese diverse, appunto, dagli interessi
passivi, con all’interno la componente per prestazioni sociali che è cresciuta del 2,6%.
- costo del lavoro per i dipendenti pubblici, -1,5% sul ’97 (per la soppressione dei contributi
sanitari.
- consumi collettivi (ma dentro c’è anche l’Irap, come elemento di costo delle amministrazioni
pubbliche per la produzione di servizi collettivi), +4%, rispetto al +3,9% del ì97.
- spese in conto capitale: +14% (+10,5% per investimenti diretti), con recupero dunque d’un certo
rilievo della spesa in conto capitale sulle uscite totali, dal 6,8% del ’97 al 7,7 nel ’98. Considerando
solo le spese finalizzate in modo diretto allo sviluppo (investimenti e contributi agli investimenti),
questo recupero passa dallo 0,9 allo 0,4% (dal 6,5% del ’97 al 6,9 del ’98).
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TENDENZE CONGIUNTURALI INTERNAZIONALI
Stati Uniti
L’economia americana ha raggiunto a dicembre il 93° mese consecutivo di crescita. Più volte nel
corso degli ultimi anni - e come si accenna qui nella parte di Sintesi, anche ora:
autorevolissimamente - se ne è pronosticato una decelerazione: fase di indebolimento o, almeno, di
atterraggio morbido. E, più volte, ha sorpreso ogni cassandra, andando al di là delle attese di
analisti, istituti di ricerca e della stessa Banca centrale: fatto che spiega bene, tra l’altro, perché la
stragrande maggioranza degli americani, repubblicani compresi, abbia detto no alla tentata
rimozione del Presidente che, sì, qualche peccatuccio lo faceva ma presiedeva, appunto, a questo
slancio economico…
I vari indicatori, a turno, mostrano una ripresa sempre vigorosa, opposta malgrado si intravveda
qualche segno di rallentamento al languore delle economie europee. Qui, quasi dappertutto, gli
ordini alle imprese arrivano al rallentatore. Negli Stati Uniti, registrano un balzo del 2,3% contro
una previsione dell’1,0%, grazie all’ennesimo incremento della domanda di beni durevoli (+3,1%
contro l’1,9% stimato). L’aumento di dicembre è il sesto consecutivo in sette mesi e si accompagna
ad una riduzione delle scorte di magazzino dello 0.9%.
Nonostante questi indicatori di espansione, le autorità di politica economica americane, la Banca
centrale e lo stesso Rapporto Economico 1999 del Presidente al Congresso, uscito a inizio febbraio,
prevedono per l’anno in corso un rallentamento dell’economia: difficilmente nel ’99 si potranno
raggiungere tassi di incremento del Pil superiori al 3,5% (sic!), anche perché qui si fa facendo
scarsa la domanda di lavoro, cioè ci sono “troppi occupati” anche se forse un po’ ballerini…
Proprio dal mercato del lavoro, in effetti, arrivano notizie ancora migliori: a gennaio, l’occupazione
è aumentata di 245 mila posti, quando le stime più positive raggiungevano una cifra sì e no della
metà. Il tasso di disoccupazione è rimasto ai minimi, al 4,3%. Risultati particolarmente positivi
provengono dal settore dei servizi che ha creato circa 114 mila posti di lavoro. E, come sottolinea
proprio il Rapporto Economico, è vero che si va precarizzando il lavoro - per di più, poi, quando è
precario assai meno garantito e protetto di quello regolare - ma è anche vero che in fondo dal ’79 al
’96 la percentuale di lavoratori impiegati da dieci o più anni presso lo stesso datore di lavoro è scesa
“solo” dal 40 al 35%.
I dati più recenti sull’economia reale e sui consumi delle famiglie che continuano ad aumentare con
tassi rilevanti, sostenuti dalla crescita dei profitti di borsa, hanno generato una certa pressione sulle
autorità monetarie per una stretta finalizzata proprio al rallentamento dei ritmi di crescita
dell’economia. Molti economisti sostengono, infatti, che i ritmi attuali non possono essere sostenuti
in maniera indefinita, senza ripercussioni brutte, di rincaro dell’inflazione da salari e da prezzi. E in
gennaio i salari sono aumentati dello 0,5%, dopo l’incremento dello 0,3% di dicembre. Ma
l’inflazione è rimasta al palo.
Di fatto, la Fed s’è mantenuta in attesa, lasciando invariato il costo del denaro e cercando di frenare
il nervosismo di mercati finanziari che, invece, puntavano sul ribasso e hanno risposto alla
decisione di non rialzare né abbassare i tassi con un balzo di 90 punti dell’indice Dow Jones. Alla
base delle determinazioni della Fed non c’è stato, però, soltanto l’ottimo stato di salute
dell’economia americana: il presidente Greenspan ha chiaramente fatto capire che incognite ed
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incertezze in molti paesi dell’America latina preoccupano le autorità di politica economica che, in
ogni caso, stimano inevitabile il rallentamento della crescita nel corso dell’anno, anche se
l’economia - a ritmi più contenuti - continuerà a rafforzarsi per l’avanzamento tecnologico e il
rialzo del mercato azionario. Non privo di rischi, però…
Poi, Greenspan se ne è uscito con le dichiarazioni più cupe al Congresso di cui, in Sintesi,
dicevamo. Ma tant’è. Ancora una volta i mercati, Wall Street, hanno rilanciato, facendo salire
l’indice Dow Jones in una sola seduta di 200 punti e portando anche gli altri indici di Borsa ai
massimi storici. Un messaggio teso alla difesa di quanto raggiunto dall’economia reale e
finanziaria, che in parte contrasta con le preoccupazioni della Fed su possibili tensioni
inflazionistiche, sul debito che cresce e sull’irrazionalità dei mercati.
Nella sostanza, però, e tenendo i tassi ben fermi, alla fin della fiera, le autorità monetarie hanno
ridato fiducia ai mercati finanziari da qualche settimana particolarmente nervosi, rinvigorendo
anche la valuta americana che continua a macinare massimi storici nei confronti dell’euro.
Germania
Dopo il brusco arresto della produzione industriale, altri segnali di rallentamento dell’economia
reale confermano la fase di difficoltà dell’economia tedesca. Gli ordini all’industria in dicembre
sono scesi ancora, per il quinto mese di flessione consecutiva anche se contenuta (il calo non
supera, infatti, lo 0,1% rispetto al mese precedente) mentre c’è una certa ripresa per beni di
consumo e intermedi (+0,9%) e una secca caduta per i beni di investimento (-2,4%). In particolare,
frena la domanda interna, con gli ordini che si riducono dell’1,3%, in linea con le attese, mentre
sorprende un po’ il recupero proveniente dagli ordini dall’estero (spiegato con la relativa non
rimpiazzabilità e la qualità dei prodotti tedeschi) con +1,5%. Particolarmente positivo e ben
ricevuto il dato delle regioni orientali che riscontrano un aumento degli ordini alle esportazioni di
oltre il 22%; ed è proprio il miglioramento della fase congiunturale di queste regioni che limita la
flessione, altrimenti quasi catastrofica, degli ordini a livello nazionale.
I segnali di ripresa, anche per l’attività produttiva, sono comunque ancora molto deboli e le prime
stime di crescita del Pil per l’anno in corso indicano una variazione positiva ben inferiore al 2,8%
dell’anno appena concluso (comunque, già in flessione dello 0,8% rispetto al ‘97quando la
produzione industriale era cresciuta del 3,2%) e intorno, forse, al 2%. Il dato di dicembre, dopo la
sensibile flessione di novembre, mostra un’attività produttiva sostanzialmente invariata, mentre in
termini tendenziali, sempre in dicembre, il calo è stato dello 0,3%, con un lieve miglioramento
congiunturale della produzione manifatturiera (+0,5%), ma forti contrazioni in alcuni settori
(minerario, -4.7%; energetico, -1,9%; costruzioni, -1,0%).
I problemi di un’attività produttiva piuttosto indolente accompagnano, come è naturale, una
situazione occupazionale che continua a deteriorarsi anche e proprio per l’effetto delle difficoltà più
recenti. Aumentano, i disoccupati, a oriente come a occidente - in particolare, qui, i settori
manifatturieri - e sfiorano il record storico. Fenomeno di carattere transitorio, dicono analisti ed
autorità di politica economica, e si vedono anche risultati positivi da alcune politiche attive per
l’occupazione intraprese dal governo: 5.800 giovani disoccupati hanno trovato impiego temporaneo
e/o formativo, grazie al programma “100mila posti di lavoro per i giovani”. Ma il governo, e a
ragione, è preoccupato dallo scarto che non si riesce a riempire tra offerta e domanda.
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Il clima non sembra essere migliorato neanche con l’accordo, difficile per gli imprenditori, col
sindacato metalmeccanico per il rinnovo contrattuale: molti, alla base del padronato, lo considerano
troppo oneroso. E la sconfitta elettorale della coalizione di governo in Assia è suonata per il
cancelliere come un brutto campanello di allarme.
Francia
Nonostante emerga anche per l’economia francese qualche difficoltà congiunturale, un tasso di
crescita del 3,1% nel ‘98 costituisce senz’altro un ottimo punto di partenza: è il più elevato, del
resto, tra quelli di tutti i paesi europei. L’Ocse, nelle nuove previsioni di crescita che ha formulato
recentemente per i prossimi due anni, preconizza ora anche qui variazioni più moderate dell’attività
produttiva. Per il ‘99, prevede una crescita al 2,4% e per l’anno successivo un incremento
lievemente più consistente, vicino al 2,6%.
Un risultato che, anche qui, non porterebbe riflessi granchè lusinghieri sotto l’aspetto
occupazionale, visto che l’attuale tasso di disoccupazione passerebbe dall’11,8% al 10,6%. Ma,
anche qui, contribuirebbe a ridurre il deficit pubblico in rapporto percentuale al Pil dal 2,9 del ‘98
all’1,9% e lo stabilizzerebbe nel 2000 senza pressioni inflazionistiche (la variazione percentuale dei
prezzi al consumo dovrebbe sempre aggirarsi intorno all’1%).
Il governo francese ha definito uno scenario che raggiunge il 2002 con un deficit tra lo 0,8 e l’1,2%
del prodotto interno lordo, obiettivo ancorato ovviamente al tasso di crescita che, per tenere il
rapporto deficit/Pil allo 0,8%, dovrebbe tenere nel periodo un ritmo medio del 3%. Anche con una
crescita che fosse più moderata e vicina al 2,5%, il rapporto debito-Pil, conformemente alle
previsioni dell’Ocse, non dovrebbe discostarsi di molto dalla soglia del 60% per l’anno in corso e
successivamente stabilizzarsi, iniziando un trend discendente.
Ma anche questi dati, meglio queste stime di risultati, sui conti pubblici sono stati messi in
discussione a Bruxelles dai “ragionieri” della Commissione: che, facendo in realtà il loro mestiere
di cani da guardia sui conti pubblici - in particolare, e non solo perchè gli compete come
commissario ai conti in prima persona, è lo chiracchiano de Silguy a prenderci gusto nel bersagliare
i socialisti francesi, oltre al centro-sinistra italiano - hanno criticato il programma di stabilità del
paese e ipotizzato - ancora: anche qui - una manovra aggiuntiva già per l’anno in corso. Proprio
come hanno fatto nel caso italiano. Perché - dicono - il programma messo a punto dal governo
francese non tiene gran conto dei rischi d’invecchiamento della popolazione e dell’effetto
conseguente sui conti pubblici nel periodo considerato.
In questo caso, e considerando alcuni effetti di alcune riforme strutturali in corso (non le nomina:
ma ha in mente le 35 ore) che definisce (mandando in bestia il governo francese: ma come si
permette?) non propriamente positivi, la Commissione invita la Francia a un rigoroso controllo delle
spese pubbliche e a formulare, da ora, ipotesi di interventi correttivi. Con più savoir faire e
maggiore souplesse, del resto, l’invito (mettere mano in maniera urgente al trend di evoluzione delle
spese sanitarie e previdenziali) è arrivato come all’Italia alla Francia anche dall’Ocse.
Rimane vivace la domanda interna. In particolare, i consumi continuano a crescere a ritmo
sostenuto, non proprio ma quasi all’americana, costituendo il motore centrale della crescita. I
consumi dei prodotti manifatturieri sono aumentati in gennaio del 3,6% sul mese precedente e in
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termini tendenziali la crescita dei consumi manifatturieri, che qui rappresentano un terzo del totale,
ha raggiunto il 4,2%.
Gran Bretagna
La fase congiunturale continua ad alimentare preoccupazioni di recessione. Gli ultimi dati statistici
relativi all’attività produttiva di dicembre si sono rivelati di nuovo inferiori alle attese. La flessione
della produzione industriale in termini congiunturali è dello 0,6% mentre il dato tendenziale mostra
una riduzione dell’1%. E’ il quinto mese consecutivo di riduzione dell’attività industriale e
aumentano le preoccupazioni che le difficoltà del settore manifatturiero si estendano a macchia
d’olio agli altri settori dell’economia.
Sulla base degli ultimi dati, si vanno sviluppando un gran numero di scenari recessivi e diversi
analisti stimano per il primo trimestre dell’anno in corso un dato negativo per la crescita del Pil: nel
caso questa stima fosse confermata dai dati dei prossimi mesi, ne risulterebbe (ecco il timore di
recessione incipiente) la prima contrazione da oltre sei anni a questa parte.
La fase congiunturale nel mese di febbraio è stata caratterizzata anche dalla riduzione del tasso base
dal 6 al 5,5% operata dalla Banca d’Inghilterra per incoraggiare le imprese e i detentori di mutui a
rivitalizzare l’economia. E’ stata una riduzione superiore alle attese dei mercati che la stimavano
non superiore al quarto di punto: ed è stata letta, universalmente, come conferma delle reali
preoccupazioni anche delle autorità monetarie sul rallentamento del ciclo.
La mossa decisiva sui tassi (dallo scorso ottobre ridotti ormai di due punti: ma restano i più elevati
in Europa) ha indotto alcuni istituti a formulare qualche previsione meno cupa e pronosticare un
“atterraggio morbido”, all’americana ma qui molto più accelerato, dell’economia britannica. Ed è
aumentato l’indice di fiducia del management di azienda. Taglio dei tassi e attese di un
rallentamento meno severo hanno inoltre rivitalizzato la sterlina che, dopo un periodo di debolezza
sull’euro, si è di nuovo rafforzata in misura sensibile.
I dati sulla produzione industriale e quelli sui prezzi alla produzione che in dicembre hanno
registrato una crescita di appena lo 0,1%, rimanendo invariati rispetto allo stesso mese dello scorso
anno e facendo prevedere come possibile un ulteriore taglio dei tassi che, secondo alcuni,
potrebbero scendere ancora di un punto nel corso dei mesi estivi (intorno al 4,5%), compiendo così
anche un ulteriore passo verso la convergenza con quelli dei paesi dell’euro.
Giappone
La variazione dei tassi di interesse a lunga del Giappone ha creato alcuni problemi sui mercati
valutari rafforzando lo yen. L’aumento dei tassi dal 2,19 al 2,37% il rifiuto della banca centrale di
intervenire sul mercato dei titoli di Stato hanno portato lo yen ad apprezzarsi sul dollaro.
Il quadro, però, resta ambiguo. Quasi tutti gli indicatori vanno sempre male, nessuno ha ancora
credibilmente risolto la crisi finanziaria e bancaria e - fatto straordinario per queste longitudini emergono alla luce i contrasti tra ministero delle Finanze e Banca centrale, col primo che insiste a
prospettare una sorta di monetizzazione del debito pubblico e, quindi, un allentamento monetario e
la seconda dichiaratamente riluttante ad intervenire nelle aste dei titoli di Stato.
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Di fatto, dopo il pronunciamento, diciamo così, interventista del ministro delle finanze, i tassi hanno
subito un ridimensionamento e lo yen è tornato a indebolirsi sul dollaro, rafforzando ancora le
prospettive di esportazione, già straordinariamente vivaci, del Sol Levante. Così, a inizio marzo,
anche l’indice di borsa Nikkei è balzato all’insù in un solo giorno del 5%. Sono tutti aspetti rilevanti
per le altre grandi economie per la capacità dei sistemi di trasmettersi l’un l’altro ormai, nella
globalizzazione rampante, sia capitali che attese su tassi, cambi e inflazione da un paese all’altro.
Di fatto, lo squilibrio del bilancio pubblico giapponese, legato allo sforzo che da diverso tempo i
governi stanno intraprendendo per stimolare e rilanciare consumi e investimenti, richiede continue e
ingenti coperture con emissione di debito. E non potrà che incidere sui tassi di interesse portandoli
verso l’alto: a meno che intervenga, come si diceva, qualche forma di finanziamento monetario dei
deficit pubblici del tipo di quella auspicata dalle Finanze e, cioè, stampando un po’ più di moneta.
In questo caso, la politica intrapresa consisterebbe in una ripresa del ciclo economico tramite
l’inflazione, a sua volta stimolata dalla monetizzazione del debito e dalla liquidità relativa che
inciderebbe sulla domanda aggregata. Un eventuale problema di questa politica potrebbe comunque
manifestarsi proprio con l’aumento dei tassi che, superato l’effetto-liquidità per la riduzione del
costo del denaro, inizierebbero ad impennarsi (ma, certo: oggi stanno ancora praticamente a zero…)
per l’attese di una maggiore inflazione con sensibili conseguenze sullo yen e, quindi, sulle
esportazioni giapponesi. Che sono e resteranno prevedibilmente ancora a lungo l’unico elemento
positivo della domanda giapponese.
CALENDARIO 3/99
- L’8 marzo, festa delle donne, ricorda ufficialmente in tutto il mondo la dimostrazione dell’8
marzo 1857 con cui le lavoratrici tessili di New York reclamarono paga e condizioni di lavoro
migliori.
- Entra in vigore l’accordo multilaterale dell’Omc sulla liberalizzazione dei servizi finanziari.
Apre (teoricamente) i ¾ di tutti i servizi finanziari mondiali (banche, assicurazioni e credito, ecc.)
alla concorrenza. Ma le banane stanno intanto facendo impazzare l’America: se l’Europa non si
piega alla liberalizzazione totale che essa vuole - cioè alla cancellazione della “preferenza
comunitaria” garantita da accordi internazionali come quello di Lomè alle banane somale invece
che a quelle centroamericane della Chiquita o della United Fruit - gli Stati Uniti potrebbero imporre
le loro sanzioni (tasse fino al 100% del valore per quasi 800 miliardi di lire) su molte esportazioni
europee, specie italiane (spaghetti, salumi, ecc.).
Irritati anche dal fatto che l’Europa resiste ad importare la loro “carne agli ormoni”, non accettando
a scatola chiusa il verdetto di innocuità che ne danno loro, intanto hanno già deciso di non aspettare
il verdetto dell’Organizzazione Mondiale del Commercio sulle banane, anticipando a subito il
deposito di una cauzione esorbitante, uguale al valore della merce, da parte degli importatori delle
merci europee nell’elenco delle loro sanzioni.
Insomma, con la loro smania di essere il giudice di ultima istanza (come, in altra versione, per la
tragifarsa della sentenza sulla funivia del Cermis, per l’Iraq o la Jugoslavia da bombardare o da non
bombardare, ecc., ecc.), gli Usa stanno davvero mettendo a rischio il senso stesso di un organismo
come l’Omc e, in nuce, di una co-operazione internazionale che - come dice la parola stessa è cooperazione ed in cui, al dunque e comunque, loro correttamente contano più degli altri ma non
possono pretendere di decidere soli per tutti…
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- Elezioni legislative in Finlandia, Estonia, Nepal, l’isola di Antigua, Tonga, Tunisia.
Presidenziali in Salvador. Il Qatar, per la prima volta, prova la strada della democrazia con le
elezioni municipali (soltanto).
- Minivertice speciale europeo, sotto presidenza tedesca e a Berlino non a Bruxelles, per dare una
sistemata alle dispute sul bilancio comunitario per gli anni a venire 2000-2006: cioè, per
l’approvazione dell’Agenda 2000, il progetto controverso sulla ripartizione ri-ponderata tra i paesi
membri del bilancio comunitario, della riforma della politica agricola e dei fondi strutturali.
- L’ultimo giorno del mese. il ministro del Tesoro e del Bilancio, Ciampi, presenta la Relazione
generale sulla situazione economica del paese.
- L’ex ambasciatore cileno alle Nazioni Unite, Juan Somavia, assume la carica di Direttore generale
dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, a Ginevra.
INDICATORI ECONOMICI E FINANZIARI A CONFRONTO
% di
variazione
su base annua
PIL
PRODUZIONE
INDUSTRIALE
3 mesi * 1 anno 
3 mesi* 1 anno
VENDITE AL
DETTAGLIO
(volume)
1 anno
DISOCCUPAZ.
INFLAZIONE
SALARI
%
Ultimo
1 anno
Dato
fa
3 mesi* 1 anno 3 mesi* 1 anno
"PRIME
RATE"
bancario
[al
12,1
1,4
1,5Dic
1,3
2,2Dic

4,3Gen
4,6
1,8
1,7Gen
3,6
4,0Gen
7,75
10,6Gen
11,6
-0,8
0,2Gen
n.d.
1,9Dic

1,5Dic
11,5Dic
12,3
-0,5
0,2Gen
1,8
2,0Ott

0,1Dic
1,2Gen
6,2Dic
6,6
-0,3
2,4Gen
n.d.
n.d.
6,50
-1,6
-6,4Dic
-5,7 Dic
4,3Dic
3,5
4,0
0,6Dic
n.d.
-4,2Dic
1,50
3,6
1,2
5,8Nov
n.d.
18,2Dic
20,0
1,0
1,5Gen
3,8
2,1
2,7
1,2
2,8Nov
0,4Ott‡
10,8Dic
11,5
-0,2
0,8Dic
n.d.
ITALIA
2,0
1,2
-4,6
-3,9Dic
2,5Nov
STATI UNITI
5,6
4,2
0,6
1,7Gen
8Dic
GERMANIA
-1,8
2,6
-7,8
-0,3Dic
1Dic
FRANCIA
2,1
2,8
-0,1
0,6Dic
GRAN
BRETAGNA
0,7
1,3
-3,1
GIAPPONE
-2,6
- 3,6
SPAGNA
3,0
EURO-11
2,8
12,3Ott

2,2‡
[Dove non altrimenti indicata, la percentuale di cambiamento è positiva (+)]
* = media degli ultimi 3 mesi rispetto alla media dei 3 precedenti
 = 3° quadrimestre del ’98 (per Stati Uniti, Germania, Gran Bretagna e Giappone, 4°
quadrimestre)
‡ = stima ponderata sulla media dei principali paesi Ocse
 Da gennaio 1999, tra i paesi dell’euro e dell’Unione monetaria governata dalla Bce, non ci sono più differenti
“prime rates” nè tassi diversi sui titoli pubblici sia a breve che a lungo. Quelli qui riportati per l’Euro-11
valgono, infatti, dal 4 gennaio 1999, per tutti i paesi europei della nostra lista consueta eccetto la Gran Bretagna
che è restata fuori (cioè per Germania, Francia, Spagna e Italia).
FONTE: The Economist, 27.2.1999, Economic and Financial Indicators
20
4,50